Prof. Giuseppe Nibbi Lo sguardo di Erodoto 2006 5-6-7 aprile 2006
LO SGUARDO DI ERODOTO
SUL MISTERO, SULL’IGNOTO, SULL’INCOGNITA…
Serse, il re dei Persiani, nel 480 a.C., con il suo enorme esercito, invade l’Europa per conquistare la Grecia, per distruggere Atene. All’inizio – ci racconta Erodoto nell’VIII libro de Le Storie (di cui si consiglia la lettura) – sembra che il progetto di Serse si possa realizzare. L’esercito persiano infatti avanza per centinaia di chilometri in Europa senza difficoltà, e molti staterelli greci si arrendono di fronte all’avanzata di un’armata tanto potente e, senza neppure combattere, passano dalla parte persiana. L’esercito di Serse, nonostante l’eroica resistenza di Leonida e dei suoi trecento Spartani, supera lo sbarramento alle Termopili. Serse occupa Atene e la dà alle fiamme. Atene è in rovina ma la Grecia non è vinta – scrive Erototo nell’VIII libro de Le Storie – perché può ancora contare sul suo genio che s’incarna nella figura di Temistocle il quale, nella celebre battaglia navale di Salamina, utilizzando un’intelligente strategia, riesce a distruggere la potentissima flotta persiana costringendo Serse ad una fuga precipitosa. La prima reazione di Serse alla disfatta è di paura.
Noi sappiamo già che il termine “paura”, nel vocabolario di Erodoto, corrisponde alla parola “fóbos”. La “paura” – insieme al termine “bisogno” – è la prima significativa parola-chiave della Storia del Pensiero Umano, la prima parola significativa degli albori della Storia della Cultura.
Ma ascoltiamo la voce di Erodoto il quale, sulla scia della parola fóbos, sul filo della paura di Serse, fa entrare in scena un personaggio in funzione allegorica, in modo tale da utilizzare la storia di questa persona per mettere in relazione la parola “paura” con le parole: delitto, castigo, colpa e vendetta. Erodoto – soprattutto nell’VIII libro – gioca ininterrottamente con i contrasti. Perché alle Termopili i trecento Spartani, anche se sanno di essere destinati alla sconfitta e alla morte, non hanno paura? Perché – enfatizza Erodoto – sono consapevoli di combattere per una giusta causa: la difesa della libertà e dell’autonomia della patria. Perché Serse di fronte alla sconfitta in una battaglia (seppur disastrosa) è immediatamente travolto dalla paura? Perché il motivo per cui combatte è la conquista del mondo e, forse – allude Erodoto – questa non è una giusta causa. I Greci sono divisi: gli Ateniesi, gli Spartani e i cittadini di tutte le altre polis vogliono la loro autonomia culturale, politica e amministrativa. Per quale ragione – riflette Erodoto – ci dobbiamo sentire uniti? Ci dobbiamo sentire uniti non perché abbiamo lo stesso ed unico padrone a cui ubbidire ma perché abbiamo tanti vicini diversi con cui trattare. E ora leggiamo:
LEGERE MULTUM….
Erodoto, Le Storie VIII 103
La prima reazione di Serse alla disfatta è di paura. … Neppure se tutti … gli avessero consigliato di restare lì, egli sarebbe rimasto … tanto era spaventato. … Per prima cosa dà l’incarico di condurre i suoi figli ad Efeso: alcuni figli illegittimi infatti lo avevano seguito nella spedizione. … Serse ordina che a scortare i suoi figli sia Ermotimo, originario di Pedasa, che occupa una posizione di prestigio tra gli eunuchi reali. …
Chi è Ermotimo che Erodoto fa entrare in scena come accompagnatore dei figli di Serse? Ermotimo, come dice il testo de Le Storie, è uno degli eunuchi della corte persiana e: “tra gli eunuchi reali occupa una posizione di prestigio”. Gli eunuchi svolgevano importanti funzioni presso le antiche corti, e la loro menomazione li rendeva affidabili per determinati incarichi come custodi degli harem, come precettori dei figli e delle figlie del re, come accompagnatori dei membri della famiglia reale. Perché la storia di quest’uomo – che compare sulla scena per un riferimento apparentemente marginale – appassiona Erodoto? La figura di Ermotimo appassiona Erodoto perché attraverso la storia di questo personaggio lo scrittore può imbastire, può tessere uno dei suoi molti racconti allegorici. Che cosa ci racconta Erodoto: qual è la storia di Ermotimo? Leggiamola:
LEGERE MULTUM….
Erodoto, Le Storie VIII 105 106
A Ermotimo, che era stato vittima di un grave affronto, toccò di compiere la vendetta più grande di tutte quelle di cui ho conoscenza. Essendo stato catturato dai nemici e venduto, lo comperò Panonio di Chio, il quale si guadagnava la vita con la più empia delle attività: comprava fanciulli di bell’aspetto e, eviratili, li portava a vendere ad alto prezzo a Sardi e a Efeso. Presso i Barbari infatti gli eunuchi sono apprezzati per la fiducia che ispirano assai più dei veri uomini. Tra i molti che evirò Panonio, dal momento che con questa attività si guadagnava da vivere, c’era anche Ermotimo. Eppure non in tutto ebbe sfortuna Ermotimo; infatti da Sardi giunse fino al palazzo del Gran Re insieme con altri doni, e col passare del tempo divenne il più rispettato degli eunuchi.
Quando il re (Serse), stando a Sardi, fece mettere in marcia la spedizione persiana contro Atene, Ermotimo, essendo andato per sbrigare una certa faccenda nel territorio della Misia dove abitano i cittadini di Chio e si chiama Atarneo, incontrò Panonio. Riconosciutolo, tenne con lui molte amichevoli conversazioni, prima di tutto enumerandogli tutti i vantaggi di cui godeva per merito suo, e poi promettendogli in cambio tutti i favori che aveva intenzione di fargli se avesse preso la residenza lì, portandovi anche tutta la sua famiglia. Panonio, accogliendo con gioia le sue proposte, vi portò i figli e la moglie. Allora, quando l’ebbe in suo potere, lui con tutta la famiglia, Ermotimo gli disse queste parole: «Tu che fra tutti gli uomini ti sei guadagnato la vita con il più empio dei mestieri, che male ti avevo fatto io, che male avevano fatto a te i miei antenati perché da uomo che ero tu mi rendessi un nulla? Tu credevi che agli dèi sarebbero sfuggite le turpi azioni che allora compivi: ma gli dèi, seguendo un criterio di giustizia, ti hanno condotto nelle mie mani, sì che tu non abbia a lamentarti della ricompensa che riceverai da me». E dopo averlo ingiuriato in tal modo, fatti condurre i figli di Panonio, che erano quattro, lo costrinse ad evirarli; costretto, egli lo fece. Dopo che ebbe compiuto quell’opera, i suoi figli, costretti a loro volta, lo evirarono. Così Panonio fu colpito dalla punizione degli dèi e dalla vendetta di Ermotimo.
Erodoto con questa narrazione allegorica ci mette di fronte ad un racconto che potremmo intitolare: “Delitto e castigo” e il pensiero corre (ancora una volta) – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – al famoso romanzo di Fédor Dostoévskij. Delitto e castigo, come tutti sappiamo, è il primo grande romanzo di Fédor Dostoévskij (1821-1881) e, sulla scia di Erodoto, se ne consiglia la lettura e la periodica rilettura. In questo romanzo giungono a maturazione molte delle tematiche su cui Dostoévskij, come scrittore, aveva cominciato a riflettere. In questo romanzo s’incontrano tutta una serie di personaggi già sperimentati in altri contesti – nei romanzi Umiliati e offesi (1861) e Memorie dal sottosuolo (1864) – che vengono analizzati psicologicamente con il massimo rigore e la massima precisione, e questa straordinaria descrizione di caratteri e di ambienti si avvale di una trama semplicissima.
