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LO SGUARDO DI HEGEL SULL’IDEALISMO OGGETTIVO…

Lezione N.: 
24

Prof. Giuseppe Nibbi                   Lo sguardo di Hegel  2006                 26-27-28  aprile  2006

LO SGUARDO DI HEGEL

SULL’IDEALISMO OGGETTIVO…

     Questa sera siamo ancora a Tubinga e fra un po’ faremo anche due passi per la città. Per la precisione ci troviamo nell’aula magna del famoso Istituto Stift dove sta per riunirsi – convocato dal rettore – il Consiglio di disciplina. Nell’attesa che prendano posto, nell’aula, tutti gli insegnati dell’Istituto cogliamo l’occasione per farci una domanda: perché nel LEGERE MULTUM di questa sera (nel primo brano) troviamo Manon Lescaut (questo nome non è nuovo per nessuno), il famoso personaggio creato (nel 1731) dallo scrittore Antoine-François Prévost? Ebbene sveliamo il mistero che abbiamo lasciato in sospeso la scorsa settimana: troviamo Manon Lescaut perché nella primavera del 1793, nel corso di un’altra ispezione nella camera numero 9 dell’Istituto Stift (gli ispettori vanno a parare sempre lì) viene rinvenuta, in una valigia sotto il letto di Schelling, una copia del VII tomo del romanzo intitolato: Le memorie e le avventure di un uomo di qualità (o di nobile condizione) di Antoine-François Prévost. Il rettore – dopo questo ritrovamento – convoca d’urgenza il Consiglio di disciplina. Ma perché? Ci domandiamo molto preoccupati. Che cosa c’è di male a tenere in camera questo libro?  Perché i romanzi di Antoine-François Prévost non possono essere letti? Chi è Antoine-François Prévost?

     Antoine-François Prévost è nato a Hesdin nella regione dell’Artois (nel nord-est della Francia) nel 1697 ed è morto nel 1763. Prévost diventa abate benedettino ma non è molto tagliato per la vita monastica e quindi lascia l’abito e fugge in Inghilterra e in Olanda. Prévost ha vissuto una vita avventurosa e irrequieta: è stato anche in prigione per truffa. La sua vera vocazione è quella di fare lo scrittore e la sua produzione è stata imponente: ha scritto più di cento volumi. Oltre a tradurre opere dall’inglese in francese ha scritto testi di erudizione, tra i quali una voluminosa Storia generale dei viaggi (Erodoto – che continua ad accompagnarci sotto traccia – annuisce)

     La più famosa delle sue opere, scritta tra il 1728 e il 1731, s’intitola Le memorie e le avventure di un uomo di qualità (o di nobile condizione), ed è un romanzo di taglio autobiografico (il protagonista è un Marchese di cui non si cita il nome) in sette volumi. All’interno del settimo volume si trova La vera storia del cavaliere Des Grieux e di Manon Lescaut (1731): questo racconto è ben presto diventato un romanzo autonomo intitolato semplicemente Manon Lescaut, ed è quest’opera che ha fatto entrare Prévost nella Storia della Letteratura. La vicenda di questo significativo personaggio femminile pre-romantico, – che viene raccontata in prima persona da Des Grieux al Marchese*** (di cui non si cita il nome), è un’audace storia d’amore in cui la passione domina su ogni altro sentimento. Sappiamo che questo racconto ha avuto una vasta eco e una grande fortuna, ispirando, tra l’altro, le opere liriche di Jules-Émile Massenet (1842-1912) e di Giacomo Puccini (1858-1924) su libretto di Luigi Illica.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

A questo proposito possiamo cogliere l’occasione per ascoltare o riascoltare queste due opere – Manon Lescaut di Massenet (1884) e Manon Lescaut di Puccini (1893) – in modo da coglierne tanto le differenze musicali quanto le variazioni narrative rispetto al racconto scritto da Prévost di cui si consiglia la lettura…

     Il racconto di Prévost narra le avventure del diciassettenne cavaliere Des Grieux che, ad Amiens, incontra una bellissima fanciulla sedicenne, Manon Lescaut, destinata dai genitori al convento perché è molto irrequieta: lei non condivide questa scelta. I due giovani si innamorano e da Amiens (la bella città capoluogo della Picardia – siamo sempre nel nord-est della Francia – dove si può ammirare una delle più grandiose cattedrali gotiche della Storia dell’architettura) fuggono insieme a Parigi, la capitale, che offre molto di più di un capoluogo di provincia. Manon, nella capitale, attira subito l’attenzione per la sua bellezza e il suo fascino, ed essendo molto interessata al denaro si concede a un ricco finanziere, per cui Des Grieux, deluso, decide di entrare nel seminario di Saint-Sulpice. Ma Manon, che è sinceramente innamorata di lui, lo ritrova e i due giovani si rimettono insieme. Des Grieux è costretto a subire il carattere contraddittorio di Manon e cerca guadagni nel gioco, mentre Manon si trova un altro protettore.

     Manon Lescaut è un personaggio complesso, è un personaggio che fa da modello ad altri importanti personaggi da romanzo (pensiamo a Madame Bovary). Manon da una parte si lascia trascinare dall’interesse materiale, si lascia sedurre dal denaro che la spinge a commettere atti immorali, mentre dall’altra è anche alla ricerca dell’amore romantico (titanico e galante) e dimostra nei fatti di saper amare in modo disinteressato e appassionato. Manon e Des Grieux vivono una serie di avventure: vengono arrestati, evadono, sono incarcerati di nuovo. Poi su denuncia del padre di Des Grieux, che vuole allontanare il figlio da questa fanciulla immorale, Manon viene arrestata, processata e condannata come “donna di piacere”. La condanna consiste nella deportazione in Louisiana (allora era una colonia francese), ma il giovane amante non vuole distaccarsi dall’amata e la segue fino a New Orléans. In questa città coloniale di frontiera i due amanti si presentano come marito e moglie ma poi questo equivoco viene scoperto e Des Grieux deve sostenere un duello con il nipote del governatore (che si è innamorato dell’irresistibile Manon). Siccome Des Grieux pensa di aver ucciso l’avversario, i due amanti sono costretti alla fuga e Manon muore durante la traversata di un territorio deserto, e Des Grieux, affranto, viene ricondotto in Francia.

     Ma veniamo al dunque: che cosa ci fa Manon Lescaut sotto il letto di Schelling? Schelling ne sta traducendo il testo in tedesco, ed è appena arrivato alla fine del suo lavoro, e difatti il volume gli viene sequestrato insieme alla traduzione delle ultime dieci pagine. Naturalmente questo romanzo, per la sua (presunta) scabrosità, è stato da tempo messo all’Indice dalla Chiesa luterana e il detenerlo, il leggerlo, il tradurlo per divulgarlo costituiva una grave violazione delle regole. Schelling, insieme ai suoi due compagni di stanza, Hölderlin ed Hegel, viene convocato davanti al Collegio di disciplina, e tutti e tre vengono fatti accomodare sul banco degli imputati.

     E allora rientriamo anche noi nell’aula magna dell’Istituto Stift. Il rettore, con domande incalzanti,  rivolte a tutti e tre gli studenti, vuole sapere in che modo Schelling si sia procurato il volume, chi glielo abbia dato e per quale motivo lo abbia tradotto e, soprattutto, vuole sapere dove sono finite tutte le altre pagine della traduzione che – il rettore presume – Schelling abbia svolto di tutto il romanzo incriminato.

     Noi naturalmente ci domandiamo che cosa ci sia di “scabroso” nella storia di Manon Lescaut. Leggiamo alcune pagine di quelle che sono state sequestrate a Schelling e che il rettore sta tenendo in mano come corpo del reato.

