Prof. Giuseppe Nibbi Lo sguardo di Erodoto 2006 15-16-17 marzo 2006
LO SGUARDO DI ERODOTO
SUL CONCETTO ORIZZONTALE DEL MONDO…
Erodoto, nel libro III de Le Storie, narra gli avvenimenti dell’assedio della città di Babilonia da parte del re persiano Dario. I Babilonesi sono stati assoggettati e annessi da tempo nell’impero persiano e – approfittando del disordine che regna nel governo di questo vasto Stato – decidono di ribellarsi, decidono di proclamare la loro indipendenza. Dario, appena viene designato re dei Persiani, conscio della pericolosità di questa situazione, decide di intervenire immediatamente e, con un grande esercito, cinge d’assedio la città, ricca di monumenti e impreziosita dai famosi giardini pensili. I Babilonesi si sono preparati (hanno ucciso – ricordate? – tutte le donne in sovrappiù per risparmiare sui viveri) ad affrontare l’assedio contando tanto sulle loro risorse economiche quanto sulle poderose mura della loro città.
Erodoto ci racconta che i Babilonesi si fanno beffe di Dario e del suo esercito: “Ci prenderete – proclamano con sicurezza – quando le mule partoriranno”, cioè mai, essendo le mule, sterili. I Babilonesi si sentono al sicuro: Dario non può fare nulla contro di loro.
Erodoto ci racconta, nel III libro de Le Storie al capitolo 152 (di cui si consiglia la lettura integrale) che, accostandosi alle mura, Dario può ascoltare le ingiurie e le invettive pronunciate nei suoi confronti e scrive che: “Essendo trascorso un anno e sette mesi, ormai sia Dario che tutto l'esercito si affliggevano, non essendo in grado di vincere i Babilonesi”. Ma, qualche tempo dopo, le cose cambiano. Le cose cambiano quando entra in scena un personaggio. Erodoto, nel III libro de Le Storie fa entrare in scena un certo Zopiro, e scrive: “Allora nel ventesimo mese (di assedio) a Zopiro accadde il seguente prodigio: una delle sue mule adibite al trasporto di viveri partorì”.
I Babilonesi, per deridere i Persiani, ripetevano: “ci prenderete quando le mule partoriranno” e un bel giorno una delle mule di Zopiro partorisce, e questo è un segno prodigioso. Chi è Zopiro? Zopiro è certamente uno dei più interessanti “personaggi da romanzo” che incontriamo ne Le Storie di Erodoto. Il giovane Zopiro – che possiede e dirige una grande ditta di trasporti (i muli e le mule erano i tir dell’epoca) – appartiene alla classe sociale più elevata dell’impero persiano anche perché è figlio di un notabile: suo padre, che si chiama Megabizo, è un alto funzionario del regno. Zopiro, appena apprende la notizia che una delle sue mule ha partorito, rimane molto colpito dall’avvenimento e vede in questo fatto un presagio divino circa la possibilità di espugnare Babilonia. Zopiro chiede udienza a Dario, gli riferisce l’accaduto, e gli chiede se lui ci tenga davvero a prendere Babilonia. Dario risponde che ci tiene moltissimo a conquistare e sottomettere Babilonia, anche perché è diventata soprattutto una questione di prestigio: sono quasi due anni che assedia la città ma le mura di Babilonia risultano invalicabili e i Babilonesi si prendono gioco di lui. Dario è scoraggiato e non sa più che cosa escogitare. Se si ritira – oltre a perdere una delle più importanti e ricche satrapìe del suo regno – si copre di vergogna a livello internazionale: tutti i governanti della terra rideranno alle sue spalle. Dario appare a Zopiro in preda all’indecisione, ai dubbi, all’incertezza e, di fronte a questa situazione, Zopiro decide di mettere in atto il suo piano.
Zopiro si apparta in un luogo che Erodoto non precisa e lì, con un coltello affilato, si mozza il naso e le orecchie, si rapa a zero (i malfattori, i delinquenti venivano rapati a zero), e si fa flagellare dal suo segretario. Così conciato, ferito e grondante sangue, si presenta a Dario. Dario, nel vederselo comparire di fronte in quelle condizioni (lì per li non lo riconosce neppure), rimane sconvolto, salta giù dal trono urlando e chiede a Zopiro chi l’abbia mutilato così e perché. Zopiro, sebbene stia soffrendo moltissimo, – senza naso, senza orecchie, piagato in tutto il corpo e grondante di sangue – trova ugualmente la forza di rispondere con queste parole che Erodoto ci riporta:
LEGERE MULTUM….
Erodoto, Le Storie III 155
(Zopiro disse): “Non c’è alcun uomo all’infuori di te che abbia tanta potenza da ridurmi in tali condizioni, né qualche estraneo mi ha fatto questo, o re, ma io stesso me lo sono fatto, non sopportando che gli Assiri si facciano beffe dei Persiani”. …(Dario rispose): “O sciagurato, all’azione più vergognosa hai dato il nome più bello, dicendo di esserti conciato in modo orrendo a causa degli assediati. Ma perché mai, o pazzo, ora che tu ti sei mutilato, i nemici dovrebbero arrendersi più presto? Come può essere che tu non sia uscito di senno dal momento che hai mutilato così te stesso?”.
Erodoto, con questo episodio, ci presenta un modo di pensare diffuso in quel tipo di cultura: si pensa infatti che una persona, umiliata nella sua dignità, possa riscattare questa vergogna attraverso un atto di autodistruzione. Una persona, dopo aver subìto una pesante umiliazione, si sente segnata, si sente marchiata, si accorge di essere bollata d’infamia e preferisce cambiare i propri connotati piuttosto che continuare a vivere con questo marchio: per salvare la faccia, Zopiro se la cambia, sostituendola con una molto più spaventosa. Questa faccia anche se spaventosa, perlomeno non è più la stessa faccia del persiano oltraggiato e di cui i Babilonesi si stanno facendo beffe. Zopiro non prende gli insulti dei Babilonesi come un fatto personale o come un torto nei suoi confronti, ma come un oltraggio subìto da tutti i Persiani. E l’unico modo per riscattare l’umiliazione non sta nell’incitare i Persiani alla guerra, ma in un liberatorio e individuale gesto di autodistruzione o, in questo caso, di automutilazione. Il personaggio di Zopiro – scriveranno qualche secolo dopo i Padri della Chiesa – ricorda la figura della “vittima immolata” che si fa carico dell’umiliazione di tutti.
In un primo momento Dario condanna il gesto di Zopiro, giudicandolo irresponsabile e avventato, ma subito dopo ne approfitta: per lui questa è l’ultima possibilità di salvare l’impero e di riscattare la dignità della monarchia. Accetta quindi il piano di Zopiro. E in che cosa consiste il piano di Zopiro? Zopiro pensa di consegnarsi ai Babilonesi facendo finta di fuggire dalle persecuzioni e dalle torture di Dario, di cui le ferite sono la prova (come si fa a pensare che si sia ridotto di sua spontanea volontà in queste condizioni?). Zopiro è convinto di riuscire a convincere i Babilonesi, è convinto anche di riuscire a conquistarne la fiducia e a farsi affidare un incarico di responsabilità nell’esercito (essendo lui un nobile, quindi, è anche degno di avere un ruolo nell’esercito). Dopodiché sarà facile far entrare i Persiani a Babilonia (il metodo ricorda il trucco del “cavallo di Troia”).
Un giorno, le sentinelle babilonesi che montano la guardia sulle mura della città assediata, vedono venire verso di loro una figura umana sfigurata in volto e vestita di stracci. Quest’uomo avanza con un modo di fare molto diffidente, e si guarda continuamente alle spalle, come per paura di essere inseguito.
Ma sentiamo che cosa ci racconta Erodoto in questo frammento del libro III al capitolo 156 (di cui si consiglia la lettura integrale):
LEGERE MULTUM….
Erodoto, Le Storie III 156
… Vedendolo dall’alto delle torri quelli che erano schierati da quella parte corsero giù e, socchiuso un po’ un battente della porta, gli chiesero chi fosse e perché venisse. E quello rispose che era Zopiro e disertava, passando dalla loro parte. Allora i custodi delle porte, come udirono ciò, lo condussero dinanzi all’assemblea dei Babilonesi; e lì presentatesi egli si lamentava, dicendo di aver ricevuto da Dario quelle ferite che aveva ricevute da se stesso …
“Ed ora – aggiunse – … non impunemente egli mi avrà così mutilato, perché io conosco i particolari dei suoi piani”.
