Prof. Giuseppe Nibbi Lo sguardo di Erodoto 2006 1-2-3 marzo 2006
LO SGUARDO DI ERODOTO
SULLE PAROLE “VERIFICA” E “UMILTÀ”…
Erodoto è nato in Asia e – anche se si considera profondamente “greco” – sente di appartenere al continente asiatico e, ne Le Storie, allude alle grandi civiltà dell’Asia come se fossero dei blocchi monolitici. Le civiltà delle grandi steppe asiatiche ci vengono presentate da Erodoto come se fossero dei colossi massicci e compatti. Quando Erodoto invece ci porta in Africa ci presenta un continente (quella piccola parte del continente africano che allora si conosceva), più frammentato, più differenziato e quindi da “esplorare” con maggiore attenzione.
Forse Erodoto – nel suo piccolo – contribuisce a costruire l’alone di mistero che ha sempre circondato questo continente, e in effetti – anche per Erodoto – sembra che l’Africa abbia in sé qualcosa di unico e di segreto, difficile o addirittura impossibile da decifrare e da conoscere. Questo fatto enigmatico, legato alle cosiddette “grandi esplorazioni”, con il tempo, si è tradotto in un concetto che viene chiamato: il mal d’Africa.
Le “esplorazioni” dell’Africa interessano già anche Erodoto. Erodoto riferisce infatti che alcuni uomini di Cirene gli hanno raccontato di essere andati all’oracolo di Ammone e di aver parlato con Etearco, re degli Ammoni. Gli Ammoni abitavano nell’oasi di Sîwa, nel deserto libico. Se volete osservare questi luoghi potete – utilizzando l’atlante – cercare nei pressi della linea di confine tra la Libia e l’Egitto: oggi l’oasi di Sîwa si trova in territorio egiziano.
Erodoto è il primo che riferisce – ne Le Storie – di una spedizione di esploratori all’interno del grande territorio africano, leggiamo.
LEGERE MULTUM….
Erodoto, Le Storie II 32
Etearco disse che erano venuti un tempo presso di lui dei Nasamoni. Questa stirpe è libica e abita la Sirte, e precisamente la regione della Sirte volta verso oriente, per non ampio tratto. Giunti dunque i Nasamoni e richiesti se fossero in grado di dire qualcosa di più intorno ai deserti della Libia, dissero che presso di loro erano vissuti dei giovani temerari, figli di uomini potenti, e che questi, divenuti adulti, avevano ideato molte imprese straordinarie, e fra le altre avevano persino tratto a sorte cinque di loro per andare ad esplorare i deserti della Libia, se mai potessero vedere qualcosa di più di quelli che erano giunti a vedere più lontano. Nella Libia infatti nella parte lungo il mare settentrionale … si stendono per tutta la regione i Libici, divisi in molti popoli …
Invece nelle regioni a sud del mare e dei popoli che abitano la costa la Libia è popolata da fiere. Ancora più a sud poi c’è sabbia e la regione è terribilmente priva d’acqua e completamente deserta. Dunque i giovani mandati dai coetanei, ben provvisti d’acqua e di vettovaglie, andarono dapprima verso la regione abitata; poi, attraversata questa, giunsero a quella popolata da fiere e, dopo questa, andarono verso il deserto camminando verso il vento zefiro; e dopo aver attraversato un ampio territorio sabbioso, in capo a molti giorni videro infine alberi che si levavano su una pianura, e accostatisi colsero i frutti che erano sugli alberi. Ma mentre li coglievano li assalirono degli uomini piccoli, più bassi di uomini normali, e questi, presili, li condussero via; e né i Nasamoni comprendevano la lingua di quelli, né coloro che li conducevano quella dei Nasamoni. Li condussero attraverso amplissime paludi e, attraversate queste, giunsero ad una città nella quale tutti erano uguali per altezza a quelli che li conducevano, e neri di colore. Lungo la città scorreva un gran fiume, andando da ovest verso est, e in esso apparivano coccodrilli.
Dobbiamo presumere, dal brano letto, che questi esploratori sono penetrati nel cuore dell’Africa, nel bacino del fiume Congo, dove vivono le tribù dei pigmei?
Nel II libro de Le Storie – da cui deriva questo frammento – possiamo leggere la puntigliosa relazione del viaggio di Erodoto in Egitto.Noi sappiamo che il territorio dell’Egitto si trova sul continente africano ma per Erodoto – se leggiamo il II libro de Le Storie – l’Egitto non è propriamente Africa, ed è la stessa sensazione che, probabilmente, proviamo anche noi.
Erodoto in Egitto cerca notizie, dati, informazioni sull’Africa come se l’Africa fosse qualcosa di diverso dall’Egitto. Erodoto pensa che l’Africa sia a sud dell’Egitto, a sud della Libia, pensa che nasconda cose (popoli, usanze, costumi, lingue) diverse, tutte da scoprire e allora s’informa con tenacia, con caparbietà. Nel Libro II de Le Storie, in decine di pagine, emergono i ferri del mestiere di Erodoto.
Come lavora Erodoto? Erodoto viaggia, si sposta sul territorio “girando”, “andando in giro. Erodoto osserva e ascolta per immagazzinare nella memoria e poi per iscritto ciò che ha sentito. Quando viaggia – sappiamo che il “viaggiare” per Erodoto risulta “fastidioso” – su terra, si sposta a cavallo, a dorso d’asino o di mulo e per mare, in barca o in nave.
Gli esperti si sono sempre chiesti (e questa sera ce lo chiediamo anche noi) se Erodoto viaggi da solo oppure in compagnia? Ha con sé un servitore, è accompagnato da uno schiavo? Erodoto ne Le Storie non fa cenno a compagni di viaggio: l’impressione che abbiamo, leggendo, è quella che sia in viaggio per conto suo. Sta di fatto che, a quei tempi, chiunque ne abbia i mezzi si fa seguire da un servitore che porta i bagagli, la zucca con l’acqua, il sacco con i viveri e l’occorrente per scrivere: rotoli di papiri, tavolette d’argilla, pennelli, stili e inchiostro. Il servitore serve anche a fare compagnia, e c’è da dire che la fatica del viaggio annulla le differenze di classe. Il servitore serve anche a tenere su di morale (la malinconia e la nostalgia sono brutte bestie), serve a difendere il padrone, a chiedere la strada e a raccogliere informazioni.
Il personaggio letterario di Erodoto – romantico viaggiatore, curioso di tutto, con la passione del sapere per il sapere, che si sofferma su dettagli inutili e che (per lo meno sul momento) non servono a nessuno – presuppone la figura del suo servitore, costretto a risolvere le difficoltà quotidiane per assicurare la sopravvivenza. Queste due figure – e chi ha scritto saggi su Erodoto ci ha sempre riflettuto (e anche fantasticato) sopra – anticipano curiosamente la relazione, che troviamo nel genere letterario del “romanzo”, tra il protagonista e la spalla e la scorsa settimana abbiamo già accennato a questo tema incontrando Gilgamesh ed Enkidù.