LEGERE MULTUM….

Antoine-François Prévost, Storia del cavaliere Des Grieux e di Manon Lescaut (1731)

Come avevo convenuto con Manon, andai dal governatore, per pregarlo di acconsentire alla cerimonia del nostro matrimonio. Mi sarei ben guardato dal parlarne a lui o a chiunque altro, se avessi avuto la certezza che il suo cappellano, il quale era allora il solo prete della città, mi avrebbe reso quel servizio senza metterne al corrente il governatore; ma poiché non osavo sperare che si impegnasse al silenzio, avevo preso la decisione di agire alla luce del sole.

Il governatore aveva un nipote, di nome Synnelet, che gli era profondamente caro. Era un uomo di trent’anni, coraggioso, ma impulsivo e violento. Non aveva moglie e, fin dal nostro arrivo, era stato sensibile alla bellezza di Manon. Le innumerevoli occasioni di vederla che aveva avuto durante nove o dieci mesi, avevano talmente acceso la sua passione che si consumava in segreto per lei. Tuttavia, poiché come suo zio e tutta la città era persuaso che fossi realmente sposato con Manon, aveva dominato il suo amore fino al punto di non lasciarlo trasparire. Anzi, la sua premura verso di me si era manifestata in parecchie occasioni di rendermi qualche servizio.

Quando arrivai al forte, lo trovai con suo zio. Non c’era nessuna ragione che mi obbligasse a nascondergli le mie intenzioni e non ebbi perciò nessuna difficoltà a parlare in sua presenza.

Il governatore mi ascoltò con la sua solita bontà. Gli raccontai una parte della mia storia che ascoltò con piacere e quando lo pregai di assistere alla cerimonia che progettavo, fu tanto generoso da volersi assumere tutte le spese della festa. Me ne andai contentissimo.

Circa un’ora dopo vidi entrare il cappellano in casa mia. Immaginai che venisse a darmi qualche istruzione sulla cerimonia, ma dopo avermi salutato freddamente mi dichiarò in due parole che il signor governatore mi proibiva di pensarci perché aveva altre mire su Manon.

«Altre mire su Manon?» gli dissi con una stretta al cuore. «E quali mire, signor cappellano?»

Non ignoravo, mi rispose, che il signor governatore era il padrone e, poiché Manon era stata mandata dalla Francia per la colonia, egli poteva quindi disporne a piacimento. Non l’aveva fatto fino a quel momento, perché la credeva sposata, ma avendo saputo proprio da me che non lo era, giudicava opportuno concederla al signor Synnelet che ne era innamorato.

Il mio risentimento fu più forte della prudenza. Intimai al cappellano di uscire da casa mia, giurando che il governatore, Synnelet e tutta la città non avrebbero osato toccare mia moglie, o la mia amante, comunque la volessero chiamare.

Misi subito Manon al corrente del funesto messaggio che avevo ricevuto. Ritenemmo che Synnelet avesse istigato suo zio dopo che io me ne ero andato e che questo fosse il risultato di un progetto meditato da tempo. Erano i più forti. Ci trovavamo alla Nouvelle-Orléans come in mezzo al mare, vale a dire separati dal resto del mondo da spazi immensi. Dove fuggire? In un paese sconosciuto, deserto o abitato da bestie feroci, e da selvaggi altrettanto crudeli? Godevo della stima della città, ma non potevo sperare di commuovere la popolazione in mio favore fino al punto di aspettarmi un aiuto proporzionato al male. Ci sarebbe voluto del denaro. Io ero povero. D’altra parte il successo di un sollevamento popolare era incerto e se la fortuna ci fosse venuta meno, la nostra disgrazia si sarebbe fatta irrimediabile. Rimuginavo tutti questi pensieri in testa e ne comunicai una parte a Manon; poi ne formulavo altri senza stare a sentire la sua risposta. Prendevo una decisione, poi la lasciavo cadere per prenderne un’altra. Parlavo da solo e rispondevo ad alta voce ai miei pensieri. Alla fine ero in uno stato d’agitazione che non saprei a che cosa paragonare, perché non ve ne sono di eguali.

Manon mi guardava e dal mio turbamento misurava l’entità del pericolo. Tremando più per me che per se stessa, quella tenera creatura non osava nemmeno aprir bocca per esprimermi la sua paura.

Dopo un’infinità di riflessioni, decisi di andare a trovare il governatore per tentare di commuoverlo parlandogli dell’onore, ricordandogli il mio rispetto e il suo affetto. Manon non voleva che uscissi.

«Ahimè, vi uccideranno!» mi diceva piangendo. «Non vi rivedrò che morto. Voglio morire prima di voi».

Riuscii con gran fatica a convincerla che io dovevo ad ogni costo uscire, mentre lei doveva rimanere a casa. Le promisi che mi avrebbe rivisto prestissimo. Ignorava, ed io con lei, che proprio su lei stava per ricadere tutta la collera del Cielo e il furore dei nostri nemici.

Mi recai al forte. Il governatore era col suo cappellano. Per commuoverlo mi abbassai a umiliazioni che mi avrebbero fatto morire di vergogna per qualunque causa. Ricorsi a tutti gli argomenti che dovevano per forza impressionare un cuore che non sia quello di una tigre feroce e crudele.

Quell’uomo spietato oppose ai miei lamenti due sole risposte cento volte ripetute: Manon dipendeva da lui, aveva dato la parola a suo nipote. Deciso a controllarmi fino in fondo, mi limitai a dirgli che lo credevo troppo mio amico per volere la mia morte, che avrei preferito morire piuttosto che perdere Manon.

Uscendo, ero assolutamente convinto che non avevo niente da sperare da quel vecchio testardo, il quale si sarebbe dannato mille volte per il nipote. Ciò nonostante, rimasi dell’idea di non eccedere fino alla fine, deciso, se si fosse giunti agli estremi, a dare alla Nouvelle-Orléans uno degli spettacoli più cruenti e orribili che l’amore abbia mai offerto.

Tornai a casa rimuginando su questo progetto, allorché la sorte che voleva affrettare la mia rovina mi fece incontrare Synnelet. Mi lesse negli occhi una parte dei miei pensieri. Ho detto che era coraggioso. Venne verso di me e mi disse: «Non mi cercavate? So che le mie intenzioni vi offendono, e ho già previsto che con voi si sarebbe arrivati alle armi. Andiamo a vedere chi sarà il più fortunato».

Gli risposi che aveva ragione e che solo la morte avrebbe potuto metter fine alla nostra contesa. Ci allontanammo di un centinaio di passi dalla città. Le nostre spade si incrociarono, io lo ferii e lo disarmai quasi insieme. La rabbia lo rese così furioso che rifiutò di chiedermi la vita e di rinunziare a Manon. Io avevo forse il diritto di togliergli in una sola volta l’una e l’altra, ma sangue generoso non mente. Gli gettai la sua spada.

«Ricominciamo», gli dissi, «e ricordati che è senza quartiere».

Mi assalì con una furia indescrivibile. Debbo confessare che non ero un gran spadaccino, dato che a Parigi avevo avuto solo tre mesi di scuola. L’amore guidava la mia spada. Synnelet mi trafisse il braccio da parte a parte, ma io colsi il momento e gli infersi un colpo così violento, che cadde immoto ai miei piedi.