Il protagonista di Delitto e castigo (1866) si chiama Raskòlnikov ed è un giovane squattrinato il quale, in preda ad una irrefrenabile mania di grandezza e desideroso di arricchirsi, uccide una vecchia usuraia e l’innocente sorella di lei. Il pretesto per l’omicidio è l’idea che un uomo nato per essere superiore (come il Re dei Re, ma qui aleggia la figura di Napoleone) abbia il dovere di eliminare ogni ostacolo che si frapponga tra lui e la gloria. La vecchia usuraia è un elemento inutile per la società, e può essere eliminata perché Raskòlnikov possa arricchirsi e possa dimostrare quanto vale. Il fatto è – racconta Dostoévskij – che Raskòlnikov non riesce però a trarre alcun profitto da quei maledetti soldi, e a lui non resta che prendere coscienza del male commesso senza cercare giustificazioni “ideali”. A lui non resta che pentirsi, confessare tutto e riscattarsi attraverso l’accettazione del castigo che merita. La sua redenzione passa attraverso il riconoscimento del severo senso di giustizia del commissario Porfirio e soprattutto attraverso il riconoscimento della bontà da lui scoperta nell’animo di una giovane prostituta, Sònja.
Tutti i personaggi del romanzo servono a far comprendere, per contrasto (la legge dei contrasti è già presente nel testo di Erodoto), la figura di Raskòlnikov, ma si tratta comunque di personaggi autonomi, di figure straordinarie che sono analizzate nei minimi dettagli: il gusto della lettura di Dostoévskij lo si prova, non tanto nello sviluppo della trama, ma soprattutto nel raffinato gioco della descrizione dei caratteri. Sònja è una fonte di bontà e di purezza in un mondo sordido e, attingendo a questa fonte, Raskòlnikov si avvierà sulla strada della confessione. Dùnja, la sorella del protagonista, è una donna fedele e coraggiosa. Il commissario Porfirio è pragmatico e razionale e la disputa (il Dialogo platonico) che sostiene con Raskòlnikov sul tema del presunto “diritto di commettere omicidi” è un capolavoro letterario. Poi, in Delitto e castigo, lo scrittore descrive in modo efficacissimo gli “uomini del sottosuolo”, individui gretti e spregiudicati, arroganti e violenti che rappresentano la disumanità in cui anche Raskòlnikov è caduto. Con la confessione e il pentimento finale Raskòlnikov rinuncia ad essere un superuomo per essere semplicemente un uomo e, dopo aver conosciuto gli abissi di perdizione del “sottosuolo”, il protagonista sceglie la salvezza, sceglie di risorgere.
E ora non possiamo perdere l’occasione per leggere due pagine da:
LEGERE MULTUM….
Fédor Dostoévskij, Delitto e castigo (1866)
– Che cosa è successo, insomma?– disse, come se avesse riflettuto e avesse deciso. – È successo proprio cosí! Ecco: io volevo diventare un Napoleone, e perciò ho ucciso. É Be’, ora capisci?
– N… no – mormorò Sonja in tono timido e ingenuo – però… parla, parla! Capirò, dentro di me capirò tutto! – lo supplicò.
– Capirai? Va bene, vedremo!
Fece una pausa e rifletté a lungo.
– Il nocciolo della faccenda è tutto qui. Un giorno rivolsi a me questa domanda: se al mio posto, per esempio, ci fosse stato Napoleone e per cominciare la sua carriera non avesse avuto a portata di mano né Tolone, né l’Egitto, né il passaggio del Monte Bianco, e invece di tutte queste cose belle e monumentali gli fosse capitata semplicemente una ridicola vecchietta, vedova di un archivista, e se per di più avesse dovuto ucciderla, per poterle rubare tutti i suoi soldi (per la carriera, capisci?), ebbene, lo avrebbe fatto, se non ci fosse stata altra via d’uscita? Non si sarebbe sentito urtato, al pensiero di un’azione così poco monumentale e … e così delittuosa? Be’, ti dirò che con questa “domanda” io mi sono tormentato un bel pezzo, tanto che mi vergognai terribilmente, quando alla fine intuii (quasi all’improvviso), che non solo non si sarebbe sentito urtato, ma non gli sarebbe nemmeno venuto in testa che la cosa non fosse abbastanza monumentale… anzi, non avrebbe assolutamente capito che cosa ci fosse da sentirsi urtati. E se non avesse avuto nessun’altra strada, l’avrebbe strozzata senza darle neppure il tempo di fiatare, senza nessuna esitazione! Allora anch’io… non esitai più… e la strozzai, seguendo un esempio così autorevole… Ed è successo proprio così! Ti viene da ridere? Sì, Sonja, la cosa più ridicola è che, forse, è successo proprio così…
Sonja non aveva nessuna voglia di ridere.
– È meglio che mi parliate chiaramente… senza esempi – gli disse, con un tono ancora più timido e con un filo di voce.
Raskòlnikov si girò verso di lei, la guardò con tristezza e le prese le mani.
– Hai ragione anche questa volta, Sonja. Sono tutte sciocchezze, forse sono soltanto chiacchiere! Vedi: tu sai che mia madre non possiede quasi nulla. Mia sorella ha avuto un’educazione, per caso, ed è condannata a girare da un posto all’altro facendo l’istitutrice. Tutte le loro speranze erano riposte in me. Io studiavo, ma non potevo mantenermi all’università e sono stato costretto a lasciarla per un certo tempo. Ma anche se le cose fossero andate avanti così, fra dieci, dodici anni (se le circostanze fossero state favorevoli) avrei potuto sperare di diventare un insegnante o un impiegato qualunque, con mille rubli di stipendio – pareva che le dicesse delle cose imparate a memoria. – Ma intanto mia madre si sarebbe consumata per gli affanni e i dispiaceri, e io non sarei riuscito comunque a darle la tranquillità, e mia sorella… be’, a mia sorella poteva capitare anche di peggio!… E poi, perché dover rinunciare sempre a tutto, doversi voltare sempre dall’altra parte, dover dimenticare la mamma e dover sopportare umilmente, per esempio, un affronto alla propria sorella? Per quale scopo? Per mettere su, dopo aver seppellito loro, un’altra famiglia, con moglie e figli, e lasciare poi anche quelli senza un soldo e senza un pezzo di pane?… E allora decisi che, dopo essermi impadronito del denaro della vecchia, lo avrei adoperato per i primi anni, senza tormentare più mia madre, per mantenermi all’università e per i primi passi dopo l’università; e così avrei fatto tutto con larghezza, con una base, in modo da crearmi una nuova carriera e prendere una strada nuova, indipendente… Be’… ecco tutto … Si capisce che, a uccidere la vecchia, ho fatto male… E ora basta!
Arrivò alla fine del suo racconto quasi spossato e chinò la testa.
– Oh, non è questo, non è questo! – esclamò Sonja, angosciata. – Come si può… No, non è così, non è così!
– Lo vedi anche tu che non è così!… Eppure ti ho raccontato tutto sinceramente, è la verità!
– Ma quale verità! Oh, Signore!
– Ho ucciso soltanto un pidocchio, Sonja, inutile, schifoso, nocivo.
– Un essere umano, lo chiamate un pidocchio!
– Ma sì, lo so anch’io che non è un pidocchio – rispose lui, guardandola in modo strano. – Del resto, io dico degli spropositi, Sonja – aggiunse – è già un bel pezzo che dico degli spropositi… Non è affatto così; hai detto bene. Ci sono tutt’altri motivi, tutt’altri, tutt’altri!… È un bel pezzo che non parlo con nessuno, Sonja… Ora mi fa male molto la testa.
I suoi occhi ardevano di un fuoco febbrile. Cominciava quasi a delirare; un sorriso inquieto percorreva le sue labbra. Attraverso quello stato di eccitazione traspariva ormai una tremenda spossatezza. Sonja capì che lui si stava torturando. Anche a lei cominciava a girare la testa. E lui parlava in un modo così strano; le sembrava di capire qualcosa, ma… “Ma come mai! Oh, Signore!”. E si torceva le mani, disperata.
