Prof. Giuseppe Nibbi Lo sguardo di Erodoto 2006 22-23-24 marzo 2006
LO SGUARDO DI ERODOTO
SUL CONCETTO DI SOGNO…
La scorsa settimana, concludendo il nostro itinerario – e giocando con un’espressione di Achille Campanile – abbiamo detto che, sulla scia di Erodoto, abbiamo ancora delle “domande da porci”. E questa sera la prima domanda che ci poniamo si può sintetizzare così: come attua, Erodoto, il suo lavoro di storico?
Erodoto svolge il suo lavoro di storico con un grande impegno filologico, vale a dire che Erodoto s’impegna soprattutto a mettere in ordine (cosmos) i significati delle parole, capisce che le parole sono le forme sostanziali con cui si può descrivere il mondo (cosmos) e, di conseguenza, lo si può far esistere. Il mondo (cosmos) esiste se lo sappiamo mettere in ordine (cosmos), descrivendolo, con la parola (logos).
A quei tempi – durante l’Età assiale della storia – nessuno ha una visione d’insieme del mondo, e il conoscerlo richiede un lento lavoro in linea orizzontale perché tutto ciò che l’essere umano conosce sono i propri vicini, e questi, a loro volta, conoscono i propri e così, di tribù in tribù, si arriva ai confini del mondo. Nessuno prima di Erodoto aveva messo insieme e sistemato con ordine (cosmos) questi frammenti di sparsa umanità che, tessuti insieme, danno forma al mondo (cosmos).
Come lavora Erodoto? Come si mette in rapporto con la gente? Quali domande pone? Come ascolta quello che le persone gli raccontano? Il rapporto tra Erodoto e la gente è un aspetto molto importante della sua opera: la maggior parte di quello (dei contenuti) che Erodoto scrive proviene dalla gente. Il trattato di Storia – dicono gli esperti – è un genere letterario che ha una valenza collettiva. Nei saggi su Erodoto gli studiosi prendono in esame soprattutto i contenuti, la loro esattezza e la loro attendibilità, trascurando spesso il modo in cui lo scrittore mette insieme il materiale necessario a comporre il suo straordinario mosaico. Erodoto – noi non lo conosciamo personalmente (lo vediamo solo sorridere, annuire e alludere) ma deve avere un modo davvero originale di rapportarsi con gli altri – deve essere una persona che, dovunque va, diventa immediatamente un punto di aggregazione.
Erodoto – abbiamo detto più volte, soprattutto all’inizio del nostro Percorso – è figlio della cultura ionica. Della cultura ionica abbiamo già messo in evidenza una serie di aspetti importanti, ma dobbiamo ribadire che, quella ionica, è anche la cultura delle grandi tavole imbandite: il genere letterario della tragedia – ben lo sappiamo – nasce, cantando, raccontando, affabulando, attorno alle tavole imbandite (Prima, sulla tavola imbandita c’è il tragòs, il caprone, ma subito dopo ci sarà il sus, il maiale in porchetta: domande da porci intorno alle tavole imbandite?). Nella Ionia (e anche in tutta l’Ellade e nel bacino del Mediterraneo), ci si siede abitualmente intorno alla tavola, in gruppo, soprattutto nelle calde sere estive a mangiare olive e formaggio, a bere vino fresco e a chiacchierare: ci si ciba anche di parole. I commensali si ritrovano a tavola non in casa ma in uno spazio aperto sul mare o sulle pendici di un colle: un luogo che favorisce l’esercizio dell’immaginazione. Durante questi incontri conviviali gli affabulatori, i narratori, hanno l’occasione di esibirsi in gare improvvisate dove primeggia chi riesce a raccontare la storia più interessante o più insolita. Sappiamo che in questa attività affabulatoria la realtà si mescola alla fantasia, i tempi e i luoghi si confondono, e nascono le leggende, e sorgono i miti.
Leggendo Erodoto si presume che lui i banchetti li frequenti con piacere e si pensa che sia un ascoltatore attento e scrupoloso. Erodoto, probabilmente, possiede una memoria formidabile. Noi contemporanei siamo stati un po’ corrotti dalle conquiste della tecnica e, per quanto riguarda la memoria, siamo come degli invalidi rispetto agli antichi: se rimaniamo senza libri, senza registratore, senza tv, o senza computer, siamo perduti. Erodoto viaggia in un mondo, vive in una società in cui la maggior parte degli individui sono dotati di una memoria formidabile, e d’altra parte: tutti i riti, tutte le cerimonie – che via via vengono codificate – sono incentrate sulla memoria. I libri sono una rarità, le iscrizioni sulle pietre e sui muri sono anch’esse assai rare: la cultura si propaga attraverso gli esseri umani, attraverso i racconti che gli esseri umani si fanno l’uno con l’altro.
Per esistere – durante l’Età assiale della storia – le persone hanno bisogno della presenza diretta delle altre persone, hanno bisogno di vederle direttamente con i propri occhi senza mediazioni e di sentirle direttamente con le proprie orecchie. La caratteristica fondamentale della comunicazione – all’epoca di Erodoto – sta nell’incontro: per comunicare bisogna incontrarsi.
Il merito principale (che oggi spesso rimpiangiamo) della civiltà della trasmissione orale è quello di aver determinato l’avvicinamento degli individui tra loro. L’essere umano – durante l’Età assiale della storia – apprende che l’Altro non è solo colui che lo aiuta a procurarsi il cibo e a difendersi dai nemici, ma anche l’essere unico e insostituibile capace di spiegare il mondo (cosmos) attraverso il racconto (epos).
Il linguaggio della trasmissione diretta in forma orale diventa codice filosofico – diventa Storia del Pensiero Umano – con uno dei primi pensatori: Socrate (469 circa-399 a.C), che noi conosciamo attraverso i Dialoghi di Platone. Socrate – contemporaneo di Erodoto, anche se il filosofo di Atene è più giovane di circa vent’anni rispetto allo storico ionico – utilizza il racconto, usa il metodo dell’affabulazione, come strumento filosofico per eccellenza. Il sistema esercitato da Socrate per insegnare viene chiamato il metodo del “contatto socratico” e si fonda non nel dare dei precetti, non nel dare delle risposte, non nell’imporre un regolamento di vita, ma consiste nel raccontare parabole, apologhi, storie, allegorie, metafore in modo che l’ascoltatore – venendo a contatto con la parola – possa riflettere (“Conosci te stesso”) e possa partorire (la tecnica della maieutica) pensieri propri.