Nonostante la gioia che dà la vittoria dopo una lotta all’ultimo sangue, riflettei immediatamente sulle conseguenze di quella morte. Per me non c’erano né grazia, né rinvio del supplizio. Conoscendo bene la passione del governatore per il nipote, ero sicuro che la mia morte non sarebbe stata differita di un’ora, quando si fosse saputa la sua. Per quanto incalzante, questo timore non era la fonte maggiore della mia inquietudine. Manon, l’interesse di Manon, il pericolo in cui incorreva, il rischio di perderla, mi turbavano fino a oscurarmi la vista e a impedirmi di riconoscere il luogo in cui mi trovavo. Invidiai la sorte di Synnelet: una morte immediata mi sembrava il solo rimedio ai miei affanni. Tuttavia fu proprio quel pensiero a far sì che ritornassi in me e a rendermi capace di prendere una decisione. «Come?» esclamai. «Io voglio morire per finirla con le mie pene? C’è qualcosa dunque ch’io tema più che perdere la mia diletta amica? Ah! Soffriamo tutto quel che c’è da soffrire per soccorrerla e rimandiamo la morte a quando avremo patito inutilmente».

Mi rimisi in cammino verso la città. Entrai in casa dove trovai Manon mezza morta di spavento e di inquietudine. La mia presenza la rianimò. Non potevo nasconderle e nemmeno minimizzare il terribile incidente che mi era accaduto. Cadde priva di sensi fra le mie braccia al racconto della morte di Synnelet e della mia ferita. Mi ci volle più di un quarto d’ora per farla riavere. Io stesso ero mezzo morto. Non vedevo vie d’uscita né per la sua salvezza, né per la mia. «Che faremo, Manon?» le dissi quando ebbe ripreso un po’ di forza. «Ahimè! Che faremo? Dovrò per forza allontanarmi. Volete rimanere in città? Sì, rimanete: potete ancora esservi felice; io me ne andrò lontano da voi a cercare la morte fra i selvaggi, fra gli artigli delle belve». Pur così debole si alzò e mi prese per mano conducendomi verso la porta. «Fuggiamo insieme», mi disse, «non perdiamo un istante. Possono aver trovato per caso il corpo di Synnelet, e non avremmo il tempo per allontanarci dalla città».

«Mia cara Manon», risposi smarrito, «ditemi dunque dove possiamo andare. Vedete una qualche soluzione? Non sarebbe meglio che voi cercaste di vivere qui senza di me e che io consegnassi spontaneamente la mia testa al governatore?» La mia proposta non fece che rinfocolare la sua smania di partire. Mi toccò seguirla. Ebbi ancora abbastanza presenza di spirito da prendere, prima di uscire, alcuni liquori che avevo in camera e tutte le provviste che potei far entrare nelle mie tasche. Dicemmo ai domestici che erano nella stanza accanto, che noi uscivamo per la nostra passeggiata serale come di consueto e ci allontanammo dalla città più in fretta di quanto non sembrasse consentirlo la fragilità di Manon. Benché fossi stato così irrisoluto sul luogo dove ci saremmo rifugiati, nutrivo nondimeno due speranze senza le quali avrei preferito la morte all’incertezza di quello che poteva capitare a Manon. Nei dieci mesi trascorsi in America, mi ero fatto una sufficiente conoscenza del paese per non ignorare in che modo si ammansivano gli indigeni. Ci si poteva mettere nelle loro mani senza andare incontro a morte sicura. Nelle diverse occasioni in cui li avevo visti, avevo perfino imparato qualche parola della loro lingua, e alcune delle loro usanze. A parte questa triste risorsa, ne avevo un’altra: si trattava degli inglesi che come noi hanno un insediamento in quella parte del nuovo mondo. Ma ero terrorizzato dalla distanza: per giungere fino a loro avevamo da attraversare sterili campagne che richiedevano, tanto erano vaste, diverse giornate di cammino, e qualche montagna così alta e scoscesa, che valicarla sembrava difficile agli uomini più rudi e più vigorosi. Tuttavia mi lusingavo di poter trarre partito da queste due possibilità: gli indigeni, che ci servissero da guida, e gli inglesi che ci accogliessero nelle loro abitazioni. Camminammo fintanto che il coraggio di Manon poté sostenerla, vale a dire circa due leghe, giacché quella donna incomparabile rifiutò di fermarsi prima. Alla fine, affranta dalla stanchezza, mi confessò che le era impossibile proseguire. Era già notte. Ci sedemmo in mezzo a una vasta pianura, senza aver potuto trovare un albero sotto il quale metterci al riparo. Il suo primo pensiero fu di cambiare la fascia della mia ferita, che lei stessa aveva medicato prima della nostra fuga. Invano mi opposi ai suoi desideri. Avrei dato un altro terribile colpo al suo morale se le avessi rifiutato la soddisfazione di assicurarsi che stessi discretamente e fossi fuori pericolo prima di pensare a se stessa. Per un po’ mi assoggettai ai suoi desideri. Accettai in silenzio, e quasi vergognandomi, le sue cure. Ma quando ebbe appagato la sua tenerezza, con quale ardore le dedicai la mia! Mi spogliai di tutti i miei abiti e li stesi tutti sotto di lei per farle trovare la terra meno dura. Suo malgrado le feci accettare tutto quello che immaginavo potesse recarle qualche sollievo.

Scaldai le sue mani con i miei baci ardenti e col calore dei miei sospiri. Passai tutta la notte a vegliare accanto a lei e a pregare il Cielo di concederle un sonno dolce e tranquillo. Oh, mio Dio! Come erano ardenti e sincere le mie preghiere! E con quale inesorabile decreto avevate deciso di non esaudirle!

Perdonatemi se concludo con poche parole un racconto che mi uccide. Vi racconto una sventura che non ebbe mai eguali. Tutta la mia vita è destinata a piangerla, ma, per quanto mi sia impressa continuamente nella memoria, la mia anima se ne ritrae con orrore ogni volta che tento di parlarne.

Avevamo trascorso tranquillamente una parte della notte. Credevo che la mia dolce amica fosse addormentata e osavo appena respirare per timore di turbarne il sonno. Allo spuntar del giorno, toccandole le mani, mi accorsi che erano fredde e tremanti. Me le accostai al petto per riscaldarle. Nel sentire quel movimento, fece uno sforzo per afferrare le mie e mi disse con voce flebile che credeva giunta la sua ultima ora.

Dapprima pensai che fossero le solite parole che si dicono nei momenti dolorosi e risposi con le tenere espressioni di conforto che ispira l’amore. Ma i suoi sospiri frequenti, il suo silenzio alle mie domande, la pressione delle sue mani che continuavano a stringere le mie, mi fecero capire che si avvicinava la fine dei suoi affanni.

Non chiedetemi di descrivervi i miei sentimenti, né di riferirvi le sue ultime parole. La persi. Nel momento stesso in cui spirava ricevetti ancora da lei dimostrazioni d’amore. Di quel fatale e drammatico istante non ho la forza di dirvi altro.

La mia anima non seguì la sua. Evidentemente il Cielo non ritenne che fossi punito abbastanza severamente. Ha voluto che trascinassi, da allora, una vita misera e spenta. E io spontaneamente rinuncio per sempre a condurne una più felice.

Due giorni e due notti rimasi con la bocca incollata al viso e alle mani della mia cara Manon. Volevo morire, ma all’inizio del terzo giorno pensai che quando fossi morto il suo corpo sarebbe rimasto preda delle fiere. Presi la decisione di sotterrarla e di aspettare la morte sulla sua fossa. Ero già così vicino alla fine per l’indebolimento provocato dal digiuno e dal dolore, che dovetti fare grandi sforzi per reggermi in piedi. Fui costretto a ricorrere ai liquori che avevo portato. Recuperai quel tanto di forze che bastavano per il triste compito che mi aspettava.