– No, Sonja, non è così! – ricominciò Raskòlnikov, alzando la testa di scatto, come se un improvviso mutamento nel corso dei suoi pensieri lo avesse rianimato. – Non è così! O meglio… supponi (sì, è meglio davvero!), supponi che io sia permaloso, invidioso, cattivo, ignobile, vendicativo, be’… e magari anche incline alla pazzia. (Mettiamo pure tutto insieme! Della pazzia ne parlavano già prima, io me n’ero accorto!). Ti ho detto che non potevo mantenermi all’università. Ma lo sai che, invece, avrei anche potuto arrivarci? Mia madre mi avrebbe mandato il denaro sufficiente per pagarmi gli studi, e per le scarpe, i vestiti e il pane me li sarei guadagnati anche da me, di sicuro! Le lezioni capitavano; mi offrivano mezzo rublo l’una. … Ma io mi arrabbiai e non volli. Proprio così, mi arrabbiai (che bella parola!). Allora, come un ragno, mi ficcai nel mio cantuccio. Tu sei stata nel mio canile, l’hai visto… Ma lo sai, Sonja, che i soffitti bassi e le stanze strette opprimono l’anima e il cervello! Oh, come odiavo quel canile! Eppure, non volevo uscire di lì. Non volevo apposta! Non uscivo per giornate intere e non volevo lavorare, e non volevo nemmeno mangiare, stavo sempre sdraiato. Se Nastasja mi portava qualcosa, mangiavo, e se non mi portava nulla, passavo così anche un giorno intero; non chiedevo nulla apposta, per la rabbia! Di notte non c’era lume, stavo sdraiato al buio, ma non volevo guadagnare per comprarmi le candele. Bisognava studiare e io avevo venduto tutti i libri; e sulla mia tavola, sugli appunti, sui quaderni, anche ora c’è un dito di polvere. Preferivo stare sdraiato e pensare. Pensavo sempre… E facevo sempre certi sogni, sogni strani, non ti so dire che sogni! Però, allora cominciò anche a sembrarmi… No, non va bene! Non lo racconto bene nemmeno ora! Vedi, io mi domandavo sempre: perché sono così stupido? Perché, se gli altri sono stupidi e se ormai so con certezza che sono stupidi, non cerco di essere più intelligente di loro? Poi riconobbi, Sonja, che, a voler aspettare che tutti diventino intelligenti, sarebbe una cosa troppo lunga… E poi riconobbi che questo non accadrà mai, che gli uomini non cambieranno, e non c’è nessuno che li possa cambiare, e non vale la pena di affaticarsi. Sì, è così! È la loro legge… È una legge, Sonja! È così!… Io adesso so che chi è forte di mente e di spirito, è un dominatore! Chi osa molto, ha sempre ragione. Chi è capace di sputare su qualcosa di grande, diventa un legislatore, e chi più di tutti osa, più di tutti ha ragione! Così è andata finora e così sarà sempre! Solo un cieco non lo vede!
Raskòlnikov, nel dire questo, benché guardasse Sonja, non si preoccupava più se lei capisse o no. Aveva la febbre. Era in preda a una specie di cupo entusiasmo (effettivamente, non parlava con nessuno da troppo tempo!). Sonja capì che questo cupo catechismo era diventato la sua fede e la sua legge.
– Allora compresi, Sonja – continuò Raskòlnikov con fervore – che il potere spetta soltanto a chi osa chinarsi per prenderlo. C’è una sola cosa da fare, una sola: basta osare! E allora, per la prima volta in vita mia, mi venne un’idea che nessuno aveva mai avuto prima di me! Nessuno! A un tratto mi apparve chiaro che nessuno finora, vedendo tutte queste assurdità, aveva osato prendere il tutto bellamente per la coda e scaraventare tutto al diavolo! Io… io ho voluto osare, e ho ucciso… ho voluto soltanto osare, Sonja, ecco la vera ragione!
– Oh, state zitto, state zitto! – gridò Sonja, giungendo le mani. – Vi siete allontanato da Dio, e Dio vi ha colpito, abbandonandovi al diavolo!…
– A proposito, Sonja, quando stavo sdraiato al buio e pensavo a tutte queste cose, era il diavolo che mi tentava? Eh?
– State zitto! Non ridete, bestemmiatore, voi non capite nulla, nulla! Oh, Signore! Non capirà mai nulla, nulla!
– Taci, Sonja, io non rido affatto, lo so anch’io che era il demonio a trascinarmi. Taci, Sonja, taci – ripeté Raskòlnikov in tono cupo e insistente. – Io so tutto. Tutte queste cose le ho già rimuginate e bisbigliate a me stesso mille volte, quando stavo sdraiato al buio… Le ho discusse tra me fino all’ultimo particolare, e so tutto, tutto! E mi erano venute tanto a noia, tanto a noia, tutte queste chiacchiere! Volevo dimenticare ogni cosa e ricominciare da principio, Sonja, e smettere di chiacchierare! E credi davvero che sia andato là come un imbecille, così all’impazzata? Ci sono andato con molto cervello, ed è proprio questo che mi ha rovinato! E credi davvero, per esempio, che io non sapessi almeno questo: che, se mi domandavo e ridomandavo: “Ho il diritto di prendere il potere?”, voleva dire che non ne avevo il diritto? Oppure che, se io mi pongo la domanda: “L’uomo è davvero un pidocchio?”, vuol dire che l’uomo per me non è più un pidocchio, ma è un pidocchio per quelli ai quali non viene neppure in mente di domandarselo e che vanno diritti senza farsi nessuna domanda… E se per tanti giorni mi sono tormentato chiedendomi: “Napoleone ci andrebbe o no?”, è perché sentivo chiaramente di non essere un Napoleone… Ho sopportato tutta la tortura di tutte queste chiacchiere, Sonja, e mi è venuto il desiderio di liberarmi da tutto quel peso: ho voluto uccidere senza casistica, Sonja, uccidere per me stesso, per me solo! Non ho ucciso per aiutare mia madre, sciocchezze! Non ho ucciso per avere i mezzi e il potere e per diventare un benefattore dell’umanità. Sciocchezze! Ho ucciso e basta; ho ucciso per me stesso, per me solo; quanto a sapere se poi avrei beneficato qualcuno, o se invece, per tutta la vita, come un ragno, avrei acchiappato tutti nella mia ragnatela e avrei succhiato a tutti il sangue, a me in quel momento non importava proprio nulla!… E soprattutto, non era il denaro che mi occorreva, Sonja, quando ho ucciso; non era tanto il denaro, quanto un’altra cosa… Tutto questo, ora, lo so… Capiscimi bene: forse, anche andando per quella strada, non avrei commesso mai più un assassinio. Avevo bisogno di sapere un’altra cosa, c’era un’altra cosa che mi spingeva la mano: avevo bisogno di sapere, di saperlo subito, se io ero un pidocchio come tutti o un uomo! Sarei stato capace di scavalcare l’ostacolo o no? Avrei avuto il coraggio di chinarmi e di prendere o no? Ero un essere pavido, o avevo il diritto…
– Di uccidere? O avevate il diritto di uccidere? – esclamò Sonja, battendo le mani.
– E… eh, Sonja! – gridò Raskòlnikov, irritato, e voleva ribattere qualcosa, ma si interruppe e la guardò con disprezzo. – Non mi interrompere, Sonja! Volevo dimostrarti solo una cosa: che il diavolo allora mi trascinò, e soltanto dopo mi spiegò che non avevo il diritto di andarci, perché ero proprio un pidocchio come tutti! Mi ha preso in giro, e io ora sono venuto da te! Accogli quest’ospite! Se non fossi un pidocchio, sarei venuto da te? Ascoltami: quando sono andato dalla vecchia quel giorno, ci sono andato solo per provare… Sappilo!
– E l’avete uccisa! L’avete uccisa!
