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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA RINASCIMENTALE ALL’ALBA DELL’ETÀ MODERNA SI ASSISTE ALLA RAPPRESENTAZIONE DELLA “TRAGEDIA DELLA SEPOLTURA DI DUE PROTAGONISTI ASSAI BEN VIVI” …

Lezione N.: 
18

ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34  -  «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»

PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE

DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA

Prof. Giuseppe Nibbi

La sapienza poetica e filosofica agli albori dell’età moderna     8–9-10  marzo 2017

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA RINASCIMENTALE ALL’ALBA DELL’ETÀ MODERNA

SI ASSISTE ALLA RAPPRESENTAZIONE DELLA “TRAGEDIA

DELLA SEPOLTURA DI DUE PROTAGONISTI ASSAI BEN VIVI” …

     Questo è il diciottesimo itinerario del nostro viaggio di studio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica rinascimentale agli albori dell’età moderna” e siamo sempre in attesa di poter entrare dentro la Cappella Sistina per osservare le immagini affrescate da Michelangelo sul soffitto di questo famoso edificio.

     L’affrescatura del soffitto della Cappella Sistina, come sappiamo, è uno dei progetti che Giulio II, appena eletto papa il 31 ottobre 1503, vuole realizzare; e che un pontefice si occupi dell’affrescatura di un soffitto è certamente un fatto piuttosto curioso ma sappiamo che Giulio II nutre un interesse per questa vasta superficie [come per le superfici di tutte le pareti del Palazzo apostolico che possono contenere un dipinto] perché la considera come se fosse una grande pagina sulla quale non vuole applicare una decorazione ma bensì vuole scrivere un messaggio che a lui [e alla corrente di pensiero a cui appartiene] sta a cuore: un messaggio da comporre attraverso una sequenza di metafore, attraverso una serie di allegorie per non scatenare l’ira e sollevare la disapprovazione della forte e maggioritaria tendenza conservatrice diretta in modo intransigente dal Sant’Uffizio, presieduto dai domenicani inquisitori che disapprovano e contrastano tutte le sue decisioni. In un decreto, pubblicato per l’anno santo del 1500, il Sant’Uffizio predica e ordina di credere in un assioma assoluto: il cristianesimo è l’unica religione depositaria della Verità e va imposta al mondo intero.

     Giulio II - che come sappiamo aderisce alla corrente pedagogica del neoplatonismo diretta da Marsilio Ficino e Pico della Mirandola con l’apporto dell’aristotelismo di Pietro Pomponazzi – pensa, in linea con il pensiero di questi maestri, che il cristianesimo abbia un respiro più ampio, ritiene che i valori cristiani siano già in incubazione da principio nella Storia del Pensiero Umano, crede che gli insegnamenti evangelici siano in potenza dalle origini nella sapienza delle civiltà antiche, della filosofia greca, della tradizione dell’ebraismo e di tutte le culture che operano per realizzare l’Universalismo umanistico [Giulio II, che è un francescano, ritiene, secondo il pensiero ecumenico di Francesco d’Assisi, che non ci debba essere l’egemonia di una ideologia sulle altre ma la cooperazione tra le diverse tradizioni culturali]. Tutte le opere che Giulio II commissiona, in particolare a Raffaello e a Michelangelo, contengono l’idea dell’ampio respiro che il cristianesimo deve avere per farsi promotore dell’Universalismo umanistico [perché è invitando tutte le persone a camminare sulla via del Bene che si promuove la Storia della salvezza] e la superficie del soffitto della Cappella Sistina deve servire per esternare [con le dovute precauzioni] soprattutto questo messaggio.

     Per entrare nella Cappella Sistina e osservare gli affreschi del soffitto dobbiamo a questo punto restringere il campo e, come abbiamo detto la scorsa settimana, puntare l’attenzione su una serie di questioni [e il Percorso si fa accidentato]. Per quanto riguarda i temi da affrontare sul piano architettonico e filologico Giulio II, come sappiamo, sceglie due esperti collaboratori, fidati e competenti, che devono operare per la realizzazione dei monumentali progetti che ha in mente: queste due persone [di cui abbiamo parlato la scorsa settimana] sono l’architetto pontificio Donato Bramante, che deve progettare e realizzare materialmente le grandi opere, e il bibliotecario pontifico Fedra Inghirami, che deve trovare nei testi della sapienza universale conservati nella biblioteca vaticana le citazioni idonee per dare ad ogni atto materiale una giustificazione intellettuale in modo che ogni opera realizzata sia il frutto di un investimento in intelligenza.