L’assemblea dà credito alle parole di Zopiro che si dimostra molto convincente nella sua recitazione e, come previsto, gli viene affidato il comando di una compagnia dell’esercito. Il decimo giorno dalla finta fuga di Zopiro a Babilonia, come convenuto, Dario schiera davanti alla porta mille dei suoi soldati meno valorosi. L’esercito babilonese esce dalla città e li uccide tutti. Sette giorni più tardi, sempre secondo gli accordi, Dario fa schierare nuovamente davanti alla porta duemila dei suoi soldati più scadenti. Al comando di Zopiro, i Babilonesi li trucidano.
La fama di Zopiro, considerato l’eroe e il salvatore di Babilonia, sale alle stelle. Passano venti giorni e, secondo i piani, Dario invia altri quattromila soldati: anch’essi vengono prontamente sterminati. In segno di riconoscenza, i Babilonesi nominano Zopiro comandante in capo dell’esercito, a questo punto Zopiro ha in mano le chiavi di tutte le porte.
Nel giorno stabilito Dario sferra l’assalto a tutta la cerchia delle mura e Zopiro apre le porte della città, e Babilonia viene espugnata. Dopo la vittoria Dario dà ordine di abbattere le enormi mura della città e, anche in questo caso, Erodoto tace i particolari di questa operazione di abbattimento che dovette comunque rappresentare un lavoro gigantesco.
Ma Dario si accorge che a Babilonia ci sono pochissime donne e si domanda come mai e non riesce a trovare una risposta (noi sappiamo che erano state eliminate a suo tempo!), e quindi pensa al futuro della città e dei suoi abitanti, e, a questo proposito sentiamo che cosa scrive Erodoto in questo frammento del capitolo 159 del libro III (di cui si consiglia la lettura integrale):
LEGERE MULTUM….
Erodoto, Le Storie III 159
E, dandosi cura che i Babilonesi avessero donne, affinché nascessero loro figli (le loro mogli, come in principio ho spiegato, i Babilonesi le avevano strangolate preoccupandosi dei viveri), Dario fece questo: ordinò ai popoli confinanti di condurre donne a Babilonia, imponendone a ciascuno tante da far sì che la somma totale delle donne giungesse a 50.000; da queste donne sono nati gli odierni babilonesi. …
Come premio, Dario conferisce a Zopiro il governo di Babilonia. Erodoto scrive che Dario esprimeva spesso questa idea: “avrebbe preferito che Zopiro non fosse così deturpato piuttosto di avere altre venti Babilonie oltre quella che possedeva.”
La Scuola naturalmente consiglia la lettura integrale del “racconto di Zopiro” che Erodoto narra nel III libro de Le Storie.
E come dice il quinto capitolo del libro del profeta Isaia (che abbiamo incontrato la scorsa settimana): “Le sue frecce sono aguzzate, tutti tesi sono i suoi archi; gli zoccoli dei suoi cavalli sono come selce, le ruote dei carri come l’uragano”. Perché ci viene in mente questo famoso versetto che mette in guardia i potenti dalla superbia, dall’alterigia, dalla presunzione? Perché, dopo aver compiuto questa conquista, il re di Persia si sente potentissimo e non riflette sul fatto che l’espugnazione di Babilonia è dovuta a un atto (drammatico) di astuzia. Dario, galvanizzato dalla presa di Babilonia, passa alla conquista successiva: “Dopo la presa di Babilonia – scrive Erodoto nel IV libro de Le Storie al capitolo 1 – Dario in persona condusse una spedizione contro gli Sciti”.
E noi sappiamo già come è andata a finire questa spedizione: guai ai superbi, guai ai presuntuosi (si legge nel libro di Isaia). Perché puntiamo ancora la nostra attenzione – lo abbiamo già fatto nell’autunno scorso – sulla spedizione di Dario contro gli Sciti? Perché dobbiamo occuparci di un’idea, e di una parola-chiave, che emerge ne Le Storie di Erodoto proprio in concomitanza con la narrazione della spedizione di Dario contro gli Sciti e di cui non abbiamo ancora parlato, su cui non abbiamo ancora riflettuto.
Per andare da Babilonia ai territori degli Sciti c’è da attraversare metà del mondo conosciuto da Erodoto, conosciuto in quel tempo. Nell’Età assiale della storia – 2500 anni fa – per spostarsi da un luogo all’altro occorrevano mesi di marcia. A quel tempo un esercito, in media, ci metteva un mese per percorrere cinquecento o (se le cose andavano particolarmente bene) seicento chilometri: la distanza tra Babilonia e il territorio degli Sciti è dieci volte superiore. Allora sul territorio non esistevano vere e proprie strade, e viaggiare – Erodoto ci ha già messo al corrente sul “tema del viaggiare” –, anche per un re, è una cosa scomodissima e fastidiosissima, e a noi viene spontaneo domandarsi: chi glielo fa fare a Dario di intraprendere un viaggio del genere? Dario è contagiato dalla bramosia di estendere l’impero e, di conseguenza, il proprio potere sul mondo.
Duemilacinquecento anni fa, nell’Età assiale della storia, la gente, nell’udire la parola “mondo”: che cosa immaginava? In quest’epoca non esistevano ancora le carte geografiche, né gli atlanti né i mappamondi: come si sperimenta, in quest’epoca, la conoscenza del mondo? La conoscenza del mondo, durante l’Età assiale della storia, si acquisisce – ci fa capire Erodoto – attivando un contatto, avviando una relazione con i propri vicini e prendendo atto della loro diversità.
La prima percezione del mondo – ci fa comprendere Erodoto – che un essere umano ha è quella dei suoi vicini. Il primo gesto intellettuale che un essere umano compie è quello di capire che i suoi vicini sono diversi da lui: anche sua madre, soprattutto suo padre. La consapevolezza, da parte della persona, dell’esistenza del mondo coincide con la presa d’atto dell’esistenza, nelle immediate vicinanze, della varietà, della diversità, della pluralità e questa idea del mondo – vario, strano e plurale –, che appassiona Erodoto, la conosciamo già. La gente del tempo di Erodoto (Erodoto stesso), nell’udire la parola “mondo”, che cosa immagina?
Nel greco ionico di Erodoto la parola “mondo” – ne abbiamo parlato spesso in autunno ma non lo abbiamo ancora detto (aspettavamo la primavera?) si traduce: kosmos, e la parola kosmos, prima di tutto, significa: ordine. La conoscenza del mondo (kosmos), al tempo di Erodoto, si sperimenta mettendo ordine (kosmos) nei rapporti, nelle relazioni con i propri vicini.
La gente del tempo di Erodoto (Erodoto stesso), nell’udire la parola “mondo”, pensa a come “mettere ordine nei rapporti con i propri vicini” e, di conseguenza, a creare un codice di comportamento nei confronti della varietà, della diversità e della pluralità in modo tale da poter “vivere nel mondo”. Erodoto “allude”.
Che cos’è la Storia? La Storia è anche “la capacità di mettere ordine (kosmos)”? E questa definizione suona anche come la metafora della “capacità di conoscere il mondo (kosmos)”? Chissà quante altre definizioni che riguardano la Storia (sempre accompagnate da un punto interrogativo) incontreremo strada facendo: definizioni su cui riflettere per far crescere il catalogo dei nostri pensieri. La prima necessità che un essere umano ha è quella di capire chi sono i suoi vicini: da questa presa d’atto comincia l’esercizio del mettere ordine (kosmos) nella propria vita, da questa osservazione, da questa considerazione inizia l’esperienza della conoscenza del mondo (kosmos).
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Chi erano nella vostra infanzia i vostri vicini di casa?
Scrivete quattro righe in proposito…
Dario, il Re dei Re, nel momento in cui decide di attaccare gli Sciti, raccoglie le informazioni necessarie: fa interrogare, dalle guide del suo potente esercito, una dopo l’altra decine di tribù e in questo modo riesce a orientarsi. Dario, il Grande Sovrano che aspira a diventare il padrone del mondo (kosmos) agisce con ordine (kosmos), agisce con metodo. Ha già sconfitto gli Ioni, i Cari e i Lidii, e vuole sconfiggere anche i Traci, i Geti e gli Sciti.
