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LO SGUARDO DI ERODOTO SULL’IRA…

Lezione N.: 
21

Prof. Giuseppe Nibbi  Lo sguardo di Erodoto 2006       29-30-31   marzo  2006     

LO SGUARDO DI ERODOTO

SULL’IRA…

     Un sogno – ci racconta Erodoto nel libro VII de Le Storie – sprona Serse, il re dei Persiani, a marciare, col suo enorme esercito, verso l’Europa per fare la guerra alla Grecia, con la certezza che sarebbe tornato in Asia vincitore e padrone del mondo. Ma Erodoto “allude” e si domanda: ci si può fidare dei “sogni”?

     William Shakespeare scrive, alla fine del IV atto del celebre dramma La tempesta: Noi siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni, circondata dal sonno è la nostra breve vita. Questi versi vengono declamati da Prospero, che è la figura principale tra i protagonisti del dramma, il quale si rivolge direttamente al pubblico, e questo “noi siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni …” si riferisce ai personaggi interpretati dalle attrici e dagli attori i quali hanno già cominciato, sul proscenio, sotto gli occhi degli spettatori, ad uscire dal loro ruolo (dall’allegoria che rappresentano) e stanno togliendosi di dosso gli abiti di scena come se uscissero da un sogno per tornare ad essere persone reali, e, questa metafora (questa immagine che verrà ripresa da molti autori nel corso della Storia del Teatro) – secondo Shakespeare, e anche secondo Erodoto – significa che tutti, donne e uomini, entriamo spesso dentro a un personaggio (o un personaggio s’impossessa di noi) e ci comportiamo, nel mondo, come “attrici e attori”, pronti a recitare una parte sul palcoscenico della Storia (comportandoci come se stessimo sognando) e quindi, a volte (spesse volte), tra il sogno e la realtà salta la linea di demarcazione e rischiamo di fare confusione.

     Anche Zhuang-zi [o Chuang-tzu, ci sono due modi di pronunciare questo nome] – che abbiamo incontrato qualche settimana fa viaggiando nel territorio della cultura cinese, ricordate? – autore, nel IV secolo a.C, di un libro di racconti (di parabole, di allegorìe) che porta il suo stesso nome, e che viene ritenuto il capolavoro letterario della Cina antica (e di cui si consiglia la lettura), ci ricorda (con la sottile ironia che pervade tutto il testo) questo concetto: spesso è difficile determinare il confine tra il sogno e la realtà. Leggiamo questo gustoso frammento:

LEGERE MULTUM….

Zhuang-zi [Chuang-tzu], Zhuang-zi [Chuang-tzu] (IV secolo a.C.)

Certi sognano banchetti, e al risveglio piangono; altri piangono in sonno, e all’alba partono per la caccia. Gli uni e gli altri nei loro sogni non sanno di sognare e a volte sognano di sognare. Soltanto al momento del risveglio sanno di aver sognato. E solo al grande risveglio sapremo che tutto non è stato che un sogno. La folla si crede desta quando distingue il principe da un pecoraio. Quale pregiudizio!

«Kong-zi e voi stessi, non siete che dei sogni. Io vi dico che voi sognate, e anche questo è un sogno».

Queste parole sono straordinarie e paradossali. Nei secoli a venire un grande saggio le capirà, un giorno. Questo giorno verrà così rapidamente come la sera segue il mattino.

     E allora – allude Erodoto – ci si può fidare dei “sogni”? E visto che il nostro sentiero, a questo proposito, passa per l’Oriente ne approfittiamo per consigliare (ancora una volta) la lettura o la rilettura dell’antologia intitolata 101 Storie Zen, raccolte nel 1939 da Nyogen Senzaki e Paul Reps.

     Lo Zen – come voi certamente saprete – è un pensiero che si forma e si sviluppa durante l’Età assiale della storia e non opera per dar vita ad un gruppo organizzato (una setta, una chiesa, una comunità) di adepti ma si rivolge all’individualità dell’essere umano: lo Zen è universalmente presente in tutti gli individui. Lo Zen si presenta come un’arte, un proposito, un programma di vita, un’esperienza che si prefigge di mettere la persona di fronte al proprio io, in modo che l’individuo acquisisca la consapevolezza della propria interiorità. Lo Zen – ammesso che lo si possa definire (ma non può essere racchiuso in definizioni) – è il momento in cui l’essere umano prende coscienza della propria interiorità.

     Lo Zen si sviluppa in India, in Cina e poi in Giappone e passa trasversalmente attraverso il pensiero induista, buddista, confuciano, taoista e scintoista, rifuggendo il taglio ideologico che queste dottrine possono assumere. Lo Zen è penetrato in Occidente perché è stato visto con simpatia da tutte le esperienze di monachesimo: dal monachesimo ebraico degli Esseni, a quello cristiano dei Padri del deserto, a quello islamico dei Sufi.

     Lo Zen invita alla ricerca di se stessi attraverso la meditazione e la contemplazione in modo da avvicinare il più possibile il proprio stile di vita alle regole della Natura. L’esperienza Zen deve insegnare alla persona a coltivare la pace e la comprensione, a praticare l’arte e ad esercitare il lavoro (anche il più umile) come se fosse un’arte: vale di più l’appagamento spirituale che la ricchezza materiale. L’esperienza Zen si propone (con uno studio che insegna ad affinare i sensi) di invitare la persona a fruire del piacere che deriva dalla bellezza (gratuita) dei fenomeni della Natura, questa fruizione sviluppa l’intuito che è il principale strumento di conoscenza dell’Universo che l’essere umano ha a disposizione. L’intuito porta la persona a cogliere il fascino inafferrabile dell’incompletezza, perché la realtà del mondo è indefinita (il confine tra dati di fatto e sogni è labile). L’intuito porta la persona a capire che la realtà del mondo ha molti significati e il senso della vita sta nell’essere sempre in ricerca senza nessun fine: anche lo Zen non è definibile, e se lo fosse non sarebbe lo Zen.

     L’essere consapevole dell’incompletezza e il prendere coscienza del fatto che la realtà è indefinita dovrebbe portare l’essere umano ad avere meno paura e più fiducia nell’essenza della vita, ad avere meno desideri superflui e più semplicità in modo da gustare pienamente le cose essenziali e necessarie, ad essere meno condizionato dai formalismi in modo da coltivare l’autodisciplina, ad avere meno turbamenti e più emozioni. «Il monaco Zen – si legge in una delle brevi e penetranti parabole dell’antologia 101 Storie Zenserve l’umanità umilmente, attuando con misericordia la propria presenza in questo mondo e imparando ad osservare la propria fine come un petalo che cada da un fiore; così, sereno, si gode la vita in beata tranquillità».

     E ora, a proposito di “sogni” – nelle 101 Storie Zen, come in tutte le culture, il “sogno” ha un posto rilevante – leggiamo la n.40  in cui possiamo cogliere un altro fattore che rende appetibile la lettura di questa antologia: l’ironia.

LEGERE MULTUM….

101 Storie Zen (a cura di  Nyogen Senzaki e Paul Reps, 1939)

40. «Dopo pranzo il nostro maestro di scuola faceva sempre un pisolino» raccontava un discepolo di Soyen Shaku. «Noi bambini gli domandammo perché lo facesse e lui ci rispose: “Vado nel mondo dei sogni a trovare i vecchi saggi, come faceva Confucio”. Quando Confucio dormiva, sognava gli antichi saggi e dopo parlava di loro ai suoi seguaci.

«Un giorno c’era un caldo terribile, e alcuni di noi si appisolarono. Il maestro ci rimproverò. “Siamo andati nel mondo dei sogni a trovare gli antichi saggi proprio come faceva Confucio” spiegammo noi. “E che cosa vi hanno detto quei saggi?” volle sapere il maestro. Uno di noi rispose: “Siamo andati nel mondo dei sogni, abbiamo incontrato i saggi e domandato se il nostro maestro andava là tutti i pomeriggi, ma loro ci hanno detto di non averlo mai visto”».

     Ci si può fidare dei “sogni”? Allude Erodoto. In sogno possiamo anche avere delle premonizioni, poi però: «Di tutte le cose bisogna vedere come vanno a finire», scrive Erodoto e la grande spedizione di Serse contro la Grecia (nonostante i suoi sogni di gloria): come va a finire? E allora (dopo questa digressione onirica) torniamo a Susa, la capitale dell’impero persiano al tempo di Dario e di Serse.