     Bramante deve ristrutturare il Palazzo apostolico perché diventi il Palazzo di governo della Chiesa, non la casa del papa, deve realizzare la via Giulia dopo averne tracciato il percorso per far muovere meglio le persone e le merci in Roma, deve demolire l’antica basilica di San Pietro [ciò sconcerta i membri del Sant’Uffizio e l’opinione pubblica romana] e deve idearne e costruirne una nuova che sia “moderna” [dando inizio ad una delle operazioni più importanti della Storia delle costruzioni che dura centovent’anni, da 1506 al 1626]. Inoltre [ed è il tema che a noi interessa maggiormente] Bramante deve salvare la Cappella Sistina che, costruita sul terreno friabile dell’antica necropoli etrusca, sta piegandosi su un lato e sta per crollare. Bramante si affretta a rinforzare il muro meridionale della Cappella progettando e facendo costruire una struttura di ancoraggio che ha tenuto nei secoli. Però lo scivolamento dell’edificio ha prodotto sul soffitto una grossa crepa che lo attraversa in tutta la sua lunghezza e, per contenere la fenditura, Bramante rimedia intervenendo con malta e mattoni ma rimane una vistosa striscia grigia che deturpa la volta stellata della Cappella [sul soffitto della Cappella Sistina c’era un cielo trapunto di stelle come nelle sinagoghe ebraiche] e, quindi, con gran gioia di Giulio II che voleva utilizzare questo vasto spazio, l’affrescatura del soffitto andava rifatta.

     Giulio II, Fedra Inghirami e Bramante pensano che l’artista adatto per fare questo lavoro sia Michelangelo [hanno notizia del tondo Doni e di un’altra opera non realizzata, rimasta sui cartoni di cui parleremo fra poco]. Ma [direte voi] se c’è Raffaello - il pupillo protetto da Bramante e assunto in pianta stabile in Vaticano - perché non offrire a lui la commissione dell’affrescatura del soffitto della Sistina? Ma “a Raffaello, come riferisce Fedra Inghirami in una Lettera al Dovizi, tutte le volte che alza lo sguardo per guardare il soffitto della Sistina viene il mal di mare” per il fatto che non è disposto a fare tutta quella fatica, arrampicato su un ponteggio precario in una posizione di grande scomodità, stando in uno spazio dove manca l’aria e ci si sporca da capo a piedi: qui non si tratta di dipingere una parete ma di compiere un’impresa ardua sotto tutti i punti di vista. A questo proposito, nella Corrispondenza Inghirami-Dovizi-Castiglione Raffaello viene citato, in codice, con il soprannome di “Commodeus”, abbreviazione di “Commodus deus o divus”: un pittore “divino” [come già viene chiamato] ma “comodo, amante delle comodità”! Michelangelo invece è uno abituato a lavorare sodo, a fare il funambolo in bilico su scomodi ponteggi con in mano i pesanti strumenti dello scultore e non teme di sporcarsi pur di liberare l’Anima dalla materia.

     Ma, come ben sappiamo, il problema consiste nell’attirare Michelangelo in Vaticano, e di questa “missione” [come abbiamo appreso dall’Epistolario di Fedra Inghirami] se ne incarica personalmente Giulio II il quale sa bene che il carattere di Michelangelo è quello di “un lupo solitario, duro e puro, e anche un po’ ingenuo” e, quindi, quando il papa [che invece è una volpe sagace] si esprime con Bramante e con Fedra Inghirami per dire che “è necessario convincere Michelangelo a fare il pittore”, sostiene [utilizza la metafora di Esopo e di Fedro] che bisogna “far entrare il lupo nella favola” [lupus in fabula] e succede che [ed ecco perché siamo al corrente] nella Corrispondenza Inghirami-Dovizi-Castiglione Michelangelo viene definito, in codice, con il soprannome di “Lupinfabul” abbreviazione di “lupus in fabula”. Per raggiungere l’obiettivo, il papa pensa di poter utilizzare un’idea di carattere “funerario” che si rivela essere [secondo le fonti documentali] un machiavellico stratagemma [un cavallo di Troia?] che va a buon fine.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Avete usato uno stratagemma per convincere una persona a fare qualcosa che non voleva fare?...  

Scrivete quattro righe in proposito, confessate...

     Se Michelangelo decidesse di impegnarsi a fare il pittore e accettasse la commissione [l’affrescatura del soffitto della Cappella Sistina] Giulio II sa di potergli far realizzare un’opera che contiene un messaggio che anche a lui sta a cuore: l’idea che la Chiesa va riformata profondamente sia strutturalmente che culturalmente. A questo proposito, per Giulio II si pone anche il problema di come eludere - con l’aiuto fattivo di Michelangelo - il controllo dei membri del Sant’Uffizio che non si fidano del papa [e il primo a non condividere le idee del papa - come sappiamo - è il supremo magistrato dell’Inquisizione, Giovanni Rafanelli, che abbiamo incontrato alla partenza di questo viaggio]. E allora, come agisce Giulio II su questo fronte assai ampio?

     Dobbiamo procedere con ordine perché la trafila della storia non è breve e gli avvenimenti non sempre possono essere ricostruiti nella loro interezza: abbiamo a disposizione una serie di tasselli che hanno una forma non proprio regolare [molti fatti si sono svolti sotto copertura] e, quindi, il mosaico che ne viene fuori ha un aspetto enigmatico [va decifrato nelle sue varie parti].

     Giulio II, appena eletto, fa divulgare la notizia [e questo è il primo tassello] che avrebbe dato in appalto la realizzazione di un colossale mausoleo destinato a diventare la sua tomba e, a questo proposito, fa divulgare il disegno [opera di Bramante andata perduta] di un’enorme costruzione piramidale che fa da supporto a più di quaranta grandi statue da collocare sulle quattro facce, e l’immagine di questo progetto deve fungere da specchietto per le allodole [ecco perché il tassello non ha forma regolare] in modo da attirare Michelangelo.