– Sì, ma come l’ho uccisa? Si uccide in quel modo? Si va così a uccidere, come ci sono andato io? Un giorno ti racconterò come ci sono andato… Ho forse ucciso quella vecchia? Ho ucciso me stesso, non quella vecchia! Mi sono accoppato con un colpo solo, e per sempre!… E quella vecchia l’ha uccisa il diavolo, non io… Basta, basta, Sonja, basta! Lasciami stare – gridò a un tratto, con un’angoscia spasmodica – lasciami stare!
Per Erodoto il delitto e il castigo sono collegati alla colpa e alla vendetta. La colpa e la vendetta si succedono inesorabilmente: prima o poi l’una segue l’altra, sia nei rapporti tra gli individui, sia in quelli tra i popoli. Colui che per primo scatena la guerra, secondo Erodoto, si rende colpevole, e prima o poi verrà punito. Questa concatenazione tra causa ed effetto è l’essenza più profonda del destino. Panonio – che evirava a scopo di lucro – l’ha già sperimentato, e ora, racconta Erodoto tocca a Serse. Nel caso del Re dei Re la questione è più complicata, perché egli è il simbolo della nazione e dell’impero. A Susa i Persiani, dopo aver appreso la notizia della disfatta di Salamina, invece di riflettere su questi avvenimenti, si preoccupano soltanto della sorte del re. E quando Serse rientra in Persia, riceve un’accoglienza solenne e sontuosa: la gente di Susa, nel vederlo vivo, sollevata, fa festa. Nessuno gli rimprovera le migliaia di morti annegati, le centinaia di navi sfasciate. L’essenziale è che il re sia vivo e che sia di nuovo tra loro.
Ma noi pensiamo che Serse – il quale a malapena ha portato a casa la pelle – abbia poco da festeggiare e ce lo ricorda Eschilo (524-456 a.C.) attraverso il genere letterario della tragedia. Eschilo lo conosciamo, e anche Erodoto lo conosce attraverso le sue tragedie e attraverso la sua fama non solo di scrittore ma anche di cittadino. Eschilo è parte in causa nelle guerre persiane: ha combattuto valorosamente a Maratona (nel 490 a.C), a Salamina (nel 480 a.C) e a Platea (nel 479 a.C).
Una delle sette tragedie di Eschilo – la più antica tragedia che possediamo – s’intitola I Persiani, ed è l’unica tragedia storica delle Letteratura greca che ci sia rimasta. Questa tragedia, secondo le fonti, è stata rappresentata nel 472 a.C. La trama di quest’opera è molto semplice e il suo contenuto è molto significativo. Alla corte persiana di Susa, la madre di Serse, la regina Atossa, è in preda a tristi presentimenti ed evoca l’ombra del defunto marito Dario. Un messaggero arriva a Susa e porta la notizia della terribile sconfitta di Salamina. Infine arriva Serse e – dissimulando la fuga e la paura – attraversa la città accolto solennemente e suntuosamente dal suo popolo che ne festeggia il ritorno. Ma all’interno della reggia Serse e la madre Atossa – insieme al coro che rappresenta, in tono accusatorio, la voce della coscienza civile – si abbandonano a canti di dolore e di disperazione.
È interessante leggere gli ultimi versi, la parte finale dell’esodo, della tragedia I Persiani per constatare, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, come esista un filo conduttore – sostenuto dalle parole-chiave: delitto, castigo, colpa e vendetta – che lega Eschilo, Erodoto e Fédor Dostoévskij.
LEGERE MULTUM….
Eschilo, I Persiani (472 a.C.)
ESODO
(Entra Serse con le vesti lacere, senza scorta, a piedi … era partito su un carro dorato)
SERSE
Oh me sciagurato!
CORO
Ototoì, ototoì (forma di lamentazione), ahi, ahi, o re, non resta che cantare
un triste lamento per la flotta distrutta, per l’enorme armata dispersa
dal (dall’ànemos) greco vento, per lo splendore di questi uomini che si è spento.
Tutto il suolo di Persia, falciato in un momento, grida vendetta perché Serse
è il demone che ha infarcito l’Ade di Persiani, che ha ammassato
sulla rive di Acheronte una generazione intera, il fiore di queste regioni,
maestri dell’arco, forti come leoni.
O sovrano, in ginocchio sono le asiatiche terre, perché il castigo del Fato si ritorce
su chi, per orgoglio, per smisurata sete di potere, dà inizio alle guerre.
SERSE
(Ototoì, ototoì), ahi, ahi, nessuno mi compianga adesso!
Sono la sciagura della mia stirpe, della mia gente e di me stesso.
Tutto questo accade, secondo Eschilo, ai massimi vertici del potere imperiale: ai vertici, vale a dire in un luogo molto pericoloso e sempre grondante di sangue. Ma – secondo Erodoto – sembra che Serse abbia presto rimosso (anche Erodoto conosce il meccanismo psicologico della rimozione) tutto il male che ha fatto: Serse continua a fare il male spostando il baricentro delle sue nefandezze sul piano familiare e, non essendo riuscito a conquistare la Grecia, si accontenta di conquistare le donne che ha intorno. Il IX libro, l’ultimo de Le Storie di Erodoto, contiene una serie di racconti degni del moderno genere dell’orrore e se ne consiglia la lettura. Purtroppo nei nostri itinerari non abbiamo la possibilità di leggere ampi brani, dobbiamo accontentarci di “frammenti”, di “assaggi”, ma l’obiettivo didattico dei nostri Percorsi è quello di favorire e incentivare la lettura personale. I racconti del IX libro de Le Storie di Erodoto – di cui si consiglia la lettura – li possiamo considerare appartenenti al genere horror e noi già sappiamo – dopo aver attraversato il territorio della tragedia (nell’anno 2003) che l’orrore, spesso, si accompagna paradossalmente alla comicità.
Dobbiamo sapere – è Erodoto che ce lo racconta – che Serse ha un fratello che si chiama Masiste il quale ha una bella moglie e una figlia, altrettanto bella, di nome Artaunte. I racconti del IX libro de Le Storie di Erodoto narrano che il re Serse s’innamora di sua cognata, la bella moglie di suo fratello Masiste, ma lei, sposa fedele, nonostante le pressioni del re, non cede. Allora Serse pensa di far sposare la figlia di suo fratello, sua nipote Artaunte, con suo figlio Dario, in modo da ridurre le distanze. Non riuscendo però, in nessun modo, a conquistare la cognata, Serse cambia mira e conquista la nuora Artaunte, fanciulla molto più spregiudicata della madre. Serse ha anche una moglie: la regina Amestri. Serse va a letto con la nuora, e sua moglie Amestri fa presto ad accorgersene e mette in atto tutta una serie di accorgimenti (che ora non abbiamo tempo di raccontare ma che è divertente andare a leggere) per procurarsi le prove della tresca. Ma la regina Amestri sembra essere più adirata contro la cognata “virtuosa”, piuttosto che contro la nuora “viziosa”. La regina Amestri, in preda alla gelosia, scarica tutta la sua ferocia e – dopo averla fatta arrestare – taglia personalmente a pezzi la cognata innocente – accusandola di aver organizzato lei tutto questo intrallazzo, le taglia anche la lingua (il fatto di desiderare di tagliare la lingua alle cognate già dall’Età assiale della storia – allude Erodoto – è assai significativo) in modo che la vittima, senza più lingua, non possa neanche lamentarsi (ma quanta uggia – allude Erodoto – hanno sempre fatto le cognate, già dall’Età assiale della storia?)…
Leggendo questi racconti noi ci troviamo di fronte a una situazione in cui il bene è sconfitto, il buono viene ucciso, i figli incolpevoli muoiono, una donna innocente è orribilmente mutilata: anni dopo, lo stesso Serse, anche in conseguenza di questi fatti, morirà pugnalato. E la regina Amestri? La regina Amestri finirà uccisa dalle figlie delle vittime.
Perché la ruota del delitto e castigo non si ferma. Chissà se anche Shakespeare ha letto Le Storie, in particolare il IX libro? Le passioni bestiali e i crimini regali delle sue tragedie, Erodoto le aveva già descritte duemila anni prima di lui.