Inoltre Dario, nella sua inestinguibile sete di potere, vuole comportarsi da persona “civile” (“civile”, tra ironiche virgolette): sa che per attaccare un popolo ci vuole un pretesto. Il pretesto è importante perché – da che mondo è mondo (kosmos) – trasforma un’aggressione in una missione universale (addirittura in una missione gradita al volere divino). I pretesti (dal tempo dell’Età assiale della storia) sono sempre gli stessi: la necessità di difendersi, il dovere di difendere un alleato o di eseguire il volere del cielo. Il massimo dell’abilità sta nel combinare insieme queste tre ragioni in modo da poter affermare di operare per mettere ordine (kosmos) nel mondo (kosmos).
Quale pretesto (di questo fatto non ci eravamo occupati nell’autunno scorso) utilizza Dario per attaccare gli Sciti? Un secolo prima – afferma Dario (ci racconta Erodoto) – gli Sciti hanno invaso la terra dei Medi (popolo della stessa etnìa dei Persiani), quindi Dario attacca gli Sciti per vendicare (la “vendetta” è il motore della Storia, sostiene Erodoto) quell’episodio che tutti hanno dimenticato, meno lui. Noi sappiamo che Erodoto nutre una certa simpatia per gli Sciti proprio perché sono diversi e non è facile descriverli: gli Sciti, per Erodoto, costituiscono una sfida culturale.
Erodoto non sa quale sia la loro storia, ignora da dove siano spuntati. Anche noi sappiamo che gli Sciti sono esistiti per mille anni e poi sono spariti nel nulla, lasciandosi dietro splendidi manufatti di metallo (l’oro degli Sciti) rinvenuti dagli archeologi nei tumuli dove seppellivano i loro re. Sappiamo che gli Sciti formavano una confederazione di tribù dedite all’agricoltura e alla pastorizia, che si erano insediate nelle pianure dell’Europa orientale e della steppa asiatica. Sappiamo, da Erodoto, che l’esercito degli Sciti era formato da squadre di arcieri a cavallo, irrequieti e battaglieri, sempre in movimento lungo la frontiera a sud del loro territorio, nelle terre tra il Danubio e il Volga, a nord del Mar Nero. Intorno agli Sciti, al tempo di Erodoto, si era costruito un mito che suscitava terrore: il loro nome era sinonimo di genti strane e misteriose, selvagge e crudeli. Nessuno infatti riusciva a vedere da vicino le terre, le abitazioni e le mandrie degli Sciti, per la maggior parte dell’anno nascoste dentro un’impenetrabile cortina di neve.
Leggiamo due frammenti dal IV libro de Le Storie in cui Erodoto si diletta nello svelare coincidenze e corrispondenze.
LEGERE MULTUM….
Erodoto, Le Storie IV 7 31
Gli Sciti affermano che non è possibile né vedere né attraversare le zone al di là del loro paese, verso nord, a causa della caduta di piume: di piume sono piene la terra e l’aria, e sono esse che impediscono la vista. …
Quanto poi alle piume di cui gli Sciti dicono che è piena l’aria e per cui non è possibile né vedere né attraversare le regioni più interne, ecco il mio parere: nei territori al di là di questo paese nevica sempre, d’estate meno che d’inverno, come è naturale, e chiunque abbia visto da vicino una nevicata fitta sa quel che voglio dire: la neve somiglia a piume, e a causa dell’inverno che è così rigido le regioni al nord di questo continente sono inabitabili. Io penso dunque che gli Sciti e i loro vicini parlando per immagini (allegorie) chiamino piume la neve.
E ora Dario, come ventiquattro secoli dopo farà Napoleone (basta leggere il romanzo Guerra e pace di Leone Tolstòj per capire questo nesso), muove contro questa terra. La spedizione gli viene sconsigliata, ma Dario non dà ascolto a nessuno e, dopo grandi preparativi, parte alla testa di un immenso esercito composto di tutti i popoli su cui domina. Erodoto cita una cifra per quei tempi astronomica: “Settecentomila uomini con la cavalleria, non compresa la flotta, che era composta da 600 navi”, questi dati li possiamo trovare nel IV libro de Le Storie di cui si consiglia la lettura integrale.
Erodoto – sempre nel IV libro de Le Storie – informa il lettore che Dario fa gettare il primo ponte sul Bosforo e, dall’alto del suo trono da campo, osserva l’enorme esercito che lo attraversa (abbiamo già osservato questa scena in autunno). Il secondo ponte lo fa costruire sul Danubio e, dopo il passaggio dell’esercito, ordina di distruggerlo, ma uno dei suoi comandanti, un certo Coe, figlio di Erxandro, lo consiglia vivamente di non farlo. Erodoto riporta le parole di Coe.
LEGERE MULTUM….
Erodoto, Le Storie IV 97
Allora Coe, figlio di Erxandro si rivolse a Dario con queste parole: «O re, poiché ti accingi a muovere contro un paese in cui nessuna terra arata apparirà né alcuna città abitata, lascia dunque che questo ponte rimanga al suo posto … Così, se … troveremo gli Sciti, avremo una via di ritorno; d’altra parte, anche se non potremo trovarli, la via del ritorno sarà ugualmente per noi assicurata. Poiché io certo non ho mai temuto che noi possiamo essere vinti dagli Sciti in battaglia, ma piuttosto che, non potendo trovarli, ci capiti di soffrire dei danni errando qua e là».
Dario ascolta Coe e ordina di lasciare il ponte al suo posto e noi sappiamo che il consiglio di Coe, a suo tempo, si rivelerà molto utile.
Il ponte sul Danubio, che ora stiamo attraversando insieme a Dario animato da spirito di conquista (e che tra poco riattraverseremo precipitosamente insieme a Dario in fuga) è un punto di passaggio fondamentale dell’itinerario di questa sera: ma i “ponti” sono sempre, oltre che dei punti strategici, anche delle significative metafore culturali (il ponte sulla Drina, per esempio) come ci ha ricordato lo scrittore Ivo Andrić – strada facendo – la seconda settimana di febbraio.
Nel frattempo gli Sciti sono stati informati che un immenso esercito si sta muovendo contro di loro, e allora: che cosa fanno prima di tutto gli Sciti? Gli Sciti, prima di tutto, chiamano a consiglio i re delle popolazioni vicine. Gli Sciti si rivolgono ai loro vicini: si rivolgono al mondo (kosmos). Abbiamo detto che la conoscenza del mondo (kosmos) si sperimenta mettendo ordine (kosmos) nei rapporti, nelle relazioni, con i propri vicini. La gente del tempo di Erodoto – anche gli Sciti – nell’udire la parola “mondo”, pensa a come “mettere ordine nei rapporti con i propri vicini”.
Gli Sciti, nell’accettare la sfida di Dario – che pretende di diventare il padrone del mondo (kosmos) – si rivolgono prima di tutto ai loro vicini per “mettere ordine (kosmos) nel proprio rapporto con il mondo (kosmos)”. Difatti Erodoto come si comporta? Erodoto fa l’inventario dei vicini degli Sciti. Erodoto, con ordine (kosmos), fa l’inventario di quel mondo (kosmos).
Gli Sciti si rivolgono ai Budini, agli Agatirsi, ai Tauri ed Erodoto, con fare da impressionista, li descrive, e noi leggiamo dal libro IV alcuni frammenti come se fossero pennellate di colore, e poi possiamo completare, per conto nostro, la lettura di questi capitoli.
LEGERE MULTUM….
Erodoto, Le Storie IV 108 109 104 103
I Bùdini sono un popolo potente e numeroso, hanno tutti gli occhi di un azzurro intenso e le chiome fulve … e si nutrono di pinoli. …
Gli Agatirsi mettono in comune le donne in modo di essere tutti strettamente imparentati tra loro e di evitare, essendo parenti, invidia e astio reciproci. …
I Tauri, ai nemici di cui si impadroniscono fanno questo trattamento: ciascuno, tagliata una testa, se la porta a casa e poi, infilzata su un grande palo, la pianta sul tetto della casa, in modo che sporga di molto, e di preferenza sopra il comignolo. Dicono che le pongono in alto come custodi di tutta la casa. …
Ma i rapporti con i vicini (i rapporti con il mondo) non sono sempre idilliaci. I delegati delle tribù degli Sciti, quando s’incontrano con i delegati delle tribù dei popoli vicini, propongono un patto di mutua assistenza, propongono che l’invasore debba essere combattuto da tutti. Ma i pareri dei vicini sono discordi e si dividono: i delegati di un certo numero di tribù riconoscono il dovere di aiutare gli Sciti mentre altri delegati decidono di stare a guardare, asserendo che in realtà i Persiani (vogliono vendicarsi) vogliono combattere solo contro gli Sciti, lasciando in pace le popolazioni limitrofe. Vista la mancanza di un accordo gli Sciti decidono di fare da soli e sapendo che il nemico è molto più forte di loro decidono di adottare una tattica che noi già conosciamo.