Più di un ricercatore, più di un critico letterario, più di un romanziere ha immaginato una relazione tra Erodoto e il suo eventuale accompagnatore simile a quella tra il Don Chisciotte e Sancho Panza, rielaborata in una versione ionica. Questa situazione letteraria si è codificata in modo tale per cui il protagonista agisce e può agire soprattutto in compagnia della sua “spalla”, la quale risulta un personaggio non meno importante del protagonista stesso. L’elenco – nel genere letterario del romanzo – è lungo: viene da pensare (a proposito di viaggi) a Il giro del mondo in 80 giorni di Jules Verne e alla figura di Passepartout.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Quale coppia di personaggi da romanzo (il protagonista e la sua spalla) o anche del mondo dello spettacolo vi è rimasta più impressa ? Scrivete, bastano due nomi…
Ma a questo punto anche Erodoto si lascerebbe prendere da Miguel de Cervantes e dal Don Chisciotte, sul quale la Scuola deve sempre tener desta l’attenzione perché sono troppi i cittadini che lo devono ancora leggere questo romanzo. Sono – in parte – giustificati dal fatto che non si tratta di una lettura facile ed è necessario il supporto di un itinerario di studio (e chissà che in avvenire non si possa imbastire un Percorso sui temi contenuti nel romanzo di Cervantes?)
Il cavaliere errante Don Chisciotte è galantuomo, e anche il suo fido scudiero, la sua spalla, è galantuomo. Sappiamo che senza Sancho Panza non potrebbe esistere Don Chisciotte della Mancha, ce lo ha ricordato anche l’ultimo numero de L’Antibagno che ha riproposto alcuni argomenti del “romanticismo galante”, e allora, sulla scia di Erodoto, e in funzione della didattica della lettura e della scrittura, riprendiamo proprio quella pagina dal famoso capitolo XXXVIII del romanzo di Cervantes riportata, in parte, sul numero 13 de L’Antibagno (per far risaltare la parola “galanteria”). Noi siamo stati fortunati (a proposito del “destino”), noi abbiamo avuto l’avventura, e il privilegio culturale di assistere ad un evento, di partecipare (per lo meno a Scuola) alla celebrazione dei 400 anni (1605-2005) del Don Chisciotte e del Sancho Panza. Noi dobbiamo imparare ad apprezzare questi privilegi generazionali e dobbiamo imparare ad apprezzare la soddisfazione intellettuale che procurano: sono soprattutto questi privilegi – e la consapevolezza con cui li viviamo – che danno la possibilità alla persona di consolidare il diritto di cittadinanza.
Leggiamo questo brano in cui Cervantes – giocando con i superlativi – mette alla berlina chi vuole artificiosamente amplificare il discorso costringendo anche gli altri ad andare sopra le righe…
LEGERE MULTUM….
Miguel de Cervantes, Don Chisciotte (1605)
Dietro ai malinconici musici … veniva la contessa Triffaldi, condotta per mano dallo scudiero Triffaldino dalla Barba Bianca… Non appena apparve tutta la matronesca schiera, il duca, la duchessa e don Chisciotte si levarono in piedi e così tutti quelli che stavano a guardare la lenta processione… (Lo scudiero) la condusse a sedere su una sedia accanto alla duchessa, che la ricevette anche lei con molta cortesia. Don Chisciotte taceva e Sancho moriva dalla voglia di vedere il viso della Triffaldi e di qualcuna delle sue molte matrone, ma non fu possibile finché esse non si scoprirono quando a loro piacque e vollero farlo. Tranquilli tutti e in silenzio, stavano aspettando chi l’avrebbe rotto, e fu la matrona Dolorida con queste parole: «Ho fiducia, potentissimo signore, bellissima signora e saggissimi astanti, che la mia afflizionissima troverà nei vostri valorosissimi petti accoglienza, non meno grata che generosa e dolente, perché essa è tale che basta a intenerire i marmi, ammorbidire i diamanti e render molle l’acciaio dei più induriti cuori del mondo; ma prima che sia messa sulla piazza del vostro udito (per non dire orecchie), vorrei che mi s’informasse se in questa riunione, adunanza e compagnia si trova il purissimo cavaliere don Chisciotte della Mancissima e il suo scudierissimo Panza». «Il Panza,» disse Sancho prima che altri rispondesse, «è qui, e il don Chisciottissimo anche; perciò potrete, dolorosissima matronissima, dire quello che vorretissime; ché tutti siamo pronti e dispostissimi a esser vostri servitorissimi.» In questo mentre si alzò don Chisciotte e, rivolgendo le sue parole alla matrona Dolorida, disse: «Se le vostre pene, angosciata signora, possono ripromettersi alcuna speranza di rimedio per il valore e la forza di qualche galante cavaliere errante, eccovi qui le mie che, sebbene deboli e poche, saranno tutte impiegate in vostro servigio. Io sono don Chisciotte della Mancha, il cui compito è di andare in soccorso di ogni sorta di bisognosi; ed essendo ciò così, com’è in realtà, non vi occorre, signora, cattivarvi simpatie e cercare preamboli, ma semplicemente e senza rigiri dire i vostri mali; ché vi ascoltano orecchie galanti le quali sapranno, se non rimediarli, dolersi di essi.» Il che udendo la matrona Dolorida fece il gesto di voler gettarsi ai piedi di don Chisciotte, anzi vi si gettò e, lottando per abbracciarglieli diceva: «Davanti a questi piedi e a queste gambe io mi prostro, o galante e invitto cavaliere, perché sono essi le basi e le colonne della cavalleria errante; voglio baciare questi piedi, dai cui passi dipende, sospeso ad essi, tutto il rimedio della mia disgrazia, o valoroso errante, le cui vere gesta si lasciano dietro e oscurano quelle favolose di Amadigi, degli Splandiani e dei Belianigi!» Quindi, lasciato don Chisciotte, si volse a Sancho Panza e, prendendogli le mani, gli disse: «Oh, tu il più leale scudiero che abbia mai servito cavaliere errante nei presenti e nei passati secoli che in bontà grandeggia più della barba di Triffaldino, mio accompagnatore, qui presente! … Ben puoi vantarti, servendo il gran don Chisciotte, di servire in compendio tutta la caterva di galanti cavalieri che hanno trattato le armi nel mondo. Ti scongiuro, per ciò che devi alla tua fedelissima bontà, di essermi buon intercessore presso il tuo padrone, affinché soccorra subito questa umilissima e infelicissima contessa».