Ma facciamo un passo indietro: Erodoto, nell’VIII libro de Le Storie, narra che Serse abbandona la Grecia, ma vi lascia una parte dell’esercito con a capo il proprio cugino, nonché genero di Dario, Mardonio. Mardonio se la prende con calma. Trascorre tranquillamente l’inverno in Tessaglia e poi invia un messo da ogni oracolo, in ogni santuario greco, e lo fa non tanto per conoscerne i responsi ma per raccogliere notizie utili. Dalle notizie raccolte Mardonio trae la conclusione che sia meglio agire con cautela e quindi manda un ambasciatore ad Atene per avviare una trattativa: questo ambasciatore si chiama Alessandro ed è un macedone imparentato con i Persiani. Alessandro arriva ad Atene e cerca di convincere gli abitanti della città a non combattere contro i Persiani. Ricorda agli Ateniesi la potenza di Serse e li consiglia a venire a patti, ma gli Ateniesi rispondono negativamente, leggiamo che cosa scrive Erodoto in proposito.
LEGERE MULTUM….
Erodoto, Le Storie VIII 143
Gli Ateniesi risposero ad Alessandro … «Sappiamo che la potenza dei Persiani è molte volte più grande della nostra, sicché non c’è affatto bisogno di ricordarci questo. Ma tuttavia, attaccàti come siamo alla libertà, ci difendiamo come possiamo … O Alessandro annuncia dunque a Mardonio che noi Ateniesi diciamo che fino a quando il sole andrà per la stessa strada per cui va ora mai verremo a un accordo con Serse. Ma respingendolo lo scacceremo, fidando nell’aiuto degli dèi e degli eroi dei quali egli senza alcun riguardo incendiò le case e le statue».
Ricevuta questa risposta, Mardonio, lascia gli accampamenti invernali in Tessaglia e si muove verso sud, guidando, scrive Erodoto: “in fretta l’esercito contro Atene”. Quando Mardonio arriva ad Atene trova la città deserta, la trova vuota e in rovina: la gente è sfollata sull’isola di Salamina, insieme all’esercito che, dopo la strepitosa vittoria dell’anno prima nella battaglia navale combattuta nelle acque antistanti l’isola, è più che mai galvanizzato, pronto allo scontro definitivo. Mardonio manda subito a Salamina un certo Murichide, per proporre nuovamente agli Ateniesi di arrendersi senza combattere e di riconoscere Serse come proprio re.
Murichide espone la proposta alla suprema autorità ateniese: il Consiglio dei Cinquecento. Gli Ateniesi, che assistono in massa al dibattito, a un certo punto, sentono un tale di nome Licida dichiarare che secondo lui bisognerebbe accettare l’offerta di Mardonio e fare pace con i Persiani. La folla indignata – ci racconta Erodoto – circonda l’oratore e, seduta stante, lo lapida. È una scena orribile e noi ci meravigliamo che un fatto di questo genere possa avvenire nella democratica Grecia, fiera della sua libertà di parola e di pensiero. Ci meravigliamo che nel momento in cui uno dei cittadini espone pubblicamente la propria opinione, scoppia un tumulto e questo cittadino ci lascia la pelle.
A che cosa vuole alludere Erodoto con questo orribile racconto: vuole alludere al fatto che in realtà Licida non ha tenuto conto che c’è la guerra, e lo stato di guerra – democrazia o non democrazia – altera i rapporti nella società. Inevitabilmente in guerra le libertà democratiche, compresa quella di parola, non sono più ammesse. In guerra vigono leggi completamente diverse, la guerra travolge tutti i principi fondamentali su cui si fonda la convivenza civile e assistiamo alla rimozione, alla sospensione, alla morte della pietà
E difatti l’orrore non finisce qui, Erodoto scrive che quando “le donne degli Ateniesi vennero a conoscenza dell’accaduto, esortandosi e sostenendosi l’una con l’altra andarono di propria iniziativa alla casa di Licida e lapidarono sua moglie e i suoi figli”. Che colpa hanno quei bambini se il loro padre voleva patteggiare con i Persiani?
La guerra – anche quando la si combatte per una “giusta causa” – è sempre “una grande porcheria” dicevano tanto i generali nordisti quanto quelli sudisti alla fine della guerra di Secessione americana nel 1865. Il tema è complesso e la sorte di Licida e della sua famiglia dimostra – allude Erodoto – quanto per i Greci fosse acuto, doloroso e traumatico il problema della collaborazione con l’invasore. Che fare con l’invasore? Che atteggiamento bisogna adottare? Bisogna scegliere di collaborare o di resistere? Bisogna parlamentare o bisogna boicottare? Bisogna trattare e cercare di sopravvivere, oppure fare gli eroi e cadere sul campo della gloria? Questi dilemmi sono tormentosi, questi interrogativi sono scottanti. A queste domande è sempre stato difficile rispondere ma: è stata mai attivata una seria riflessione su questi dilemmi e su questi interrogativi? Erodoto ci prova ma, ci sembra di capire che la sua provocazione – che dura da 2500 anni – sia caduta nel vuoto.
Comunque sia, ormai siamo giunti al confronto finale alle due ultime battaglie della guerra: quella di Platea e quella di Micale. Mardonio, appurato che Ateniesi e Spartani non cederanno né verranno a patti, rade al suolo quanto ancora resta di Atene e si ritira a nord verso Tebe, che è alleata con i Persiani. Gli Spartani e gli Ateniesi questa volta non temporeggiano ma si lanciano all’inseguimento dell’esercito di Mardonio, lo raggiungono in una pianura nei dintorni di Platea. I due eserciti si schierano uno di fronte all’altro e aspettano che arrivi il momento decisivo. I giorni passano e i due eserciti non muovono un passo.
Nel frattempo – ci racconta Erodoto – un tebano, il collaborazionista greco Attagino, alleato dei Persiani, organizza un banchetto in onore di Mardonio al quale invita i cinquanta più ragguardevoli persiani e altrettanti illustri tebani: fa apparecchiare cinquanta tavolini e ad ogni tavolino fa sedere un tebano e un persiano. Ad uno dei tavolini siedono il greco Tersandro e un persiano di cui Erodoto non fa il nome. I due mangiano e bevono, finché, a un certo punto, il persiano diventa triste e chiede al greco: “Vedi tu questi Persiani che qui banchettano e l’esercito che abbiamo lasciato accampato sul fiume? Ebbene di tutti costoro, entro breve tempo solo pochi ne vedrai superstiti”. Dopo aver pronunciato queste parole – ci racconta Erodoto – il persiano comincia a piangere e allora Tersandro risponde giustamente: “Ma non sarebbe bene dire queste cose a Mardonio in modo che rinunci allo scontro?”. Il persiano replica – ci racconta Erodoto – con una frase contenente una tragica verità:
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Erodoto, Le Storie IX 16
Il persiano replicò a Tersandro: «Ospite, quel che deve accadere per volere del destino, è impossibile da modificare per l’uomo. E neppure a quelli che dicono cose degne di fede nessuno vuole dare retta. Molti di noi Persiani, pur conoscendo questa situazione, seguiamo, come aggiogati, la necessità. La peggiore delle pene umane è proprio questa, comprendere molte cose e non avere alcun potere di scelta»
Noi – almeno in questo momento, qui a Scuola – il potere di scelta lo abbiamo, e ora questo potere lo dobbiamo usare…
REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Le parole-chiave più significative contenute ne “Le Storie” che formano lo specifico vocabolario (il catalogo esclusivo) di Erodoto sono: la ricerca (tesis), l’analisi (antitesis), il giudizio (crisis), l’allusione (ìchonos), l’ambiguità (anfibìa-aporìa), la vendetta (timorìa), la coincidenza (chairòs), la corrispondenza (syntesis), l’allegoria (allegorìa), la varietà (diaforà), la verifica (dochimasìa)…
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La grande battaglia di Platea (e poi la battaglia di Micale) determina la disfatta dei Persiani e stabilisce l’inizio del dominio dell’Europa sull’Asia. Che cosa racconta Erodoto della battaglia di Platea? Il racconto della battaglia di Platea, scritto da Erodoto nel IX libro de Le Storie (di cui si consiglia la lettura), ruota attorno a tre personaggi. Inoltre, nel raccontare la battaglia di Platea – ci suggeriscono gli esperti – Erodoto sembra far emergere due interrogativi che si deve essere costantemente posto: che ruolo ha lo storico e che cos’è la Storia?