Non era difficile scavare la terra nel posto in cui ero. Era una pianura coperta di sabbia. Spezzai la spada perché mi servisse a scavare, ma più ancora mi furono utili le mani. Scavai una larga fossa e vi deposi l’idolo del mio cuore dopo averla avvolta accuratamente con tutti i miei abiti perché la sabbia non la toccasse. Ma prima la baciai mille volte con tutto l’ardore del più assoluto amore. Mi sedetti ancora accanto a lei. La contemplai a lungo. Non potevo risolvermi a colmare la fossa. Ma già le mie forze ricominciavano a declinare e temetti che mi venissero a mancare completamente prima di aver ultimato il mio compito. Seppellii allora per sempre nel seno della terra tutto ciò che la terra aveva portato di più perfetto e di più adorabile. Poi mi sdraiai sulla fossa col viso sulla sabbia e, chiudendo gli occhi con la volontà di non aprirli mai più, invocai l’aiuto del Cielo e attesi con impazienza la morte.

     Ma Prévost non lascia morire il suo personaggio in modo che possa poi raccontare questa storia.

     Schelling, Hölderlin e Hegel alle domande del rettore danno risposte molto vaghe e poi si chiudono in un complice ed orgoglioso silenzio, eppure, soprattutto Schelling, raccontando come si sono svolti i fatti, potrebbe scaricare la propria responsabilità. A questo punto della seduta del Consiglio di disciplina – alla quale anche noi stiamo partecipando – assistiamo ad un vero e proprio colpo di scena: il professor Tadeus Fortunius alza la mano, chiede la parola e rompe il silenzio, il rettore lo invita a parlare. Il professor Fortunius sale sull’ambone e, con un breve e deciso discorso, dichiara che il volume incriminato è di sua proprietà e afferma di averlo fornito lui a Schelling. Fortunius asserisce con decisione che Schelling, essendo il miglior conoscitore della lingua francese nell’Istituto (tutti sanno, e anche noi sappiamo, che Schelling a gennaio aveva fatto una mirabile traduzione della Marsigliese), ha ricevuto da lui l’incarico, il compito, di tradurre in tedesco la storia di Manon Lescaut. Il professor Fortunius, tra la meraviglia e lo stupore dei membri del Collegio, dichiara di possedere lui tutte le pagine del testo di cui ha ordinato la traduzione ed esige quindi, in quanto assegnatario del compito, che gli vengano consegnate  anche le ultime pagine del prezioso lavoro eseguito da Schelling, insieme al volume di cui chiede al rettore l’immediata restituzione.

      «Perché – dice Fortunius con tono autoritario – ho ritenuto opportuno far tradurre il romanzo di Prévost?»  A questa domanda retorica Fortunius risponde illustrando al Collegio dei professori l’importanza di questo racconto, utile,  a suo avviso, per educare i giovani alla conoscenza delle passioni in modo che imparino a capirle per meglio viverle e per meglio dominarle. «Chi è totalmente alieno dalle passioni per cui non debba confrontarsi con esse?» Si domanda Fortunius invitando tutti i presenti a riflettere. E inoltre ribadisce che la mancanza di un’educazione sentimentale nelle Scuole rende i giovani dei babbei e non degli esseri umani e dei cittadini. Infine dichiara di assumersi tutta la responsabilità dell’episodio e chiede l’assoluzione degli studenti incriminati e termina il suo discorso lodandone l’impegno e la lealtà.

     Il Consiglio di disciplina emette la sentenza e assolve Schelling, Hölderlin e Hegel ma bolla il professor Fortunius con una dura nota di biasimo. Ma a lui non importa granché, ormai è quasi giunto alla fine della carriera, e inoltre questo episodio ha fatto salire ancora di più le sue quotazioni di insegnante (che erano già alte) tra gli studenti e anche tra i colleghi.

     A giugno Schelling, Hölderlin e Hegel superano brillantemente gli esami e presentano insieme una tesi dal titolo: Programma sistematico dell’idealismo tedesco. Questa tesi, controfirmata dal professor Fortunius, riprende le idee di Fichte e si presenta come un manifesto filosofico di opposizione agli aridi meccanismi burocratici e ai programmi arretrati degli Istituti scolastici tedeschi. Questo manifesto mira ad affermare i valori dell’estetica e della morale alla luce del connubio tra la ragione e il sentimento.

     Schelling, Hölderlin e Hegel, all’inizio dell’estate dell’anno 1793, lasciano l’Istituto Stift. Hölderlin, dopo tutta una serie di esperienze intellettuali, di avventure galanti e di fughe dalla madre (che lo voleva a tutti i costi nel ruolo di pastore), viene assunto, nel 1795, come precettore dei figli del banchiere Gontard e parte per Francoforte. (Che cosa lo aspetta?). Hegel viene assunto come precettore a Berna, e parte per la Svizzera (lo andremo a raggiungere prossimamente).

     Schelling torna nella sua città natale a Leonberg, una cittadina a ovest di Stoccarda: di lì segue, tramite le dispense, l’insegnamento di Fichte a Jena e nel 1795, appena ventenne, pubblica le Lettere filosofiche sul dogmatismo e il realismo, un’opera in cui Schelling espone le tesi di Fichte, ma con delle variazioni fondamentali che portano verso un nuovo sistema.

     Prima di occuparci del sistema di Schelling e di riprendere il nostro cammino nel territorio che stiamo attraversando e che convenzionalmente è stato chiamato il territorio dell’Idealismo dobbiamo dire che anche il professor Fortunius, nell’estate del 1793, lascia l’Istituto Stift. Il celebre collegio Stift, così com’era nell’anno 1793, oggi non esiste più. E allora facciamo, in modo virtuale, due passi nella Tubinga di oggi per ricostruire una situazione logistico-culturale che, se mai capitassimo materialmente in questa bella città (che è abbastanza vicina), non può e non deve sfuggirci

     Oggi il celebre collegio Stift è stato inglobato in una poderosa struttura architettonica, che si trova al centro della parte più antica della città, in cui domina una suggestiva torre di origine romanica, e una bella chiesa, la Collegiata dello Stift (1470-1483) con uno splendido coro. Per curiosità dobbiamo dire che sulla piazza della Collegiata dello Stift c’è anche un’antica libreria nella quale dal 1895 al 1899 ha fatto il commesso un giovane studente: un certo Hermann Hesse. Poco distante dalla piazza della Collegiata dello Stift scorre il fiume Neckar sul quale si affaccia la Torre di Hölderlin. Qui, in questa torre, residuo della cinta medioevale delle mura, visse gli ultimi anni della sua vita il povero Friedrich Hölderlin da quando, il 3 maggio 1807, i medici sentenziarono che era pazzo (un po’ della sua pazzia deriva anche dal fatto di essere andato a Francoforte in casa del banchiere Gontard): Hölderlin fu amorevolmente assistito dagli Zimmer, una famiglia di falegnami che, in modo molto caritatevole, si prese cura di lui: oggi la Torre di Hölderlin è un interessante museo. Senza dimenticare che Tubinga è soprattutto, dal 1477, un centro universitario per eccellenza: uno dei centri culturali più importanti al mondo. Un ulteriore suggerimento da dare a tutti coloro i quali si dedicano ai “viaggi sulla carta” – che sono un ottimo strumento di esercitazione alla lettura – è quello di individuare, “sulla guida” nei dintorni di Tubinga, l’abazia di Bebenhausen (fondata, ai margini di una bellissima foresta, nel 1187), che è un luogo “romantico” per eccellenza e sembra uscire dal ciclo dei racconti dei cavalieri della Tavola rotonda. Ancora una cosa bisogna dire per incentivare il viaggio “sulla carta” a Tubinga. La città è attraversata dal fiume Neckar, al centro del quale c’è un lungo isolotto di sabbia che si presuppone sia bianca, splendente, luminosa. Lì, d’estate, il professor Fortunius e i suoi studenti, Schelling, Hölderlin e Hegel, andavano a fare i bagni. Questo isolotto è attraversato in tutta la sua lunghezza, da un bellissimo viale alberato, “romantico” in tutte le stagioni: sapete che alberi sono? Sono platani, e questo viale, si chiama Viale dei platani. Sapete chi abita quest’isolotto di sabbia, incastonato nella città di Tubinga? Ci abita Elena di Sparta!