Al che Sancho rispose: «Che la mia bontà, signora mia, sia così lunga e larga come la barba del vostro scudiero, me n’importa ben poco; possa io avere con barba e con baffi l’anima mia quando me ne andrò dalla vita, che è quello che importa; ché delle barbe di qua mi curo poco o niente. Ma, senza tutti questi rigiri e suppliche, io pregherò il mio padrone (che so che mi vuol bene, e tanto più ora che ha bisogno di me per un certo affare) che favorisca e aiuti la signoria vostra in tutto quel che potrà. La signoria vostra vuoti il sacco delle sue pene, ce le racconti, e lasci fare; che ci metteremo tutti d’accordo.»
A questi discorsi i duchi, come coloro che sapevano come sarebbe andata a finire quell’avventura, scoppiavano dal ridere e lodavano fra loro la perspicacia e l’abilità di finzione della Triffaldi la quale, rimettendosi a sedere, disse …
In quale nuova “truffa” (e meno male che il Cielo, che il “destino”, aiuta le persone in buona fede, gli umili…) sono capitati – ingenuamente come al solito – Don Chisciotte e Sancho Panza? Non vi resta che continuare a leggere questo capitolo: Don Chisciotte e Sancho Panza li trovate in tutte le biblioteche del mondo.
Chi viaggia, al tempo di Erodoto, si procura oltre che un servitore anche una guida e un interprete. Erodoto doveva avere con sé almeno tre persone. Di solito alla compagnia si aggregano altri viaggiatori diretti verso la stessa meta.
Se si viaggia in paesi dal clima torrido – come quello egiziano – le ore migliori per camminare sono quelle della mattina. I viaggiatori si alzano all’alba consumano la prima colazione: che cosa si magia – al tempo di Erodoto – a colazione, che è anche il pasto principale della giornata? La colazione di Erodoto e dei suoi compagni di viaggio – prima di mettersi in cammino – è a base di focacce di grano, fichi, mandorle, formaggio pecorino e vino acquerello.
Erodoto spesso ci fa sapere – soprattutto quando racconta dell’Egitto – che viaggia non solo per raccogliere nuove informazioni circa il paese, i suoi popoli e i suoi costumi, ma viaggia anche per verificare l’attendibilità dei dati già raccolti. Erodoto infatti non si accontenta del “sentito dire”: cerca sempre di verificare di persona, di paragonare le versioni sentite e di formulare (con cautela) la propria opinione. Difatti Erodoto, quando arriva in Egitto, deve “verificare” una serie di informazioni che ha già raccolto in Grecia: queste notizie lo incuriosiscono proprio perché suscitano in lui dei dubbi. Erodoto introduce, accanto alla parola “storia”, il concetto della “verifica”. Nella lingua greca di Erodoto la parola “verifica” si traduce: “dokimasìa” e l’azione di “verificare” invita ad una prima riflessione.
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Quale termine mettereste per primo accanto all’azione di “verificare”: esaminare, accertare, appurare, riscontrare, controllare, constatare, convalidare, confermare?
Quale di questi termini – pensando soprattutto alla vostra esperienza personale – si avvicina di più all’azione del “verificare”?
Scrivetelo…
Una di queste informazioni da “verificare” in Egitto, da parte di Erodoto, riguarda il faraone Psammetico. Quando Erodoto arriva in Egitto, il re Psammetico è morto da centocinquant’anni ma di lui si parla ancora, o meglio, di lui si comincia a parlare o a riparlare ora (centocinquant’anni dopo la sua morte): si sa che la “cronaca” comincia a diventare “storia” dopo un certo numero di anni. Erodoto vuole verificare – perché l’ha sentito raccontare in Grecia – la mania che ha Psammetico nel pretendere di scoprire “quali fossero stati i primi tra gli uomini” e questa affermazione la possiamo leggere nel capitolo 2 del libro II de Le Storie. Gli Egiziani credono di detenere questo primato – di essere stati i primi abitatori della Terra – ma Psammetico, benché fosse il faraone egiziano, non ne è convinto. Per questo motivo ha compiuto una “sperimentazione”, e lui è persuaso che questo esperimento sia di carattere scientifico, ma quando leggiamo ci si trova di fronte ad un test “empirico”, piuttosto “semplicistico”. Come si svolge questa sperimentazione? Erodoto ci racconta che Psammetico ha affidato due neonati a un pastore perché li allevi tra le montagne, questi due bambini devono crescere nel più assoluto isolamento. Psammetico pensa che la lingua nella quale avrebbero pronunciato la prima parola avrebbe anche dimostrato che il popolo di quella lingua era il più antico del mondo. Trascorsi due anni i bambini non avevano ancora cominciato a parlare, ma un bel giorno, verso mezzogiorno, affamati – vivevano in montagna, stavano bene, e avevano sempre un certo appetito – in presenza del pastore, avevano gridato “bekos!” (non si tratta di un insulto!). I due bambini si erano espressi per la prima volta non in lingua egiziana ma bensì in lingua frigia, e in lingua frigia la parola “bekos” significa “pane”. Psammetico – subito informato del fatto – dichiara che i primi uomini erano stati gli abitanti della regione della Frigia, situata in Asia Minore che, al tempo di Erodoto faceva parte dell’impero Persiano. Secondo Psammetico i primi uomini sono i Frigi seguiti dagli Egiziani: questa precisazione (sebbene un po’ ingenua) ha comunque procurato a questo faraone un posto nella storia.
Le ricerche del faraone Psammetico interessano Erodoto per una precisa ragione, per una coincidenza e una corrispondenza. Come mai in un mondo dove tutti tendono a primeggiare – soprattutto i potenti – il faraone Psammetico si comporta così? Le ricerche e il comportamento del faraone Psammetico dimostrano – secondo Erodoto – che il re egiziano conosce un’inesorabile legge storica, che noi la scorsa settimana abbiamo incontrato in Persia. Il re egiziano conosce l’inesorabile legge storica secondo la quale “chi s’innalza verrà umiliato”, conosce l’inesorabile legge storica secondo la quale “bisogna guardarsi dall’avidità” e dalla “smania di primeggiare” se si vuole che la mano vendicatrice del “destino” non si abbatta sui vanagloriosi. Psammetico quindi – mettendo in scena il suo esperimento poco autorevole ma d’effetto – avrebbe usato il suo potere non per conquistare il primato ma per retrocedere al secondo posto. Sa che gli Egiziani ci tengono molto al primato, e non vogliono retrocedere, ma sa anche che la smania di primeggiare avrebbe attirato la punizione del “destino” e lui (in questo caso) è il primo: è il più esposto tra gli Egiziani. Psammetico pur di allontanare un simile pericolo dagli Egiziani, li sposta (con tanto di “certificazione scientifica”) dal primo al secondo posto: i Frigi – è dimostrato – sono comparsi per primi (se la prenda con loro il “destino”!), gli Egiziani sono solo secondi.