Il linguaggio impiegato nel “contatto socratico” è infinitamente più ricco del nostro: a contare non sono solo le parole dirette, ma, insieme alle parole conta ciò che si comunica tra le righe con l’espressione del viso, con i gesti delle mani e con i movimenti del corpo. Erodoto intuisce già il valore del “metodo socratico” e cerca di entrare in contatto diretto con i suoi personaggi, cerca di non limitarsi ad ascoltare quello che dicono, ma si preoccupa di osservare come lo dicono e come si comportano.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Avete mai letto – o da quanto tempo non rileggete – il Dialogo di Platone intitolato Apologia di Socrate? Lo trovate facilmente in biblioteca e potete sperimentare il “contatto socratico”: buona lettura…
Erodoto conosce due cose fondamentali: sa che la principale e quasi unica fonte del sapere è la memoria dei suoi interlocutori, ma sa anche che la memoria è una materia fragile, mutevole e fugace (il tema della “memoria” sarà rilevante nella filosofia di Platone). La gente dimentica, la gente parte e spesso non torna più indietro a raccontare, e inoltre, quando scatta il meccanismo del ricordo, non sempre c’è qualcuno ad ascoltare a cui si possa trasmettere la memoria.
Erodoto sa di muoversi su un terreno instabile e incerto, e quindi nelle sue relazioni – se si legge il testo de Le Storie lo si constata facilmente – è sempre molto cauto, è sempre dubbioso e indeciso. Possiamo raccogliere lunghi cataloghi sulle incertezze, sui dubbi e sulle perplessità di Erodoto e molti lo hanno fatto.
Per esempio, lo scrittore Ryszard Kapuściński nel suo romanzo In viaggio con Erodoto – che in realtà è un saggio sul mestiere del giornalista (Erodoto è un pretesto) – costruisce un lungo catalogo sulle incertezze, sui dubbi e sulle perplessità di Erodoto. Questa piccola antologia serve a Kapuściński per sostenere un ragionamento sui ferri del mestiere del giornalista (del reporter) e sull’arte di costruire un reportage ma, contemporaneamente, questo elenco di citazioni, si presenta (ancora una volta) come una riflessione sulle caratteristiche della memoria: la memoria è fragile, è mutevole, è fugace, per questo è così preziosa, per questo va protetta ed esercitata. L’invito di Kapuściński – utilizzando Le Storie di Erodoto come pretesto – è quello di coltivare la memoria, di non lasciarla sfuggire nonostante la labilità del ricordo. La memoria, anche quando è nitida, è sempre circondata, delimitata dalle incertezze, dai dubbi e dalle perplessità. E, per quanto la vostra memoria possa essere contornata dalle incertezze, dai dubbi e dalle perplessità: “cominciate questa sera stessa – suggerisce Kapuściński, sulla scia di Erodoto – a scrivere (cominciate con dieci minuti) la vostra autobiografia”. E ora leggiamo.
LEGERE MULTUM….
Ryszard Kapuściński, In viaggio con Erodoto (2004)
Sapendo di muoversi su un terreno così instabile e incerto (Erodoto), nelle sue relazioni è sempre molto cauto, mette le mani avanti, sottolinea le sue riserve:
“Questo Gige, dunque, primo dei barbari di cui abbiamo conoscenza, dedicò a Delfi doni votivi…” (I 14).
“Desiderò, a quanto dicono, raggiungere Itaca…”
“A quanto ne so, i Persiani hanno i seguenti costumi…”
“Suppongo, dunque, deducendo quello che non so da quello che so…”
“E come ho saputo da quanto si dice…”
“Questa è la mia relazione su ciò che si narra dei più lontani paesi…”
“Ignoro se ciò sia vero, limitandomi a riferire quanto si dice…”
... continua la lettura ...
In questa piccola antologia cogliamo un monito che ha le sue radici nel testo di Erodoto: se la memoria è fragile, è mutevole, è fugace, significa che va protetta, va salvaguardata, e va esercitata. La memoria è preziosa, e lo sforzo fatto per preservarla e per tenerla in esercizio è – allude Erodoto – la prima sfida lanciata contro l’ignoranza.
Per un’intera stagione (ormai siamo già in primavera) abbiamo seguito Erodoto nei suoi viaggi (fastidiosi ma fruttuosi) fino ai limiti estremi del suo mondo: nelle terre degli Egiziani, dei Massageti, degli Sciti, dei Tauri, degli Etiopi. Nella prima parte della sua opera difatti Erodoto costruisce un vasto paesaggio intellettuale nel quale colloca decine e addirittura centinaia di nazioni e tribù dell’Asia, dell’Europa, dell’Africa, cioè dell’intero genere umano a lui noto. Quando poi si sposta sul Mediterraneo orientale dove la Persia incontra la Grecia, dove l’Asia incontra l’Europa, in quello che viene considerato il centro del mondo, ecco che Erodoto abbandona (anche se a volte è un po’ infastidito) la spensieratezza del viaggiatore per mettere in scena un dramma.
Nel mondo di Erodoto, infatti, stanno per accadere fatti gravi e minacciosi e nell’aria si avverte l’approssimarsi di una tempesta storica e i lettori rimangono con il fiato sospeso. Che cosa sta succedendo di tanto grave, di così drammatico, o per meglio dire: che cosa è già successo di tanto grave e di così drammatico da rimanere impresso nella memoria e nei racconti della gente? Di quali tragici avvenimenti – secondo Erodoto – è necessario raccogliere e conservare la memoria scritta, visto che la memoria orale (personale e collettiva) è fragile, è mutevole, è fugace? Erodoto – per “fare memoria” – concentra il suo sforzo nel punto (o nei punti) in cui la Persia (l’Asia, l’Oriente) e la Grecia (l’Europa, l’Occidente) s’incontrano e si scontrano.
Le notizie che Erodoto ci fornisce della Persia, dell’Impero persiano, hanno poi trovato riscontro nelle ricerche e negli studi storici successivi e molti di questi dati sono rimasti – anche se non abbiamo mai letto Le Storie di Erodoto – nella nostra memoria personale, per esempio: chi non ricorda (anche per averli studiati a Scuola) i nomi dei famosi re dei Persiani: Ciro, Cambise, Dario e Serse?
Noi sappiamo che, sotto il comando di Ciro, detto il Grande (questo appellativo – il Grande, il Messia – glielo attribuisce soprattutto la letteratura dell’Antico Testamento, in particolare il Libro di Esdra), i Persiani prima sottomettono i Medi e poi sconfiggono (e fanno prigioniero) Creso re della Lidia (nel 546 a.C) che è il padrone di quasi tutta l’Asia Minore, e così l’Impero persiano si estende fino alle rive del Mar Egeo (questi avvenimenti – il rapporto tra Ciro e Creso – li abbiamo letti, strada facendo, ne Le Storie di Erodoto). Sempre sotto la guida di Ciro, i Persiani conquistano il territorio fino al Mar Caspio e al fiume Indo e in seguito, nel 538 a.C (una data che abbiamo spesso sottolineato negli itinerari all’interno della cultura dell’Antico Testamento), espugnano la città di Babilonia (che diventa la città più bella e più importante dell’Impero persiano) e liberano gli Ebrei che erano stati deportati a Babilonia, cinquant’anni prima, dal re babilonese Nabuccodonosor.