     È certamente un esercizio significativo fare una visita a Susa e, per prima cosa, è utile andare a vedere dove si colloca questa città nella geografia, senza confonderla con la cittadina di Susa in provincia di Torino né con la città di Susa in Tunisia. Il sito archeologico di Susa di Persia (Shush) si trova in Iran, a sud-ovest della città di Dezful, a nord del Golfo Persico, e potete localizzare sull’atlante la sua posizione.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Con l’enciclopedia o sulla rete potete leggere la storia di questo straordinario sito archeologico che ha molte stratificazioni: Susa è stata una città elamita, akkadica, babilonese (del re Hammurabi), assira, persiana (con Dario capitale dell’impero), macedone e araba… Inoltre potete informarvi sulla consistenza del patrimonio di reperti archeologici (molti di questi reperti si trovano al museo del Louvre…) che abbiamo ereditato da questa città (ceramiche, vasellame, sigilli, gioielli, statue, steli, il palazzo reale di Dario e di Serse, la necropoli degli artigiani), buon viaggio

     Serse, il re dei Persiani, a Susa, nella sua camera da letto, sogna e – secondo la scena che Erodoto ci riferisce nel libro VII de Le Storie – il sogno di Serse contiene un messaggio di fatalità e di pessimismo: l’essere umano non ha una vera possibilità di scelta.

     Accanto alla parola “sogno”, nell’Età assiale della storia, compare la parola “destino”. E che rapporto intercorre – durante l’Età assiale della storia – tra l’idea del “sogno” e il concetto del “destino”? La riflessione che scaturisce da questo interrogativo c’interessa perché incide sull’esercizio della didattica della lettura e della scrittura.

     Secondo il pensiero che si sviluppa durante l’Età assiale della storia la persona (anche Giuseppe il nutritore) porta in sé il proprio destino: la storia è indirizzata nella direzione indicata dal fato, l’individuo segue la via a cui il fato (la fortuna, un Dio, il caso, la necessità) lo ha predestinato. Nel corso dell’Età assiale il vero Essere Supremo, la vera forza cosmica responsabile della Storia, è il fato (La forza del destino). Al di sopra del fato non c’è nessuno: né gli dèi né tanto meno il Re dei Re. Infatti la visione che appare a Serse non prende la forma di un dio: con un dio si può venire a patti, si può disobbedire, si può tentare di imbrogliarlo (la Letteratura dell’Antico Testamento è molto significativa in questo senso). Con il fato è impossibile venire a patti perché si manifesta in forma impersonale, senza nome né tratti precisi. Il fato, attraverso i sogni, avvisa, poi, sempre attraverso i sogni, ordina, e poi, ancora attraverso i sogni, minaccia: infine il fato interviene.

     Nell’Età assiale della storia prevale questo tipo di mentalità: l’essere umano nasce con un destino già predisposto e l’individuo deve limitarsi a recitare una tragedia o un dramma o una commedia o una farsa, il cui testo è già scritto. Ogni volta che l’essere umano interpreta il testo già scritto in modo sbagliato, o cerca di cambiarlo, ecco che gli si presenta il sogno premonitore. La visione fatidica ammonisce la persona e se la persona non ubbidisce, se la persona risponde con superbia, allora piombano sulla sua testa i castighi e le sciagure. Se l’essere umano vuole sopravvivere deve sottomettersi al fato.

     In un primo momento Serse accetta il proprio ruolo, che è quello di vendicare il padre Dario e tutti i Persiani disonorati dai Greci, e infatti dichiara guerra giurando di non desistere finché non avrà conquistato e dato alle fiamme Atene. Poi ci ripensa, cambia idea, depone i piani di guerra, rinvia l’invasione e fa marcia indietro, ma a questo punto, in sogno, gli appare una visione che gli ricorda che lui è “destinato” ad attaccare i Greci.

     E noi – sostenuti dal lavoro di ricerca degli studiosi – ci domandiamo: il testo di Erodoto, che è la prima significativa testimonianza dell’Età assiale della storia, allude al fatto che il concetto del “destino” è talmente radicato, come forma culturale nella mente di Serse, per cui, il Re dei Re, non può fare a meno di sognarsela la voce del “destino”? All’inizio Serse cerca di ignorare l’incidente notturno, di considerarlo un’illusione alla quale non dare peso. Ma ottiene solo di irritare ulteriormente l’apparizione, che torna a presentarsi sempre più adirata e minacciosa accanto al trono e al letto regale. Il fato, attraverso i sogni, avvisa, poi ordina, poi, minaccia, infine interviene: questa è la “logica fatale”.

     Serse sente il peso della responsabilità – deve prendere delle decisioni che determinano le sorti del mondo – e convoca lo zio Artabano pregandolo di aiutarlo. Questi dapprima gli consiglia di non preoccuparsi: i sogni sono il semplice riflesso di quello che pensiamo durante il giorno, non vanno presi sul serio. Ma il re, per formazione, è fortemente condizionato dall’idea del “destino” e non si convince. L’apparizione non solo non sparisce, ma diventa sempre più perentoria e implacabile. Alla fine anche Artabano, pur essendo saggio e posato, pur essendo un razionalista e uno scettico, non solo si arrende al fantasma, ma, da incredulo che era, si trasforma in zelante esecutore degli ordini provenienti dal messaggio onirico e anche lui comincia a sostenere la necessità di attaccare immediatamente i Greci.

     L’essere umano – allude Erodoto – è in balia delle cose e degli spiriti, ma a quanto pare il potere degli spiriti è più forte di quello delle cose (oggi, è molto cambiata la situazione?). Gli incubi notturni di Serse sono consolanti per la gente qualunque, perché? Il suddito, greco o persiano che sia, pensa: “Se perfino il Re dei Re, il padrone del mondo, non è altro che una pedina nelle mani del fato, figuriamoci io, che non sono nulla…”. Questo pensiero, per il popolo, è consolatorio, dà sollievo e trasmette perfino un pizzico di ottimismo.

     Serse – che conosciamo attraverso Le Storie di Erodoto (di lui si sa poco) – è una persona strana: può essere considerato il padrone del mondo e, quindi, dovrebbe essere soddisfatto, ma essendo il padrone del mondo con l’eccezione di Atene e Sparta, patisce questa situazione di incompletezza. Sale al trono all’età di trentadue anni, è assetato di potere assoluto e avere tutto è la sua ragione di vita. Nessuno gli si oppone ma, in un simile clima, anche una sola voce contraria è sufficiente a farlo dubitare di se stesso e, per questo motivo – allude Erodoto – alla fine, prevale, nella sua mente, il potere cieco del fato. Il fato deve compiersi: impossibile modificarlo o sfuggirgli, anche quando ci porta alla rovina. E Serse, obbedendo alla voce del fato, scatena la guerra sicuro di avere in mano un punto di forza, che poi è l’eterna forza dell’Oriente e dell’Asia: il numero.

     Serse è il padrone di una sterminata massa umana capace, per impeto e peso, di schiacciare il nemico. Serse si dedica per quattro anni a formare l’esercito: un’armata mondiale, nelle cui file entrano tutti i popoli, tutte le tribù e tutti i clan dell’impero. La descrizione dell’esercito di Serse è uno di quegli argomenti che rimane, come un modello, nella Storia della cultura, e, questo argomento, ne Le Storie di Erodoto occupa pagine e pagine. Secondo i suoi calcoli, tra fanteria, cavalleria ed equipaggi navali, si arriva ai cinque milioni di uomini: naturalmente Erodoto esagera, ma si tratta comunque di un esercito sterminato, e sicuramente è il più grande esercito che sia stato mai descritto.

     Ma noi ormai sappiamo che le descrizioni di Erodoto sono condotte con enfasi per attirare l’attenzione in modo da porre dinnanzi all’ascoltatore, al lettore, motivi di riflessione conditi con grande ironia. “Come dare da mangiare e da bere a tutti questi soldati?”, si domanda Erodoto con la solita arguzia. Meno male, ha osservato Erodoto con tono satirico, che Serse mangia una sola volta al giorno, e questa diventa una regola per tutti.

     Erodoto è comunque affascinato dall’avanzata di questo esercito: una sterminata fiumana di uomini (e anche di animali), in cui ogni popolazione indossa i propri costumi (vesti e armature diverse), creando uno straordinario spettacolo, pittoresco e variopinto.

     Ora leggiamo solo un frammento perché la lettura integrale della descrizione dell’esercito di Serse la potete fare per conto vostro nel VII libro de Le Storie di Erodoto.