     Oggi, dopo aver raccolto, vagliato e studiato, nel giro di un secolo, tutta la documentazione necessaria [i testi degli Epistolari, dei Contratti, delle Bolle di accompagnamento, dei Carteggi riservati, dei Testamenti] le studiose e gli studiosi hanno intitolato il dossier riguardante il tema del presunto mausoleo di Giulio II con la dicitura: lo stratagemma della tomba. E difatti Michelangelo, attraverso un emissario, manda dei segnali a Bramante [abbocca].

     Ma che cosa sta facendo Michelangelo in questo momento? A Michelangelo non mancano le commissioni, ma a Firenze si trova coinvolto in una situazione molto particolare [e questo è il secondo tassello], il gonfaloniere Soderini e il consiglio municipale hanno un’idea brillante per mettere Firenze al centro dell’attenzione internazionale, vogliono organizzare una sorta di sfida tra i due massimi artisti della città, famosi in questo momento in tutta Europa: il maturo [cinquantunenne] Leonardo da Vinci e il giovane [ventottenne] Michelangelo. I due, che amano le sfide, non hanno mai fatto mistero di non apprezzare la rispettiva opera: Leonardo ha sempre pubblicamente criticato la nuova moda di ritrarre muscolosi nudi maschili [scrive: «Fanno i loro nudi legnosi e senza grazia, che paiono a vederli un sacco di noci più che superficie umana»] contrapponendo, in tono sprezzante, le sporche e rumorose botteghe degli scultori, al pulito, ordinato e silenzioso studio del pittore dove si poteva dipingere ascoltando musica. Michelangelo, d’altra parte, aveva più volte espresso il suo disprezzo per “la bidimensionale falsità” della pittura [che mette materia su materia]. Così, nel 1503, Soderini decide di affidare simultaneamente ai due artisti la commissione di due giganteschi affreschi da collocare fianco a fianco all’interno della sala principale del Palazzo della Signoria, sede del governo fiorentino. Il tema delle opere è quello della vittoria di Firenze in due storiche battaglie: a Leonardo viene affidata quella di Anghiari, mentre Michelangelo deve rappresentare quella di Cascina.

     Leonardo e Michelangelo sono due artisti dalla fama indiscutibile e la sfida si annuncia entusiasmante [Giulio II, Bramante, Fedra Inghirami e Raffaello seguono a distanza ma con grande interesse l’avvenimento]. I due artisti studiano le mosse l’uno dell’altro e impiegano dei mesi solo per studiare la composizione e ultimare i disegni; poi enormi fogli di carta [una merce assai costosa all’inizio del Cinquecento] vengono acquistati e utilizzati per i cartoni a grandezza naturale da trasferire sull’intonaco umido: ciascun affresco supera i centotrenta metri quadrati. Leonardo si concentra sull’anatomia dei cavalli impegnati nella battaglia [abbiamo numerosi disegni di cavalli eseguiti da Leonardo in tutte le posizioni], mentre Michelangelo riempie la scena con muscolosi nudi maschili rappresentati in ogni posizione immaginabile.

     Il popolo fiorentino partecipa all’avvenimento, la gente parteggia, discute animatamente, e a livello europeo Firenze, con questo avvenimento, si conferma il centro dell’Arte e della Bellezza: la sede di una “fioritura”, ma purtroppo, come ben sappiamo, il finale di questa storia è piuttosto inconcludente. Terminato il lavoro sui cartoni comincia per Michelangelo la fase che teme di più: affrontare la parete, lui sa di non trovarsi nel suo elemento, infatti non ha mai eseguito un affresco in vita sua e ora deve misurarsi con uno dei più esperti pittori del suo tempo, ma, per ironia della sorte, invece di perdere la partita riesce a pareggiare perché quel gran genio di Leonardo, come ben sapete - dopo aver realizzato splendidamente il dipinto [così dice chi lo ha visto] - non resiste alla tentazione di sperimentare una nuova tecnica, con il fuoco, per asciugare e dare brillantezza all’affresco che invece cola andando completamente in rovina. Leonardo stizzito rinuncia a proseguire il lavoro, e a Michelangelo non pare il vero di poter abbandonare l’opera, e l’intero progetto fallisce. È proprio in questo momento che arriva a Michelangelo l’invito da parte di Giulio II a lavorare per lui come scultore, e Michelangelo parte immediatamente e coglie subito l’occasione per trasferirsi a Roma lasciandosi alle spalle il cartone della Battaglia di Cascina e altre commissioni che non avrebbe mai terminato.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Aristotile da Sangallo, nel 1542, ha composto un copia della sezione centrale dal cartone di Michelangelo per la Battaglia di Cascina … Su un catalogo che trovate in biblioteca e navigando in rete cercate l’immagine di quest’opera e osservatela …