Secondo Erodoto, nella decisiva e oltremodo sanguinosa battaglia di Platea, il soldato più valoroso fu lo spartano Aristodemo. La storia di Aristodemo è molto particolare ed Erodoto non se la lascia sfuggire. Aristodemo era stato uno dei trecento soldati del reparto di Leonida, tutti morti nella difesa delle Termopili. Tutti meno uno: Aristodemo, infatti, rimasto tramortito sotto un mucchio di cadaveri, era miracolosamente scampato alla morte. L’essere sopravvissuto in questa leggendaria battaglia – contrariamente a quello che possiamo pensare – non fu per lui una fortuna: il fatto di essersi salvato lo ha coperto di infamia (atimia-atimia) agli occhi dei contemporanei. Secondo il codice di Sparta, dalle Termopili non si poteva uscire vivi: come avrebbe potuto reggere al giudizio della Storia – allude Erodoto (con una punta di trasgressiva ironia) – la scritta incisa sulla tomba collettiva del reparto di Leonida che dice: “Straniero, annunzia agli Spartani che qui siamo morti tutti, in obbedienza alle nostre leggi”? Le severe leggi spartane non ammettono sopravvissuti in un’estrema azione di difesa: chi muore in una lucida azione di contenimento del nemico conquista, anche se sconfitto, l’onore che spetta ai vincitori. In qualità di unico sopravvissuto di tutto il reparto di Leonida, Aristodemo è condannato al disonore. Nessuno gli parla più, tutti lo scansano con disprezzo: Aristodemo ricorda la tragica figura di Oreste destinato a “bere da solo” nelle tragedie – compare in sei tragedie – (tre) di Eschilo, (una) di Sofocle e (due) di Euripide. Aristodemo vorrebbe liberarsi da questa vita salvata per miracolo, e la battaglia di Platea gli offre l’occasione di cancellare il marchio infamante del sopravvissuto. A Platea, Aristodemo compie miracoli di eroismo: “Aristodemo – scrive Erodoto – il quale voleva chiaramente morire in seguito all’accusa che lo colpiva, pieno di furore uscendo fuori dalle file aveva fatto mostra di grandi gesta”. Ma per Aristodemo – il quale non riesce a trovare la morte in battaglia – tutto questo eroico “darsi da fare” risulta inutile: le inflessibili leggi di Sparta non conoscono, infatti, alcuna forma di pietà o di umanità. Nell’elenco degli eroi greci, che si sono distinti nella battaglia di Platea, il nome di Aristodemo non c’è. Il soldato Aristodemo – il più valoroso di tutti – “non ricevette onori”, scrive Erodono. Ma mentre scrive, probabilmente, Erodoto ride sotto i baffi perché intuisce di aver trasgredito. Erodoto, nonostante il divieto imposto da un esasperato fondamentalismo patriottico, fa entrare Aristodemo nella Storia, lo salva dall’oblio non per glorificarlo né per denigrarlo. Lo salva dall’oblio perché Erodoto con questo racconto vuole – ancora una volta – alludere al fatto che in realtà lo stato di guerra altera i rapporti nella società. Il concetto della guerra presuppone leggi fondamentaliste che travolgono tutti i principi fondamentali su cui si fonda la convivenza civile e assistiamo alla rimozione, alla sospensione, alla morte della pietà.
Nella battaglia di Platea ad influire sulle sorti dello scontro è anche la morte del comandante persiano Mardonio. A quei tempi i capi, durante le battaglie, non stavano nascosti in un bunker mimetizzati nelle retrovie, ma combattevano alla testa dei loro eserciti. Difatti quando il comandante moriva, l’esercito si sfasciava e abbandonava il campo di battaglia. Il comandante doveva essere visibile da lontano (di solito infatti stava a cavallo) poiché il comportamento dei soldati dipendeva dalle sue mosse. Così avviene anche a Platea, dove, scrive Erodoto: “Mardonio combatteva dall’alto di un cavallo bianco … ma come Mardonio morì, e il gruppo schierato attorno a lui, che era il più forte, cadde, allora anche gli altri si volsero in fuga e cedettero agli Spartani”.
Il terzo personaggio intorno al quale ruota il racconto della battaglia di Platea serve ad Erodoto per costruire, come sempre, una significativa allegoria. Erodoto vede nel comportamento di questo personaggio un formidabile esempio di imperturbabilità. Si tratta dell’ateniese Sòfane, e lasciamo che sia Erodoto a presentarcelo in questo frammento.
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Erodoto, Le Storie IX 16
L’ateniese Sòfane alla cintura della corazza portava legata, con una catenella di bronzo, un’ancora di ferro e che, ogni qual volta giungeva in vicinanza dei nemici, soleva gettarla, perché i nemici nell’assalto non potessero muoverlo dal suo posto, mentre quando c’era una fuga degli avversari ritirava l’ancora e si dava così all’inseguimento.
Questa pittoresca immagine contiene una straordinaria metafora. Noi non abbiamo bisogno di un salvagente che ci faccia passivamente galleggiare in superficie, ma abbiamo bisogno di una solida àncora che ci permetta di restare attaccati alla nostra opera. Qual è – si domanda Erodoto – il ruolo dello storico? Che cos’è, in che cosa consiste – si chiede Erodoto – la Storia?
REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Nel testo dell’opera di Erodoto emerge un significativo catalogo di idee contenute dentro ad una serie di “definizioni”: La Storia è allusione?… La Storia è precisazione?… La Storia è l’arte di varcare la frontiera?… La Storia è memoria?… La Storia è l’arte di raccontare?… La Storia è tragedia?… La Storia è la capacità di mettere ordine?…
Scegliete la “definizione” che vi piace di più e scrivetela sulla scheda “PER INVESTIRE IN INTELLIGENZA…”, potete partecipare così a dare una forma al territorio culturale, al paesaggio intellettuale de Le Storie di Erodoto …
Erodoto è il primo a rendersi conto che la caratteristica fondamentale del mondo sta nella sua molteplicità. Tutta la sua opera sembra dire ai Greci: “Noi non siamo soli, io ho viaggiato ai confini della terra e ho sempre incontrato gente… Noi abbiamo dei vicini, i quali a loro volta hanno i loro vicini e tutti insieme popoliamo il pianeta”. Per una persona vissuta, fino a quel momento, all’interno della sua piccola patria (la polis) di cui, volendo, poteva misurare il perimetro a piedi, quella nuova dimensione planetaria della realtà è una grande scoperta. Con Le Storie di Erodoto cambia l’idea del mondo, il mondo assume nuove proporzioni e si stabilisce una scala di valori fino ad allora sconosciuta. Inoltre Erodoto, viaggiando e raggiungendo popoli d’ogni genere, vede e annota che ognuno di essi ha una sua storia indipendente ma, nello stesso tempo, parallela alle altre: vede cioè che la Storia dell’Umanità assomiglia ad un crogiuolo in continua ebollizione, dove molte parole e molte idee si amalgamano e si fondono insieme e contemporaneamente si differenziano e si distinguono in continuazione.
Ma Erodoto scopre anche un’altra cosa, e cioè la varietà del tempo o, per meglio dire, la varietà dei sistemi per calcolarlo. Una volta i contadini misuravano il tempo con le stagioni, la gente delle città misurava il tempo con le generazioni, gli antichi scrivani misuravano il tempo con la lunghezza delle dinastie imperanti. Come unificare le grandezze, come trovare un denominatore comune del tempo? Se leggiamo Le Storie ci rendiamo conto che Erodoto è sempre alle prese con questo problema e cerca sempre di risolverlo. Oggi, abituati come siamo agli orologi, non ci rendiamo conto di quale problema fosse, all’epoca di Erodoto, la misura del tempo e di quante difficoltà, interrogativi e misteri nascondesse.