LEGERE MULTUM….

Erodoto, Le Storie VII  40 83

Aprivano la marcia prima di tutto i bagagli e le bestie da soma; poi venivano le truppe composte di tutti i popoli, alla rinfusa, senza distinzione. Là dove più di metà di queste truppe era passata era stato lasciato un intervallo, sicché esse non si mescolavano con le genti del re

(Al centro del corteo avanzano due carri) Il carro sacro di Zeus (che deve essere identificato con il dio supremo dei Persiani, Ahura-Mazda), tirato da otto cavalli bianchi, e dietro a questi seguiva a piedi uno scudiere che teneva le redini, perché su quel cocchio nessun uomo può salire. Dietro di esso veniva Serse in persona su un carro tirato da cavalli nisei (son detti nisei perché c’è nella Media una vasta pianura chiamata Nisea ed è questa che nutre cavalli di razza magnifica) Dietro di lui i più valenti e nobili arcieri e poi altri mille cavalieri persiani scelti

E, dopo la cavalleria, 10.000 uomini scelti tra i restanti Persiani e questi Persiani venivano chiamati Immortali Si distinguevano inoltre perché portavano ornamenti d’oro in grandissima quantità. Conducevano insieme a loro carri da viaggio, ed in essi le concubine e servitù numerosa e ben equipaggiata.

     E poi Erodoto continua la descrizione della fantasmagorica truppa multietnica. Ma – allude Erodoto – lo splendore pittorico di questa enorme armata diretta alla guerra non deve trarre in inganno: non si tratta di una festa, al contrario, l’autore precisa che: “l’esercito avanzava in silenzio e con grande fatica, e veniva continuamente incalzato a colpi di frusta”. L’esercito di Serse è un oggetto gigantesco, e anche questo superbo oggetto – come le piramidi egizie – ispira ad Erodoto una serie di parole-chiave significative: obbligo, costrizione, vincolo, imposizione. Erodoto osserva attentamente il comportamento del re persiano: Serse ha un carattere imprevedibile e squilibrato. Nel suo modo di fare, possiamo trovare un insieme di contraddizioni che ricordano una serie di personaggi della Storia della Letteratura.

     In più di un saggio di commento a Le Storie di Erodoto troviamo che gli studiosi paragonano il personaggio di Serse al personaggio di Nikolaj Stavrogin. Chi è Nikolaj Stavrogin? Nikolaj Stavrogin è un personaggio del famoso romanzo I demoni di Fèdor Dostoevskij (1821-1881) pubblicato nel 1871. Di che personaggio si tratta? Non è possibile, ora, raccontare la trama di questo celebre romanzo: bisogna leggerlo e la Scuola ne consiglia la lettura o la rilettura. Dobbiamo dire che, come sempre in Dostoevskij, il tema del Male – il tema autobiografico della “raffinata capacità che l’essere umano ha di fare il Male” – è centrale nella scrittura di questo grande narratore.

     Dostoevskij si presenta come uno spietato analizzatore, che fa tremare la coscienza, trasmettendo al lettore una sottile sensazione di sgomento: l’acutezza dell’indagine psicologica in Dostoevskij è straordinaria, e la lettura (e la periodica rilettura) delle sue opere è un’avventura alla quale non si deve rinunciare. La vita – per la presenza incombente del Male (Dostoevskij scrive questa parola con la lettera maiuscola) – va considerata come un Inferno e, in questo Inferno, lo scrittore continua a porsi costantemente (attraverso i suoi personaggi) una domanda provocatoria: che ruolo ha Dio in tutta questa storia? Perché Dio non fa nulla contro il Male? Se Dio è buono ed è onnipotente allora il Male non ci dovrebbe essere, perché Dio nella sua infinita bontà userebbe la sua onnipotenza a fin di bene preservando dal male l’essere umano. Se Dio è buono e il Male continua a trionfare nell’Universo – si domanda Dostoevskij – questo che cosa significa: che Dio non è onnipotente? Se Dio invece è onnipotente (prerogativa indispensabile nella natura di Dio) e lascia l’essere umano in questo Inferno allora che cosa dobbiamo pensare: che Dio non è buono? Dostoevskij – studiando soprattutto l’Apocalisse di Giovanni – è ossessionato dall’immagine di Dio il quale si presenta come un benefico Signore di misericordia e contemporaneamente come il Demiurgo di tutto il male che c’è sulla terra. Il romanzo I demoni affronta quindi anche il dilemma se Dio debba essere affermato o debba essere negato e come si debba fare per affermarlo o per negarlo.

     Nikolaj Stavrogin è uno dei quattro personaggi principali del romanzo I demoni. Secondo le parole stesse di Dostoevskij, in una lettera al critico Katkov: “Nikolaj Stavrogin è la figura più cupa, tetra, e tragica del romanzo”. Questo personaggio si presenta come un individuo non privo di senso morale, ma egli, questo senso morale, l’ha voluto soffocare in sé, razionalmente, e razionalmente dirige tutta la sua forza verso il male, compiendo le più atroci nefandezze, il fatto è che questa forza potrebbe dirigerla, volendo – perché ne è cosciente –, verso il bene, ma non è intenzionato a farlo. Quel che manca a Stavrogin è il sentimento del bene: si compiace intellettualmente di fare il male e di mettere a disposizione il proprio intelletto a vantaggio di un’attività distruttrice (l’omicidio, l’attentato, la violenza carnale). Nikolaj Stavrogin è un nichilista che non ha nulla a che fare con un altro tipo di nichilista: il personaggio di Bazarov (un uomo “inutile” ma generoso ed eroico) che abbiamo incontrato, qualche settimana fa, nel romanzo Padri e figli di Turgenev.

     Stavrogin è moralmente spregevole proprio perché è una figura a cui non mancano, oltre alle attraenti caratteristiche esteriori della ricchezza, della nobiltà, della bellezza e della forza, anche elementi positivi interiori, come una costante malinconia che rasenta la tristezza e la forza di umiliarsi con castighi tremendi, vissuti anche con ironia, come il matrimonio che egli contrae: sapete con chi decide di sposarsi? Andate a leggere il romanzo e ne proverete meraviglia.

     Come si prova meraviglia per la lucida “confessione” che egli fa della più vile delle sue azioni che ha una conseguenza nefasta: di che azione si tratta? Lo scoprirete leggendo, è utile – nei confronti di chi non lo avesse ancora letto – non svelare i marchingegni narrativi di questo romanzo.

     E leggendo potrete ancora scoprire che, dietro l’arrogante razionalismo di Stavrogin,  ogni tanto brilla, per un attimo, una scintilla d’umanità ma purtroppo, questa scintilla, non basta a fargli compiere un atto di nobiltà che controbilanci le sue turpitudini.

     Dostoevskij ha sempre affermato di aver costruito la figura di Stavrogin “analizzando direttamente” il proprio cuore: questo romanzo ha suscitato molte polemiche ed è stato chiamato “il libro della grande ira” (La parola “ira” spicca dell’Età assiale della storia). Leggiamone due pagine.

LEGERE MULTUM….

Fédor Dostoevskij, I demoni  (1871)

Ma assai presto cominciarono a giungere a Varvàra Petròvna voci abbastanza strane; il giovanotto si era messo tutt’a un tratto a far baldoria in un modo pazzesco. Non che giocasse o che bevesse molto; si raccontava soltanto di una sua selvaggia sfrenatezza, di persone schiacciate dai suoi cavalli da corsa, di un bestiale contegno verso una dama della buona società, con la quale era stato in relazione, ma che poi aveva offesa pubblicamente. C’era in questa faccenda perfino qualcosa di troppo apertamente sporco. Aggiungevano inoltre che era uno spadaccino, che attaccava briga e offendeva per il piacere di offendere. Varvàra Petròvna si agitava e si affliggeva. Stepàn Trofìmovič l’assicurava che erano solo i primi burrascosi slanci di una natura troppo ricca, che il mare si sarebbe calmato e che tutto ciò rassomigliava alla giovinezza, descritta da Shakespeare, del principe Harry, che faceva baldoria con Falstaff Varvàra Petròvna questa volta non gridò: «Sciocchezze, sciocchezze!», come negli ultimi tempi aveva preso l’abitudine di gridare spessissimo a Stepàn Trofìmovič, ma al contrario, prestò ascolto, si fece spiegare la cosa più minutamente, prese lei stessa Shakespeare (il dramma Enrico IV) e lesse con un’attenzione straordinaria l’immortale cronaca. Ma la cronaca non la tranquillizzò, e poi non ci trovò tanta rassomiglianza. Ella attendeva febbrilmente risposta ad alcune sue lettere. Le risposte non tardarono; si ricevette ben presto la fatale notizia che il principe Harry aveva avuto quasi allo stesso tempo due duelli, che in entrambi era colpevole in pieno, che aveva ucciso sul colpo uno dei suoi avversari e storpiato l’altro, e in conseguenza di tali fatti era stato messo sotto giudizio. La faccenda era terminata con la sua retrocessione a soldato, con la perdita dei diritti e l’invio in un reggimento di fanteria di linea, e anche questo per un particolare atto di benevolenza.