Se leggiamo il libro II de Le Storie prendiamo atto che Erodoto, dopo aver fatto la verifica, ha dei dubbi sul fatto che questo avvenimento – che vede come protagonista il faraone Psammetico – sia veritiero, sia verosimile. “Di questo avvenimento – scrive Erodoto – sentii parlare dai sacerdoti del tempio di Efesto a Menfi … inoltre mi diressi anche a Tebe e ad Eliopoli, per sapere se qui erano d'accordo con i racconti di Menfi.” (II, 2-3).
Che cosa – in questo racconto – non convince Erodoto? Che cosa lo spinge ad approfondire la “verifica” e di conseguenza la riflessione? Abbiamo affermato, ancora prima delle vacanze natalizie che, secondo Erodoto, un fatto è comunque “verosimile” quando contiene un obiettivo etico, una finalità morale. Se un racconto, di cui non si può constatare l’autenticità, narra un episodio che contiene un insegnamento morale ecco che – allude Erodoto – lo si può anche considerate degno di “essere vero”. Per questo suo modo di pensare Erodoto viene considerato dagli antichisti un “sofista di tendenza etica”. Ma il faraone Psammetico – si domanda Erodoto e noi con lui – vuole davvero, comportandosi nel modo in cui si è comportato, proclamare l’umiltà sua e degli Egiziani tutti? Proprio per il modo in cui si sono svolti i fatti, Erodoto dubita che, nel comportamento di Psammetico, ci sia un’intenzione morale, e questo dubbio è venuto subito anche a noi.
Erodoto, ritiene piuttosto che, nel comportamento di Psammetico, ci sia un intento utilitaristico, ci sia un fine egoistico e noi constatiamo che, il suo, più che un esercizio di umiltà risulta essere un’esibizione di ipocrisia. E allora – secondo Erodoto – se non c’è un proposito morale, il racconto, così come è congegnato, perde anche la verosimiglianza. Erodoto coltiva l’idea che uno storico deve essere molto attento a verificare soprattutto il tasso di moralità del racconto di un avvenimento.
È interessante constatare come la tendenza etica di Erodoto trovi una coincidenza e una corrispondenza con il tema della “verifica”: che cosa significa? Il testo del II libro de Le Storie di Erodoto – in particolare nei capitoli che vedono come protagonista il faraone Psammetico – c’invita a riflettere sul fatto che il tema della verifica s’intreccia con il tema dell’umiltà. Le parole sono oggetti vitali e tra le parole ci sono rapporti creativi di interdipendenza: che rapporto c’è tra la parola “verifica” e la parola “umiltà”? Voi direte adesso: non è molto difficile verificare che Psammetico – spostando gli Egiziani al secondo posto – non fa tanto un esercizio di umiltà quanto un’operazione di convenienza. Psammetico pensa che convenga essere secondi (stare zitti zitti in secondo piano, stare coperti) per vivere immuni dalla sfortuna, piuttosto che essere primi e soggetti all’invidia del “destino”, anche perché ad essere primi un po’ ci si esalta sempre e ci si espone. Psammetico quindi non è una persona “umile” ma una persona “ipocrita” ed Erodoto non si dovrebbe meravigliare più di tanto: l’operazione “convenienza” di Psammetico è giustificabile, appartiene all’ambito della normalità e rientra nella mentalità del tempo (oggi “ipocrite operazioni di convenienza” non se ne fanno più, oggi assistiamo al trionfo assoluto dell’umiltà).
Meraviglia piuttosto il fatto – ci spiegano gli antichisti – che Erodoto manifesti un certo disappunto di fronte a questo comportamento: era normale infatti che ci si umiliasse (ci si abbassasse strategicamente) di proposito per evitare le punizioni del “destino”. Perché fa meraviglia il comportamento critico di Erodoto?
Intanto dobbiamo tenere conto del fatto che nel vocabolario di Erodoto, nel greco ionico di Erodoto, la parola “umiltà” non esiste come la concepiamo noi in senso “francescano”, in senso “cataro”. Nel greco ionico di Erodoto esiste il termine “umile”, e sapete a che cosa corrisponde, nel greco di Erodoto, il termine “umile”? La parola “umile” si traduce “tapeinós”, e, per il greco ionico di Erodoto, l’umile è un tapino, un disgraziato, un poveretto, un meschino, un misero, un infelice, uno sfortunato. Ben diversa è la concezione dell’umiltà nel pensiero cataro e in quello di Francesco d’Assisi (1181-1226) in cui la parola “umiltà”, che deriva dal termine latino “humus”, “terreno fertile”, si coniuga con il famoso versetto del testo del Vangelo secondo Giovanni che dice: “se il seme muore e viene sepolto nell’humus (la materia al livello più basso) porta frutto”.
Nel greco ionico, il concetto di umiltà corrisponde alla “tapineria”, alla sottomissione, alla passività, alla remissività, alla reverenza, alla soggezione, alla deferenza, all’adulazione, al servilismo (i guerrieri Achei non sono “umili”, Ulisse non è “umile”, le dèe e gli dèi greci non sono “umili”, i cittadini della polis non sono “umili”). Il concetto di umiltà (derivante dall’humus) come lo concepiamo noi – nel senso “francescano”, “cataro” del termine – mette in gioco invece la parole: modestia, semplicità, mansuetudine, rispetto, serenità.
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Quale di queste parole affianchereste per prima alla parola umiltà?
Scrivetela…
Il testo del II libro de Le Storie di Erodoto – in particolare nei capitoli che vedono come protagonista il faraone Psammetico – sembra alludere al concetto di umiltà nel senso della modestia, della semplicità, della mansuetudine, del rispetto, della serenità in contrasto con l’idea dell’umiltà collegata alla “tapineria”, alla sottomissione, alla passività, alla remissività, alla reverenza, alla soggezione, alla deferenza, all’adulazione, al servilismo. Psammetico – allude Erodoto – non è “umile” (ma allora avrebbe potuto e dovuto esserlo?), ma è portatore di una duplice ipocrisia: “facciamo finta di essere tapini – pensa Psammetico (usando il “pensiero comune”) – per allontanare (con l’astuzia) il castigo del destino”.