La classe dirigente del popolo d’Israele (quella era la parte della popolazione che era stata deportata a Babilonia, la classe produttiva) in virtù del famoso Editto di Ciro (538 a.C) può tornare libera (e incentivata) nella terra di Canaan (come racconta il Libro di Esdra), per questo motivo Ciro si guadagna la simpatia degli scrivani dei “libri storici” della letteratura dell’Antico Testamento (e probabilmente, prossimamente, incontreremo ancora Ciro in questo contesto vetero-testamentario).
Le Storie di Erodoto dedicano a Ciro ben novantuno citazioni con un intento ben preciso: Erodoto utilizza la figura di Ciro il Grande soprattutto per insegnare che la memoria deve essere un indice che segnala la via della morale. Il destino – ci ha ricordato Erodoto nell’itinerario di un mese fa – castiga l’avidità insaziabile dell’uomo e di conseguenza la forza distruttrice del destino (l’ondata catastrofica del “me”) si abbatte proprio quando l’individuo non modera la sua sete di potere.
Ciro è deciso a sottomettere i Massageti e si dirige verso nord, verso il cuore dell’Asia, ma riceverà un cruenta lezione (ricordate quanto sangue?) da parte della regina Tomiri. Erodoto utilizza il personaggio (sanguinario?) di Ciro (che probabilmente è morto combattendo contro gli Sciti e non contro i Massageti ) per posare il suo sguardo sulla “legge della moderazione ”.
A Ciro succede, nel 529 a.C, il figlio Cambise al quale Erodoto dedica trentacinque citazioni.
Cambise è celebre per aver conquistato l’Egitto sconfiggendo, nel 525 a.C, l’ultimo faraone Psammetico III e guadagnando all’Impero persiano un importantissimo sbocco nel Mar Mediterraneo. La conquista dell’Egitto spinge i Persiani a desiderare il predominio su questo mare che rappresenta il centro del mondo.
A Cambise, nel 521 a.C, dopo una violenta guerra di successione, succede Dario, figlio di Istaspe e, chi legge Le Storie di Erodoto, lo trova citato ben 155 volte. Dario – Erodoto ci ha già informato – attraversa il Bosforo con un enorme esercito e riesce a far riconoscere la sua sovranità ai popoli della Tracia e della Macedonia (510 a.C.) e poi (come sappiamo) comincia a guardare più lontano.
Sappiamo anche che i Greci dell’Asia Minore, insofferenti alla servitù loro imposta da Dario, ad un certo punto, si ribellano e molte polis della Ionia, capeggiate da Mileto, scacciano e uccidono i tiranni imposti dai Persiani, creano governi popolari i quali chiedono aiuto alle città dell’Ellade, chiedono un sostegno, soprattutto militare, alla loro madrepatria. La città della madrepatria che si nuove per prima – insieme alla piccola polis di Eretria (nell’Eubea) – è Atene, la città-stato più importante dell’Ellade, che naturalmente è assai preoccupata dell’arroganza e della potenza persiana. Atene ed Eretria inviano delle navi in soccorso delle polis ribelli della Ionia e questo gesto viene considerato (Erodoto ce lo ricorda) l’atto che dà inizio allo scontro tra la Grecia e la Persia, tra l’Europa e l’Asia, tra l’Occidente e l’Oriente.
Dopo cinque anni di guerra (499-494 a.C), le colonie greche vengono sconfitte e riassoggettate da Dario, il quale – ci racconta Erodoto – riprende il suo ambizioso progetto di dominio assoluto sul Mar Egeo, che è la porta orientale per il dominio sul Mediterraneo intero. Soprattutto – scrive Erodoto – Dario è mosso da un profondo rancore, da un’immensa sete di vendetta, contro la Grecia che ha osato sfidarlo. Dario, perciò, dichiara guerra ad Eretria e ad Atene. Nella primavera del 490 a.C una flotta di 600 navi con 50.000 uomini muove dalle coste dell’Asia e si dirige su Eretria che, dopo un breve assedio, viene conquistata e data alle fiamme. Poco dopo l’esercito persiano sbarca sulla costa orientale dell’Attica davanti alla pianura di Maratona (e questo nome è molto evocativo e vive nella nostra memoria). I Persiani (circa 30.000) vengono affrontati dagli Ateniesi (circa 10.000) e dai Plateesi (i circa 1000 opliti – i lancieri – inviati dalla piccola polis di Platea in Beozia). Sparta promette aiuti ma poi indugia ad inviarli. L’esercito ateniese è guidato da un valente comandante (è un artigiano, è un demiurgo): Milziade, il quale – coadiuvato da Callimaco e da Aristide – utilizzando le risorse che ha a disposizione, disegna una strategia per affrontare un nemico numericamente molto superiore. Milziade, con grande abilità (pensando anche agli Sciti), sfrutta la natura del luogo. Dispone le sue truppe – divise in unità autonome collegate tra loro da un servizio di veloci portaordini – sulle alture che circondano la piana.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Avete visitato la piana di Maratona ? Questo luogo è noto anche per una leggendaria impresa di Teseo, sapete quale?… Fate un’incursione nella piana di Maratona utilizzando la guida della Grecia o la rete… Qui potete visitare il famoso “tumulo (soròs) di Maratona”: di che cosa si tratta? Fate qualche ricerca in proposito: buon viaggio in Attica, la stagione è adatta …
Milziade fa schierare davanti ai Persiani solo l’avanguardia delle sue truppe che ha il compito di retrocedere con ordine facendo avanzare il lento e mastodontico esercito persiano verso le colline dove sono pronti ad intervenire i gruppi d’assalto. La manovra riesce perfettamente e l’esercito di Dario viene circondato e viene attaccato duramente sui fianchi: i reparti persiani si disorientano e sono costretti a retrocedere e a imbarcarsi a precipizio sulle navi.
Noi sappiamo che il nome di Maratona, che corrisponde alla prima vittoria dei Greci sui Persiani, è avvolto in una leggenda di gloria, e questa leggenda viene affidata alle gambe, ai polmoni e soprattutto all’entusiasmo del giovane messaggero Fidippide che, di corsa, per 42 chilometri e 175 metri (tanta è la distanza tra Maratona ed Atene misurata in occasione dei primi Giochi Olimpici dell’età moderna nel 1896), porta – prima di stramazzare, morto, sfinito dalla stanchezza – la notizia della vittoria. Di lui, dell’ultimo glorioso caduto di Maratona, il centonovantaduesimo – racconta la leggenda – si occupano, invano, soltanto alcuni anziani, per tutti gli altri, la festa è già cominciata, proprio perché la festa e il mito sono strettamente legati.