Nel 1863 gli riuscì in qualche modo di segnalarsi; gli fu data una piccola decorazione e fu promosso sottufficiale, e poi ben presto anche ufficiale. In tutto quel tempo Varvàra Petròvna aveva mandato alla capitale forse un centinaio di lettere piene di preghiere e di suppliche. In un caso così insolito ella si degnò di umiliarsi un poco. Dopo la promozione, il giovane diede a un tratto le dimissioni, seguitò a non venire a Skvoréšniki e smise ormai del tutto di scrivere alla madre. Si seppe infine, per vie traverse, che egli era di nuovo a Pietroburgo, ma che nell’ambiente di prima non lo si incontrava più affatto; pareva che si fosse nascosto chi sa dove. Si giunse a scoprire che egli viveva in una certa strana compagnia, che aveva stretto rapporti con certi rifiuti della popolazione di Pietroburgo, con certi pezzenti d’impiegati, militari in ritiro che chiedevano decorosamente la carità, ubriaconi; che visitava le loro sudice famiglie, stava giorno e notte in bassifondi oscuri e Dio sa in quali vicoletti, che si era lasciato andare, s’era fatto uno straccione, e che tutto ciò doveva piacergli. Denari alla madre non ne chiedeva; egli aveva un suo poderetto, la piccola campagna già del generale Stavrogin, che gli dava pure un certo qual reddito e che egli, secondo le voci, aveva data in affitto a un tedesco di Sassonia. Infine la madre, a forza di supplicarlo, ottenne che venisse da lei, e il principe Harry comparve nella nostra città. Ed è qui che io l’osservai per la prima volta, mentre fino a quel giorno non l’avevo mai visto.

Era un bellissimo giovane, sui venticinque anni e, lo confesso, mi colpì. Mi aspettavo di trovare uno straccione, esaurito dagli stravizi e puzzolente d’acquavite. Al contrario, era il più elegante gentleman di quanti mi fosse mai capitato di vederne, straordinariamente ben vestito, e si comportava come poteva comportarsi solo un signore abituato alla grazia più raffinata. Non ero stupito io solo: stupiva tutta la città, alla quale, naturalmente, era già nota tutta la vita del signor Stavrogin, e anzi con tali particolari che era impossibile immaginarsi di dove si fossero potuti avere, e metà dei quali, fatto più sorprendente di tutti, risultò vera. Tutte le nostre signore erano pazze per il nuovo ospite. Esse si divisero nettamente in due campi: in uno lo adoravano, nell’altro lo odiavano a morte; ma pazze erano le une e le altre. Certune erano particolarmente lusingate che nell’anima sua ci fosse forse un qualche fatale segreto; ad altre piaceva veramente che egli fosse un assassino. Si vide pure che egli aveva una discreta istruzione, e perfino una certa erudizione. Di erudizione, certo, non ce ne voleva molta per farci stupire; ma egli poteva dare giudizi anche su argomenti interessantissimi del giorno e, cosa più di tutte preziosa, con notevole buon senso.

Ricorderò come una stranezza che da noi tutti, quasi fin dal primo giorno, lo giudicarono un uomo straordinariamente sensato. Non era molto ciarliero, era elegante senza ricercatezza, mirabilmente modesto e nello stesso tempo audace e sicuro di sé, come nessuno da noi. I nostri elegantoni lo guardavano con invidia e davanti a lui scomparivano addirittura. M’impressionò pure il suo viso; i suoi capelli erano anche troppo neri, i suoi occhi luminosi anche troppo tranquilli e limpidi, il colorito del viso anche troppo delicato e bianco, l’incarnato anche troppo vivo e puro, i denti come perle, le labbra come coralli; sembrava un quadro, ma nello stesso tempo si sarebbe detto anche repulsivo. Dicevano che il suo viso ricordava una maschera; del resto dicevano molte cose, fra l’altro anche della sua straordinaria forza fisica. Era di statura quasi alta. Varvàra Petròvna lo guardava con orgoglio, ma con perenne inquietudine. Egli visse da noi sei mesi circa, in modo fiacco, quieto, abbastanza grigio; si mostrava in società e si conformava con inflessibile attenzione a tutta la nostra etichetta provinciale. Del governatore era parente per parte di padre, e nella sua casa fu accolto come un prossimo congiunto. Ma passarono alcuni mesi, e a un tratto la belva mostrò i suoi artigli.

     Anche Serse – ci racconta Erodoto – comincia a mostrare i suoi artigli. Serse procede alla testa del suo enorme esercito verso Sardi, e ad un tratto, lungo la strada – ci racconta Erodoto nel libro VII al capitolo 31 – vede un platano e rimane affascinato dalla bellezza di quest’albero. Noi sappiamo – dalla rete dei racconti (la mitosarchis) su cui si basa la cultura della tragedia greca – che il platano è l’albero di Elena e per questo motivo, nell’area mediterranea, veniva venerato. Serse non conosce questo particolare ma sente di dover venerare questo meraviglioso (deinòs, attenzione al duplice significato del termine!) albero, e, dopo averlo fatto adornare d’oro, lo affida alla custodia di una divinità.

     Perché abbiamo annunciato che Serse comincia a mostrare i suoi artigli? In questo momento forse ci viene da pensare: ma che brava persona, ma che animo gentile. Dobbiamo fare l’esegesi (dare una spiegazione) tenendo conto delle forme intellettuali, culturali e allegoriche presenti nella mente di Erodoto. Perché Erodoto utilizza questo “episodio del platano” come introduzione al racconto delle nefandezze di Serse? 

    Erodoto allude al fatto che Serse prova ammirazione per questo platano perché s’identifica con questo meraviglioso oggetto: nella grandezza, nella maestosità, nella bellezza di quest’albero vede l’immagine di se stesso, agghindato d’oro e venerato come una divinità. Se Serse avesse saputo – allude Erodoto – che il platano è l’albero di Elena sarebbe stato più cauto, lo avrebbe venerato senza, superbamente, identificarsi troppo: perché? Perché, secondo la tradizione mitica (ed Erodoto ne è certamente a conoscenza), “ad un platano è stata impiccata Elena”, e in ogni villaggio dell’area mediterranea si piantava un platano perché sotto quest’albero le amiche della sposa (all’alba della prima notte di nozze) potessero celebrare il rito dell’addio al celibato. È un rito che rievoca l’impiccagione di Elena la quale, con la sua infedeltà, – secondo la tradizione mitica – non solo si è comportata male nei confronti del marito ma ha anche rovinato la reputazione di tutte le spose e, quindi, ha subìto (o avrebbe dovuto subire) la giusta punizione. Questa celebrazione è, più che altro, un rito funebre che contiene un carattere di ammonimento e di minaccia: se non sarai fedele, se farai come Elena, farai la sua fine (c’è una legittimazione del delitto d’onore). Quindi – allude Erodoto – non sarebbe molto conveniente identificarsi con l’albero di Elena ma Serse ignora questo particolare.

     E difatti Serse non ha ancora finito di estasiarsi sulla magnificenza del platano e sulla sua potenza personale che per lui cominciano i guai. Un messaggero porta la notizia che una terribile tempesta ha distrutto i ponti gettati, per ordine di Serse (che si sente un grande stratega), sull’Ellesponto per far passare l’enorme esercito dall’Asia all’Europa. “Appena Serse lo seppe, tremendamente indignato ordinò che l’Ellesponto venisse percosso con trecento colpi di frusta e che fosse gettato nel mare un paio di ceppi. Ho pure udito – scrive Erodoto – che mandò insieme a costoro anche dei marchiatori, per imprimere un marchio all’Ellesponto. … Il re dunque fece punire in tal modo il mare e a quelli che sovrintendevano alla costruzione del ponte sull’Ellesponto fece tagliare la testa”.