Si dividono in due gruppi – ci racconta Erodoto – e tenendosi sempre a un giorno di marcia dai Persiani, cominciano a ritirarsi e a disorientare il nemico con incessanti cambiamenti di direzione, attirandolo sempre più nel cuore del paese. Mandano avanti i carri nei quali vivono i loro figli, le donne e gli anziani e tutto il bestiame, che rappresenta la loro ricchezza, e ordinando loro di marciare sempre verso il nord, dove la neve (le piume) e il gelo li proteggeranno dai Persiani, gente del sud, abituata al caldo. Gli Sciti scelgono di evitare lo scontro aperto con l’esercito di Dario che sta entrando in Scizia. Gli arcieri sciti, a cavallo, galoppano velocissimi, misteriosi come fantasmi, spuntano all’improvviso nella steppa e un attimo dopo non ci sono più: sono spariti dietro la linea dell’orizzonte verso settentrione.
Dario dirige il suo imponente esercito in quella direzione ma, una volta lì, si accorge di trovarsi in un deserto. Erodoto racconta che gli Sciti, per costringere alla lotta i vicini restii, si spostano in modo che gli eserciti di Dario, per inseguirli, siano costretti ad attraversare le terre delle tribù che hanno rifiutato la loro alleanza e che, vedendosi invase, si sentano anch’esse minacciate e diventano ostili.
Noi sappiamo che Dario, sentendosi sempre più impotente, ad un certo punto decide di inviare un messaggio al re degli Sciti ingiungendogli di smettere di fuggire e di scegliere tra due possibilità: accettare la battaglia in campo aperto, o sottomettersi al suo dominio. Il re degli Sciti risponde che loro non stanno affatto fuggendo, e che non possedendo né città né terra coltivata, non hanno niente da difendere e non vedono il motivo di battersi, e aggiunge, molto seccato, che gli Sciti non vogliono padroni. Gli Sciti amano la libertà, rispettano la steppa e prediligono gli spazi infiniti, e se Dario è venuto per togliere loro questo, allora combatteranno e, d’ora in poi, attaccheranno i Persiani ogni volta che quelli cercheranno cibo per i soldati e foraggio per i cavalli.
E così gli Sciti cominciano ad attaccare – compaiono all’improvviso, colpiscono con precisione e spariscono rapidamente – e per l’esercito di Dario le cose si mettono male. Su questa steppa sconfinata Erodoto ci fa ben capire che si svolge uno scontro tra due diversi stili di vita e di organizzazione sociale. Da una parte la rigida, compatta e monolitica struttura dell’esercito regolare, dall’altra l’agile, mobilissima e inafferrabile struttura delle piccole formazioni tattiche. Anche queste ultime sono un esercito, ma “un esercito fantasma fatto di aria e di ombre”, scrive Erodoto.
“Fatevi vedere!” grida Dario nel vuoto. Gli risponde il silenzio della sterminata terra straniera. Contro gli Sciti l’esercito poderoso di Dario è inutilizzabile, è vano e impotente: l’unica cosa che potrebbe dargli un senso è un avversario, ma questo non si fa vedere. Capendo che Dario è in difficoltà, gli Sciti – come ben sappiamo – gli inviano un araldo recante in dono un uccello, un topo, una rana e cinque frecce. Dario crede che questo messaggio corrisponda a un atto di sottomissione ma il consigliere Gobria ne fa l’esatta traduzione: «Se, divenuti uccelli, non volerete nel cielo, o Persiani, o, divenuti topi, non penetrerete sotto terra, o, divenuti rane, non balzerete nelle paludi, non ritornerete indietro, colpiti da queste frecce».
Perché abbiamo ripreso – dopo averlo già raccontato in autunno – questo episodio? Perché nello scorso autunno avevamo tralasciato il finale, rinviandolo a questa sera. Gli Sciti, con un colpo di scena, dopo aver inviato il messaggio a Dario, si palesano, si mostrano, si materializzano, non si nascondono più. “Gli Sciti – scrive Erodoto – si schierarono contro la fanteria e la cavalleria persiane, come per attaccar battaglia”.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Si consiglia di leggere i capitoli 131 132 133 134 del IV libro de Le Storie e di mettere in funzione l’immaginazione…
Perché dobbiamo far funzionare l’immaginazione? Perché, a vedersi, l’apparizione dei guerrieri sciti davanti all’esercito persiano, doveva essere uno spettacolo davvero grandioso, ma dobbiamo usare l’immaginazione.
Noi sappiamo già che gli scavi archeologici hanno portato alla luce reperti straordinari. All’interno dei tumuli, dove gli Sciti seppellivano i loro re e i loro cavalieri, sono state trovate vesti raffinate, abiti intarsiati d’oro e di bronzo, spade, scuri, archi e faretre finemente cesellate e riccamente adorne, suppellettili e gioielli preziosi, bardature per i cavalli decorate e fissate con metallo sbalzato. Se immaginiamo tutto questo, riusciamo anche a vedere, nella nostra mente, i due eserciti schierati l’uno davanti all’altro in tutta la loro potenza e in tutta la loro “bellezza”.
Da una parte c’è l’esercito persiano: il più grande esercito del mondo, spettacolare da vedersi soprattutto perché formato da soldati di diverse etnìe, abbigliati nelle fogge più strane. Dall’altra parte ci sono le squadre dei cavalieri sciti, i quali sono riccamente agghindati come rivelano gli scavi archeologici e, anche se quello degli Sciti è un piccolo esercito, appare lo stesso in tutta la sua imponenza.
E qui, a questo punto, con gli eserciti schierati uno di fronte all’altro, noi ci aspettiamo di assistere ad una grande battaglia: a una di quelle battaglie che entrano nella Storia, il cui nome diventa emblematico. Invece Erodoto ci racconta un avvenimento sconcertante: riporta un fatto buffo che fa cadere tutta la tensione guerresca per lasciare il posto alla comicità, al ridicolo. Ancora una volta – insieme agli antichisti – noi ci domandiamo: è reale questo episodio? Oppure non è reale ma è comunque vero, certamente “verosimile” (direbbe Erodoto in quanto “sofista”) perché, questo episodio, contiene una allegoria morale, una provocazione etica rivolta ai potenti nello stile del libro del profeta Isaia: guai ai superbi, guai ai presuntuosi, guai a coloro i quali vogliono diventare padroni del mondo. Leggiamo che cosa scrive Erodoto.
LEGERE MULTUM….
Erodoto, Le Storie IV 134
Mentre gli Sciti erano schierati, una lepre passò balzando nel mezzo e ognuno di loro, come vedeva la lepre, si metteva ad inseguirla. Gli Sciti scompigliati gridavano e Dario chiese ragione del tumulto dei nemici; saputo che essi inseguivano la lepre disse allora a quelli cui soleva rivolgersi anche in altri casi: «Questi uomini ci disprezzano profondamente e ora mi pare che giustamente Gobria abbia parlato riguardo ai doni degli Sciti. Poiché ormai anche a me sembra che le cose stiano così, è necessario un buon consiglio perché la via del ritorno sia per noi sicura».
I destini del mondo vengono decisi da una lepre? Sorride e allude Erodoto. Questa constatazione è veramente buffa: mette in ridicolo tutto il fascino sublime della battaglia, dello scontro eroico, valoroso, grandioso, glorioso.
Gli storici sono concordi nel dire che furono gli Sciti a fermare l’avanzata di Dario verso l’Europa: se così non fosse stato, il destino del mondo avrebbe potuto essere diverso. I destini del mondo vengono decisi da una lepre? Da Erodoto noi apprendiamo che la ritirata di Dario viene sostanzialmente decisa dal fatto che gli Sciti, rincorrendo allegramente una lepre sotto gli occhi dell’esercito persiano, dimostrano di ignorarlo e di disprezzarlo: per loro ha più valore una lepre, attira di più l’attenzione una lepre, che l’esercito più potente della terra. Un disprezzo e un’umiliazione che, per il re dei Persiani, lanciato alla conquista del mondo, è un colpo molto più duro della sconfitta in una battaglia decisiva.