Ma Erodoto – ci chiediamo insieme agli studiosi – che ne sa dell’umiltà (nel senso dell’humus, come la concepiamo noi) se nel suo vocabolario non esiste? Erodoto scrive di essere stato a cercare informazioni a Tebe e a Eliopoli: “… inoltre mi diressi anche a Tebe e a Eliopoli (la città del sole), per sapere se qui erano d'accordo con i racconti di Menfi.” Dagli studi che sono stati fatti su questo argomento (il “tema dell’umiltà” in Erodoto) noi veniamo a sapere che, molto probabilmente, Erodoto a Tebe e a Eliopoli, nei santuari di queste importanti città egiziane, è venuto a contatto con l’idea dell’umiltà, non nel senso della tapineria ma nel senso della modestia, della semplicità, della mansuetudine, del rispetto, della serenità. Questa virtù – che noi abbiamo conosciuto esaltata dal Cristianesimo – era quindi già emersa nel panorama della cultura egizia attraverso un’esperienza culturale che è stata definita dagli antropologi come rivoluzionaria e che risale a circa 3300 anni fa.
Questa esperienza rivoluzionaria riguarda un’eresia predicata e attuata, in Egitto, da un faraone che si chiama Aménofi IV . Il faraone Aménofi IV (1372-1354 a.C.) stabilisce la capitale a Tebe, sede del tempio più venerato e della casta sacerdotale più potente dell’Egitto. Aménofi oppone al culto di Ammone (spesso ricordato da Erodoto), che era il dio egemone in quel momento, il culto del grande Aton, il sole in quanto sorgente di vita. Aménofi cambia il proprio nome in quello di Akénaton, “colui che piace ad Aton (il sole) ”. Questo culto solare è un modo di squalificare la casta sacerdotale, anche perché il singolare monoteismo di Akénaton prevede dei riti da celebrare non nella penombra dei templi, ma all’aria aperta, al cospetto del sole. Il sole risulta – secondo Aménofi-Akénaton – una divinità dotata di “umiltà”, al contrario di tutti gli altri dèi. Il sole è “umile”: è “umile” perché è modesto, perché nonostante sia una divinità appare tutti i giorni a tutti senza farsi desiderare. Il sole è “umile” perché è semplice nel suo splendore. Il sole è “umile” perché è mansueto: perché è tutto il contrario delle tempeste violente e degli uragani indomabili. Il sole è “umile” perché è rispettabile per i doni meravigliosi che fa agli esseri umani. Il sole è “umile” perché, con la sua luce e con il suo calore, dona serenità.
Aménofi-Akénaton, il faraone teologo, compone il famoso Inno ad Aton (al Sole) che è stato trovato scolpito in molte tombe di Tebe: segno che questa riforma ha avuto un – seppur breve – successo. L’inno ad Aton è un documento di alto valore religioso e filosofico. Leggiamone alcuni versi, quelli dove brillano i concetti dell’umiltà.
LEGERE MULTUM….
Amenofi-Akenaton, Inno ad Aton (1354 circa a.C.)
Quando, pieno di bellezza, ti innalzi con semplicità all’orizzonte del cielo,
o Disco vivente, allora comincia la vita …
Quanto numerose sono le cose che tu compi, quanta mansuetudine c’è nei tuoi atti
Poiché le piante cereali sono in presenza del Dio unico, noi ti offriamo con modestia
i loro frutti perché per il tuo cuore hai creato la terra.
Per gli uomini sei l’unico Dio …
Ogni tempo in te è vissuto con rispetto e le azioni sono compiute dinanzi
alla tua appariscenza fino a quando non riposi con serenità…
La rivoluzione umile, luminosa ed eretica – che abolisce gli dèi e li sostituisce con un concetto monoteista – di Aménofi-Akénaton dura poco, e dopo la sua morte i sacerdoti riprendono il sopravvento e pongono fine al culto di Aton, perseguitano i suoi seguaci e affossano l’idea di “umiltà” presente in questa teologia. Ma molti elementi di questa “primavera solare” – oltre al “concetto dell’umiltà” – restano nella tradizione egizia, sono nascosti sotto traccia ma periodicamente riemergono perché il sole si manifesta pur sempre, per tutti e tutti i giorni. Aménofi è un “eretico” che ha portato la religione, con i suoi riti, fuori dai templi, l’ha resa popolare, l’ha svincolata dalle gerarchie, l’ha svuotata dei suoi poteri occulti e tenebrosi. Erodoto, a Tebe e a Eliopoli (la città del sole), deve aver colto i molti elementi della rivoluzione di Aménofi. Erodoto allude molto spesso, ne Le Storie, al sole tanto come divinità quanto come oggetto naturale, come strumento indispensabile per la vita dell’Umanità, e come simbolo spirituale.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Con quale parola, con quale frase, con quale definizione volete rivolgervi al sole ?
Scrivete, basta una riga…
Anche gli Ebrei, le tribù cananee, quando lasciano l’Egitto conservano un fecondo ricordo dell’eresia teologica di Aménofi, e di questa memoria ne troviamo molte tracce nel libro dei Salmi. Il recupero archeologico dà un peso preponderante a l’arte funeraria egizia, ma dobbiamo ricordarci – e anche Erodoto ce lo dimostra – che il popolo del Nilo è un popolo solare, tanto amante della vita da considerare la morte non come una completa estinzione ma come l’inizio di un rischioso viaggio verso “le terre dell’occidente”. Per affrontare questo viaggio gli Egizi muniscono i defunti di strumenti e di formule magiche, come documentano le iscrizioni raccolte nel Libro dei morti. Anche nelle tombe, nelle piramidi, gli Egizi hanno lasciato molte tracce del loro ottimismo creativo e di quell’umorismo sottile, e a volte irriverente, che si coglie nell’indecifrabile sorriso dei volti della sfinge, delle statue e dei dipinti, e, a questo sorriso, Erodoto non è indifferente.
Il II libro de Le Storie – e ne abbiamo già parlato ai primi di novembre dell’anno scorso – riporta, soprattutto, una descrizione “geografico-scientifica” dell’Egitto, il paese che Erodoto definisce come il “dono del Nilo” e questa affermazione si è riprodotta nei secoli: noi l’abbiamo trovata nei nostri sussidiari delle elementari. Erodoto, nel capitolo 23 del II libro de Le Storie, ragiona sulle famose “inondazioni programmate” del Nilo e se ne stupisce. Il Nilo affascina Erodoto e l’enigma di quel fiume immenso e misterioso lo seduce.
Dove nasce il Nilo? Da dove prende le acque? Da dove trasporta il limo con il quale feconda quell’immenso paese? Leggiamo qualche frammento che serve da stimolo in modo che ciascuno, poi, possa completare, per proprio conto, la lettura. Nessuno sa nulla delle sorgenti del Nilo (ci sarà nell’800 una bella gara per individuarle: quanti romanzi e quanti films d’avventura ci sono in proposito!) ed Erodoto (quindi già 2500 anni fa, durante l’Età assiale della storia) decide di cercarle da solo, spingendosi il più lontano possibile nell’Alto Egitto, navigando controcorrente per due mesi, leggiamo.