     In un altro contesto (ragionando sull’idea dell’animismo) abbiamo già letto questo brano e conosciamo già questa storia, e abbiamo anche sorriso per questa narrazione: Erodoto ci fa sorridere perché allude ironicamente, ma vuole invitarci severamente a riflettere. “A quelli che sovrintendevano alla costruzione del ponte sull’Ellesponto (Serse) fece tagliare la testa”. Noi ignoriamo quante teste cadano e se i costruttori condannati a morte offrano spontaneamente il collo o si gettino in ginocchio per invocare pietà. Visto che i ponti, allora (ma anche oggi) richiedevano l’opera di migliaia di persone dobbiamo pensare che si sia trattato di una vera e propria carneficina: Serse – dove è finito il suo animo sensibile che si lascia sedurre dalla bellezza di un albero? – mostra gli artigli.

     Questi provvedimenti autoritaristici – questi sacrifici umani, queste nefandezze – calmano Serse ed esaltano la sua potenza. Gli operai ripristinano i ponti sullo stretto e i magi annunciano che i presagi per il futuro sono favorevoli. Ma non è forse lui – allude Erodoto –, in quanto capo supremo, il primo responsabile di questa impresa, se non altro perché la vive in presa diretta con gli dèi? Serse ha appena ripreso la sua trionfale marcia verso l’Europa, quando gli si presenta Pizio (un altro personaggio “allegorico”?). Pizio è un alleato di Serse, è un vecchio abitante della Lidia e crede di essere degno di rispetto e di poter parlare con Serse da uomo a uomo (come si suol dire). Pizio vuole chiedere al Re dei Re un favore, e si avvicina a lui con fiducia pensando di poter dialogare con un saggio: è convinto che il termine “potenza” si debba conciliare col termine “saggezza”. Ascoltiamo questo racconto dalla voce di Erodoto.

LEGERE MULTUM….

Erodoto, Le Storie VII  39

Pizio si rivolse umilmente a Serse dicendo: “Sire, io ho cinque figli e tocca a tutti loro partecipare insieme con te alla spedizione contro la Grecia. Ma tu, o re, abbi pietà di me che sono giunto a tale età e dei miei figli: prosciogli dall’obbligo della milizia il maggiore perché si curi di me e delle mie ricchezze. Gli altri quattro conducili pure con te e, dopo aver compiuto quel che hai in mente, possa tu fare ritorno”.

Dopo aver udito queste parole Serse viene fortemente preso dall’ira e grida al vecchio: “Vile, tu hai osato ricordarmi di un tuo figlio, tu che sei mio schiavo e che dovresti seguirmi con tutta la famiglia compresa la moglie” Dopo che ebbe così risposto subito diede ordine a quelli che ne erano incaricati di trovare il più grande dei figli di Pizio e di tagliarlo per metà, e dopo disporre le due metà l’una a destra della strada, l’altra a sinistra, e che per di là passasse l’esercito.

     Erodoto prosegue laconicamente con una battuta: “l’ordine viene eseguito”. I soldati persiani che, al sibilo delle fruste, avanzano in file interminabili, vedono ai lati della strada i resti insanguinati del figlio maggiore di Pizio. Dov’è Pizio in quel momento, è accanto alle spoglie del figlio così barbaramente trucidato? E se è accanto alle spoglie – allude Erodoto con la sua solita drammatica ironia, che invita il lettore a ripudiare maggiormente la nefandezza – accanto a quale parte di esse si è messo quel povero vecchio, su quale lato della strada? Oppure va avanti e indietro quasi incredulo, inebetito di fronte alla reazione del sovrano più potente del mondo?   Come si comporta Pizio quando passa il carro di Serse? Che cosa esprime il suo viso? Impossibile sapere – allude Erodoto nel momento in cui, ancora una volta, con la narrazione di questo episodio, condanna l’autoritarismo del potere assoluto – che cosa esprima il volto di questo vecchio: Pizio è uno schiavo e sta in ginocchio, con la faccia a terra, ammutolito da questa nefandezza, atterrito dall’ira del Re dei Re.

     Serse è continuamente divorato dal tarlo dell’insicurezza dissimulata sotto una maschera di bòria e di alterigia. L’insicurezza – allude Erodoto – fa scatenare in Serse l’ira.

      E a questo punto dobbiamo interrompere la narrazione della marcia dell’enorme esercito di Serse verso l’Europa per puntare ancora la nostra attenzione su una delle più significative parole-chiave dell’Età assiale della storia: la parola “ira”. La parola “ira” – lo sappiamo già, abbiamo già fatto questa affermazione la scorsa settimana – appartiene ad un nucleo formato da quattro importanti parole-chiave che – come ci suggeriscono gli antropologi – trovano nel testo de Le Storie di Erodoto la loro prima collocazione, e a queste quattro parole lo scrittore dà particolare rilievo. Queste quattro parole-chiave, difatti, costituiscono le colonne portanti della cultura dell’Età assiale della storia e sono: la parola “destino” (di cui ci siamo già occupati viaggiando con Erodoto in Mesopotamia entrando in contatto con il testo dell’Epopea di Gilgamesch), la parola “ordine” (di cui ci siamo già occupati viaggiando con Erodoto in Egitto entrando in contatto con il testo del papiro Smith), la parola “sogno” (di cui ci siamo occupati la scorsa settimana entrando in contatto con il testo del libro della Genesi) e la parola “ira” (di cui ci occupiamo ora).

     Se la parola “destino” (“me” in lingua akkadica, la lingua dei Sumeri) è radicata nel testo dell’Epopea di Gilgamesch, se la parola “ordine” (“maat” in lingua egizia) è radicata nel testo del papiro Smith, se la parola “sogno” (khalom in ebraico) è radicata nel testo del libro della Genesi, dove, in quale testo, è radicata la parola “ira”? Noi sappiamo che la parola “ira” è la prima parola della letteratura omerica, la prima parola della letteratura greca e quindi la prima parola della letteratura occidentale: infatti l’Iliade di Omero inizia con la parola “ira”.

     Anche Erodoto usa molte volte la parola “ira”. Ma ( e ragioniamo sulle “parole” in funzione della didattica della lettura e della scrittura), nel vocabolario di Erodoto, qual è il termine che traduce la parola “ira”? Erodoto usa lo stesso termine che utilizza Omero? Omero per definire l’ira utilizza la parola “menis”, che risulta, rispetto al vocabolario di Erodoto, un termine arcaico. Quindi Erodoto non utilizza più l’antico termine omerico “menis”, ma, per definire l’ira, usa un’espressione tratta dal vocabolario della tragedia: la parola “orgé”.

     Tutti – che si traduca “menis” o che si traduca “orgé” – siamo soggetti all’ira. Siamo soggetti all’ira soprattutto per tre classici motivi legati – ancora una volta – alle parole-chiave su cui stiamo puntando la nostra attenzione e i cui significati s’intersecano: ci adiriamo o perché il nostro “destino” è avverso o perché non tutto è in “ordine” o perché i nostri “sogni” non si avverano. Ma l’ira, la rabbia, la collera ci prende anche per tanti altri motivi. Questa parola ci appartiene, e sicuramente ciascuno di noi ha da dire, da comunicare, da esprimere la sua opinione in proposito.

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Quale di queste parole – facendo riferimento alla vostra esperienza personale - mettereste per prima accanto alla parola “ira”: la violenza, la gelosia, la delusione, l’indignazione, il dolore, l’ingiustizia, la maledizione, il tradimento, il dispiacere, lo sdegno, la vendetta? 

Scrivete (può essere anche un’altra parola, diversa da quelle elencate: il ventaglio dell’ira è molto ampio)…

     La parola “ira” primeggia e campeggia in quello che viene considerato il primo grande poema “occidentale” dell’Età assiale della storia: l’Iliade di Omero, un’opera che tutti abbiamo sentito nominare e che, nei nostri Percorsi abbiamo studiato – nei suoi vari aspetti – più di una volta.

     I personaggi di cui si parla in quest’opera di poesia epica sono così celebri (anche dal punto di vista cinematografico, oltre che letterario ed artistico) che sono noti a tutti: Elena, Ettore, Achille, Agamennone, Ulisse, Paride, Priamo e via dicendo, e le avventure raccontate risultano famose anche per chi (la stragrande maggioranza dei cittadini) non ha mai letto l’Iliade.