     Sappiamo che il papa e Michelangelo hanno lo stesso carattere e, quindi, si comprendono meglio di chiunque altro per cui si accordano a tempo di record sul progetto del mausoleo e su ogni particolare del monumento [e questo è il terzo tassello]: il fatto è, come abbiamo detto seguendo il campionario allegorico di Esopo e di Fedro, che il papa è “una volpe sagace” e Michelangelo è “un ingenuo lupo solitario”, ma, comunque, nel giro di un mese all’inizio del 1504 Michelangelo ha il contratto in mano; ma poi i tempi si dilatano, anche perché Michelangelo deve disdire altri contratti, altri impegni che aveva preso, forse deve pagare delle penali per accordi che non vuole e non può rispettare. Michelangelo, sotto lo sguardo vigile del papa, disegna il Bozzetto per la tomba di Giulio II che oggi è in mostra alla Galleria degli Uffizi, e inizia subito a dare forma ad una serie di statue ed è un lavoro che lo impegna per un certo periodo di tempo [è così soddisfatto che sperimenta un nuovo genere di scultura - quello dei Prigioni, che risulterà insuperabile - con una forma appena abbozzata ma “assolutamente compiuta nella sua essenzialità allegorica (così si è espresso Giulio II)”].

     Michelangelo ogni tanto interrompe il suo lavoro in Vaticano perché non sta sempre a Roma ma è difficile seguirlo nei suoi spostamenti: Michelangelo si allontana con il permesso del papa [che lo lascia andare volentieri] perché Giulio II vuole dilazionare i tempi secondo il progetto che lui, d’accordo con Bramante, ha in mente, e passano i mesi e anche alcuni anni.

     Intanto Michelangelo ha utilizzato una serie di blocchi di marmo in deposito nella bottega vaticana dove lavora al mausoleo e, ad un certo punto [siamo all’inizio dell’estate del 1505], necessita di altro materiale per cui Michelangelo lo fa presente al papa il quale non si limita a fare un’ordinazione [e questo è il quarto tassello, un tassello a due facce] ma consegna a Michelangelo una forte somma di denaro [qui c’è una documentazione inequivocabile in proposito] e lo invita ad andare di persona a Carrara per scegliere i blocchi migliori. Michelangelo si meraviglia per questo comportamento [avrebbe dovuto sospettare qualcosa? Lui si fidava] ma si lascia sopraffare dall’entusiasmo e parte, senza sapere che ha in mano i soldi per fare un acquisto destinato però a qualcosa di diverso dal lavoro che lui sta facendo: la scelta e l’acquisto dei marmi a Carrara da parte di Michelangelo richiede più di otto mesi, dall’estate del 1505 alla primavera del 1506. Quando Michelangelo torna a Roma, mentre aspetta l’arrivo delle tre navi con il prezioso carico marmoreo, trova ad attenderlo due sorprese: una buona e l’altra pessima: ora lasciamo in sospeso la pessima per occupiamoci di quella lieta.

     All’inizio della primavera del 1506 [e questo è il quinto tassello, quello che sembra più nitido] un contadino che lavorava nella sua vigna vicino al Colosseo fa una scoperta eccezionale: mentre vanga porta alla luce una grande statua che rappresenta tre uomini in lotta con grossi serpenti. La notizia arriva immediatamente in Vaticano e gli esperti - Bramante, Michelangelo e Fedra Inghirami - si recano sul posto e si accorgono subito di trovarsi di fronte alla statua di Laocoonte, l’opera più celebre tra le sculture di Roma antica, proveniente dalla Grecia, che si credeva, nel caos della caduta dell’impero romano d’Occidente, perduta per sempre. Questa statua illustra un episodio tratto dai tanti racconti epici composti oralmente sul tema della mitica epopea della guerra di Troia e poi tramandati per iscritto dalla tradizione omerica [in greco] e da quella virgiliana [in latino].

     La statua raffigura La morte di Laocoonte, il sacerdote troiano del dio Poseidone, ucciso insieme ai suoi figli da due enormi serpenti inviati dalla dea Atena che è schierata a favore degli Achei [di Ulisse], e infatti la dea vuole impedire a Laocoonte di convincere i suoi compatrioti a non portare dentro la città di Troia l’enorme cavallo di legno che i Greci hanno lasciato sulla spiaggia fingendo di partire. Laocoonte ai suoi concittadini, che credono di aver vinto la guerra, dice una frase diventata proverbiale: «Temo i Greci anche quando portano doni, non ci dobbiamo fidare» e, a questo punto, mentre sta pregando il dio Poseidone, due serpenti, comparsi all’improvviso, assalgono e uccidono lui e i suoi due figli, e i Troiani pensano che Laocoonte sia stato punito per aver pronunciato parole blasfeme, e immaginano che questo sia un segno a loro favorevole e, quindi, trascinano festanti dentro le mura di Troia il cavallo di legno, dalla pancia del quale, come ben sappiamo, nella notte, i soldati greci saltano fuori e per la città e i suoi abitanti è la fine [degli illustri guerrieri troiani si salva solo Enea che fugge nel Lazio]. Quando nel 146 a.C. i Romani conquistano la Grecia trasportano a Roma, come trofei di guerra, un numero considerevole di oggetti artistici e, tra questi, la statua del Laocoonte.