Scende la notte – ci racconta Erodoto – e come sempre a quell’ora, Dario ordina di accendere i fuochi, intorno ai quali i soldati montano la guardia. Dario fa anche legare gli asini in modo che i loro ragli diano l’impressione che nell’accampamento persiano la vita scorra come al solito. Poi però, con il favore delle tenebre, inizia la ritirata alla testa del suo esercito.
E, in questo momento, in cui il “ridicolo” prevale sul “sublime” non può – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – non venirci in mente il titolo di un romanzo che racconta una delle più drammatiche “ritirate” della Storia. Questo romanzo s’intitola Guerra e pace (non so se lo avete mai sentito nominare, e letto: lo avete letto?).
La lepre rincorsa dagli Sciti, per snobbare l’esercito di Dario, è certamente un’antenata delle lepri rincorse dai personaggi (per lo meno di quelli che vanno a caccia) nel romanzo Guerra e pace di Leone Tostòj di cui ora non possiamo fare a meno di leggere una pagina tratta dal tomo quarto, parte terza, cap. XVIII, una pagina che sembra essere un commento (e forse lo è) al frammento del libro IV de Le Storie di Erodoto in cui il “ridicolo” prevale sul “sublime”.
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Leone Tolstòj, Guerra e pace Tomo quarto, parte terza, cap. XVIII
Si potrebbe pensare che descrivendo quella campagna di fuga dei francesi, durante la quale essi fecero tutto il possibile per rovinarsi, e durante la quale non un solo movimento di quella massa d’uomini, a partire dalla svolta sulla strada di Kalùga e fino alla fuga del capo dal suo esercito, aveva più alcun senso – si potrebbe pensare che nel descrivere questa fase della campagna, gli storici che fanno risalire i movimenti delle masse al volere d’un uomo solo, non abbiano avuto più nessuna possibilità di applicare questo loro punto di vista. Invece no. Gli storici hanno scritto montagne di libri su questa campagna, e descrivono tutti quanti le disposizioni di Napoleone e i suoi piani profondamente meditati, con i quali dirigeva le truppe, e le geniali disposizioni dei suoi marescialli.
La ritirata, a partire da Malojaroslàvets, quando gli si era lasciata aperta la via verso un territorio ricco, e quando avrebbe potuto prendere benissimo anche la strada parallela, che prese in seguito Kutùzov per inseguirlo: quell’inutile ritirata su una strada devastata, ci viene spiegata dagli storici con varie e profonde considerazioni. Con considerazioni non meno profonde ci viene descritta la sua ritirata da Smolènsk verso Órša. Dopodiché, ci descrivono il suo eroismo nei dintorni di Kràsnoe, dove egli sarebbe stato già pronto ad accettare la battaglia, e a comandare lui stesso le truppe, e dove, camminando appoggiato a un bastone di betulla, avrebbe detto: «J’ai fait l’Empereur, il est temps de faire le général (L’imperatore l’ho fatto abbastanza, adesso è ora di fare il generale)» e, ciò non di meno, subito dopo ricomincia a scappare, lasciando in balìa della sorte i reparti dispersi dell’armata che erano rimasti indietro. Dopodiché ci descrivono la grandezza d’animo dei marescialli in particolare di Ney, la quale grandezza d’animo consisté nell’essersi inoltrato nottetempo in un bosco e nell’aver passato il Dnepr aggirando i russi, e nell’aver raggiunto Órša abbandonando per strada le bandiere, l’artiglieria, e nove decimi delle sue truppe.
E infine, l’ultima partenza del grande imperatore dal suo eroico esercito ci viene presentata dagli storici come un qualcosa di grande e di geniale. Persino quest’ultimo atto della fuga, che nel linguaggio degli uomini si definirebbe il grado estremo della vigliaccheria, di cui si insegna a ogni bambino a vergognarsi, nel linguaggio degli storici anche quest’atto trova una sua giustificazione.
E quando non sarebbe più possibile tendere oltre i pur tanto elastici fili delle considerazioni storiche, quando un’azione è evidentemente contraria a ciò che tutta quanta l’umanità definisce buono e persino giusto, compare negli storici, in estremo soccorso, il concetto della grandezza. La grandezza sembra infatti escludere la possibilità d’una misura del bene e del male. Per chi è grande non esiste il male. Non c’è orrore, che possa essere ascritto a colpa a colui che è grande.
“C’est grand!” dicono gli storici, e allora non c’è più né bene né male, ma c’è il “grand” e il “non grand”. Il grand è bene il non grand è male. Grand, secondo loro, è la caratteristica di certi esseri speciali, che essi chiamano eroi. E Napoleone che se ne tornava a casa con indosso la sua calda pelliccia, abbandonando non soltanto i suoi compagni ma anche tutti gli uomini che (a suo parere) egli stesso aveva condotto laggiù, sente que c’est grand, e l’anima sua è tranquilla.
«Du sublime (egli vede in sé qualcosa di sublime) au ridicule il n’y a qu’un pas (Dal sublime al ridicolo non c’è che un passo)» così dice. E il mondo intero per cinquant’anni va avanti a ripetere: «Sublime! Grand! Napoléon le grand! Du sublime au ridicule il n’y a qu’un pas».
E a nessuno viene in mente che ritenere grande un uomo che non tiene conto della misura del bene e del male, significa soltanto riconoscere la propria nullità e la propria incommensurabile bassezza.
Per noi, con la misura del bene e del male che ci è stata data da Cristo, non esiste nulla di incommensurabile. E non c’è alcuna grandezza là dove non vi sono la semplicità, il bene e la verità.
Tolstòj è molto esplicito e la Scuola non può far altro che consigliare la lettura o la rilettura di questo suo romanzo così ricco di spunti di riflessione, sempre attuali.
Dario non riesce a sconfiggere gli Sciti i quali lo fermano alle soglie dell’Europa e lo costringono a ritirarsi. Dario, durante la ritirata, viene preso dal terrore di essere inseguito e sconfitto: la sua, dunque, più che una ritirata è una fuga, animata dal desiderio di abbandonare velocemente quella terra ostile, la Scizia, per rientrare quanto prima in Persia. Appena Dario e il suo immenso esercito cominciano a ritirarsi, gli Sciti cominciano a inseguirli. Per Dario non c’è che una via di fuga: quel ponte sul Danubio costruito all’inizio dell’invasione e che lui – vi ricordate? – avrebbe voluto distruggere.
A guardia di questo ponte sta la guarnigione degli Ioni. Gli Ioni sono i cittadini delle polis greche dell’Asia Minore (i conterranei di Erodoto) che si trovavano allora sotto la dominazione persiana e sono obbligati a fornire un contingente all’esercito di Dario. Gli Sciti, che si sono messi all’inseguimento di Dario e del suo esercito – molto potente ma anche assai lento – conoscono le scorciatoie e viaggiano su cavalli veloci, e quindi raggiungono il ponte prima dei Persiani con l’intenzione di tagliare loro la strada del ritorno. Arrivati al ponte si rendono conto che lo stanno presidiando gli Ioni (uno dei popoli oppressi dal potere persiano) e quindi trattano con loro: Gli Sciti invitano gli Ioni a distruggere il ponte in modo che loro possano sconfiggere Dario e anche gli Ioni possano tornare liberi. Di fronte a questa proposta, a prima vista vantaggiosa, gli Ioni tengono consiglio. Bisogna chiarire che il consiglio degli Ioni è formato dai cosiddetti tiranni che, in pratica, sono dei collaborazionisti, e sono stati imposti da Dario alla popolazione.
Qui Erodoto – siamo sempre nel IV libro de Le Storie, di cui si consiglia la lettura – fa entrare in scena altri personaggi significativi che diventano i protagonisti del racconto che assume, come spesso succede, un taglio romanzesco ma molto dilatato all’interno del testo. Nel consiglio degli Ioni il primo a prendere la parola è Milziade il quale dice: “D’accordo, facciamo subito tagliare il ponte!”. La proposta di Milziade riscuote il consenso generale dei consiglieri. Il secondo a parlare è Istieo di Lisagora, tiranno di Mileto, il quale è di parere opposto.