     Il nome “Iliade” ci ricorda la leggendaria storia dei dieci anni di assedio della città di Troia (Ilio) da parte dei Greci (gli Achei), ma in realtà questo poema racconta gli ultimi cinquantuno giorni di questo conflitto, e i termini “guerra, dolore, morte, valore, onore, gloria” vengono dopo perché la prima parola dell’Iliade è la parola “ira”, nel greco di Omero: “menis”. Prima di essere un poema di guerra e di morte, l’Iliade è il poema dell’ira, della rabbia, della collera. La parola “menis”, l’ira, è anche il tema conduttore di tutta la storia narrata: tutti i personaggi principali sono arrabbiati, sono in preda alla collera.

     L’Iliade inizia con il racconto di un episodio che si svolge nell’ultimo anno di guerra e che ha per protagonista Achille, il guerriero più forte, che è portatore di “un’ira funesta”. Ma perché Achille è così arrabbiato? Sono due i motivi che muovono l’ira di Achille e, intorno a questi due motivi, ruota tutto il poema. Il primo motivo – gli studiosi parlano di “proto-menis (la prima ira)” – dipende dal fatto che Agamennone, il capo degli Achei (che è il vero nemico di Achille) gli sottrae, per spregio, la fanciulla Briseide. Il secondo motivo – gli studiosi parlano di “deutero-menis (la seconda ira)” dipende dall’uccisione di Patroclo, il fedele compagno di Achille, da parte di Ettore.

     Ma il contenuto dell’Iliade è noto a tutti e quindi non ci dilunghiamo su questo argomento ma passiamo subito alla lettura del brano d’inizio dell’Iliade per constatare come la parola “ira” spadroneggi. 

LEGERE MULTUM….

Omero, Iliade  (Canto I)

L’ira di Achille, io racconto, accompagnato dalla Musa del canto.

L’ira di Achille, figlio di Peleo, che causò tanti danni agli Achei.

Sono trascorsi già nove anni ed è cominciato il decimo anno di guerra

da quando i Greci, al comando di Agamènnone, combattono nella terra di Ilio.

Essi hanno già sconfitto e già saccheggiato le città dei Troiani alleate,

se ne sono divisi il bottino, ed ora Troia stessa stanno assediando.

Il vecchio Crise, sacerdote di Apollo, si presenta un giorno, presso le navi,

e agli Achei adunati in consiglio, con grande umiltà,

chiede di poter riscattare la figlia Crisèide, fatta prigioniera e assegnata

come schiava ad Agamènnone  quando i Greci hanno preso la polis di Crisa.

Ma il prepotente Agamènnone mostra la sua ira e scaccia via il vecchio sacerdote

e lo minaccia di morte. Crise si allontana impaurito, e piangendo,

sulla riva del mare, invoca la vendetta di Apollo.

Scende dall’Olimpo, cupo in volto per l’ira e lo sdegno, il dio vendicatore

e si apposta, invisibile, davanti all’accampamento dei Greci

e comincia a scagliare le sue frecce infallibili, seminando, per nove giorni,

la morte, prima tra gli animali e poi tra i guerrieri.

Finalmente il decimo giorno Achille convoca l’assemblea degli Achei

e interroga l’indovino Calcante per conoscere la causa

della pestilenza tremenda che infuria tra loro.

Dapprima l’indovino Calcante, timoroso, nel rispondere, esita;

poi, rassicurato dalle parole di Achille, rivela la realtà delle cose

suscitando la rabbia di Agamènnone, il capo dei capi,

il quale, adirato, si alza e dichiara che, se dovrà restituire Crisèide,

si prenderà un’altra schiava, Brisèide, la favorita di Achille.

Tra i due guerrieri divampa furibonda la lite e Achille, sguainata la spada,

si lancia su Agamènnone; lo frena la madre Teti, la quale, promette ad Achille

che un giorno i Greci si pentiranno di avergli recato l’offesa.

Egli allora, con i suoi soldati, i Mirmidoni, tenaci in battaglia,

abbandona la lotta e si ritira nelle sue tende, lontano dal campo,

solo, in compagnia della sua ira funesta.

     Il testo dell’Iliade è stato elaborato da molti autori, da prima oralmente, poi, dal VI secolo a.C. per iscritto. L’Iliade non è un diario di guerra ma è una leggenda di argomento eroico che prende spunto dai numerosi scontri armati avvenuti nel corso dei secoli intorno alla fiorente città di Troia, situata in posizione strategica sulle coste dell’Asia Minore e lo si capisce subito guardando sulla Carta geografica.

     La parola “ira” esprime un sentimento complesso su cui, oggi, è necessario riflettere. La parola menis, con cui inizia il testo del poema omerico, non significa solo collera e rabbia ma ha un significato più profondo di rivalità e di lotta per il potere e questo significato viene raccolto e amplificato dal termine orgé con cui Erodoto, ne Le Storie,  traduce la parola “ira”. I più forti, i più potenti mascherano spesso, dietro la loro ira, dietro la loro rabbia, dietro la loro collera, la volontà di imporsi. L’ira diventa uno strumento per sottomettere le persone più deboli e per comandare. Quando Erodoto parla dell’ira di Serse allude a questa situazione: l’ira di Serse, orgé, è un pretesto attraverso il quale il Re dei Re realizza le sue nefandezze. Serse mostra i suoi artigli con ira.

     E, dopo questa parentesi omerica, riprendiamo – sulla scia di Erodoto – la marcia insieme all’enorme esercito di Serse verso l’Europa. La grande armata di Serse, prosciugando i fiumi, divorando tutto ciò che di commestibile trova sul proprio cammino e seguendo le coste settentrionali del Mar Egeo, attraversa la Tracia, la Macedonia, la Tessaglia e raggiunge la via obbligata per entrare in Attica e dirigersi verso Atene: il passo delle Termopili. Anche il nome delle Termopili – come quello di Maratona – è molto evocativo.

     Le Termopili sono uno stretto passaggio collocato in mezzo ad aspre colline tra il mare (a est) e il monte Ìti (a nord-ovest) alto ben 2152 metri. Prima di occuparci delle Termopili dal punto di vista storico dobbiamo occuparcene anche dal punto di vista geografico e paesaggistico.

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Si consiglia quindi un viaggio (virtuale, ma di preparazione al viaggio reale…) – utilizzando l’atlante, l’enciclopedia, la guida della Grecia, la rete – nella zona tra la regione della Tessaglia e la regione dell’Attica: il passo delle Termopili metteva in comunicazione queste due regioni…

     Oggi le aspre colline intorno alle Termopili sono rese più morbide (se così possiamo dire) dalle vaste coltivazioni di ulivi e di cotone. Il nome Termopili deriva dalla presenza, in questa zona, di molte fonti termali di acque sulfuree. La cittadina più grande (45.000 abitanti) che si trova vicino al passo delle Termopili si chiama Lamìa (potete cercarla sull’atlante) ed è un moderno centro agricolo ma conserva interessanti vestigia del passato: l’aspetto di Lamìa è quello di una città orientale la cui parte alta – dove c’era l’antica acropoli – è dominata dai resti (ben conservati) di una fortezza franco-catalana costruita nel XIV secolo.

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Come mai troviamo una struttura franco-catalana da queste parti?

Merita andare a caccia d’informazioni in proposito…

     Da Lamìa si raggiunge (sono 16 km.) la località di Loutrà Ipàtis, famosa stazione termale e base di partenza per le ascensioni (meglio a piedi ma anche in auto) al monte Ìti (2152 metri) dalla cui cima si può ammirare uno stupendo panorama sulla zona delle Termopili e ben oltre.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Il monte Ìti è il terreno di uno dei celebri miti che riguardano il personaggio di Eracle il quale cercava di darsi la morte ma lì, sul monte Ìti, fu salvato da qualcuno: da chi?… Conoscete questo mito? …  È utile imbastire una ricerca in proposito, buon viaggio…

     Il passo delle Termopili dista da Atene circa 200 km. ma conquistarlo significa aprirsi la strada per la città. I Greci attendono l’enorme esercito di Serse alle Termopili ed Erodoto, nel VII libro de Le Storie (di cui si consiglia la lettura), ci racconta questi “memorabili” avvenimenti.

     La tradizione tramanda che i Greci difendevano questo fondamentale punto strategico con 7300 uomini riuscendo a respingere gli attacchi frontali dell’avanguardia dell’esercito di Serse composta da 30.000 soldati ben armati e ben addestrati. I Persiani riuscirono a conquistare il passo solo a causa di un tradimento operato da un certo Efialte a danno dei Greci. Efialte conosceva un sentiero segreto attraverso il quale si poteva aggirare il passo e lo insegnò ai Persiani che presero di sorpresa i Greci.