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Ma, per prendere meglio visione di queste cose, fate una visita a Tubinga con l’atlante, l’enciclopedia, la guida della Germania, la rete …

Tubinga merita senza dubbio una visita “sulla carta”, ma non solo “sulla carta”: buon viaggio…

     Nell’estate del 1793 le strade del professor Fortunius, di Schelling, di Hölderlin e di Hegel si dividono.

     Ora – per continuare il nostro Percorso nel territorio dell’Idealismo – seguiamo Friedrich Schelling (1775-1854) il quale – dopo essersi laureato all’Istituto Stift di Tubinga – torna nella sua città natale a Leonberg.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Leonberg è una cittadina nel Württemberg, a ovest di Stoccarda e con l’atlante, con la guida della Germania o attraverso la rete puoi visitarla …

     Schelling a Leonberg segue, tramite le dispense, l’insegnamento di Fichte a Jena e nel 1795, appena ventenne, pubblica le Lettere filosofiche sul dogmatismo e il realismo, un’opera in cui Schelling espone le tesi di Fichte, ma con delle variazioni fondamentali che portano verso un nuovo sistema. Nel 1797 Schelling fa pubblicare Idee per una nuova filosofia della natura, e quest’opera contiene un nuovo sistema di pensiero. Nel 1798, con l’appoggio di Fichte e di Goethe, Schelling viene chiamato come professore a Jena. Durante il viaggio verso la nuova sede fa sosta a Dresda, dove incontra il gruppo dei romantici che era capeggiato da August Schlegel con la moglie Carolina. Carolina Schlegel è un personaggio importante del movimento romantico: come la duchessa Anna Amalia di Sassonia-Weimar è stata l’anima del gruppo di Weimar, così Carolina Michaelis in Schlegel deve essere considerata l’animatrice del gruppo di Jena:  è stato pubblicato un suo Epistolario che risulta molto utile per capire la storia del movimento romantico, tanto “titanico” quanto “galante”. Carolina Schlegel (1763-1809) è la figlia di Johann David Michaelis, un importante antichista e orientalista che ha lasciato molti saggi, molti studi. Il fatto è che l’incontro tra Carolina Schlegel e Schelling è un incontro fatale: questa signora – che ha qualche anno più di lui (aveva, anche, qualche anno più del marito) – lo affascina subito, lei corrisponde, e nasce una relazione che, a Jena, diventa stabile. Carolina divorzia da August Schlegel, sposa Schelling e ne diventa la collaboratrice.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Per saperne di più su Carolina Schlegel e sulla duchessa Anna Amalia di Sassonia-Weimar puoi consultare l’enciclopedia, la biblioteca e la rete …

     Schelling, nella sue lezioni a Jena,  sviluppa il suo sistema di pensiero. Schelling comincia a riflettere sul fatto che Fichte ha subordinato il Non-Io all’Io. Fichte definisce con il termine Non-Io: il Mondo esterno, la Natura, la realtà. Per Fichte la realtà – il Mondo, la Natura – è solo un’idea, è solo il frutto dell’immaginazione dell’Io, senza consistenza reale. L’idea è alla base della realtà e di qui – da questa affermazione – nasce il termine: idealismo che anche Schelling fa proprio. Schelling però (già dalla conferenza tenuta da Fichte a Tubinga, alla quale abbiamo partecipato anche noi la scorsa settimana), sull’identità del Non-Io, del Mondo, della Natura non la pensa come Fichte: possibile, si domanda Schelling, che il Mondo, la Natura, sia solo un’idea, possibile che la Natura non abbia nessuna consistenza reale? Schelling sviluppa una filosofia della Natura, che diventa il suo grande contributo al movimento di pensiero che chiamiamo l’idealismo.

     Come si articola il pensiero di Schelling? Anche Schelling pensa – come Fichte – che ci sia un’unica Essenza (un Assoluto) che realizza se stessa. Però Schelling ritorna al tema fondamentale del “romanticismo”: il tema della Natura, e la sua filosofia verrà chiamata idealismo oggettivo, per l’importanza da lui attribuita all’oggetto, ossia alla Natura. Per Schelling, la Natura, non è qualche cosa di inerte e di passivo, ma è un complesso di forze che tendono ad attuare le finalità che fanno parte della Natura stessa. Quindi Schelling rivaluta la Natura: la considera un’attività inesauribile, e non pensa che la Natura sia un semplice Non-Io, statico e passivo. Schelling pensa che la Natura sia molto vicina all’Io e che, per realizzare le proprie finalità, la Natura, abbia bisogno, proprio come l’Io di Fichte, di superare gli ostacoli che si oppongono alla sua realizzazione: insito nella Natura, secondo Schelling, esiste un processo dialettico, evoluzionistico. Nella Natura, pertanto, scrive Schelling, esistono due tendenze o attività opposte, l’una positiva e l’altra negativa, l’una produttiva e l’altra improduttiva. Quella improduttiva rappresenta l’ostacolo che la Natura si crea e oppone a se stessa per realizzare la propria attività produttrice. La Natura – scrive Schelling – crea e si attua in forme concrete e materiali nel momento in cui l’attività creatrice si trova limitata e, quindi, bloccata dalla tendenza improduttiva: allora reagisce, si auto-afferma, prende coscienza di sé, e cerca un equilibrio.

     Ogni prodotto della Natura è quindi il risultato di un momento di equilibrio, come una sintesi tra due forze: ogni prodotto della Natura è il risultato di un processo dialettico, evoluzionistico. Naturalmente – scrive Schelling – questo equilibrio è provvisorio perché l’attività produttiva, che è infinita, non può non superare continuamente i limiti e gli ostacoli che essa stessa si è posta. La Natura, scrive Schelling, avvalendosi di queste forze intime, si evolve inconsciamente e, sempre inconsciamente, attraverso una serie di passaggi, tende però a diventare cosciente, cioè ad attuare compiutamente la propria essenza e a farsi conoscere.

     Il primo passaggio, la prima tappa di questa lenta evoluzione è la sensibilità animale, che, da uno stato di incoscienza passa gradualmente alla coscienza. L’ultimo passaggio, che rappresenta il termine e lo scopo dell’evoluzione stessa, è lo Spirito, che è la perfetta autocoscienza (l’Io) che si realizza nella persona. Allora, scrive Schelling, l’essenza della realtà non è più data da due fattori opposti come l’Io e il Non-Io di Fichte, ma da due fattori, la Natura e lo Spirito, che rappresentano due aspetti successivi di un unico Principio Assoluto. Questo Principio Assoluto, in un primo tempo si manifesta inconsciamente come Natura e poi come Spirito consapevole. Questo Principio è detto “assoluto”, scrive Schelling, perché non ha bisogno di niente per esistere: dall’Assoluto trae origine innanzi tutto la Natura, e, nello sviluppo della Natura è rintracciabile una trama razionale.