Ma leggiamo le parole con cui Erodoto porta al centro della scena Istieo di Mileto e lo fa diventare il protagonista di un racconto che si prolunga, a frammenti, nei libri V VI e VII. Scrive Erodoto.
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Erodoto, Le Storie IV 137
… di parere opposto era Istieo di Mileto il quale disse che ora grazie a Darlo ciascuno era signore della propria città ma che, abbattuta la potenza di Dario, né egli stesso sarebbe stato in grado di imporre la propria autorità su Mileto né alcun altro sui propri sudditi: ciascuna delle città avrebbe infatti deciso di essere retta da un governo democratico piuttosto che da un tiranno. Quando Istieo ebbe esposto questo parere, subito tutti lo condivisero, mentre prima preferivano quello di Milziade. …
I tiranni non hanno torto a cambiare opinione: infatti si sono resi conto che se Dario perde il trono (e presumibilmente anche la testa), il giorno dopo toccherà a loro perdere il posto (e anche la testa). Per cui danno a intendere agli Sciti di voler distruggere il ponte, ma in realtà si comportano da traditori, fanno il doppio gioco e conservano il ponte, consentendo a Dario di rientrare precipitosamente ma tranquillamente in Persia. Dario apprezza il ruolo storico svolto da Istieo in un momento tanto cruciale, e come ricompensa lo promuove e anziché mantenerlo nella carica di tiranno di Mileto, lo nomina suo consigliere e lo porta con sé a Susa, la capitale persiana.
Istieo – ci racconta Erodoto – è cinico e ambizioso e Dario capisce subito che quelli come lui è meglio tenerli d’occhio, tanto più ora che si è conquistato la fama di salvatore dell’impero. Un impero che, senza il suo intervento sul Danubio, probabilmente non esisterebbe più. Istieo è cinico e ambizioso e questa promozione non lo soddisfa affatto e quindi, dalla Persia, continua a tenersi informato su come vanno le cose a Mileto. Mileto è la principale città della Ionia, e a Mileto viene nominato come tiranno il suo fedele genero Aristagora, anche lui ambizioso e avido di potere.
Mentre accadono questi avvenimenti, tra gli Ioni sottomessi, comincia a serpeggiare lo scontento, e cresce l’opposizione alla dominazione persiana. Suocero e genero, Istieo e Aristagora, sentono istintivamente che è il momento di approfittare del vento favorevole (anemos). Ma per questi due personaggi – ci racconta Erodoto – non è facile mettersi d’accordo, non è facile stabilire un piano d’azione: perché? Perché per andare da Susa (dove risiede Istieo) a Mileto (dove sta Aristagora) un messaggero impiega tre mesi movendosi a tappe forzate, oltretutto passando per i deserti e le montagne perché le strade principali erano accuratamente sorvegliate. Quale stratagemma escogita Istieo per mandare da Susa a Mileto un messaggio segreto ad Aristagora per invitarlo alla rivolta contro Dario? Erodoto ce lo racconta questo stratagemma, e noi possiamo leggerlo.
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Erodoto, Le Storie IV 35
(Ad Aristagora) accadde che contemporaneamente gli giungesse anche da Susa da parte di Istieo il messaggero dalla testa segnata, che annunciava ad Aristagora di ribellarsi al re. Infatti Istieo, volendo dare ad Aristagora l’ordine di ribellarsi, non aveva alcun altro modo per annunciarglielo con sicurezza, essendo le strade sorvegliate; allora, fatta rasare la testa al più fido degli schiavi, vi impresse dei segni e aspettò che ricrescessero i capelli. Non appena ricrebbero, lo spedì a Mileto, non comandandogli null’altro se non che, quando giungesse a Mileto, dicesse ad Aristagora di fargli radere i capelli e di guardare la sua testa: i segni impressi ordinavano, come già prima ho detto, la rivolta. Istieo fece questo perché s’affliggeva assai d’essere trattenuto a Susa.
Aristagora comunica l’ordine di Istieo ai suoi compagni, che si dichiarano favorevoli a dare vita alla rivolta. Vista la superiorità dei Persiani sugli Ioni, Aristagora usa il sistema della diplomazia e va in cerca di alleati al di là del mare. Prima, per nave, raggiunge Sparta. A Sparta regna Cleomene che, pur essendo, come riferisce Erodoto, malato di mente e quasi irresponsabile, in questo caso dimostra una certa dose di perspicacia e di buon senso. Sentendo parlare di una guerra contro un sovrano che regna su tutta l’Asia e risiede a Susa, chiede giustamente quanto sia lontana questa Susa.
Ma ascoltiamo il racconto dalla viva voce di Erodoto.
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Erodoto, Le Storie V 50 51
Aristagora, che per il resto era scaltro e poteva ben ingannare l’altro (Cleomene), in questo commise un errore: che non avrebbe dovuto dire la verità se voleva trascinare in Asia gli Spartani; invece gli rispose che il viaggio era di tre mesi. Allora l’altro, troncandogli il resto del discorso che Aristagora si preparava a fare intorno al viaggio, gli disse: «Ospite di Mileto, allontanati da Sparta prima del tramonto del sole: tu non fai alcuna proposta favorevole agli Spartani, se vuoi condurli a tre mesi di strada dal mare». Cleomene, detto ciò, se ne andò a casa.
Allora Aristagora – incassata la risposta sfavorevole degli Spartani – si reca ad Atene, la più potente delle città greche. Qui cambia tattica e, anziché parlare con un solo capo, si rivolge alla folla invitando gli Ateniesi ad aiutare gli Ioni. Aristagora applica una strategia che anche Erodoto riconosce come efficace, vale a dire la regola che è più facile imbrogliare molti che ingannare uno solo, e gli Ateniesi si lasciano convincere e decidono – scrive Erodoto – di mandare venti navi in aiuto agli Ioni. Queste navi – aggiunge Erodoto – furono “principio di sciagure per i Greci e per i Barbari.” Infatti questa mossa segna l’inizio della grande guerra greco-persiana. Dario manda a chiamare Istieo sul quale nutre dei sospetti, visto che è suo genero Aristagora a guidare la rivolta ionica. Istieo non solo nega di essere complice del genero ma comincia a incolpare il re di averlo portato a Susa: se lui fosse rimasto nella Ionia – afferma – nessuno si sarebbe ribellato a Dario e quindi chiede di poter partire al più presto in modo che lui possa rimettere le cose a posto facendo anche arrestare il genero che ha osato ammutinarsi. Dario, convinto, lo lascia andare, ordinandogli che, una volta compiuto quello che gli ha promesso, faccia ritorno a Susa.
A Mileto però Aristagora, il genero di Istieo, essendosi reso conto che i Persiani sono troppo forti per riuscire a sconfiggerli, decide di abbandonare la lotta e addirittura di fuggire dalla Ionia, ed Erodoto, per questo motivo, ha per lui parole di disprezzo. Dario lascia partire Istieo il quale, strada facendo, viene a sapere che il genero ha abbandonato la lotta ed è fuggito dalla Ionia verso la Tracia, allora decide di recarsi a Sardi governata dal tiranno Artaferne, nipote di Dario. Artaferne, dopo averlo accolto, gli chiede per quale motivo – secondo lui – gli Ioni si sono ribellati ai Persiani. Istieo risponde evasivamente che non ne ha idea, ma Artaferne la sa lunga riguardo a questi avvenimenti e dice ad Istieo: “Questo calzare tu l’hai cucito, ma Aristagora se l’è calzato”. Istieo si rende conto che il tiranno di Sardi, nipote di Dario, sa tutto e che è inutile chiedere aiuto a Dario: ci vogliono tre mesi per mandare un messo a Susa, più altri tre perché quello ritorni con il salvacondotto del re: un totale di sei mesi, durante i quali Artaferne può fargli tagliare la testa quando gli pare. Quindi, al calar della notte, Istieo fugge da Sardi verso il mare.
Per raggiungere il mare ci vogliono circa dieci giorni: è probabile che Istieo corra con il cuore in gola, voltandosi continuamente per vedere se arrivano le guardie di Artaferne. Istieo fugge precipitosamente da Sardi, come Dario fugge precipitosamente dalla Scizia, come, altrettanto precipitosamente, Aristagora fugge dalla Ionia. Secondo Erodoto anche la “fuga”, in greco fyge, è uno dei motori della Storia, come la “vendetta”, e voi: siete fuggiti qualche volta?