     L’esercito greco era comandato da un generale spartano, Leonida. Questa volta Atene (contrariamente a dieci anni prima contro Dario) non era da sola ad affrontare Serse, ma la maggior parte delle polis greche, resesi conto del pericolo che stavano correndo, avevano stretto un’alleanza. Leonida, resosi subito conto che sarebbe stato impossibile fronteggiare la situazione, si preoccupò di mettere in salvo il grosso delle forze e ordinò ai soldati ateniesi di retrocedere, poi si attestò alle Termopili con i suoi trecento Spartani e coprì la ritirata dell’esercito greco. Tutti i difensori, compreso Leonida, caddero combattendo eroicamente e inflissero ai Persiani perdite gravissime. Dopo la battaglia Serse, profondamente adirato – ci racconta Erodoto – passa tra i cadaveri dei soldati spartani i quali, sprezzanti del pericolo e della morte, avevano arrecato tanto danno al suo esercito. Serse cerca il corpo di Leonida e quando lo trova ordina, scrive Erodoto: “di tagliargli la testa e di crocifiggerlo”. Probabilmente – allude Erodoto – il Re dei Re ha paura di quel corpo anche da morto. Da questo momento Serse non vince più una battaglia.

     Oggi al passo delle Termopili troviamo – a ricordo di questo scontro sanguinoso – il monumento a Leonida e ai suoi trecento Spartani eretto nel 1955. Il personaggio di Leonida ha sempre trovato un posto nella cultura classica non solo come pretesto per esaltare il valore dell’onore e della gloria, ma anche per celebrare l’ironia. Intorno a Leonida e ai suoi trecento Spartani è nata un’aneddotica leggendaria di carattere ironico, come dire che: quando si combatte per una giusta causa, si può morire valorosamente con il sorriso sulle labbra e, questo atteggiamento serve anche per terrorizzare e per indebolire l’avversario.

     Una serie di aneddoti sugli Spartani alle Termopili ce li tramanda Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C) in un’opera (che abbiamo già incontrato qualche Percorso fa) intitolata De Finibus bonorum et malorum, I limiti del bene e del male (45 a.C). De Finibus, I limiti – così viene abbreviato il titolo di quest’opera di Cicerone – è un trattato in cinque libri, scritto sotto forma di dialogo platonico. Il tema di quest’opera – De Finibus, I limiti – è di carattere educativo e didattico e affronta un problema non di poco conto e sempre di grande attualità: come educarsi per attuare il Bene e per evitare di fare il Male? Per fare il bene ed evitare di fare il male – che è l’aspirazione che caratterizza l’essere umano, scrive Cicerone – è necessario, prima di tutto, imparare a conoscere i limiti umani della persona e imparare a prenderne atto, perché la conoscenza del nostro valore, dipende dalla conoscenza dei nostri limiti.

     Nel frammento che adesso leggiamo Cicerone cita l’ironia di Leonida e degli Spartani alle Termopili: l’auto-ironia – secondo Cicerone – serve a riconoscere i nostri limiti e, al momento del bisogno, aiuta ad andare al di là delle nostre possibilità.

LEGERE MULTUM….

Marco Tullio Cicerone, I limiti del bene e del male (45 a.C)

Leonida, re degli Spartani, tenne fronte alle Termopili all’esercito persiano insieme coi suoi trecento soldati che aveva portato con sé da Sparta, preferendo una gloriosa morte ad una fuga vergognosa. Prima di combattere, disse ai suoi compagni: «Pranzate allegramente, o Spartani; stasera forse ceneremo nell’Ade e lì dovremo tenere un contegno più dimesso».

E uno di quei soldati, avendogli detto un Persiano per millanteria: «Non vedrete neppure il sole per la moltitudine di frecce che lanceremo»; «Bene», rispose, «combatteremo all’ombra, e ne trarremo vantaggio, con questo caldo!».

E tutti infatti combatterono con lieto e forte animo e caddero morti.

La loro memoria fu consacrata dal poeta Simonide con due versi che dicono: “Passeggero, riferisci a Sparta, che ci hai qui veduti morti in ossequio alle sacre leggi della patria”.

     Da questo momento Serse non vince più una battaglia. Ma diamo la parola ad Erodoto.

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Erodoto, Le Storie VIII  97

Serse, appena si rese conto della disfatta patita (alle Termopili), temendo che i Greci pensassero di navigare verso l’Ellesponto per sciogliere i ponti di zattere e che egli rischiasse di perire bloccato in Europa, meditò la fuga.

     E in effetti Serse fugge: fugge dal campo di battaglia senza aspettare la fine della guerra, e rientra precipitosamente a Susa. A quell’epoca ha poco più di trent’anni e regnerà sui Persiani per altri quindici: di questi anni della vita di Serse noi sappiamo ben poco, forse si dedica alla costruzione del palazzo reale di Persepoli, forse si sente svuotato e depresso. Fatto sta che Serse scompare dalla scena della storia: finiti i sogni di gloria, esauritosi il desiderio di regnare su tutto il mondo, sembra che si sia dedicato solo alle donne, e alla costruzione di un enorme harem di cui a Susa si possono visitare le rovine. A cinquantasei anni, nel 465 a.C., Serse viene ucciso dal capo della sua guardia reale Artabano.

     Artabano mette sul trono il fratello minore di Serse, Artaserse, il quale, a sua volta, uccide Artabano durante la guerra di palazzo scoppiata tra i due. Il figlio di Artaserse, Serse II, viene ucciso nel 425 a.C. dal fratello Sogdiano, assassinato a sua volta da Dario II e così via: siamo appena all’inizio di una catena ininterrotta di vendette. Sembra che Erodoto abbia proprio ragione quando sostiene che uno dei motori della storia è la vendetta.

     Serse, sconfìtto, si ritira dall’Europa e fa ritorno a Susa scortato da reparti decimati dalla stanchezza, dalle malattie e dalla fame: è proprio vero – allude Erodoto – che non bisogna fidarsi dei sogni! Ma leggiamo un frammento dal libro VIII de Le Storie (di cui si consiglia la lettura) inerente a questa ritirata.

LEGERE MULTUM….

Erodoto, Le Storie VIII  115

Nei luoghi e presso i popoli cui via via (i Persiani) pervenivano nella loro marcia saccheggiavano il raccolto e se ne cibavano: se non lo trovavano, allora mangiavano l’erba che nasceva dalla terra, e tagliando le cortecce e strappando le foglie dagli alberi le divoravano, sia di quelli selvatici sia di quelli coltivati, senza lasciare nulla; facevano questo per la fame. La pestilenza che colse l’esercito poi, e la dissenteria li decimarono lungo la strada. Serse lasciava indietro i malati

     La guerra in cui la Persia avrebbe dovuto (secondo i sogni di Serse) sconfiggere la Grecia (ossia l’Asia invadere l’Europa), la guerra per mezzo della quale il dispotismo avrebbe dovuto annientare la democrazia e la schiavitù avrebbe dovuto prevalere sulla libertà, non è ancora finita: molte cose sono accadute e molto sangue è stato versato.

     I Persiani, superato il passo delle Termopili, dilagano nella Grecia centrale e invadono l’Attica: l’Acropoli di Atene viene espugnata, e la città viene data alle fiamme. La popolazione si salva perché si è rifugiata per tempo nelle zone montuose della regione.

     A questo punto ne Le Storie di Erodoto (nell’ VIII libro) entra in scena un personaggio. C’è chi dice che Erodoto tratta questo personaggio come se fosse il più importante dell’opera: questo personaggio si chiama Temistocle. Temistocle è un giovane di modeste origini, ma ricco d’ingegno e di preveggenza e –dopo una dura battaglia politica contro Aristide, il rappresentante del partito aristocratico – viene eletto alla carica di stratega. Temistocle appartiene al partito democratico che rappresenta la complessa classe sociale della borghesia (artigiani, mercanti) che si dedica agli scambi commerciali. Temistocle sostiene un dura battaglia affinché s’investano al più presto notevoli risorse per costruire una flotta moderna che possa servire tanto per i commerci quanto a scopi militari. Temistocle vince questa battaglia politica e così Atene può disporre, in breve tempo, di 200 triremi, navi tecnicamente ben costruite e molto funzionali.