     Giulio II concede una lauta ricompensa al fortunato contadino che ha rinvenuto la statua nel suo campo, e l’antico manufatto viene ripulito e collocato nel Cortile del Belvedere [progettato e realizzato da Bramante] per impreziosire quella che, gradualmente, sta diventando la più importante collezione d’arte antica del mondo: anche per permettere a tutti di ammirare il Laocoonte, Giulio II  apre il Cortile al pubblico e si forma il primo embrione di quel grande complesso che sono oggi i Musei Vaticani. Michelangelo si commuove di fronte all’antico capolavoro, e Fedra Inghirami, che in brevissimo tempo trova le fonti in biblioteca, tiene Lezione a tutti, papa compreso, spiegando che la statua del Laocoonte è il risultato di un lavoro collettivo che, nel II secolo a.C. nell’isola di Rodi, ha riunito i tre maggiori scultori greci del tempo: Agesandro e i suoi due figli Atanodoro e Polidoro. Poi Fedra legge i versi del secondo Libro dell’Eneide di Virgilio dove Enea racconta alla regina Didone la fine di Troia.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Utilizzando l’enciclopedia, un catalogo di arte antica e navigando in rete cercate l’immagine  della statua del Laocoonte di Agesandro, Atanodoro e Polidoro … e poi, per poterla osservare con maggiore consapevolezza, potete fare un’incursione sulle pagine del secondo libro dell’Eneide di Virgilio che trovate in biblioteca: fate scorrere gli occhi sul testo fino ad incontrare il nome di Laocoonte, e da questo punto potete leggere i versi che raccontano il drammatico episodio che lo riguarda...  La Storia dell’Arte, la Storia della Letteratura, la Storia del Pensiero Umano e l’Alfabetizzazione funzionale e culturale viaggiano di pari passo

     Oltre ad ammirare la perfezione di quest’opera, Michelangelo si esercita ricopiando le forme dei corpi dei due figli morenti di Laocoonte e il bel torso del sacerdote. Inoltre l’interesse di Michelangelo per questa scultura non riguarda solo la muscolatura delle figure ma anche l’espressione dolente dei volti dei personaggi che lo fa riflettere sull’ambigua vicenda del cavallo di Troia: “un’offerta di pace” che contiene una micidiale sorpresa al suo interno dettata dall’astuzia della Ragione [una vittoria della scaltrezza che dobbiamo esaltare? O un inganno che dobbiamo condannare?].

     Tuttavia la scoperta della statua ellenistica del Laocoonte [un tesoro ritrovato dato per perduto] è una bella sorpresa, ma un’altra sorpresa, questa volta pessima [il sesto tassello in cui si sdoppia il quarto], attende Michelangelo di ritorno da Carrara. Però, prima di occuparci di questo argomento [da sviluppare con ordine], non possiamo fare a meno di tornare sul testo della commedia che stiamo leggendo da qualche settimana perché in esso c’è un esplicito richiamo alla figura di Laocoonte che rappresenta un’allegoria spesso presente nella Storia della Letteratura, e volete che l’autrice della commedia intitolata Il dio del massacro, Yasmina Reza, non si senta in dovere di citare il personaggio di Laocoonte che viene annientato - con i suoi figli innocenti - da Atena che nell’epopea della guerra di Troia rappresenta più che mai la divinità ispiratrice del massacro? Sta di fatto che la figura di Laocoonte - in un testo intitolato Il dio del massacro - non poteva mancare e il compito dell’Alfabetizzazione funzionale e culturale [il ruolo dell’Alfabetophania] è quello di evidenziare gli intrecci filologici da dipanare in funzione della didattica della lettura e della scrittura.

     Come sapete, Il dio del massacro è una commedia [comica ma dai risvolti drammatici] ambientata in un salotto dove due coppie di genitori s’incontrano per poter risolvere, da persone adulte [che credono di essere in possesso delle virtù civili] una questione: la lite scoppiata ai giardinetti tra i rispettivi figli, nella quale uno dei due [Bruno], il figlio dei padroni di casa [della scrittrice Véronique e del commerciante Michel], ha avuto la peggio [ci ha rimesso un dente] rispetto [a Ferdinand] al figlio degli ospiti [la consulente patrimoniale Annette e l’avvocato Alain]. L’incontro tra queste quattro persone, che dovrebbero appartenere al ceto riflessivo, inizia all’insegna delle buone maniere ma poi, con il procedere della conversazione, cadono le maschere di buona creanza, di correttezza politica, di apertura mentale che i protagonisti si sforzavano di portare,  per cui l’incontro non diventa l’occasione per risolvere civilmente la situazione ma tra i protagonisti prende campo lo spirito [con la s minuscola] di quella divinità, efferata ed oscura, che governa i rapporti tra gli umani fin dalla notte dei tempi: il dio del massacro. Come abbiamo potuto constatare, l’autrice usa il sarcasmo e fa conversare i quattro personaggi utilizzando un linguaggio volutamente leggero fatto di luoghi comuni e di battute [spesso pronunciate fuori luogo] che dovrebbero fluidificare i rapporti e invece fanno aumentare il nervosismo anche all’interno delle due coppie: quindi, non è possibile non pensare a “il cavallo di Troia” che apparentemente si presenta come “un’offerta di pace” e invece contiene al suo interno una micidiale sorpresa dettata dalla scaltrezza che non può essere considerata propriamente una virtù. E ora leggiamo, mentre in salotto è entrata in scena anche una bottiglia di rum.

LEGERE MULTUM….