Questa idea del mondo di cui Erodoto è portatore (con le sue proporzioni, la sua scala di valori e i suoi diversi modi di rappresentare il tempo) ha permesso di elaborare meglio – agli antichisti, agli antropologi, agli studiosi – l’itinerario dell’Età assiale della Storia che noi, sulla scia del testo dell’opera di Erodoto, abbiamo percorso soffermandoci dinanzi ai suoi più significativi paesaggi intellettuali e ne abbiamo catalogato le parole-chiave più significative
REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Nel testo dell’opera di Erodoto emerge un significativo catalogo di parole legato all’Età assiale della storia, in questo catalogo si trovano le parole: desiderio, dolore, illusione, vanità, rettitudine, benevolenza, simpatia, modestia, destino, caso, necessità, umiltà, ordine, giustizia, equilibrio, responsabilità, scelta, sogno, ira…
Scegliete due (non più di due) di queste parole e scrivetele sulla scheda “PER INVESTIRE IN INTELLIGENZA…”, potete partecipare così a dare una forma al territorio culturale, al paesaggio intellettuale de Le Storie di Erodoto …
Il fatto che Erodoto sia nato, sia vissuto e abbia scritto la sua opera 2500 anni fa ce lo rende estraneo? Leggendo Le Storie non si direbbe che Erodoto ci sia estraneo. Come non si direbbe che la mancanza dei moderni mezzi di comunicazione (il treno, l’aereo, o semplicemente la bicicletta) lo abbia ostacolato più di tanto. Erodoto sembra aver vissuto una vita piena, ha conosciuto mezzo mondo, ha incontrato centinaia di persone e ha raccolto centinaia di storie. La distanza di 2500 anni sembra sparire, tra noi ed Erodoto, quando – leggendo Le Storie – riconosciamo una persona vivace, attiva, infaticabile, sempre a caccia di qualcosa, sempre occupata in qualcosa.
S’intuisce anche facilmente che Erodoto vorrebbe continuare a conoscere e a imparare ancora tante cose, a sciogliere enigmi, a rispondere a domande e a porsi ulteriori interrogativi: ma si riesce anche a capire – fin dall’incipit della sua opera –che teme di non averne più né il tempo né la forza. Il tempo non basta, la vita umana – allude Erodoto – ci sembra sempre troppo breve.
Se Erodoto avesse avuto a disposizione i moderni mezzi di comunicazione avrebbe raccolto un maggior numero di informazioni? Forse qualcuna in più, ma i pensieri sul “tema del tempo” e sul “tema dell’esistenza” che Erodoto si pone sono gli stessi pensieri che ci poniamo (o che dovremmo porci) noi oggi. Spesso oggi la valanga di informazioni (spesso inutili) che ci sommergono (non è forse preoccupante che si parli di guerra dell’informazione?) serve solo a coprire e ad impedire che emerga la riflessione pacata e consapevole sui temi esistenziali (materiali, intellettuali, spirituali) che toccano tutti gli esseri umani, tutta la tribù dell’homo sapiens. Perché – si domanderebbe Erodoto – il potente mondo dell’informazione oggi, riesce mirabilmente a spettacolarizzare il dolore, la gioia, la tragedia e la farsa, ma non è in grado di produrre un’acuta riflessione sui grandi temi dell’esistenza che porti ad un cambiamento degli stili di vita?
A un certo punto – probabilmente sulla soglia della vecchiaia – Erodoto decide di scrivere con sistematicità: sa di avere raccolto nella sua memoria una quantità enorme di storie e di notizie e che, se non le fissa per iscritto, finiranno per svanire. È l’eterna lotta dell’essere umano contro il tempo, contro la labilità della memoria, contro la tendenza, che ha la memoria, ad offuscarsi e a svanire. Questa è una lotta che intraprendono tutti i personaggi dell’Età assiale della Storia e da questa lotta contro il tempo e contro la labilità della memoria nasce un’idea che si trasforma in un oggetto, nell’oggetto fondamentale dell’Età assiale: il libro (biblos-biblos). Il libro è l’oggetto che assicura una durata al tempo, è l’oggetto che allarga i confini del tempo, il libro è l’oggetto che costruisce l’eternità. La persona sa – e invecchiando lo sente con maggiore evidenza – che la memoria è fragile e fuggevole. La persona sa che, se non fissa le proprie esperienze e conoscenze in modo più stabile, rischia di perderle: la “scrittura” diventa lo strumento fondamentale per conservare il mondo e per ordinare la realtà. Di conseguenza la “lettura” diventa lo strumento fondamentale per svelare il mondo e per scoprire la realtà. Il libro (biblos-biblos) unifica nello stesso oggetto i due codici diversi del “leggere” e dello “scrivere”.
L’opera di Erodoto risulta essere il primo libro dell’Età assiale della Storia che, esplicitamente, si propone di conservare e di ordinare ma anche di “rivelare” e di “divulgare”. Erodoto non spulcia né gli archivi né le biblioteche, non si dedica ad operazioni accademiche come, dopo di lui, faranno per secoli gli studiosi. Erodoto cerca di descrivere come nasce quotidianamente la storia. Erodoto cerca di capire come la storia venga creata dagli individui e come mai la Storia prenda spesso una direzione contraria alle speranze e alle aspettative degli esseri umani. Erodoto si domanda se la Storia dipenda dal volere degli dèi (su questo tema è molto scettico), oppure se le persone siano troppo imperfette e limitate per dare un’impronta saggia e razionale al loro destino. Erodoto, nonostante il suo “moderato” pessimismo, risulta essere una persona serena, rilassata e cordiale, se Erodoto non avesse avuto un carattere del genere, non avrebbe cavato niente dagli altri e noi non avremmo avuto la sua opera, un’opera che conserva, ordina, rivela e divulga.
Noi siamo arrivati alla fine di questo Percorso anche se il cammino che abbiamo fatto in questi sette mesi è bastato solo per iniziare lo “studio” sull’opera di Erodono. Ci siamo occupati soprattutto delle forme (culturali, intellettuali e allegoriche) che possiamo rinvenire nel testo di Erodoto in modo che, chi lo desidera, possa accedere in proprio ai contenuti attraverso l’esercizio della lettura e della scrittura.
E ora occupiamoci della fase finale del nostro viaggio: la partenza comporta un delicato rituale, ma è un altrettanto delicato rituale comporta anche l’arrivo.
Nel libro IX, l’ultimo de Le Storie – si racconta la battaglia di Platea (479 a.C.), dove il comandante persiano Mardonio cade sul campo, sconfitto dallo stratega greco Pausania, mentre, nello stesso giorno, la flotta persiana è battuta a Micale e tutta la costa europea dell’Ellesponto torna in possesso dei Greci. La sconfitta definitiva dei Persiani è decretata dall’espugnazione di Sesto nella primavera del 478 a.C. Questa chiusura è parsa a molti studiosi davvero insignificante. La presa di Sesto, in chiusura di un’opera così vasta – tanto più che le Guerre persiane si sono protratte ancora per almeno 30 anni – ha fatto ritenere a molti antichisti e a molti letterati che Le Storie di Erodoto siano un’opera incompiuta. Ma altri studiosi (il dibattito è in corso…) ribadiscono che, con la conquista di Sesto da parte dei Greci, l’avventura europea dei Persiani poteva considerarsi conclusa e che proseguire più oltre avrebbe portato Erodoto a occuparsi di fatti contemporanei, una cosa che Erodoto (e lo abbiamo già constatato) non intendeva fare. Possiamo pensare che Erodoto, con la capitolazione di Sesto nel 478 a.C., ritenesse compiute Le Storie anche se non possiamo non constatare che all’opera è mancata l’ultima mano (s’interrompe di colpo senza un discorso conclusivo) ed è mancata una definitiva revisione (è un testo unico, disordinato, non diviso in libri né in capitoli e senza titolo).