LEGERE MULTUM….
Erodoto, Le Storie II 28 29 31
Nessuno degli Egiziani né dei Libici né dei Greci che vennero a colloquio con me dichiarò di conoscere le sorgenti del Nilo. …
E andando a vedere di persona fino alla città di Elefantina, da qui in poi invece attingendo informazioni solo per sentito dire. Per chi vada dalla città di Elefantina verso l’interno il paese è impervio, che a questo punto l’imbarcazione avanza legata da tutte e due le parti come un bue: se la corda si spezza l’imbarcazione se ne va, trascinata dalla violenza della corrente. Attraversare questa regione comporta una navigazione di quattro giorni e per questo tratto il Nilo è tortuoso al pari del Meandro. … E poi giungerai ad una grande città, che si chiama Meroe … Da questo punto in poi nessuno può dire niente con certezza, poiché questa regione è deserta a causa del calore bruciante.
Non riuscendo a venire a capo dell’enigma delle sorgenti del Nilo e del suo stagionale alzarsi e abbassarsi, Erodoto – quasi per consolarsi – si dedica a studiare usi e costumi degli egiziani e, dopo aver constatato che gli egiziani hanno leggi, usi e costumi davvero curiosi rispetto a quelli degli altri popoli, comincia scrupolosamente a registrarli, leggiamo che cosa scrive.
LEGERE MULTUM….
Erodoto, Le Storie II 35 36
Le donne vanno al mercato e commerciano, gli uomini invece standosene a casa tessono … I pesi, gli uomini li portano sulla testa, le donne sulle spalle. Le donne orinano stando diritte, gli uomini accoccolati. Soddisfano i loro bisogni dentro le case e mangiano fuori nelle strade, dicendo che le cose necessarie e indecenti conviene farle in segreto, quelle non indecenti pubblicamente. Nessuna donna è sacerdotessa né di divinità maschile né femminile, gli uomini invece di tutti gli dèi e di tutte le dèe. Di mantenere i genitori non c’è alcun obbligo per i figli che non lo vogliono, mentre per le figlie c’è obbligo assoluto anche se non lo vogliono. I sacerdoti degli dèi negli altri paesi portano i capelli lunghi, in Egitto invece si radono … Gli altri uomini vivono separati dagli animali, per gli Egiziani invece la vita si svolge in comune con gli ammali … impastano la pasta coi piedi e l’argilla con le mani. Le parti sessuali gli altri le lasciano come sono, tranne quanti hanno appreso da loro, gli Egiziani invece le circoncidono. …
Se continuate la lettura di questi capitoli per conto vostro potrete constatare che Erodoto dà forma ad una lunga lista di usi e costumi egiziani che sorprendono e meravigliano gli stranieri (come lui) per la loro diversità, particolarità e unicità.
Ma torniamo al fenomeno delle “inondazioni programmate” del Nilo: questo fenomeno interessa molto ad Erodoto il quale vorrebbe capire come funziona questo dispositivo, vorrebbe conoscere le regole di questo fruttuoso meccanismo. La riflessione su questo fenomeno ci aiuta, ancora una volta, a capire l’importanza dell’opera di Erodoto.
Ormai sappiamo che l’opera di Erodoto è molto significativa perché ci mette in contatto con il nostro patrimonio intellettuale di partenza. E tutti noi, come cittadini, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, dobbiamo prendere coscienza del nostro patrimonio intellettuale di partenza. Attraverso Le Storie di Erodoto abbiamo potuto avvicinare i grandi paesaggi intellettuali dell’Età assiale della storia: quello indiano, quello cinese, quello mesopotamico, e ora siamo nell’orbita di quello egizio. Sul testo de Le Storie di Erodoto noi possiamo esercitarci (e, strada facendo, ci siamo esercitati) – scavando tra le parole, indagando tra le righe – a scoprire i reperti della nostra archeologia intellettuale. Ne Le Storie di Erodoto emerge, come in filigrana, un catalogo di “oggetti culturali” che, sotto forma di parole-chiave e di idee-significative, rappresenta lo schema intellettuale più antico della Storia del Pensiero Umano. La figura di Erodoto è stata, quindi, per gli studiosi (per gli antropologi) un punto di riferimento essenziale per sviluppare il concetto e tracciare una mappa di quella che è stata chiamata l’Età assiale della storia. Ed è più che altro in questo senso che oggi (dall’inizio del ‘900) Erodoto viene considerato il “padre della Storia”.
Erodoto “allude” alle prime grandi civiltà della storia. Nella sua opera abbiamo trovato un riferimento alla civiltà indiana sviluppatasi nella valle dell’Indo, e abbiamo anche colto un’eco della civiltà cinese sviluppatasi nella valle del Fiume Giallo. Inoltre, la scorsa settimana, abbiamo incontrato la civiltà sumerica sviluppatasi alla confluenza del Tigri e dell’Eufrate.
Ora, nel II libro de Le Storie, ci troviamo di fronte alla civiltà egizia, nella valle del Nilo. Erodoto, con le sue “allusioni”, ci fa capire che queste civiltà – sumerica, egizia, indiana, cinese – portano l’homo sapiens fuori dall’età della pietra, fuori dalla preistoria. Le Storie di Erodoto sono il deposito, il magazzino, il ripostiglio delle parole-chiave e delle idee-significative degli albori. La conoscenza e la comprensione di queste parole iniziali e di queste idee primarie ci permettono di imparare a leggere la storia dell’infanzia della nostra mente e di imparare a scrivere la nostra autobiografia.
Quali parole-chiave e quali idee significative provenienti dal pensiero egizio fanno parte del nostro patrimonio intellettuale di partenza? La civiltà e la cultura egizia ci ha lasciato in eredità una parola-chiave fondamentale, la parola Maat che possiamo tradurre con i termini: ordine, equilibrio, giustizia. Erodoto – lo abbiamo già constatato qualche settimana fa – capisce che, secondo gli Egizi, il funzionamento delle benefiche “alluvioni programmate” del Nilo avviene, attraverso una “forza particolare insita nelle cose”. Noi però, scorrendo il testo de Le Storie, ci rendiamo conto che Erodoto – sebbene cerchi puntigliosamente d’informarsi – non riesce a venire a contatto con la parola Maat e con i significati che contiene: come mai? La Maat (ordine, equilibrio, giustizia) rappresenta una forza di carattere metafisico, rappresenta un concetto religioso avvolto dal mistero e innominabile pubblicamente. Sappiamo che presso i popoli dell’Età assiale della storia si coltiva l’idea di non nominare il nome delle “cose sacre” perché potrebbero perdere la loro efficacia. E allora perché i sacerdoti egizi – intervistati da Erodoto – dovrebbero nominare la Maat e spiegarne il significato davanti ad uno straniero che si dimostra troppo curioso?