Ma Erodoto non si vuole perdere dietro alle leggende, dietro ai miti – e difatti non ne parla in questo caso – ma vuole guardare in faccia la realtà e descrive il vecchio Dario il quale, ancora una volta, sta preparando una grande guerra contro i Greci per vendicarsi delle disfatte subite, soprattutto della grave sconfitta subita a Maratona. Sappiamo che una delle leggi di Erodoto dice: bada a non umiliare una persona, se non vuoi che viva solo per vendicarsi di te. Mentre tutto l’impero persiano e tutta l’Asia sono coinvolti nei preparativi per questa altra grande spedizione, all’improvviso, nel 485 a.C, Dario muore dopo trentasei anni di regno: Erodoto era appena nato, forse, aveva un anno di vita.
Dopo lunghi intrighi e dissidi, sale al trono il giovane Serse, il figlio prediletto di Atossa, moglie e ora vedova di Dario. Secondo Erodoto è Atossa che detiene tutto il potere in Persia. Serse vuole proseguire l’opera del padre, vuole portare avanti i preparativi della guerra contro i Greci, prima, però, deve intervenire contro gli Egiziani che si sono ribellati all’occupazione persiana e stanno per proclamare l’indipendenza. Secondo Serse la cosa più urgente è soffocare la rivolta in Egitto, mentre la spedizione contro i Greci può attendere. Di parere contrario è invece il cugino di Serse, nipote del defunto re Dario, l’influente Mardonio, il quale sostiene – ci racconta Erodoto – che si debbano lasciar perdere gli Egiziani per muovere subito contro i Greci. Erodoto sospetta che Mardonio, desideroso di potere, voglia la sconfitta dei Greci, per diventare il satrapo di Atene, per farsi nominare governatore della Grecia. Mardonio sa che Atene può essere un trampolino di lancio molto importante per mirare più in alto.
Erodoto sospetta di Mardonio, ma lo vediamo “sospettare” spesso ne Le Storie, e il termine “sospetto”, in greco upónoia, rappresenta per lo scrittore un altro fattore che contribuisce allo sviluppo della Storia.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Il termine “sospetto” richiama il dubbio, l’equivoco, la diffidenza, la paura: quale di queste parole (pensando anche alla vostra esperienza…) mettereste per prima accanto al sospetto?
Scrivetela…
Erodoto narra che, poco per volta, Mardonio riesce a convincere Serse. Ma il re dei Persiani decide di andare prima in Egitto, dove soffoca la rivolta, sottomette nuovamente il paese e solo allora pensa (sentendosi ancora più forte) a intraprendere la spedizione contro i Greci. Ma la spedizione contro la Grecia non è un’impresa facile da realizzare, Serse se ne rende conto, però non vuole rinunciare e allora chiede un parere, ma più che un parere, più che un’opinione chiede una conferma ai piani che ha già programmato in modo da coinvolgere tutto il gruppo dirigente in questa impresa. Che cosa ci racconta Erodoto: leggiamo:
LEGERE MULTUM….
Erodoto, Le Storie VII 8
Serse convocò un’assemblea dei più illustri Persiani per informarsi dei loro pareri. “Persiani, disse, … le imprese che Ciro e Cambise e mio padre Dario compirono, i popoli che conquistarono, è inutile ricordarli a voi, che ben li conoscete. Ed io, da quando ho ricevuto questo trono, mi sono preoccupato di non rimanere inferiore a coloro che furono prima di me in questa carica e di non aggiungere meno di loro all’impero persiano … Per questo io ora vi ho convocati, per riferirvi quel che penso di fare. Voglio gettare un ponte sull’Ellesponto e far passare poi l’esercito attraverso l’Europa contro la Grecia per punire gli Ateniesi di quanto hanno fatto ai Persiani e a mio padre … e non desisterò prima di aver conquistato e incendiato la città degli Ateniesi … se assoggetteremo loro e i loro vicini … renderemo la terra persiana confinante con l’etere di Zeus. Il sole non vedrà nessuna terra confinante con la nostra … Io sono certo che le cose stanno così, e che non resterà alcuna città né alcun popolo che sia in grado di combattere con noi … In tal modo sopporteranno il giogo servile e quelli che furono colpevoli verso di noi e gli innocenti”.
Dopo di lui prende la parola Mardonio, il quale, per ingraziarsi Serse, comincia con il lusingarlo, ma sentiamo dalla viva voce di Erodoto che cosa dice:
LEGERE MULTUM….
Erodoto, Le Storie VII 9 10
“O sire, non solo sei il migliore di tutti i Persiani che furono, ma anche di quelli che saranno … non hai da temere nulla dai Greci … I Greci sono soliti ingaggiare guerra con la massima sconsideratezza, spinti da stoltezza e follia … E dunque a te, o re, vorrà qualcuno opporre resistenza in armi, a te che guidi tutta la moltitudine dell’Asia e tutte le navi? A quanto io credo, i Greci non arriveranno a tale ardire”.
Gli altri Persiani stavano in silenzio e non osavano esprimere un parere contrario a quello proposto.
Erodoto – in queste due ultime righe – ci fa capire che se i consiglieri avessero potuto parlare liberamente avrebbero manifestato più di un dubbio sui piani di Serse sostenuti a spada tratta da Mardonio. Dobbiamo precisare che questi discorsi vengono fatti a Susa, la capitale dell’impero persiano e questo consiglio si tiene nel fresco e lussuoso salone del palazzo reale. Erodoto ci fa capire che la solennità gioca un ruolo significativo: Serse siede sul trono e propone all’assemblea dei più illustri Persiani la conquista del mondo.
Chi ha il coraggio di dire che sarebbe bene riflettere sul fatto che il terreno dello scontro si trova a grande distanza da Susa? Il più veloce dei messaggeri ci mette tre mesi per raggiungere Atene ed è impensabile progettare una spedizione in luoghi tanto distanti. Ma non è questa la ragione per cui gli illustri Persiani convocati non osano pronunciare un parere contrario. Per quanto importanti e influenti, per quanto siano la classe dirigente del paese, sanno di trovarsi in uno Stato autoritario e dispotico e che basta un cenno di Serse perché le loro teste rotolino a terra. Quindi – ci fa capire Erodoto – stanno zitti: tacciono per paura, come, di solito, si tace davanti ai dittatori.
Non tutti però stanno zitti: qualcuno è in grado di parlare senza timore e – ci fa sapere Erodoto – non in ragione del proprio eroismo ma in ragione del proprio potere dato dall’età e dal grado di parentela col sovrano. E così, in questa narrazione – che assume sempre di più le caratteristiche del romanzo – prende la parola il vecchio Artabano, fratello del defunto re Dario e zio di Serse. Anche lui, comunque, comincia a parlare con grande cautela ma poi esprime il suo parere e – siccome sospetta – accusa Mardonio di voler trascinare il re in una impresa molto pericolosa e quindi gli fa una proposta inquietante.
Che cosa dice l’autorevole Artabano nel suo intervento prima rivolto a Serse e poi rivolto a Mardonio? Ascoltiamo Erodoto che ce lo riferisce:
LEGERE MULTUM….