Yasmina Reza, Il dio del massacro

VÉRONIQUE È stata una pessima idea! Non avremmo mai dovuto organizzare questo incontro!     

MICHEL Te l’avevo detto         VÉRONIQUE Me l’avevi detto?

MICHEL Sì.  Solo che io, secondo te, insomma, sembra che io dica, a volte, qualcosa di blasfemo come Laocoonte Avete presente il povero Laocoonte?

VÉRONIQUE Ma che cosa c’entra Laocoonte: metti da parte la tua presunta cultura classica! Tu mi avevi detto che non volevi organizzare questo incontro?!

MICHEL Secondo me non era una buona idea e, come vedi, forse, non escono da sotto il divano due grossi serpenti per soffocarmi perché non sto mentendo!    ANNETTE  Ma no era una buona idea. 

MICHEL La prego signora Annette in questo momento vedo solo cavalli di Troia dappertutto! Ed è meglio bere! (Alzando la bottiglia di rum) Chi gradisce del rum?

... continua la lettura ...

     Alain commette l’errore di rispondere e, quali saranno le conseguenze? Lo sapremo la prossima settimana.

     La scoperta della statua ellenistica del Laocoonte [un tesoro ritrovato dato per perduto] è, come sappiamo, una bella sorpresa che fa gioire Michelangelo, ma un’altra sorpresa, questa volta pessima, lo attende di ritorno dalle cave di marmo di Carrara, ed è un evento inaspettato che [come nell’episodio mitico di Laocoonte] ha una singolare attinenza con l’inganno del “cavallo di Troia”: un dono che si presenta come “un’offerta di pace” mentre, in realtà, si tratta di un tremendo raggiro dettato dall’astuzia della Ragione di chi lo architetta. Questo tema [quello che le studiose e gli studiosi chiamano “lo stratagemma della tomba”] è un argomento che si è arricchito di significati in seguito alle recenti scoperte [dopo un secolo di studi e ricerche documentali] relative agli avvenimenti legati al complesso rapporto tra Michelangelo e Giulio II, complici Bramante, Fedra Inghirami e Raffaello.

     Lo stratagemma messo in atto da Giulio II è da considerarsi “un tremendo raggiro di un potente senza scrupoli” oppure si è trattato di “un accorgimento tattico” che è servito per ottenere la produzione di oggetti di inestimabile valore che, tuttora, forniscono un reddito piuttosto consistente? Michelangelo, molti anni dopo, ricordando questi avvenimenti scrive che l’affrescatura del soffitto della Cappella Sistina avrebbe procurato a lui l’immortalità mentre il papa che lo aveva obbligato, con uno stratagemma, ad accettare questa commissione sarebbe a malapena stato ricordato e, per giunta, come un tiranno: difatti, i milioni di visitatori che oggi visitano la Sistina proferiscono il nome di Michelangelo mentre Giulio II in pochi sanno chi sia. E, allora, riprendiamo il filo del discorso.

                 È indubbio che Giulio II [che ha sempre avuto grandi idee] avrebbe aspirato a far realizzare un grande monumento marmoreo ad un geniale artista come Michelangelo da inserire nella nuova basilica di San Pietro che Bramante sta costruendo, ma [ecco che il terzo tassello subisce una modifica, diventa spurio], dopo aver fatto bene i conti, Giulio II sa che non ci sono le risorse per attuare questo progetto e, di conseguenza, rispetto alla costruzione della nuova basilica di San Pietro per la quale i lavori invece devono continuare, la realizzazione del mausoleo affidata a Michelangelo passa in secondo piano, ma noi sappiamo che questa commissione [lo stratagemma della tomba] deve nelle intenzioni di Giulio II servire soprattutto [e ha già funzionato a mo’ di cavallo di Troia] per attirare lo scultore in Vaticano in modo da poterlo convincere a realizzare, come pittore, l’affrescatura del soffitto della Cappella Sistina che è [questo sì] un lavoro urgente, per il quale ci sono le risorse e che solo Michelangelo può realizzare. Giulio II è convinto [conoscendo il carattere e la cultura dell’artista] che, di fronte a una prova molto difficile come questa [impossibile per Raffaello e per qualsiasi altro], lui avrebbe trovato l’energia, l’estro e la tecnica per affrontarla e per realizzare l’impresa, un’impresa non solo pittorica ma di forte spessore intellettuale. Il fatto è che, in questa storia, uno stratagemma tira l’altro [si è scoperto che il terzo tassello - per ragioni di necessità e di opportunismo - prende doppiamente una forma ambigua]. Che cosa succede?