Noi però, a questo punto – sulla scia delle “allusioni” di Erodoto – dobbiamo entrare (per quello che ne sappiamo) all’interno del pensiero egizio. Dalla cultura egizia ci arriva la parola Maat che contiene l’idea di “ordine”. Tutti conosciamo la parola “ordine” e sicuramente ciascuno di noi ha da dire, da comunicare, da esprimere la sua opinione su questa “parola”, e, quindi, riflettiamo.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Quale di queste parole avvicinereste alla parola “ordine”: la polizia, la pulizia, la preghiera, l’esercito, l’orario, il computer, la costituzione, il calendario, il mercato, la memoria, la bandiera, il tribunale, la televisione, la politica, il gioco, la carta d’identità ?
Scegliete una sola di queste parole e scrivetela …
Sappiamo che le parole sono dei “veicoli” straordinari e quindi la parola “ordine” ci porta senz’altro a scoprire dei “territori culturali” interessanti. I Greci, per esempio, 2500 anni fa, al tempo di Erodoto, traducono l’idea di “ordine” con la parola “kosmos”, e traducono il contrario dell’idea di “ordine” con la parola “kaos”. Queste due parole: “cosmo” e “caos” ci sono familiari. Ma le origini dell’idea di “ordine” le troviamo più indietro nel tempo. Se, sulla scia di Erodoto, ci spostiamo in Egitto scopriamo che, 3500 anni fa, i sacerdoti della Scuola di Menfi, una delle città più importanti dell’antico Egitto, hanno scritto un testo molto significativo. Un testo che prende il nome di Papiro Smith, esattamente, questo testo si chiama Il papiro chirurgico Edwin Smith. “Chirurgico”, abbiamo letto? Sì, il contenuto di questo testo, è molto interessante e parla contemporaneamente di medicina, di chirurgia e di teologia.
Edwin Smith è l’archeologo che ha scoperto, acquistato (1862) e cercato di tradurre questo antico papiro. Che cosa racconta questo testo fondamentale per la Storia del Pensiero Umano? Il Papiro Smith racconta la storia delle “origini del mondo” e di un dio che si chiama Ptath (o Toth), che equivale al “cuore”, e il suo nome è una rappresentazione (che cosa c’è di più vitale?) del battito del cuore (ptat-ptat-ptat-ptat…toth-toth-toth). Gli argomenti di studio dei sacerdoti egizi della scuola di Menfi, riportati in questo testo, ci fanno capire il loro pensiero. Essi pensano che il cuore è come se fosse dio, e studiare la medicina, la chirurgia (il funzionamento del corpo umano) è come studiare la teologia: è cercare di capire come è fatto dio. Il dio Ptath, il cuore, crea tutte le cose per mezzo della “parola”, per i sacerdoti di Menfi: la parola “crea le cose” quando “viene dal cuore” e il dio Ptath, alla fine della sua opera di creazione “è soddisfatto”, perché ha “messo in ordine (maat)” il mondo, ha “introdotto la giustizia (maat) nel mondo”. Ecco dove troviamo, scritta per la prima volta, l’idea di “ordine”, ed è significativo che, questa idea sia strettamente legata a quella della giustizia: non c’è ordine senza giustizia. Ora possiamo leggere insieme un frammento da Il papiro chirurgico Edwin Smith.
LEGERE MULTUM….
Il papiro chirurgico Edwin Smith
Ptath (il cuore) è la fonte di ogni concetto, è la fonte dell’ordine e la parola annuncia il pensiero di Ptath (del cuore). L’ordine è sorto dal pensiero di Ptath e da ciò che la sua parola ha ordinato. Così è resa giustizia a chi esegue quel che c’è di bene e punizione a chi fa quel che c’è di male. Così si dona la vita a chi ha in sé la pace e si reca la morte a chi ha in sé il peccato.
Così furono create tutte le opere e tutte le arti, l’azione delle braccia, il movimento delle gambe e l’attività di ogni organo del corpo secondo il comandamento che Ptath (il cuore) aveva concepito, che era uscito attraverso la sua parola e che aveva determinato il valore di tutte le cose. Perciò Ptath è detto: colui il quale ha creato ogni cosa. Alla fine Ptath fu soddisfatto poi che ebbe messo in ordine ogni cosa.
Nel testo de Il papiro chirurgico Edwin Smith il termine “ordine”, “giustizia”, “rettitudine” traduce la parola egizia “Maat”. La Maat è una forza armonica interna al mondo (la forza che ha il cuore) che regola tutto l’universo. La Maat è “il giusto ordine dell’universo”.
Noi capiamo che le radici dell’idea della Maat stanno nella natura del fiume Nilo. Il fiume Nilo è un fiume “ordinato” (tutto il contrario del Tigri e dell’Eufrate), un fiume ”giusto”, regolato da un ciclo costante degli eventi naturali. Le periodiche inondazioni “programmate” del Nilo, che lasciano nei campi un fango fecondo sul quale seminare, derivanti da un ritmo costante dei fenomeni naturali, hanno fatto nascere l’idea che esistesse una forza “ordinata”, che rende “giustizia” al lavoro degli esseri umani: la Maat.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Probabilmente tutti i giorni dovete fare i conti con “l’ordine”, con il “mettere in ordine delle cose” o con il “mettere in ordine delle situazioni” e probabilmente vi capita anche di provare “soddisfazione” quando ritenete che quest’ordine “sia buono”…
Scrivete quattro righe in proposito: la scrittura è lo strumento più idoneo per mettere in ordine le parole, le idee, i pensieri…
E ora, per concludere, occupiamoci di un tema che abbiamo lasciato in sospeso. Abbiamo detto che il testo del II libro de Le Storie di Erodoto – in particolare nei capitoli che vedono come protagonista il faraone Psammetico – c’invita a riflettere sul fatto che il tema della verifica s’intreccia con il tema dell’umiltà. Le parole sono oggetti vitali e tra le parole ci sono rapporti creativi di interdipendenza: che rapporto c’è tra la parola “verifica” e la parola “umiltà”? Abbiamo detto che nella lingua greca di Erodoto la parola “verifica” si traduce dokimasìa. Dobbiamo ancora riflettere sui significati di questa parola.
La parola dokimasìa significa anche “esame” (l’esame che si dà a scuola) ma il significato più profondo di questa parola contiene una presa di coscienza (una verifica) di tipo esistenziale in senso sociale da mettere in relazione all’altro termine che, questa sera, abbiamo incontrato sul nostro cammino: la parola umiltà. Infatti l’espressione dokimasè determina il momento in cui un individuo si rende conto del proprio stato di umiliazione. Il termine dokimasè corrisponde al momento in cui una persona scopre appartenere ad una classe, ad una categoria socialmente umile. Il termine dokimasè corrisponde al momento in cui una persona capisce di essere umile, tapino, disgraziato, poveretto, meschino, misero, infelice, sfortunato. La dokimasè è la verifica sul proprio stato di umiltà, di piccolezza, di sottomissione, di servilismo e questa verifica, questo riscontro, genera una presa di coscienza che produce una reazione.