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Qual è la fuga più singolare che avete messo in atto nella vostra vita?
Scrivete quattro righe in proposito…
Istieo fuggitivo: dove dorme? Che cosa mangia? A chi si affida? A queste domande Erodoto non risponde, c’informa soltanto del fatto che Istieo è intenzionato a prendere il comando degli Ioni nella guerra contro Dario. Per ben due volte Istieo tradisce: la prima volta ha tradito la causa ionica per aiutare Dario, ora tradisce Dario per guidare gli Ioni contro di lui. E anche il “tradimento”, in greco prodosìa, costituisce – secondo Erodoto –uno dei motori della Storia.
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Il termine “tradimento” è legato alle parole: infedeltà, adulterio, perfidia, diserzione, inganno… Quale di queste parole mettereste per prima accanto alla parola “tradimento”?
Scrivetela…
La storia della fuga di Istieo è complicata dai suoi molti spostamenti. Istieo, in fuga, si sposta dall’isola di Chio a Mileto, da Mileto all’isola di Chio, dall’isola di Chio all’isola di Lesbo, dall’isola di Lesbo a Bisanzio, da Bisanzio ancora all’isola di Chio, dall’isola di Chio all’isola di Taso, dall’isola di Taso all’isola di Lesbo, dall’isola di Lesbo alle coste della Misia, dalle coste della Misia a Sardi, da Sardi (che è stata la sua prima tappa) a Susa (la capitale dell’impero persiano da dove era partito). A Susa, però, arriva – per posta, indirizzata a Dario – soltanto una parte di lui: alla fine, con tutti questi giri, Istieo finisce per perdere la testa e tutti questi spostamenti possono far perdere (metaforicamente) la testa anche al lettore, e quindi:
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Sull’atlante potete seguire la rete degli spostamenti di Istieo in modo che la lettura del testo de Le Storie di Erodoto sia più agevole…
E ora seguiamo Istieo, in fuga, nel suo convulso itinerario, le sue “mosse” possiamo seguirle e il “romanzo di Istieo” lo possiamo leggere dilatato nei libri IV VI e VII de Le Storie di Erodoto. Istieo, con il permesso di Dario, parte da Susa e, strada facendo, viene a sapere che suo genero Aristagora ha abbandonato la lotta contro i Persiani ed è fuggito dalla Ionia verso la Tracia, allora decide di recarsi a Sardi governata dal tiranno Artaferne, nipote di Dario. Istieo si rende conto che il tiranno di Sardi sa tutto: sa che Istieo è (o perlomeno era) d’accordo con Aristagora nel ribellarsi a Dario. Quindi, al calar della notte, Istieo – per non perdere la testa – fugge da Sardi verso il mare. Da Sardi arriva sull’isola di Chio che è abitata dagli Ioni e quindi lì, Istieo, pensa di poter trovare ospitalità, solidarietà e aiuti.
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Con una guida della Grecia potete fare una visita a Chio che è un’isola di straordinaria bellezza… Sull’isola di Chio, fin dall’antichità, si può trovare il “mastic”, un prodotto molto rinomato… La zona del “mastic” è la regione di Mastikohória la cui cittadina più importante è il villaggio di Pirgí (posto a sud)…
Sapete che cos’è il “mastic”? Mettevi alla ricerca, buon viaggio…
Ma appena sbarcato, Istieo (con il quale non è prudente viaggiare) non può neppure procurarsi un po’ di “mastic”, ha solo il tempo di ammirare la bellezza del golfo dove è posto l’approdo più importante (Híos), perché viene subito arrestato e messo in prigione dagli Ioni, che lo sospettano di tramare ai loro danni per conto di Dario. Istieo nega, giurando di essere lì per guidare la rivolta contro i Persiani. Alla fine riesce a convincerli e viene liberato, ma non ottiene alcun appoggio.
Istieo si sente isolato (Aristagora è scappato, gli Ioni delle isole non lo vogliono aiutare), i suoi piani di guerra contro Dario sembrano sempre più utopici, ma la sua ambizione non si placa. Sorretto da un forte desiderio di potere e da una grande passione per il comando, Istieo chiede allora agli abitanti dell’isola di Chio di aiutarlo almeno a tornare a Mileto, di cui una volta è stato il tiranno.
Ma i cittadini di Mileto, che volentieri si erano liberati di Aristagora e avevano instaurato un regime democratico, non erano affatto propensi – dopo che avevano gustato la libertà – ad accogliere nella polis un altro tiranno che si distingue per le fughe e per tradimenti. Istieo, di notte, tenta di rientrare con la forza a Mileto ma – ci racconta Erodoto – viene ferito ad una coscia dalle guardie della polis e si salva per miracolo.
Istieo, scacciato dalla sua patria, deve tornare precipitosamente a Chio e di qui, non essendo riuscito a persuadere gli abitanti dell’isola a fornirgli delle navi, si dirige verso Mitilene, nell’isola di Lesbo, dove ottiene otto navi con le quali fa vela verso Bisanzio. Con questa piccola flotta Istieo si trasforma in una specie di pirata e sopravvive catturando e rapinando le navi che escono dal Ponto (dal Mar Nero).
Intanto l’esercito persiano attacca la polis ribelle di Mileto e la città – nonostante la strenua resistenza dei suoi abitanti – viene riconquistata dai Persiani. I Persiani – ci racconta Erodoto – dapprima sconfiggono gli Ioni in una battaglia navale, poi assediano Mileto per terra e per mare e infine, praticando scavi sotto le mura e impiegando ogni sorta di macchine da guerra, la conquistano.
Per gli Ateniesi la disfatta di Mileto è un colpo terribile. Erodoto scrive – nel libro VI de Le Storie al capitolo 21 – che lo scrittore Frinico compone una tragedia intitolata La presa di Mileto e, quando la tragedia viene rappresentata (nel 494 a.C), il teatro scoppia in pianto, un pianto irrefrenabile tanto che le autorità ateniesi impongono all’autore una salatissima multa di mille dracme, con la proibizione di rimetterla in scena. L’arte – secondo la mentalità della polis – deve servire a distrarre e sollevare gli animi, non a mettere il dito nella piaga.
Chi è Frinico di Atene? Frinico è uno dei primi tragediografi (contemporaneo di Tespi), vissuto tra il 511 e il 476 a.C, ed è stato un grande innovatore della tragedia: è stato il primo a portare in scena fatti della storia contemporanea e a introdurre la parti di donna nel testo.
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Per saperne di più su Frinico potete utilizzare l’enciclopedia, la biblioteca e la rete, e alla fine della ricerca potete leggere, con maggior consapevolezza, il capitolo 21 del libro VI de Le Storie di Erodoto…
Alla notizia della caduta di Mileto, Istieo ha una strana reazione: smette di fare il pirata e, con la sua piccola flotta, si dirige verso l’isola di Chio. Giunto a Chio fa una carneficina: uccide tutte le guardie del presidio dell’isola. Questa è una strage inutile, un gesto gratuito dettato dalla disperazione, dalla furia e dalla follia. Poi si dirige verso Taso, un’isola ricca di miniere d’oro vicina alla Tracia. Cinge d’assedio Taso, ma gli abitanti di Taso resistono, rifiutano di arrendersi e respingono l’attacco di Istieo. Quindi Istieo deve tornare a Lesbo, che è l’unico luogo disposto ad accoglierlo. Ma a Lesbo – ci racconta Erodoto – in questo momento c’è la carestia e si fa la fame, e Istieo, con un piccolo esercito, si sposta in Asia dove spera di sfamarsi con il grano della Misia. Ma il cerchio si stringe intorno a lui: ormai non sa più dove andare, è in trappola, ha toccato il fondo.