     Questa trama razionale (questo Logos-Logos) esplica autonomamente le sue finalità: è teleologica. Il termine “teleologico” contiene la parola greca “téleios” che significa: finito, terminato, completo, maturo, perfetto. La teleologia è lo studio delle finalità e la trama razionale, rintracciabile nello sviluppo della Natura, le finalità ce l’ ha in se stessa e rende sempre più cosciente la Natura fino ad indurla a farsi Spirito. “La Natura – scrive Schelling – è Spirito inconscio e lo Spirito è Natura cosciente”. 

     Schelling affianca all’Assoluto il termine: Indifferente. Assoluto Indifferente significa che può essere “indifferentemente” Natura (nel suo grado meno elevato) e Spirito (nel suo grado più elevato). Il Mondo (l’oggetto) e l’Io (il soggetto) sono diversificati ma non sono differenti, sono “in-differenti”. Il vero Assoluto è nell’in-differenza tra l’oggetto e il soggetto. Schelling chiama anche il Principio Assoluto con il nome di Identità Assoluta perché questo principio rimane sostanzialmente identico a se stesso anche se assume le forme differenziate della Natura e dello Spirito. Lo Spirito, scrive Schelling, è l’autocoscienza che si realizza nell’interiorità della persona, e, in quanto cosciente, lo Spirito, rivendica, come propri, i prodotti della Natura: lo Spirito cerca di conoscere la Natura, quindi di farsi teoretico, e cerca di modificare la Natura, quindi di farsi pratico. Lo Spirito, scrive Schelling, tenta di annullare le differenze tra la Natura e Se stesso tanto con la conoscenza teorica quanto con l’azione pratica.

     Ma questi continui tentativi, della conoscenza teorica e dell’azione pratica, per adeguare lo Spirito alla Natura, non riescono mai del tutto perché l’identità tra la Natura e lo Spirito non è perfetta. Natura e Spirito esprimono un’unica Essenza ma sotto due aspetti diversi. Tanto nella conoscenza teorica quanto nell’azione pratica, infatti, la Natura e lo Spirito rimangono pur sempre distinti: non sono differenti, ma si identificano in un Principio In-differente.

     Allora, scrive Schelling,  per avvicinarsi all’Assoluto non basta la via della conoscenza teorica né la via dell’azione pratica, occorre procedere per un’altra via: la via dell’Arte. Nell’Arte, o per meglio dire,  scrive Schelling, nel “genio artistico” cooperano insieme sia l’attività inconscia (la Natura) dell’ispirazione, sia l’elaborazione cosciente (lo Spirito) del prodotto artistico: l’Arte, quindi è l’organon della filosofia, cioè l’unico strumento mediante il quale la persona può aspirare a cogliere l’Assoluto. Il saggio, scrive Schelling, è il “genio artistico” perché attua in sé l’unione dell’inconscio (della Natura) mediante l’ispirazione, e del consapevole (dello Spirito) mediante l’elaborazione cosciente di questa ispirazione. Il genio artistico, attuando in sé l’unione della Natura e dello Spirito, coglie l’Assoluto, coglie il senso dell’Assoluto Indifferente.

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Nel vocabolario di Schelling il termine “in-differente” significa “uguale”, “identico”…

Questo termine, “in-differente”, è utile per definire meglio il sentimento dell’amicizia: c’è una persona con la quale hai trovato (quasi) sempre unità di pensiero, corrispondenza sui princìpi, identità di idee e solidarietà nelle azioni? 

Scrivi quattro righe in proposito…

     Nel 1800  Schelling si allontana decisamente dal pensiero filosofico di Fichte. Nel 1801 Schelling ed Hegel si rincontrano e diventano stretti collaboratori uno dell’altro come sette-otto anni prima a Tubinga, ma il loro tragitto comune è molto breve. Il pensiero di Schelling e quello di Hegel divergono: sarà Hegel stesso a formalizzare la rottura nell’Introduzione di un’opera che s’intitola Fenomenologia dello Spirito (1807), un’opera che incontreremo prossimamente. Hegel dubita che la filosofia si possa basare su un’intuizione artistica: quando noi, davanti all’opera d’Arte, cogliamo la “bellezza”, gustiamo il fascino del “bello” (ci avviciniamo all’Assoluto) ma, sostiene il “giovane Hegel”, non conosciamo la Realtà in sé.

     Nel 1803 Schelling lascia Jena e soggiorna a Würzburg, in Baviera: un’altra bella città della quale – visto che ci avviciniamo alle vacanze – è utile occuparsi “sulla carta”.

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La città di Würzburg, in Baviera, merita una visita utilizzando l’atlante, l’enciclopedia, la guida della Germania, la rete: vai a cercare sulle rive di quale fiume si trova Würzburg … Würzburg è stata ricostruita due volte: la prima dopo la guerra dei trent’anni (1618-1648), e, da borgo medioevale è diventata una splendida città barocca, vi ha lavorato anche un grande pittore italiano, Gian Battista Tiepolo, ma vai alla ricerca … La seconda volta è stata fedelmente ricostruita dopo la seconda guerra mondiale (1945-1970) …

A sud di Würzburg merita senza dubbio una visita la cittadina di Rothenburg ob der Tauber, detta la Carcassonne o la San Gimignano tedesca: visitala utilizzando l’atlante, l’enciclopedia, la guida della Germania, la rete, e vai a scoprire il fascino medioevale di questa cittadina, buon viaggio…

     Schelling, nel 1806, accetta la carica di Segretario dell’Accademia delle scienze di Monaco. In questi anni comincia a trionfare Hegel, e Schelling si ritrova in secondo piano ma la sua fecondità di pensiero non si esaurisce: è in radicale contrasto con le idee razionalistiche di Hegel e anche il suo itinerario, come quello di Fichte, diventa misticheggiante, teosofico, e comincia a pensare e a scrivere che l’organo della conoscenza dell’Assoluto sia, piuttosto che l’Arte, soprattutto la religione, ma non la religione cristiana, bensì la religione universale, quella che si identifica con la tradizione spirituale dell’Umanità.

     Dieci anni dopo la morte di Hegel (Hegel muore presto, nel 1731, a 61 anni), nel 1841, Schelling viene chiamato a Berlino a sostituirlo nella cattedra di filosofia all’Università e ottiene, sulle prime, un grande successo: tra i suoi studenti ci sono Bakunin, Engels, Kierkegaard. Ma poi il suo pubblico diminuisce, arrivano, in campo filosofico, nuovi orientamenti (sono gli anni del Marx giovane). Quando esplode il 1848, con le sue rivoluzioni liberali, e con la prima rivoluzione proletaria (per la quale due hegeliani, Marx ed Engels scrivono il Manifesto), Schelling, sebbene sia convinto, con la sua filosofia della Natura, di aver riportato la ragione sui binari dell’esistente, non se ne accorge nemmeno, forse è vecchio e stanco. Infatti Schelling, senza rimpianti, si è ritirato da tempo dalla vita pubblica, è andato in pensione, e si era messo da tempo a frequentare,  secondo la moda dell’epoca, le stazioni termali, soprattutto Karlsbad, e, proprio in una cittadina termale, muore, a Ragaz, in Svizzera, era il 20 agosto 1854.

     Schelling è vissuto ottant’anni e, al seguito della sua lunga vita noi abbiamo fatto una fuga in avanti. Dobbiamo tornare indietro e dobbiamo prendere in considerazione un’affermazione di Schelling che influenza il mondo della cultura. Il genio artistico, scrive Schelling, attuando in sé l’unione della Natura (l’inconscio) e dello Spirito (la consapevolezza) è capace a cogliere l’Assoluto.