Erodoto, Le Storie VII 10
“O re, quando non vengono esposti pareri contrari l’uno all’altro, non è possibile, scegliendo, prendere il migliore. … Avevo sconsigliato a mio fratello nonché tuo padre, all’intrepido Dario, la spedizione contro gli Sciti, prevedendo che sarebbe finita male, … Ora tu, o re, vuoi andare contro uomini molto più valorosi degli Sciti, uomini che si dice siano valorosissimi e per mare e per terra. … Conviene dunque ad un vecchio come me consigliare la riflessione e il giudizio. … Temo che tu, o Mardonio, voglia trascinare in modo insensato il re in questa guerra e propongo che sia tu a guidare questa spedizione dopo che entrambi avremo posto come pegno i nostri figli… E se le cose vanno per il re come dici tu, vengano uccisi i miei figli e oltre loro anch’io; se invece andranno come io predico, i tuoi subiscano la stessa pena, e con loro anche tu, se sarai ritornato. Ma se non vorrai sottostare a queste condizioni, tuttavia guiderai certamente un esercito contro l’Ellade, e io affermo che qualcuno di quelli rimasti qui in patria sentirà dire che un certo Mardonio, dopo aver causato una grave sciagura ai Persiani, è stato straziato da cani e da uccelli … in qualche luogo della terra degli Ateniesi”.
Erodoto, nel suo racconto – che si avvicina sempre di più al genere letterario del romanzo – ci fa percepire il clima che questo intervento crea: la temperatura sale e la tensione cresce. I presenti si rendono conto che è cominciata una partita assai rischiosa e, naturalmente, nessuno osa prendere la parola, nessuno si azzarda a schierarsi, un terribile silenzio incombe nella sala del trono. Solo Serse, in questo delicato momento, può prendere la parola, solo Serse, dall’alto del suo trono, può dare un giudizio, e difatti interviene.
Serse è adiratissimo contro lo zio, alza la voce e accusa Artabano – scrive Erodoto – di essere “un vile e un ignavo” e, per punizione, gli proibisce di partecipare alla guerra. Inoltre Serse – annota Erodoto – spiega che “a nessuna delle due parti è possibile retrocedere, ma agire o subire, o tutte le terre contese cadranno in potere dei Greci o tutte in potere dei Persiani: non c’è alcuna via di mezzo nella contesa” (VII 11). E, dopo aver pronunciato queste “categoriche” parole agitandosi sul trono, scioglie la seduta e torna nelle sue stanze.
Serse, in camera sua cerca di calmarsi (forse si fa preparare una camomilla…) ma è profondamente turbato, comincia a ragionare sul fatto che, in primo luogo, un re non dovrebbe perdere le staffe quando è seduto sul trono davanti alla classe dirigente dello Stato e poi, in secondo luogo, pensa al discorso pronunciato da Artabano: in realtà, le parole dello zio, lo hanno fortemente colpito.
E noi lasciamo ad Erodoto il compito d’introdurci – da abile romanziere – nella stanza da letto del palazzo reale di Susa.
LEGERE MULTUM….
Erodoto, Le Storie VII 12 13
…Quando sopraggiunse la notte, Serse era tormentato dal consiglio di Artabano. Riflettendo nella notte trovò che non era assolutamente il caso di marciare contro la Grecia. Mutate le sue decisioni, si addormentò profondamente e, a quanto narrano i Persiani, fece un sogno ed ebbe questa visione. Parve a Serse che, standogli accanto, un uomo grande e di bell’aspetto gli dicesse: “Tu vuoi dunque mutare parere o Persiano, e non condurre una spedizione contro la Grecia … ma attieniti a quello che durante il giorno decidesti di fare, va per quella strada”. Parve a Serse che l’uomo, dopo aver detto questo, volasse via …
Il mattino seguente, di buon’ora, Serse convoca nuovamente il consiglio dichiarando di aver cambiato idea: la guerra non si farà. I consiglieri e i Persiani tutti sono molto lieti di questa decisione, ringraziano Serse e fanno festa. Ma, durante la notte, di nuovo la stessa visione appare a Serse immerso nel sonno: lo stesso personaggio della notte precedente gli appare e lo avverte che, se non intraprenderà subito la spedizione, ne subirà le conseguenze: “come in breve tempo sei diventato grande e potente – dice il fantasma – così di nuovo in breve sarai meschino (VII 14)”. Spaventato da questo sogno, Serse si sveglia angosciato e manda a chiamare lo zio Artabano, al quale confida le visioni che lo ossessionano nel sonno da quando ha deciso di rinunciare alla guerra contro i Greci. Serse comunica ad Artabano la sua preoccupazione: teme che sia un dio a mandargli questa visione in sogno per indurlo a marciare contro la Grecia. Ma leggiamo il racconto di Erodoto:
LEGERE MULTUM….
Erodoto, Le Storie VII 15 16
Serse disse ad Artabano … “Perché mentre avevo mutato consiglio e mi ero ricreduto, una visione mi appare di frequente nel sonno e non approva affatto che io agisca così; ed ora se n’è andata dopo avermi minacciato aspramente. Se dunque è un dio colui che la manda e desidera assolutamente che avvenga la spedizione contro la Grecia, verrà anche a te, questa stessa visione, a ingiungerti lo stesso che a me”. …
Artabano cercò di tranquillizzare il re dicendo: “Ma neppure questi fatti, figliolo, sono sicuramente di origine divina … Sogliono venire soprattutto come visioni in sogno quelle cose cui uno pensa durante il giorno, e noi in questi giorni passati ci siamo sopra ogni cosa interessati a questa spedizione”.
Ma Serse non riesce a calmarsi, la visione che ha avuto in sogno lo perseguita: se un dio gli impone di fare la guerra lui non può rinunciare (“I sogni son desideri…”, canta Cenerentola). Artabano non gli crede (i sogni, più che messaggi divini, sono il frutto delle nostre aspirazioni, ribadisce saggiamente il vecchio), e allora Serse propone allo zio, scettico, di indossare le vesti regali, di sedersi sul trono e poi, di notte, di coricarsi nel letto del re. Artabano, soprattutto per tranquillizzarlo, accetta l’invito del nipote, ma seguiamo il racconto di Erodoto.
LEGERE MULTUM….