     Bramante nella primavera del 1506 [intanto, tassello dopo tassello, sono passati quasi tre anni da quando Michelangelo è a Roma] ha terminato la demolizione di buona parte dell’antica basilica di San Pietro e sta per dare inizio ai lavori di quella “moderna”, che deve diventare la chiesa più importante e più grande del mondo. Bramante aveva già informato il papa che sarebbe stata necessaria, oltre a quella che si poteva recuperare dalle demolizioni, una consistente quantità di marmo di ottima qualità che una squadra di esperti scalpellini avrebbe dovuto trasformare in pregiato materiale per rivestire la basilica, un lavoro che richiedeva tempo e perizia. Poi Bramante si lamenta con il papa per il fatto che Michelangelo sta intaccando tutta la riserva di marmo contenuta nel deposito del cantiere vaticano e sta anche chiedendo al papa altro materiale [scrive Fedra Inghirami in codice al Dovizi: «Er Ruin(ante) lamenta che Lupinfabul divora ingordo marmo assai che la basilica ha fame»]. Ed ecco che [secondo le significative allusioni che troviamo nell’Epistolario di Fedra Inghirami] nella mente di Giulio II - che ha già bloccato il progetto del grande mausoleo perché le risorse devono servire per costruire la nuova basilica e per ristrutturare la Cappella Sistina - si sviluppa un’idea geniale e, di conseguenza, domanda [ma la domanda è retorica] a Bramante, che sta chiedendo del marmo di ottima qualità da utilizzare per la basilica, chi sia il più esperto conoscitore e compratore di marmo del momento, e naturalmente Bramante risponde che il maggior esperto della qualità e del valore del marmo è Michelangelo, e allora Giulio II conclude dicendo: «Perché non mandiamo lui direttamente a Carrara a comprare il marmo che ci serve per la basilica? Michelangelo saprà certamente fare un buon affare!». Al che Bramante – che, a forza di stare accanto al papa, ha capito l’antifona - risponde dicendo: «Sì, Santità, però la bugia gliela dite voi!». Ed è così che Giulio II [«Ma fino a che punto i papi posson dire le bugie sebbene a fin di bene?» domanda ironicamente al Dovizi Fedra Inghirami in una sua Lettera], finge di mandare lo stupìto Michelangelo a Carrara con una notevole somma di denaro a comprare marmo che, però, non serve per il mausoleo [che non s’ha più da fare] bensì per la basilica di Bramante: ma Michelangelo [lupus in fabula, ingenuo e solitario] questo non lo sa ancora e pensa di acquistare materiale per la sua commissione. Quando Michelangelo, di ritorno da Carrara, convinto di aver fatto un ottimo affare per cui si aspetta le lodi del committente, viene a sapere che i fondi per il mausoleo sono stati tagliati si precipita dal papa e inveisce brandendo il contratto: con la sua solita delicatezza, Giulio II glielo strappa di mano e lo fa a pezzi, e Michelangelo si allontana infuriato.

     Che cosa si siano detti, di preciso, non lo sappiamo ma Fedra Inghirami, nel suo prezioso Epistolario, usando la sua ironia da teatrante, definisce questo fatto come: “la tragedia della sepoltura di due protagonisti assai ben vivi[anche Michelangelo in vecchiaia ricorderà, con animo pacato e con nostalgia, la “tragedia della sepoltura di due protagonisti assai ben vivi”].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

In quale occasione avete detto una bugia a fin di bene?...

Scrivete quattro righe in proposito...

     Michelangelo, furente, lascia Roma il 17 aprile 1506, il giorno prima della posa della prima pietra della nuova basilica di San Pietro, e torna amareggiato a Firenze dove valuta diverse opportunità, tra cui quella di riprendere la lavorazione dei Dodici apostoli che gli erano stati commissionati dall’Opera del duomo [ma dopo il fallimento del progetto degli affreschi delle battaglie non tira aria buona per lui a Firenze] e pensa anche di accettare l’invito del sultano turco che voleva affidargli la realizzazione a Istanbul di un Ponte tra Oriente e Occidente che sarebbe stato il più lungo del mondo.

     Ma tra papa Giulio II e Michelangelo si è ormai sviluppato [come il papa aveva auspicato attirandolo in Vaticano] un rapporto passionale perché i due sono simili [sono - come scrive Fedra Inghirami - “le due facce della stessa medaglia”]. Giulio II manda dei messaggi a Michelangelo sollecitandolo a tornare a Roma perché c’è del lavoro da fare, e il papa, a questo proposito, come sappiamo, ha un obiettivo da raggiungere. Michelangelo risponde che a Firenze sta bene [ma non è proprio così] e che la commessa del mausoleo [se il papa avesse voluto] lui l’avrebbe potuta svolgere a Firenze perché “a Firenze, scrive Michelangelo, il lavoro sarebbe stato più rapido, più economico e realizzato con maggior dedizione”. Il papa, però, non ha tempo di rispondere a Michelangelo perché deve sfoderare la spada.

     Nella tarda estate del 1506, Giulio II deve sfoderare la spada: prima per cacciare Cesare Borgia dalla Romagna [che fugge a Napoli], poi per riconquistare due regioni [l’area di Perugia e di Bologna] che si sono ribellate al potere pontificio: questi territori pagano i tributi all’amministrazione vaticana [sono i feudatari che sfruttano questi territori che devono pagare i tributi allo Stato pontificio] e ora il bilancio vaticano ha bisogno di risorse per finanziare le grandi opere in corso di realizzazione.

     Giulio II riconquista Perugia sottomettendo Gian Paolo Baglioni senza colpo ferire e poi marcia su Bologna dove la popolazione gli apre le porte della città e lo accoglie facendogli festa in quanto il popolo preferisce il governo del papa perché assicura i servizi essenziali [lo stato sociale] attraverso gli ordini religiosi pauperisti finanziati dal Vaticano, mentre i feudatari, a Bologna capeggiati da Giovanni Bentivoglio, incamerano tutte le risorse per loro.