     Inoltre Temistocle conduce un’altra battaglia parlamentare (nella bulé, nell’assemblea legislativa) affinché Atene coltivi buoni rapporti con Sparta e, siccome il pericolo di un’invasione persiana incombe, agisce in modo che quasi tutte le più importanti polis greche stringano un’alleanza nel rispetto delle reciproche autonomie.

     Dopo le Termopili, nel momento di maggior pericolo per la Grecia, le scelte di Temistocle risultano determinanti: in primo luogo quella dell’utilizzo della flotta. Imponendosi contro l’opinione di tutti i paurosi e i dubbiosi, che proponevano la ritirata nel Peloponneso, Temistocle riesce a imporre al consiglio di guerra che la flotta combatta nelle acque di Salamina dove è ormeggiata. Tutti noi sappiamo che la battaglia navale di Salamina è una delle più celebri della storia (480 a.C.).

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Salamina è un’isola che si trova a breve distanza da Atene ed è interessante cercarla sull’atlante, è utile cercare questa località sull’enciclopedia, sulla guida della Grecia o sulla rete, in modo che si possano raccogliere, in quattro righe,  alcune notizie utili (geografiche, paesaggistiche, turistiche) in funzione del viaggio: buon viaggio…

     Temistocle, coadiuvato dall’ammiraglio spartano Euribiade, attira con astuzia nelle acque dello stretto di Salamina le grosse navi persiane (se osservate, sull’atlante, la carta di quest’area ve ne rendete conto) che stentano a manovrare in uno spazio così angusto. Le imbarcazioni greche, più agili e tecnicamente superiori, affondano un gran numero di navi persiane costringendo quelle superstiti ad una fuga disastrosa.

     Nel dipingere il quadro di questa battaglia e il quadro di tutta questa grande guerra dell’antichità, Erodoto procede sempre secondo la legge dei contrasti. Da una parte, ossia da Oriente, avanza un immenso rullo compressore: una forza cieca tenuta rigidamente a freno dal potere dispotico di un re-padrone, di un re-dio. Dall’altra c’è il mondo greco, disunito, discorde, diviso da conflitti e da rancori interni. Un mondo di etnie e di città indipendenti senza uno Stato che le tenga insieme. In questo elemento disomogeneo spiccano i due centri di Atene e di Sparta i cui reciproci rapporti e assetti costituiscono il perno di tutta l’antichità greca.

     In questa guerra, l’un contro l’altro armati, stanno – nella visione di Erodoto – due uomini. Il giovane Serse, permeato da un forte senso del potere assoluto, e Temistocle, convinto delle proprie ragioni e capace di pensare e di agire con coraggio. Le loro situazioni – allude Erodoto – sono completamente diverse: Serse governa emanando ordini assoluti, Temistocle, prima di emanare un ordine, deve ottenere il consenso del parlamento (della bulé), e il consenso di tutto il popolo. Anche i loro ruoli – allude Erodoto – sono diversi: Serse sta a capo di un’armata che avanza come una valanga ansiosa di arrivare alla vittoria finale, Temistocle deve rendere conto, deve perdere tempo a perorare, argomentare e discutere con l’assemblea degli eletti e con i cittadini. I Persiani hanno una sola idea, ma chiara, che mai può e deve essere messa in discussione: accontentare il re. I Greci invece sono divisi ma possono e devono ribadire questa loro divisione nei luoghi istituzionali dove si può e si deve concertare l’unità funzionale non l’unità imposta: da un lato si sentono legati alle loro piccole patrie, alle loro città-stato, alla polis, ognuna con i suoi interessi e le sue ambizioni particolari, ma dall’altro lato si sentono accomunati al resto della Grecia dalla lingua, dalle tradizioni mitiche e da un sentimento patriottico incerto, ma che, all’occorrenza, è capace di insorgere con energia, con vigore, con vitalità.

     Il racconto della gloriosa e vittoriosa guerra dei Greci contro i Persiani oggi – ai nostri occhi di lettori – appare come un pretesto, utilizzato da Erodoto, per esaltare i valori della democrazia (della polis) rispetto alla dittatura (all’impero). Pur con tutte le contraddizioni, pur con tutte le ambiguità – allude Erodoto – la democrazia (la polis) è preferibile alla dittatura (all’impero). Perché – si domanda Erodoto – la democrazia è preferibile alla dittatura? Perché la democrazia – per essere tale – deve fondarsi su un’idea che corrisponde – ed Erodoto usa spesso questo termine – alla parola “paideia” che significa: educazione, ma non solo, nella parola “paideia” sono compresi anche i significati di insegnamento, formazione, istruzione, scuola, preparazione, cultura, ma non basta, la parola “paideia” contiene anche l’idea della gentilezza, del garbo, della correttezza, della finezza, della raffinatezza, della creanza.

     Inoltre – sostiene Erodoto – la democrazia è preferibile alla dittatura perché il sistema democratico utilizza ed esalta come strumento e come metodo: la politica, che è l’essenza della polis, lo dice la parola stessa. La politica – ribadisce Erodoto – è l’arte, la scienza e la pratica del governo e dell’amministrazione delle varie Istituzioni. La politica è l’arte, la scienza e la pratica con cui si curano gli affari pubblici. La dittatura – allude Erodoto, usando spesso la parola “impero” (che è tornata di moda)  – non conosce la politica ma conosce il suo contrario, e il contrario della politica – ribadisce Erodoto – corrisponde (nel bene e nel male) agli affari privati, alle pratiche personali: se gli affari e le attività del Re dei Re (visto che è il “padrone dello Stato”) corrispondono agli affari dello Stato, le Istituzioni si dissolvono con la struttura stessa della comunità civile e anche l’Idea stessa della comunità umana si dissolve. 

     Perché – si domanda Erodoto – la democrazia è preferibile alla dittatura? Perché la dittatura (l’impero) lega il suo potere ad un’idea che corrisponde – ed Erodoto usa spesso questo termine – alla parola “amartema” che significa: ignoranza. La dittatura trova il suo fondamento nell’amartema, nell’ignoranza. Dallo sviluppo della parola “amartema” prende forma il termine “omartias”. Questo termine, “omartias”, – molti di voi dovrebbero ricordare questo particolare – viene utilizzato (500 anni dopo) nelle Lettere di Paolo di Tarso per tradurre la parola “peccato”. Il concetto di dittatura e il concetto di peccato sono strettamente legati al concetto di ignoranza.

     Senza politica – allude Erodoto – non c’è democrazia e senza democrazia aumenta l’omartias, l’omertà, e di conseguenza si estende – secondo la Lettera ai Romani di Paolo di Tarso – la condizione del peccato e nel mondo e prevalgono le più svariate forme di dittatura che contribuiscono sistematicamente alla diffusione dell’amartema, dell’ignoranza. Tutti i pensieri, tutte le culture, tutte le scuole, tutti i personaggi dell’Età assiale della storia indicano nella lotta all’ignoranza la via per l’emancipazione dell’essere umano.

     Il testo de Le Storie di Erodoto s’interrompe bruscamente e sembra non avere una conclusione. Gli studiosi sostengono che, nell’evoluzione della scrittura della sua opera, Erodoto ha già detto tutto: ha affermato – sotto forma di parole-chiave e di idee-significative – i valori che voleva affermare e, in questo senso, Le Storie di Erodoto possono essere considerate un’opera esaustiva.

     Per quale motivo dobbiamo correre a Scuola la prossima settimana? Dobbiamo correre a Scuola per il semplice motivo che l’itinerario della prossima settimana è l’ultimo itinerario di questo Percorso nel territorio de Le Storie di Erodoto. Tuttavia non diremo addio a questo personaggio, entreremo in un altro territorio che in parte già conosciamo, intraprenderemo un altro Percorso ma il sorriso e lo sguardo “allusivo” di Erodoto ci accompagnerà sempre.

     Ci aspetta un “piccolo gran finale” in cui, soprattutto, avranno un peso le vostre scelte, infatti: è il pensiero, è la riflessione (scritta) dei “cittadini che studiano” a dare un senso alla Scuola. La Scuola deve contribuire a seminare frammenti di riflessione nella società perché si possa intraprendere la lotta epocale – lanciata dai saggi dell’Età assiale della storia di cui siamo eredi – contro l’omartias in modo che possa prevalere non un contenuto piuttosto che un altro ma la “paideia”, l’Educazione.

     Correte a Scuola la prossima settimana: la Scuola è qui…

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Marzo 31, 2006