     Questa affermazione – tra il 1700 e il 1800 – suscita riflessioni, produce ragionamenti e pone interrogativi. Che caratteristiche ha il “genio artistico” e che cosa è capace di produrre?

     Sulla scia di questi due interrogativi – prima di concludere l’itinerario di questa sera – torniamo ad incontrare Friedrich Hölderlin (1770-1843). Friedrich Hölderlin, nel territorio dell’Idealismo che stiamo attraversando, ha cercato con tutte le sue forze di incarnare il “genio artistico” in modo da poter riuscire ad attuare in sé l’unione della Natura e dello Spirito, cogliendo l’Assoluto. Friedrich Hölderlin, dopo essersi laureato all’Istituto Stift di Tubinga e aver vissuto, in diverse città della Germania, tutta una serie di esperienze intellettuali, di avventure galanti e di fughe dalla madre che lo voleva a tutti i costi nel ruolo di pastore), viene assunto come precettore dei figli del banchiere Gontard e parte per Francoforte. Hölderlin, a Francoforte, incontra una persona che, secondo lui, incarna perfettamente l’unione della Natura e dello Spirito: questa persona si chiama Susette Gontard ed è la moglie del banchiere che lo ha assunto come precettore dei suoi figli. Hölderlin arriva in casa Gontard durante le vacanze di Natale del 1795. Susette Gontard ha ventisette anni, è madre di due figli: è una donna colta, intelligente, bella, dal profilo greco, amante delle letture, informata sul mondo letterario dell’epoca. Pur vivendo la vita di società, dove sa essere elegante e brillante, Susette non è una persona superficiale: coltiva la musica, suona il clavicembalo e, come Hölderlin, rimasta presto orfana del padre, è cresciuta sotto l’influenza dell’educazione materna. Il marito – di cinque anni maggiore di lei – è un capace uomo d’affari, quasi orgoglioso di non avere altri interessi se non quelli dei titoli in borsa, e quindi lascia alla moglie e ai precettori l’educazione dei figli.

     Al contatto con questa donna inizia, per Hölderlin, il periodo decisivo della sua vita di poeta.  Hölderlin non è sconosciuto a Susette perché è abbonata alla rivista Thalìa di Schiller il quale ha pubblicato un certo numero di frammenti di Iperione, che Hölderlin stava scrivendo poco per volta, e lei li ha letti e li ha apprezzati. Queste due persone scoprono subito un’affinità elettiva (tanto per citare Goethe), quasi una predestinazione. Ne nasce un amore segreto, intimo, tenuto necessariamente nascosto per convenienze sociali, per l’ambiente, per la società. A poco a poco la relazione letteraria e astratta si trasforma in un rapporto umano vero e vissuto. Hölderlin sente germogliare in sé una nuova vita e si compiace di amare veramente una creatura degna di essere amata. Egli trova in Susette, viva e vera davanti ai suoi occhi, la creatura che aveva ideato nella sua fantasia cominciando a scrivere Iperione. In Susette il poeta vede incarnata la figura classica dell’amore: la figura di Diotima sulla quale – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – dobbiamo fare una, seppur breve, riflessione. Ma questo amore non ha alcuna possibilità materiale di realizzarsi perché il signor Gontard, il quale considera la moglie facente parte del suo “capitale” e quindi non è disposto a cederla, comincia a mostrare segni di insofferenza.

     Susette non può fare nulla per assecondare questo amore e Hölderlin, ossessionato da questo sentimento, decide di allontanarsi da Francoforte: accetta un incarico da precettore a Bordeaux, ma nel 1802 viene informato che la sua amata è gravemente ammalata, allora lascia la città francese e, a piedi, raggiunge la Germania, dove, stremato sia dal punto di vista fisico che mentale, apprende la notizia della morte di Susette avvenuta il 22 giugno 1802 a causa della scarlattina attaccatale dai figli.

     In Susette il poeta vede, e continuerà a vedere incarnata, la figura classica dell’amore: la figura di Diotima. Sulla figura di Diotima – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – dobbiamo imbastire una, seppur breve, riflessione. Originariamente possiamo incontrare il personaggio di Diotima nel famoso Dialogo di Platone (427-347 a.C.) intitolato Simposio (o Convito). Nel Simposio la figura di Diotima di Mantinea rappresenta una misteriosa profetessa che insegna a Socrate la vera natura dell’amore.

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Cerca in biblioteca il dialogo Simposio di Platone e leggi le parti in cui Socrate parla di Diotima …

     Per questo motivo Diotima è l’eroina del romanzo Iperìone di Hölderlin e la sacerdotessa dell’amore in Hölderlin s’incarna perfettamente in Susette Gontard. Il processo di idealizzazione di Susette da parte del poeta comincia fin dal primo incontro e possiamo leggerlo in Iperione.

LEGERE MULTUM….

Friedrich Hölderlin,  Iperione o l’eremita della Grecia  (1797-1799)

C'è una creatura al mondo accanto alla quale il mio spirito può restar pago, e resterà, per millenni Leggiadria ed elevatezza, calma e ardore di vita, spirito e forma si trovano riuniti in questa divina creatura che si è smarrita in questo secolo senza ideali e senza armonia, ella personifica l’ideale stesso della bellezza. Ella non è più una donna terrena, ma solo una forma divina; è l’eterno, l’infinito, espressione compiuta della gioia, della pace, dell’armonia. Diotima è un’anima che sale dalla realtà di questo mondo per attingere l’ideale, senza dissolversi, nella luce del Tutto.

La luce che da essa emana illumina ora presente e passato, ella è già fuori del suo spazio e del suo tempo e i nostri spiriti non si erano già incontrati in un’epoca immemorabilmente lontana? Ed ella non era già vissuta nell’età aurea dell’Ellade? E ora non rappresenta l’immagine viva di quel tempo felice?

Ma a Diotima non è dato di compiere la sua missione sulla terra; perciò presto si ricongiungerà cogli spiriti eletti e sento la sua voce che dice: “Perché non posso dire: vieni e fa veri i giorni belli che mi hai promesso? Ma è troppo tardi, Iperione, è troppo tardi. La tua fanciulla è sfiorita Ahimè! Spesso, sotto la mia pergola silenziosa, ho pianto le rose della giovinezza. Esse appassivano e solo di lacrime si faceva rossa la guancia della tua fanciulla. Erano ancora sempre gli stessi alberi, qui stette una volta la tua Diotima, Iperione, dinanzi ai tuoi occhi felici, un fiore tra i fiori e le forze della terra e del cielo si fondevano dolci in lei; ora invece ella andava straniera tra i bocci di maggio, e le sue confidenti, le dolci piante, le accennavan gentili, ma ella poteva solo piangere, e tuttavia nessuna ne trascurava, ma, l’una dopo l’altra, da tutti i giuochi della giovinezza, dai boschetti e dalle fonti sussurranti prendeva congedo. Noi ci separiamo per essere più intimamente uniti, in pace divina col Tutto, con noi. Noi moriamo per vivere”.

     Iperione ascolta tutto questo da Diotima, come Hölderlin ascolta le stesse cose da Susette. Hölderlin si sente colpevole della morte di Susette, come se lui avesse fatto fare all’amata uno sforzo disperato che le sarebbe costato la vita per eternarsi, morendo, in Diotima. Susette muore – nella testa di Hölderlin – come fosse una vittima del folle sogno del poeta, e l’equilibrio mentale del poeta comincerà a vacillare sempre di più. Hölderlin nel 1802 torna a vivere a Tubinga e tutta questa drammatica vicenda contribuisce a far sì che il suo ottenebramento mentale si aggravi di anno in anno e il 3 maggio 1807 i medici sentenziano che il poeta è irrimediabilmente pazzo e va assistito. Hölderlin trascorre i restanti trentasei anni della sua vita (muore nel 1843) nella torre di Tubinga, sotto la tutela della famiglia del falegname Zimmer.