E allora? Le Storie di Erodoto rimangono senza un finale? Le Storie non hanno propriamente un “finale” ma il testo di Erodoto c’invita a riflettere su una possibile considerazione conclusiva (una delle tante possibili).
La lettura dell’opera di Erodoto trasmette un sentimento che tuttora siamo in grado di capire anche noi, persone del terzo millennio: quale sentimento? Il sentimento di cui ci accingiamo a parlare racchiude un significativo concetto che Erodoto esprime con tre parole-chiave. Queste tre parole-chiave non sono state volutamente inserite negli elenchi delle parole da scegliere perché fanno già parte della fase di arrivo e, in un itinerario di studio, l’atto dell’arrivare si colloca già al di là del Percorso stesso e contiene già le motivazioni per una prossima partenza. Erodoto usa queste tre parole-chiave per tracciare come un perimetro intorno alle sue molte scoperte. Queste tre parole in greco sono: misterion, ágnostos e ádelos. Questi tre termini greci – misterion, ágnostos e ádelos –significano contemporaneamente: il mistero, l’ignoto, l’incognita.
Erodoto tutte le volte che arriva in un luogo, dopo aver raccolto notizie, informazioni e storie, constata di poter definire un perimetro, di poter individuare i confini di un territorio e contemporaneamente – attraverso questa operazione – prende coscienza del fatto che, oltre quel perimetro, oltre quei confini (davanti e intorno a lui) tutto è ancora avvolto nel mistero. Per Erodoto l’idea del mistero non è motivo di impotenza, di inadeguatezza, di fuga nell’irrealtà, ma è motivo di riflessione: c’è un mistero della vita, c’è un mistero della storia, c’è un mistero della natura, e bisogna prenderne atto.
Nella narrazione di Erodoto, da un libro all’altro, lo scrittore, a più riprese, ci mette di fronte ad un serie di domande inquietanti e stimolati: come sorse il mondo? Quale lingua si parlò per prima? Qual è il popolo che primo apparve sopra la terra?
Nelle pagine di Erodoto è costante l’eco del mistero ma non nel senso mitico dell’evento inspiegabile, del segreto, dell’arcano ma nel senso relativo dell’ignoto (agnostos-ágnostos è ciò che non si conosce ancora), nel senso relativo dell’incognita (adelos-ádelos è la “x” che va calcolata). L’idea dell’ignoto, l’idea dell’incognita corrispondono in Erodoto alla caparbia volontà di una persona inquieta che punta l’occhio attento e curioso sul mistero che la circonda: io penso che si possa cogliere in queste parole il ritratto delle persone (delle cittadine e dei cittadini) che frequentano e animano la Scuola degli Adulti…
Leggendo Le Storie di Erodoto sentiamo riecheggiare voci di vite lontane, primigenie: sono le voci dell’Età assiale della Storia. Voci che esprimono una ricchezza di motivi, di fatti, di curiosità, di eventi. Voci che mettono in evidenza i più profondi problemi che turbano l’umanità. Erodoto, con il suo sorriso, come se fosse il maestro del coro (didaskalos), tiene insieme tutte queste voci con una grazia inimitabile, con una deliziosa semplicità e un’eccellente chiarezza. Questa grazia, questa semplicità e questa chiarezza – pur nell’abbondanza discorsiva, nella frammentarietà e nelle frequenti riprese in cui si sviluppa il suo testo – fanno di Erodoto uno dei più grandi scrittori della Storia del Pensiero Umano e fanno della sua opera uno strumento fondamentale in funzione della didattica della lettura e della scrittura.
Questa riflessione – dettata dalle parole mistero, ignoto, incognita – ci porta ad affermare che la conclusione de Le Storie di Erodoto non la troviamo alla fine dell’opera, non la troviamo alla fine del libro IX dove s’interrompe bruscamente il testo, ma un possibile finale lo possiamo trovare in un frammento del libro III al capitolo 116. Queste due righe (le ultime che leggiamo insieme in questo Percorso) sono tutto un programma, che si fonda sul fascino dell’ignoto (ágnostos) e sul fascino dell’incognita (ádelos). Il fascino dell’ignoto (ágnostos) e il fascino dell’incognita (ádelos) sono concetti che – sulla scia del sorriso di Erodoto – ci riportano verso i confini del grande territorio del “romanticismo” da dove – su indicazione di Schiller – siamo partiti l’autunno scorso.
E ora leggiamo il frammento che potrebbe costituire il possibile finale de Le Storie di Erodono.
LEGERE MULTUM….
Erodoto, Le Storie III 116
… pare che le regioni estreme, che circondano il resto del mondo e lo racchiudono dentro, abbiano in sé, e solo esse, quelle cose che a noi sembrano le più belle e le più rare.
E non siamo forse anche noi – come persone, come studentesse, come studenti, come cittadine, come cittadini – alla ricerca di “quelle cose che a noi sembrano le più belle e le più rare”? E da dove incominciare la nostra ricerca se non dalla Scuola?
E a Scuola fra quindici giorni – dopo le vacanze pasquali – inizieremo, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, un nuovo Percorso alla ricerca di “quelle cose che a noi sembrano le più belle e le più rare”. Erodoto non ci abbandona: continuerà (sotto traccia) ad accompagnarci e, ad ogni “allusione”, spunterà puntualmente il suo sorriso.
E così, strada facendo, siamo arrivati anche a Pasqua e la parola Pasqua è sinonimo di “resurrezione”. Nella lingua di Erodoto il termine “resurrezione” corrisponde alla parola “anastasia”.
Anastasia è il nome di tanti personaggi da romanzo…
Come può e come deve la Scuola augurare la “buona Pasqua”? La Scuola può e deve augurare la “buona Pasqua” ricordando che il concetto della “resurrezione” è legato all’idea dello studio. L’attività dello “studiare” è metafora della “resurrezione”. Lo “studiare” è sinonimo del “curare la propria anima”. Sono i Padri della Chiesa a ricordarcelo: per esempio Gregorio Magno, papa dall’anno 590 all’anno 604, scrive nei suoi Dialoghi che: “Studiare è un esercizio che permette di cominciare a risorgere”, e difatti Gregorio prescrive quattro ore di studio al giorno. Se le cose stanno così, dopo Pasqua, non possiamo far altro che correre a Scuola, si rientra mercoledì 19 aprile (Scuola Redi), giovedì 20 aprile (Scuola Levi), venerdì 21 aprile (Scuola Don Milani), e si riparte da per un nuovo viaggio di studio per conoscere e per capire le parole-chiave e le idee significative contenute nei paesaggi intellettuali che incontreremo sul sentiero di un vasto territorio culturale che negli anni 2004 e 2005 abbiamo in parte già percorso.
Da dove parte questo nuovo Percorso? Questo nuovo Percorso parte da Tubinga (una bella città tedesca nella quale siamo già stati qualche volta). Per essere più precisi questo nuovo Percorso parte dal celebre collegio Stift di Tubinga. E per essere ancora più precisi parte dalla camera numero 9 del celebre collegio Stift di Tubinga. Chi dorme, chi studia, chi vive nella camera numero 9 del celebre collegio Stift di Tubinga? Ci vivono tre studenti convittori, si chiamano: Friedrich Hölderlin, Friedrich Scelling e Georg Hegel. Siamo nell’anno 1793 e sapete che cosa combinano, insieme, questi tre personaggi? Ne combinano delle belle in funzione della didattica della lettura e della scrittura! E se non ne avessero combinato delle belle – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – ci divertiremmo meno a studiare.
La Scuola, con i Percorsi in funzione della didattica della lettura e della scrittura, prescrive (tanto per cominciare) quattro ore di “studio” alla settimana. “Studiare è un esercizio che permette di cominciare a risorgere”: ascoltate Gregorio: correte a Scuola …
Buona Pasqua di studio a tutti…