Erodoto, Le Storie VII 17 18 19
Ad Artabano … come si fu addormentato, comparve in sogno la stessa visione che appariva anche a Serse, e stando sopra ad Artabano gli disse queste parole: “Tu dunque sei colui che tenta di distogliere Serse dal compiere la spedizione contro la Grecia … Ma certo né per il futuro né ora per il presente tenterai impunemente di stornare ciò che deve avvenire …”. Ad Artabano parve che la visione facesse questa minaccia, e che con un ferro rovente si apprestasse a bruciargli gli occhi. Ed egli, gettato un gran grido, balzò su e postosi accanto a Serse, dopo avergli esposto particolareggiatamente la visione avuta nel sogno, gli parlò così: “…Poiché c’è un impulso divino e, a quanto pare, una sciagura voluta dagli dèi deve colpire i Greci, anch’io mi converto e muto il mio parere”. …Mentre Serse s’apprestava a guidare la spedizione, ebbe nel sonno una terza visione, e i Magi, come l’ebbero udita, giudicarono che si riferisse a tutta la terra e significasse che sarebbero diventati suoi schiavi tutti gli uomini. La visione era questa: parve a Serse di essere incoronato con un ramo d’ulivo, i cui ramoscelli ombreggiavano tutta la terra e poi la corona posta sulla sua testa scompariva.
A questo punto dobbiamo interrompere (nella camera da letto di Serse) la narrazione di Erodoto per puntare la nostra attenzione su una delle più significative parole-chiave dell’Età assiale della storia: la parola “sogno”.
La parola “sogno” appartiene ad un nucleo formato da quattro importanti parole-chiave. Queste quattro parole-chiave costituiscono le colonne portanti della cultura dell’Età assiale della storia e sono: la parola “destino” (di cui ci siamo già occupati viaggiando con Erodoto in Mesopotamia a contatto con il testo dell’Epopea di Gilgamesch), la parola “ordine” (di cui ci siamo già occupati viaggiando con Erodoto in Egitto a contatto con il testo del papiro Smith), la parola “sogno” (di cui ci occupiamo ora…) e la parola “ira” (di cui ci occuperemo, e non ne mancherà l’occasione).
Se la parola “destino” (“me” in lingua akkadica, la lingua dei Sumeri) è radicata nel testo dell’Epopea di Gilgamesch, se la parola “ordine” (“maat” in lingua egizia) è radicata nel testo del papiro Smith: dove, in quale testo, è radicata la parola “sogno”?
Prima di rispondere a questa domanda dobbiamo farcene un’altra. Che valenza hanno i “sogni”, che significato ha l’attività del “sognare”, ne Le Storie e nel pensiero di Erodoto? Anche ne Le Storie – secondo la tradizione dell’Età assiale – il “sogno” appare come uno strumento del destino, come un mezzo che veicola il messaggio divino: il “sogno” risulta come un oggetto sospeso tra la terra e il cielo, tra la materialità e la trascendenza (anche i numeri del lotto – la materialità –, attraverso i sogni, vengono dall’al di là, dal trascendente).
Ne Le Storie e nel pensiero di Erodoto, per quanto riguarda il concetto di “sogno”, c’è poi un ulteriore tratto di modernità che possiamo cogliere nelle parole di Artabano prima che, su invito di Serse, si sottoponga al travestimento e subisca anche lui una visione mitica, un’apparizione ultraterrena. Artabano dice a Serse: “Sogliono venire soprattutto come visioni in sogno quelle cose cui uno pensa, di cui uno si preoccupa intensamente, durante il giorno”. Erodoto, sottolineando queste parole, allude al fatto che tutti sogniamo, ad occhi chiusi e ad occhi aperti, e, tra le righe si pone una domanda che, nella Storia del Pensiero Umano e nella Storia della Letteratura ricorre, con intensità, dall’età moderna in avanti: ma i sogni creano ordine o disordine nella nostra vita? Questa – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – è una domanda fondamentale che troviamo espressa, per esempio, nel Don Chisciotte di Cervantes (1605), nei drammi (in particolare La tempesta) di Shakespeare (1600), nel racconto Le sottilissime astuzie di Bertoldo di Giulio Cesare Croce (1606), ma l’elenco potrebbe continuare.
I sogni creano ordine o disordine nella nostra vita? Non è facile rispondere a questa domanda, e proprio per questo motivo bisogna applicarsi su questo argomento, non tanto per trovare una risposta quanto piuttosto per dedicarsi (da svegli) alla riflessione in modo da poter investire in intelligenza.
E per imbastire una riflessione è necessario, prima di tutto, ragionare – in termini autobiografici e anche in termini filologici – sulla “parola-chiave”. La parola “sogno” ci appartiene, e sicuramente ciascuno di noi ha da dire, da comunicare, da esprimere un’opinione nei confronti di questa “parola”.
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Quale di queste parole avvicinereste per prima alla parola “sogno” : il futuro, il passato, l’illusione, la speranza, la fantasia, il desiderio, l’ideale?
Scrivetela…
La parola “sogno” – sulla scia di Erodoto – c’invita (come abbiamo fatto per la parola “destino” e per la parola “ordine”) a fare un breve viaggio nel territorio dell’Età assiale dentro la Storia della Cultura, la Storia del Pensiero Umano, la Storia della Letteratura. Dove s’incontra, rappresentata per la prima volta in modo significativo, la parola “sogno”? La parola “sogno” la possiamo incontrare, rappresentata in modo significativo nella Letteratura dell’Antico Testamento. Sappiamo che la Letteratura dell’Antico Testamento è contenuta in una biblioteca (la prima parte della Bibbia) formata da quarantanove testi. Questo patrimonio letterario è scritto con i generi letterari più importanti, ci sono fiabe, favole, canti, poemi, romanzi, proverbi, saggi, cronache, insomma: una biblioteca formidabile ricca di “idee” e di “parole” significative.
È bene sapere che in ebraico, nella lingua dell’Antico Testamento, la parola “sogno” si traduce “khalom” e la si trova nel libro che è stato collocato per primo in questa grande biblioteca: il libro della Genesi, e tutti, per lo meno, lo abbiamo sentito nominare. Ebbene, la seconda parte del libro della Genesi, dal capitolo 37 al capitolo 50, contiene il testo di uno straordinario “romanzo” (da rileggersi ogni tanto).
Nella seconda parte del libro della Genesi, dal capitolo 37 al capitolo 50, si racconta la Storia di Giuseppe, uno (forse il più importante) dei figli di Giacobbe. La Storia di Giuseppe, anche se non è stata letta, è tuttavia conosciuta da molte persone perché ha ispirato la letteratura, il teatro, l’arte e soprattutto la filmografia (questo racconto, come tutta la Letteratura biblica, si presta ad essere sceneggiato). Chi è Giuseppe, chi è il protagonista di questo “romanzo” (uno dei romanzi più significativi dell’Età assiale della storia)? Giuseppe è il figlio di Giacobbe, il figlio di un grande capo tribù, di un potente patriarca, il terzo grande protagonista (Abramo, Isacco e Giacobbe) di una delle saghe letterarie più significative della Storia del Pensiero Umano.