     Hölderlin occupa una posizione autonoma all’interno del territorio dell’Idealismo per l’originalità espressiva della sua poesia attraverso la quale è capace di fondere insieme con grande abilità tematiche romantiche e argomenti classici. Hölderlin esalta l’antica Grecia e contemporaneamente gli ideali libertari della Rivoluzione francese; inoltre sente profondamente e vive con dolorosa partecipazione la scissione tra l’essere umano e la Natura e percepisce l’anelito nostalgico verso una loro riconciliazione da attuare tramite il processo artistico. Hölderlin coltiva la stessa idea che abbiamo incontrato nel pensiero di Schelling: l’Arte, in particolare la poesia, è l’unico strumento mediante il quale la persona può aspirare a cogliere l’Assoluto o, per lo meno, a tentare di “vivere in equilibrio con la Natura”.

     Concludiamo il nostro incontro con Hölderlin leggendo una sua lirica in cui ricorda che negli anni della giovinezza (“i tempi belli della speranza” di “leopardesca memoria”) l’estro creativo del poeta non conosceva stanchezza: la sua poesia “non aveva più fine, l’Io possedeva uno slancio infinito”. Ora il suo canto non sgorga più fluente come prima: il poeta ha solo ventotto anni ma sente di vivere già il suo crepuscolo. La lirica termina con un famoso verso in cui descrive, con una significativa e lucida metafora, la sua malattia mentale: “Fredda è la terra e l’uccello notturno mi svolazza con un frullo molesto innanzi agli occhi”.

LEGERE MULTUM….

Friedrich Hölderlin,  Liriche (1798)

Perché brevi così sono i tuoi canti?

Non ami il canto più, siccome allora?

Quando giovine tu, nei tempi belli

della speranza, modulavi il primo

fresco gorghéggio, e non avea più fine.

 

È come la mia sorte, il canto mio.

Non ci si bagna lietamente in acque,

che imporpora il tramonto. Ahimè! Veloce

ecco, si smorza già. Fredda è la terra:

e l’uccello notturno mi svolazza

con un frullo molesto innanzi agli occhi.

     “Non ci si bagna lietamente in acque, che imporpora il tramonto”: Ci chiediamo se questo bel verso di Hölderlin sia legato a un ricordo in particolare.

      Sappiamo che la città di Tubinga (andate a constatarlo sulla carta) è attraversata dal fiume Neckar, al centro del quale c’è un lungo isolotto di sabbia che si presuppone sia bianca, splendente, luminosa;  lì, d’estate, il professor Fortunius e i suoi studenti, Schelling, Hölderlin e Hegel, andavano (più o meno clandestinamente) a fare i bagni. Questo periodo (nonostante la durezza del collegio) è stato probabilmente per Schelling, per Hölderlin e per Hegel un tempo felice (il tempo spensierato della giovinezza…) ed Hölderlin – nei suoi versi – ne vive spesso nostalgicamente il ricordo.

     L’isolotto di sabbia del Neckar è attraversato in tutta la sua lunghezza dal Viale dei platani.  E, in quest’isolotto di sabbia, incastonato nella città di Tubinga, abita Elena di Sparta! (C’era un tempietto)

     Andando a passeggiare, nei caldi pomeriggi d’estate, lungo il Viale dei Platani, se si fa attenzione, ancora oggi, si può udire in lontananza la voce del professor Fortunius che, scherzando, invita i suoi studenti a immergersi nelle fresche acque del Neckar  dicendo: «Anche se non c’è pericolo di far arrossire Elena: tuffatevi il più velocemente possibile». Sono queste le acque che rimpiange Hölderlin? Perché il professor Fortunius dice ai suoi studenti di “tuffarsi in acqua il più velocemente possibile”? Lo dice perché il costume da bagno, come capo di abbigliamento, non era stato ancora inventato: non lo si concepiva neppure in quella società che prevedeva i corpi molto coperti e sempre vestiti. Perché il professor Fortunius dice ai suoi studenti che «non c’è pericolo di far arrossire Elena»? Lo dice per ricordare loro che la cultura classica greca – in auge da 2500 anni – esalta i corpi nudi, considera la nudità come un fatto naturale, reputa la nudità come un fenomeno al di là del bene e del male: gli dèi e le dèe si presentano nudi, Elena non arrossisce di fronte alla nudità, e anche i progenitori nel giardino dell’Eden sono nudi. Perciò del costume da bagno si poteva anche fare a meno, pur immergendosi velocemente in acqua, in virtù del fatto che della cultura classica greca non si poteva fare a meno, così come il professor Fortunius non poteva fare a meno d’insegnare teologia anche nelle ore di ricreazione.

     Possiamo, oggi, fare a meno della cultura classica, fare a meno dell’Umanesimo? L’anima non va in vacanza! (è il titolo di un numero de L’ANTIbagno di qualche anno fa). L’anima non va in vacanza perché è sempre disponibile a ricrearsi e lo “studio (studium et cura)” è sempre una ricreazione per l’animA.

     Ci siamo occupati – in modo propedeutico – di Fichte, di Schelling e di Hölderlin ora dobbiamo occuparci di Hegel. Prima di occuparci di Hegel e di riprendere il nostro cammino nel territorio che stiamo attraversando e che convenzionalmente è stato chiamato il territorio dell’Idealismo dobbiamo però accomiatarci dal professor Fortunius il quale, anche lui, nell’estate del 1793, lascia l’Istituto Stift. Noi sappiamo che il professor Fortunius decide di dare le dimissioni e di tornare a Riga, la sua città natale. A Riga il professor Fortunius forse farà il precettore, forse si occuperà di editoria, ma sono solo supposizioni queste che stiamo facendo perché d’ora in avanti non abbiamo più notizie di lui (per lo meno: io non ne ho trovate, ma non sono un “ricercatore”). Del professor Fortunius, dopo il suo trasferimento da Tubinga a Riga, non si sa più nulla, e nessuno dei suoi tre studenti destinati alla notorietà, di cui ha contribuito alla formazione, (per quel che ne Sappiamo) lo incontrerà più. Nell’estate del 1793, sul portone dell’Istituto Stift, noi – insieme a Schelling, a Hölderlin e a Hegel che, commossi, lo salutano – diciamo addio al professor Tadeus Fortunius perché, qui, lo perdiamo, per sempre, di vista.

     E allora ricapitoliamo: Fortunius, Schelling, Hölderlin e Hegel, all’inizio dell’estate dell’anno 1793, lasciano l’Istituto Stift. Fortunius parte per Riga. Hölderlin, nel 1795, approderà a Francoforte (e sappiamo che cosa lo aspetta). Schelling torna nella sua città natale a Leonberg. Hegel viene assunto come precettore a Berna, e parte per la Svizzera.

     Hegel non ha ancora scoperto la sua vocazione filosofica, si considera, per usare le sue parole, uno “storico pensante”, cioè un ricercatore mosso da interessi sociali e politici. Hegel a Berna, nelle pause del suo lavoro, comincia a studiare anche le opere di Kant e comincia a scrivere: che cosa scrive, che cosa pensa, che cosa gli viene in mente? Se siete curiosi di incontrare il “giovane Hegel” ci vediamo a Berna la prossima settimana.

     Accorrete, la Scuola è qui…

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Aprile 28, 2006