Istieo approda in un luogo dove per caso – ci racconta Erodoto – si trova il persiano Arpago, comandante di un esercito ben organizzato. Arpago cattura Istieo mentre sta sbarcando e annienta con facilità la maggior parte dei suoi seguaci. Istieo viene riportato a Sardi da dove era partito e lì, Artaferne e Arpago (dopo averlo condannato all’impalamento) gli fanno tagliare la testa. La testa di Istieo, che per Artaferne e Arpago è diventata un trofeo (ma non erano solo gli Sciti e i Tauri che tagliavano le teste?) viene fatta imbalsamare e viene spedita a Susa presso la reggia di Dario. Dario, all’arrivo del pacco (ci mette tre mesi ad arrivare) contenente la testa di Istieo, non è per niente soddisfatto e rimprovera duramente Artaferne e Arpago per non avergli riportato vivo Istieo: lui, prima di condannarlo al taglio della testa, avrebbe voluto ringraziarlo (Dario era un uomo davvero ben educato).
Dario, molto contrariato, ordina di lavare e comporre con cura la testa imbalsamata di Istieo e la fa seppellire con tutti gli onori. Non potendo fare altro, il re cerca almeno di rendere omaggio alla testa di Istieo. Il re dei Persiani non si è dimenticato che da quella testa, anni prima, presso il famoso ponte sul Danubio, era nata l’idea che avrebbe salvato la Persia e l’Asia, nonché assicurato a Dario il regno e la vita.
Perché abbiamo raccontato la complicata storia di Istieo di Mileto (di cui si consiglia la lettura nei libri IV VI e VII de Le Storie di Erodoto? Nel nostro Percorso, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, ci stiamo occupando soprattutto di “parole-chiave” e, nel romanzo di Istieo – lo abbiamo constatato – spiccano due parole che indicano due realtà che vengono considerate da Erodoto come due ulteriori motori (insieme alla “vendetta”) per lo sviluppo della Storia: la parola “fuga” e la parola “tradimento”. Erodoto – con un certo pessimismo (ma come dargli torto?) – pensa che la Storia sia soprattutto determinata dalle vendette, dalle fughe e dai tradimenti. Ebbene, che cosa abbiamo altro da dire a proposito della parola “fuga” e della parola “tradimento”?
Gli antichisti, gli specialisti, i filologi, intorno all’uso di queste due parole – “fuga” e “tradimento” (ma anche intorno ad altre parole) – hanno imbastito una significativa riflessione. E chi si dedica, come noi, alla didattica della lettura e della scrittura, deve tenere conto, dove essere consapevole di questa riflessione. In greco – ionico, attico, alessandrino – ci sono due termini diversi per indicare la parola “fuga”, e due termini diversi per indicare la parola “tradimento”. Questi due termini servono per diversificare l’idea della “fuga” e per distinguere l’idea del “tradimento”. Che cosa significa questo?
Abbiamo già imparato che, quando Erodoto, nel testo de Le Storie, adopera la parola “fuga”, usa il temine fyge, e quando adopera la parola “tradimento”, usa il termine prodosìa. Ma – se consultiamo il dizionario e seguiamo la riflessione dei filologi – noi veniamo a sapere che, in greco, ci sono altri due termini significativi che traducono la parola “fuga” e la parola “tradimento”. Infatti la parola “fuga” la troviamo anche espressa nel termine ápallagé, mentre la parola “tradimento” la troviamo anche espressa nel termine moicheìa.
Che valore ha questa alternanza di termini e perché ci soffermiamo a ragionare intorno a questa questione filologica? Ci soffermiamo a ragionare intorno a questa questione filologica perché – occupandoci di didattica della lettura e della scrittura – scopriamo che, nella cultura greca (ionica, attica, alessandrina) l’uso delle parole è strettamente collegato ai generi letterari e se facciamo attenzione ci rendiamo conto che, per esempio, nella tragedia e nella saggistica (che sono i generi letterari che vanno per la maggiore) per dire la stessa cosa si usano parole diverse. Il concetto di “fuga” e il concetto di “tradimento” (e questo succede anche per molte altre parole) si diversifica e si distingue a seconda dei generi letterari. Nel genere letterario della tragedia (che abbiamo studiato a suo tempo) – e che è incentrato principalmente sulla famiglia (le tragedie sono un affare di famiglia) – gli scrittori, per definire la “fuga”, utilizzano il termine ápallagé che contiene il senso della fuga come “allontanamento dalla famiglia”. Per definire il “tradimento” – gli scrittori di tragedie – utilizzano il termine moicheìa che contiene l’idea del tradimento nel “senso dell’adulterio”.
Erodoto, nel testo de Le Storie, per tradurre la parola “fuga”, usa il temine fyge, e per tradurre la parola “tradimento” usa il termine prodosìa perché questi due termini hanno un valore che supera l’ambito famigliare. Questi due termini si collocano su un piano sociale e politico: il temine fyge indica il concetto di fuga nel senso della ritirata, della disfatta, dello sbandamento, dell’evasione, della fuoriuscita, e il termine prodosìa indica il concetto di tradimento nel senso della diserzione, della defezione, della frode, della trama, dell’imbroglio.
Per la prima volta – ci dicono i filologi –, attraverso il testo de Le Storie di Erodoto, possiamo diversificare, possiamo fare una distinzione tra termini tragici e termini storici. Che senso ha occuparsi di questa riflessione? I cittadini che desiderano diventare dei “lettori consapevoli” (e non si tratta di “leggere molto” ma di “leggere bene - legere multum”) e che desiderano diventare “scrivani creativi” (praticando soprattutto l’autobiografia) devono sapere che le parole sono cose, le parole sono forme sostanziali. Dall’analisi delle parole, dallo studio sull’uso delle parole (le parole sono cose) si può capire – sottolineano i filologi – che Erodoto non è più un logografo (uno scrittore di storie mitiche), non è un tragediografo ma ha assunto e sta coltivando un nuovo ruolo: quello del prosatore storico. Ovunque Erodoto vada, cerca sempre di analizzare e di studiare le parole. Erodoto ha capito (e c’insegna) che le parole sono cose. Il mondo (cosmos) esiste se lo sappiamo mettere in ordine (cosmos), descrivendolo, con la parola (logos). Il cosmos (il mondo) e il logos (la parola) sono in stretta relazione tra loro.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Tutte le volte che utilizziamo la scrittura contribuiamo a creare il mondo: scriviamo dieci minuti al giorno…
Come attua, Erodoto, questo suo impegno filologico? Per rispondere a quest’ultima domanda e per concludere l’itinerario di questa sera dobbiamo tornare al punto da cui siamo partiti. Erodoto concretizza il suo impegno filologico annotando i nomi, la collocazione e le usanze delle tribù incontrate che rappresentano il suo mondo (cosmos).
Dove abitano, con chi confinano, come si comportano le tribù che Erodoto ha incontrato nei suoi viaggi? Ebbene, le risposte a queste domande (come abbiamo visto, questa sera, strada facendo) danno la possibilità ad Erodoto di mettere ordine (cosmos) nei significati delle parole. Erodoto, nei suoi viaggi, ha imparato che le parole sono le forme sostanziali con cui si può descrivere il mondo (cosmos) e, di conseguenza, lo si può far esistere. Il mondo (cosmos) esiste se lo sappiamo mettere in ordine (cosmos), descrivendolo, con la parola (logos).
A quei tempi, in Libia e nella Scizia, nessuno aveva una visione d’insieme del mondo, e il conoscerlo richiedeva un lento lavoro in linea orizzontale. Tutto ciò che l’essere umano conosceva erano i propri vicini, questi a loro volta conoscevano i propri e così, di tribù in tribù, si arrivava ai confini del mondo. Nessuno prima di Erodoto aveva messo insieme e sistemato (con ordine) questi frammenti di sparsa umanità.
Quando in Erodoto si leggono elenchi a non finire delle tribù e dei loro costumi, e come esse si aggreghino in base a ciò che le differenzia dalle altre, forse ci si annoia, ma è così che Erodoto ci ha insegnato a mettere il mondo (cosmos) in ordine (cosmos).
Per quale motivo, quindi, la prossima settimana, non dovremmo continuare a viaggiare con lui? Dobbiamo continuare ancora a viaggiare con lui per porci ancora altre domande. Quali altre domande abbiamo da porci (perbacco, sembra un gioco di parole di Achille Campanile!)? Siccome le parole sono cose, facciamo attenzione a usare bene la vocale “o” dell’espressione: “domande da porci”, che può essere aperta o chiusa.
Erodoto “allude”, annuisce e se la ride sotto i baffi ricordandoci che tanto con la vocale chiusa quanto con la vocale aperta: la Scuola è qui, quindi, accorrete perché…ci sono ancora domande da porci (Cfr. il n. 1 de L’ANTIbagno)…