Giacobbe vuole bene in modo particolare a Giuseppe e gli altri figli di Giacobbe, gli altri fratelli di Giuseppe, sono gelosi, tanto che un giorno, mentre sono tutti a far pascolare le pecore lontano dall’accampamento decidono di eliminarlo, stabiliscono di “farlo fuori”, difatti lo catturano, lo legano, lo imbavagliano, ma, nel mentre, passa una carovana di mercanti diretta in Egitto, e allora pensano di vendere Giuseppe a questi mercanti come schiavo, evitando di spargere del sangue e guadagnando anche qualcosa.
Tornati all’accampamento senza di lui, raccontano a Giacobbe che Giuseppe è stato sbranato da un animale feroce, ne mostrano la veste sporca di sangue, fanno la sceneggiata. Giacobbe invece si dispera veramente per la perdita di questo figlio prediletto: un ragazzo dal carattere introverso che racconta, in modo ispirato, di avere delle visioni durante il sonno.
Intanto Giuseppe, in Egitto, viene venduto a un ricco signore, Potifar, consigliere del Faraone, del quale Giuseppe, che è intelligente e fedele, diventa il segretario particolare. Ma Giuseppe è anche un bel giovane e la moglie di Potifar se ne innamora, vorrebbe sedurlo e vorrebbe far l’amore con lui, ma Giuseppe non vuole accettare le proposte amorose di questa signora (sebbene sia seducente) per non tradire il suo padrone ed ella, molto impermalita, si vendica denunciando Giuseppe, dicendo che lui la voleva violentare. Potifar fa arrestare il povero Giuseppe il quale in prigione rivela la sua dote particolare: sa interpretare i sogni, sa leggere le premonizioni contenute nelle visioni oniriche. Questa notizia arriva alle orecchie del Faraone, il quale ha fatto dei sogni “strani” e nessuno dei suoi consiglieri è stato capace di interpretarli. Così viene chiamato Giuseppe il quale, non solo interpreta i sogni del Faraone, ma è capace anche di proporre, in modo saggio, un programma economico per salvare l’Egitto da una crisi incombente.
Giuseppe diventa il grande amministratore dell’Egitto e quando arrivano i tempi di carestia (di “vacche magre”), i granai del Paese sono pieni perché lui ha saputo essere previdente. La carestia, la penuria di cibo investe tutta l’area mediorientale e anche Giacobbe, con la sua tribù, insieme ai fratelli di Giuseppe, è costretto a emigrare, dalla terra di Canaan, in Egitto per cercare di sopravvivere. Giuseppe non verrà riconosciuto subito dai suoi fratelli e dal padre, ma poi – attraverso tutta una serie di espedienti narrativi (se ne consiglia la lettura) – ci sarà il riconoscimento, il perdono, la riconciliazione e, i figli di Giacobbe, resteranno in Egitto, come ospiti. Sappiamo che poi, col tempo, questa ospitalità si trasforma in prigionia (e questo è argomento del libro dell’Esodo).
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La Scuola consiglia vivamente la lettura o la rilettura della Storia di Giuseppe, della quale qui abbiamo solo tratteggiato le linee generali, e di cui potete reperire facilmente il testo, nel libro della Genesi dal capitolo 37 al capitolo 50 (sono solo venti pagine), perché tutti in casa abbiamo una Bibbia…
Se poi, come lettori, volete sbilanciarvi un po’ di più (con il metodo del LEGERE MULTUM), sul tema della Storia di Giuseppe, avete a disposizione la famosa tetralogia di Thomas Mann, quattro romanzi intitolati: Le storie di Giacobbe (1933), Il giovane Giuseppe (1934), Giuseppe in Egitto (1936), Giuseppe il nutritore (1943). Thomas Mann, nello scrivere la storia di Giuseppe, segue la narrazione biblica ma la correda con una serie di significative riflessioni filosofiche, politiche, artistiche, ironiche. Con questi quattro romanzi lo scrittore di Lubecca – che abbiamo incontrato molte volte nei nostri Percorsi – vuole anche reagire contro il nazismo, e con la scrittura partecipa alla resistenza chiamando Giuseppe, figlio di Giacobbe, a rappresentare i valori eterni dello spirito umano.
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In biblioteca trovate la tetralogia di Thomas Mann, potete osservarne i volumi – Le storie di Giacobbe (1933),“Il giovane Giuseppe (1934), Giuseppe in Egitto (1936), Giuseppe il nutritore (1943) - e leggerne qualche pagina…
Adesso torniamo al tema del “sogno” e leggiamo insieme un brano della Storia di Giuseppe dal libro della Genesi: questo frammento risulta sicuramente familiare alle nostre orecchie.
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Libro della Genesi 41 1-36
Il faraone sognò di trovarsi presso il Nilo. Ed ecco salirono dal Nilo sette vacche, belle di aspetto e grasse e si misero a pascolare tra i giunchi.
Ed ecco, dopo quelle, sette altre vacche salirono al Nilo, brutte di aspetto e magre, e si fermarono accanto alle prime vacche sulla riva del Nilo.
Ma le vacche brutte e magre divorarono le sette vacche belle e grasse.
E il faraone si svegliò. Poi si addormentò e sognò una seconda volta: ecco sette spighe spuntavano da un unico stelo, grosse e belle. Ma ecco sette spighe vuote e arse dal vento d’oriente spuntavano dopo quelle.
Le spighe vuote inghiottirono le sette spighe grosse e piene.
Il faraone si svegliò e si rese conto che era stato un sogno.
Alla mattina, molto turbato, convocò tutti gli indovini e tutti i sapienti dell’Egitto. Il faraone raccontò loro il sogno, ma nessuno sapeva dare una spiegazione.
Allora il capo dei coppieri parlò al faraone dicendo: “Io devo ricordare che quando fui accusato e messo in carcere insieme al capo dei panettieri, facemmo un sogno nella stessa notte, io e lui. Era là in carcere con noi un giovane di nome Giuseppe, noi gli raccontammo i nostri sogni ed egli ce li interpretò, dando a ciascun sogno una spiegazione, e avvenne proprio come lui li aveva interpretati: io fui reintegrato nella mia carica e l’altro fu impiccato”.
Allora il faraone convocò Giuseppe. Lo fecero uscire in fretta dal carcere ed egli si rase, si cambiò gli abiti e si presentò al faraone.
Il faraone disse a Giuseppe: “Ho fatto un sogno e nessuno lo sa interpretare, ho sentito dire di te che sai interpretare i sogni, ascolta, ho sognato che mi trovavo sulla riva del Nilo. Quand’ecco salirono sette vacche grasse e belle e si misero a pascolare tra i giunchi. Ed ecco sette altre vacche salirono dopo quelle, brutte e magre. Le vacche magre e brutte divorarono le sette vacche belle e grasse ma, sebbene le avessero ingoiate, non si vedeva affatto, il loro aspetto era brutto come prima. E mi svegliai. Poi sognai di nuovo e vidi che sette spighe spuntavano da un solo stelo, piene e belle. Ma ecco sette spighe secche, vuote e arse dal vento d’oriente, spuntavano dopo quelle. Le spighe vuote inghiottirono le sette spighe belle.