     Ed è da Bologna che Giulio II, in veste di condottiero, richiama Michelangelo facendogli sapere che i bolognesi vogliono dedicargli un monumento di bronzo che deve essere collocato vicino al portone del duomo e deve essere lui a realizzarlo. Michelangelo, che a Firenze non si trova a suo agio, parte per Bologna e si riconcilia con il papa dicendo però che lui non è esperto nella fusione del bronzo e preferirebbe il marmo, ma il solo materiale messo a disposizione dai bolognesi è il metallo. Michelangelo deplora il fatto di essere costretto a confrontarsi con modalità che non ha studiato e di cui non è pratico, ma il papa lo blandisce dicendogli che una persona in possesso del suo talento “è un artista in tutto” e poi aggiunge - con il suo sorriso ironico - che questa è l’occasione in cui Michelangelo avrebbe potuto vendicarsi visto che ritiene di aver subito dei torti.

     Si capisce che Giulio II e Michelangelo sono in sintonia [il fatto è che il papa è una volpe sagace e Michelangelo è un ingenuo lupo solitario], per cui l’artista - punto nel vivo - decide di fermarsi a Bologna per cimentarsi con una difficile tecnica che non ama affatto. La lavorazione del bronzo è molto complessa, è rischiosa ed è lenta, e Michelangelo si trova con l’incarico di realizzare quella che sarebbe stata la più grande statua bronzea dai tempi dell’Impero romano e, proprio per questo motivo, ci vuole riuscire - anche perché ha in mente un’idea [una risposta da dare al papa] - e apre un laboratorio in cui invita alcuni colleghi fiorentini esperti nella lavorazione del bronzo.

     Michelangelo invia al papa un modellino in cotto della statua in cui il pontefice è raffigurato pacatamente seduto con le mani disposte in modo come se dovessero tenere un oggetto: Giulio II sa che Michelangelo sta architettando qualcosa e pensa di poter utilizzare questo “qualcosa” come pretesto a suo vantaggio [il papa è una volpe sagace]. La fusione dell’enorme statua richiede molte prove, una grandissima fatica e una lunga serie di modifiche. Per giunta a Bologna scoppia anche una pestilenza che rallenta per alcuni mesi il lavoro di Michelangelo, il quale in una Lettera si lamenta del sovraffollamento, della pioggia, del caldo infernale, della sua inappetenza e del vino troppo caro, che è inoltre «pessimo come tutto il resto in questo luogo». Dopo oltre un anno di fatiche, finalmente nel febbraio 1508 Michelangelo può fondere l’enorme statua, ed è fisicamente esausto, però è soddisfatto perché è stato capace di realizzare un grande monumento in bronzo e di dargli l’aspetto che voleva: infatti, raffigura il pontefice in modo del tutto diverso dal modello in cotto, come un tremendo guerriero trionfante con la spada sguainata e terribile nel volto.

     Quando il papa - accolto trionfalmente a Bologna - viene a inaugurare il monumento, vedendo come è stato rappresentato, capisce il messaggio che Michelangelo ha fuso nel bronzo: «Caro papa, ma quanto sei terribile, quanto sei tremendo, quanto sei spaventoso!». Naturalmente Giulio II [che se l’aspettava, e a lui piace il modo in cui è stato rappresentato, essendo assai vanitoso] si rivolge cordialmente a Michelangelo perché l’artista gli ha fornito il pretesto che cercava, e gli dice: «Hai fatto bene a rappresentarmi così perché d’ora in avanti tutte le volte che mi guarderanno gli passerà la voglia di ribellarsi! Anche se so che, in verità, più che mettermi in mano la spada avresti preferito mettermi in mano un libro, perché tu lo sai che io i libri li amo e le spade le sopporto!» e, in effetti, Michelangelo deve ammettere di aver pensato a questa soluzione e allora il papa [il Terribile] fa la sua proposta formulandola come se fosse un ordine piuttosto che una richiesta: «Ebbene, dice Giulio II, adesso ti voglio dare la possibilità di ritrarmi con un libro in mano, e per questo ti aspetto a Roma perché proprio di libri dobbiamo parlare». Anche Michelangelo ama i libri, e non può che accettare l’invito [o eseguire l’ordine].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con quale libro in mano vorreste essere ritratte e ritratti [possibilmente da Michelangelo] ?...

Fate la vostra scelta e scrivetela ...

     A questo punto, una domanda sorge spontanea: dove è finita la statua di bronzo che ritrae Giulio II con la spada in mano nei panni di terribile guerriero? Questa statua non c’è più [e questa è un’altra storia alla quale dedicheremo poco spazio strada facendo], mentre il dipinto che ritrae il papa con un libro in mano c’è ancora e, per vederlo, bisogna entrare nella Cappella Sistina: ma quando ci entreremo?

     Bisogna aver pazienza [ci stiamo avvicinando all’ingresso], e sapete che la pazienza è una virtù necessaria, una virtù che assicura di non perdere mai la volontà di imparare.

     La Scuola è qui, e il viaggio agli albori dell’Età moderna continua…

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Marzo 10, 2017