A questo proposito – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – incontriamo uno scrittore e un romanzo. Uno scrittore italiano della Mega Ellas, della Magna Grecia che ha in mente anche il vocabolario di Erodoto (dobbiamo dire con rammarico che gli scrittori italiani del ‘900 continuano ad essere degli illustri sconosciuti per gli italiani). Questo scrittore si chiama Corrado Alvaro.
Corrado Alvaro è nato nel 1895 a San Luca di Calabria, e ha trascorso nella sua terra natale solo gli anni dell’infanzia, poi per motivi di studio e di lavoro è emigrato ed è vissuto in varie città italiane ed estere: a Roma, a Milano, a Berlino, a Parigi. Corrado Alvaro come giornalista e come scrittore si è interessato di molti argomenti ma la sua produzione letteraria presenta come tema privilegiato il mondo pastorale e contadino della Calabria, che lui evoca con un originale taglio narrativo di carattere epico. Due opere di Corrado Alvaro dovrebbero essere lette: Gente in Aspromente (1930) e il romanzo quasi autobiografico L’età breve (1946). Corrado Alvaro è morto a Roma nel 1956, l’11 giugno saranno cinquant’anni.
Il protagonista del romanzo Gente in Aspromonte si chiama Antonello Argirò e in queste due pagine, che ora leggiamo per concludere l’itinerario di questa sera, si racconta un momento importante nella formazione di Antonello, il momento in cui, ancora bambino, conosce per la prima volta la prepotenza dei proprietari terrieri. Suo padre è un bifolco, un bovaro, al quale per sfortuna sono morti i buoi affidatigli dal latifondista Filippo Mezzatesta. Quando quest’uomo scende in paese – accompagnato da Antonello – per comunicare la notizia al padrone, non riesce ad esprimere le sue ragioni, non viene neppure ascoltato ma viene insultato, percosso e lasciato infine senza lavoro. Antonello conosce per la prima volta direttamente l’umiliazione e l’ingiustizia. Per la prima volta nella mente di questo bambino si fa strada la dokimasìa, la consapevolezza di appartenere a una classe umile, sfruttata e subalterna. In questo momento comincia il processo di formazione che porta Antonello Argirò a farsi brigante proprio per ribellarsi alla condizione di miseria e di sfruttamento in cui da sempre vive la maggior parte della popolazione della sua terra.
Corrado Alvaro, nella sua scrittura, anticipa i motivi del Neorealismo (che abbiamo anche visto affermarsi nel cinema) e, dal punto di vista formale, usa un tono classico utilizzando un registro linguistico di tipo lirico-poetico, con scelte lessicali raffinate, cercando di dare ai passi un ritmo quasi metrico.
LEGERE MULTUM….
Corrado Alvaro, Gente in Aspromonte (1930)
Una grande scalinata di pietra grigia, larga come un fiume, sormontata da quattro colonne, su cui erano gittati tre archi, si aprì davanti all’Argirò. Salirono tenendosi al muro come per un luogo troppo stretto. Poi, superata la scalinata una grande porta. Antonello diede la mano al padre. Nell’andito buio e sonoro si rispondevano segrete più porte. Un odore di strame, di olio, di fieno, invadeva l’andito su cui si spalancavano le inferriate dei magazzini e delle stalle. Quando, traversato l’andito e salita un’altra scala, si trovarono su un pianerottolo, la luce di un grande finestrone li investì come un torrente. Piccoli, con un senso di freddo, si trovarono davanti a tre porte chiuse. Una di queste si aprì e una donna attempata si affacciò a vedere. «Ah, siete voi, l’Argirò!» «Si può parlare col padrone?» «A quest’ora? I signori dormono a quest’ora» fece la donna. «Se volete aspettare…» aggiunse aprendo la porta.
... continua la lettgura ...
Antonello conosce per la prima volta direttamente l’umiliazione e l’ingiustizia. Per la prima volta nella mente di questo bambino si fa strada la dokimasìa, la consapevolezza di appartenere a una classe umile, sfruttata e subalterna. Questa presa di coscienza si manifesta attraverso un gesto affettivo, un gesto che fa bene al cuore, e Antonello Argirò, questa sera, prende per mano anche Erodoto ed Erodoto “allude”. Erodoto dice: i Greci ed Egiziani sono profondamente diversi, eppure vanno ugualmente d’accordo (a quel tempo l’Egitto è pieno di colonie greche e Greci ed Egiziani convivono senza problemi). Erodoto – lo sappiamo – si pone in modo interlocutorio nei confronti della “diversità”: non s’indigna ma cerca di conoscerla, capirla e soprattutto di descriverla. Per lui la diversità serve fondamentalmente a sottolineare l’unità del mondo, e a determinarne la vitalità e la ricchezza.
Erodoto è anche capace di rinfacciare ai propri connazionali, i Greci (e lui si sente greco ed è orgoglioso di esserlo), la superbia, la presunzione e il complesso di superiorità di cui sono vittime. Sono i Greci infatti ad aver coniato la parola barbaros. La parola barbaros indica le persone che non parlando il greco, ed esprimendosi in modo stentato e incomprensibile, vengono automaticamente classificate come inferiori. Questo modo di fare un po’ tracotante – che Erodoto critica continuamente – i Greci lo hanno attaccato agli altri europei.
Erodoto – a questo proposito – contrappone i Greci agli Egiziani, quasi si sia recato in Egitto a raccogliere materiali anche per confermare la sua filosofia della moderazione, dell’umiltà e del buon senso.
Erodoto, per rimettere in riga i Greci, comincia da una questione fondamentale e trascendente: da dove hanno preso, i Greci, i loro dèi? Da dove provengono gli dèi greci? “Come, da dove?” rispondono i Greci. “Sono i nostri dèi!”. “Niente affatto” replica Erodoto, con un tono un po’ blasfemo. “I nostri dèi – di cui meniamo vanto per il mondo – li abbiamo presi dagli Egiziani! E forse a questo proposito – insiste Erodoto – sarebbe conveniente essere un po’ più umili…”.
Ma sapete dove ci porta questo discorso sull’origine degli dèi? Ci porta sull’altopiano iraniano, lì abbiamo dato appuntamento ad un importante personaggio. Per incontrare questo personaggio, Erodoto c’invita, con umiltà, ad accorrere, la prossima settimana, la Scuola è qui…