Io l’ho detto agli indovini ma nessuno mi sa dare la spiegazione.
Allora Giuseppe disse al faraone: “Il sogno è uno solo: quello che Dio (El-khalomot, Signore dei sogni) vuole fare lo ha indicato chiaramente. Le sette vacche belle sono sette anni e le sette spighe belle sono sette anni: è un solo sogno. E le sette vacche magre e brutte, che salgono dopo quelle, sono sette anni e le sette spighe vuote, arse dal vento d’oriente, sono sette anni: vi saranno sette anni di carestia.
Ecco stanno per venire sette anni in cui sarà grande abbondanza in tutto il paese d’Egitto. Poi a questi succederanno sette anni di carestia; si dimenticherà tutta quella abbondanza nel paese d’Egitto e la carestia consumerà il paese.
Si dimenticherà che vi era stata abbondanza nel paese a causa della carestia venuta in seguito, perché sarà molto dura.
Quanto al fatto che il sogno si è ripetuto due volte significa che la cosa è imminente.
Il faraone, quindi, pensi a trovare un uomo intelligente e saggio e lo metta a capo del paese d’Egitto. Il faraone inoltre proceda ad istruire funzionari incaricati di prelevare un quinto sui prodotti del paese durante i sette anni di abbondanza. Essi raccoglieranno tutti i viveri di queste annate buone che stanno per venire, ammasseranno il grano nei magazzini, sotto l’autorità del faraone, e lo terranno in deposito nelle città.
Questi viveri serviranno al paese di riserva per i sette anni di carestia che verranno nel paese e l’Egitto non sarà distrutto dalla fame”.
Il discorso di Giuseppe piacque al faraone e a tutti i suoi ministri.
Se riflettiamo sull’idea di “sogno” che il testo della Genesi propone, ci rendiamo conto che il concetto di “sogno” entra nella nostra cultura con un significato preciso: “sognare” significa “aspirare a un futuro migliore, di pace, di giustizia, di solidarietà”.
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Se “sognare” significa “aspirare a un futuro migliore”, voi che cosa sognate (che cosa desiderate ad occhi aperti): di vincere un ricco premio alla lotteria, che i vostri figli si facciano onore, di vivere una bella storia d’amore, che nel mondo regni la pace, di ricevere il premio Nobel, che nel mondo a nessuno manchi da mangiare e da bere, che la vostra squadra vinca lo scudetto, che si trovi il rimedio per curare le più gravi malattie, di interpretare in un film di successo la parte della\del protagonista, che nel mondo tutti imparino a leggere e a scrivere?…
Voi che cosa sognate?
Scrivete quattro righe in proposito…
“Sognare ad occhi aperti” non è propriamente l’azione del “sognare”: “sognare ad occhi aperti” è una metafora dell’azione del “sognare”. L’azione del “sognare” presuppone il “dormire” e la parola “sogno” è strettamente legata alla parola “sonno”. Il vocabolario di Erodoto, difatti, distingue queste due situazioni. In greco si puntualizza, e per definire l’azione del “sognare” ci sono due parole diverse: c’è la parola órezis che significa “sogno ad occhi aperti” e, nell’opera di Erodoto, questo termine, lo troviamo spesso in corrispondenza con la parola elpis che significa “speranza, aspirazione, aspettativa”. Poi c’è la parola ónar che designa il “sogno” che si realizza durante l’azione del “dormire”, e la parola ónar, il sogno, nell’opera di Erodoto, la troviamo spesso in corrispondenza con la parola úpnos: il sonno.
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Che rapporto avete con il “sonno”?
Scrivete quattro righe in proposito…
I sogni, quindi, appartengono, prima di tutto, alla “dimensione del sonno” e il cosiddetto “impero del sonno” ha sempre avuto, nella Storia del Pensiero Umano, la caratteristica di non sembrare propriamente un “impero di questo mondo”. Con il “sonno” ha certamente un rapporto molto particolare il protagonista del romanzo intitolato L’impero del sonno dello scrittore Henri-Frédéric Blanc, pubblicato nel 1989.
Il protagonista di questo romanzo è il dottor Joseph Cavalcanti il quale pensa che la vera vita sia nel sonno: pensa che nel sonno si celi l’autentica ricchezza dell’esistenza umana. Perciò, da bravo medico, si dedica con una dedizione assoluta all’esplorazione di quell’immenso continente sconosciuto nel quale tutti ci avventuriamo ogni notte ignorandone gli incredibili tesori. Joseph Cavalcanti si procura un buon letto e quaranta pigiami e, notte dopo notte, s’impegna a dormire “fino all’estremo”, cioè a spingersi sempre più in fondo nei meandri del sonno. Naturalmente il sonno lo porta a contatto con il sogno, ma dal sogno all’incubo il passo è molto breve perché il mondo (l’impero) del sonno, oltre ad avere una sua geografia e a una sua lingua, è popolato anche da implacabili guardiani che ne sorvegliano il territorio.
L’impero del sonno è un libro ironico, comico, scritto guardando al genere letterario della favola e, anche per questo motivo formale, fa riflettere sulle troppe certezze che gli esseri umani contemporanei credono di avere. Leggiamo due pagine di questo romanzo nel punto in cui il dottor Joseph Cavalcanti partecipa ad un convegno sul sonno e vorrebbe comunicare – anche se non si è iscritto come relatore – la sua opinione.
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Henri-Frédéric Blanc, L’impero del sonno (1989)
Finalmente arrivò al Palazzo dei Congressi. Entrò con calma determinazione, percorse un corridoio e s’introdusse nella sala delle conferenze.
Un oratore era sulla tribuna.
«… Perché da sempre il sonno» proclamò «ha aiutato gli uomini a sopportare la vita moderna! Da sempre il sonno…»
S’interruppe, sbalordito, vedendo avanzare Joseph in pigiama e pantofole.
Nella sala scese un silenzio di tomba. Era come se Gesù Cristo in carne e ossa, con la corona di spine, le mani bucate e il petto lacerato, fosse sorto improvvisamente nel bel mezzo d’un concilio di vescovi paffuti, indorati e impellicciati.
... continua la lettura ...
Serse in sogno (i sogni son desideri?) ha una visione che lo sprona a marciare contro la Grecia, e difatti, dopo essersi preparato, si muove, col suo enorme esercito, verso l’Europa per fare la guerra, con la certezza che sarebbe tornato in Asia vincitore e padrone del mondo. Ma: “Di tutte le cose bisogna vedere come vanno a finire”, scrive Erodoto e la grande spedizione di Serse contro la Grecia: sapete come va a finire?
Di questo ce ne occuperemo nell’itinerario della prossima settimana, ora lasciamo il posto al sonno e ai sogni. Nel mio sogno c’è Erodoto che dice: “Accorrete, la Scuola è qui…”. Ma questo: è un sogno oppure è un incubo?