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LO SGUARDO DI HEGEL SULLA RAZIONALITÀ DEL REALE…

Lezione N.: 
27

Prof. Giuseppe Nibbi                 Lo sguardo di Hegel  2006                17-18-19  maggio  2006

LO SGUARDO DI HEGEL

SULLA RAZIONALITÀ DEL REALE…

     Nel gennaio del 1797 il “giovane Hegel” lascia Berna e si trasferisce a Francoforte. A Francoforte vive Hölderlin che lo accoglie e gli trova un lavoro da precettore. A Francoforte l’orizzonte di pensiero del “giovane Hegel” si amplia ancora di più e nuovi temi si presentano alla sua mente. Intanto possiamo constatare che i compagni di camera dell’Istituto Stift di Tubinga rientrano in contatto diretto. Noi sappiamo che Hölderlin si è trasferito a Francoforte nel 1795 per fare il precettore in casa del signor Gontard. Sappiamo che in questa casa Hölderlin incontra la signora Susette Gontard, la madre dei due bambini che lui si dedica a educare con grande impegno. Susette Gontard affascina Hölderlin ed è a sua volta attratta dal giovane poeta “romantico”, e tra loro inizia una relazione amorosa e artistica assai feconda. Susette Gontard ha ventisette anni: è una donna colta, intelligente, bella, dal profilo greco, amante delle letture, informata sul mondo letterario dell’epoca ed Hölderlin trova in Susette – viva e vera davanti ai suoi occhi – la creatura che aveva ideato nella sua fantasia cominciando a scrivere le sue opere in versi. In Susette il poeta vede incarnata la figura classica dell’amore: la figura di Diotima sulla quale – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – abbiamo fatto una, seppur breve, riflessione (tre settimane fa).

     Quando il “giovane Hegel” arriva Francoforte trova un Hölderlin particolarmente attivo ed ispirato (e anche soddisfatto) che ha cominciato, in collaborazione ideale con Susette, a scrivere Iperione, una delle opere più significative del “romanticismo”. Il “giovane Hegel”, a Francoforte, trova in Hölderlin un valido interlocutore che lo introduce negli ambienti culturali della città dove si parla e si discute dei grandi temi che anche il “giovane Hegel”, per conto suo, ha già affrontato a Berna. Negli ambienti intellettuali di Francoforte al centro del dibattito culturale ci sono i temi della filosofia critica di Kant, ci sono i temi teologici con la riflessione sulla distinzione tra la religione soggettiva (basata sulla ragione e sulla coscienza individuale) e la religione oggettiva (basata sull’obbedienza ai dogmi e alle autorità esterne), ci sono i temi legati alla Natura vista come la più grande manifestazione estetica che l’Universo può dare di sé, c’è il tema della nostalgia per la Grecia classica e per l’ideale armonico della possibilità di conciliare la politica con la morale.  

     Il “giovane Hegel” negli ambienti intellettuali di Francoforte porta il suo contributo al dibattito culturale facendo circolare i testi delle tre opere teologiche che ha scritto a Berna, con le quali abbiamo preso contatto la scorsa settimana: queste opere di contenuto teologico suscitano un certo interesse. Questo ambiente, così culturalmente vivace, porta il “giovane Hegel” ad un ampliamento e ad una trasformazione del suo orizzonte di pensiero rispetto ad alcune questioni che lui aveva affrontato durante il percorso della sua formazione culturale studiando Kant, studiando Fichte, studiando Spinoza, studiando Lessing (un percorso che noi abbiamo seguito nelle scorse settimane). Questo ampliamento e questa trasformazione del suo orizzonte culturale portano gradualmente il “giovane Hegel” a mettere in discussione alcune teorie espresse da Kant e alcune idee sostenute da Fichte e a sviluppare alcune sue intuizioni autonome destinate a dare una forma originale al suo pensiero.

     Il “giovane Hegel” a Francoforte comincia a pensare che il limite di Kant e di Fichte – nel costruire le loro filosofie – sia quello di aver preso in considerazione la persona come se esistesse solo nella sua sfera privata senza tenere conto del fatto che l’essere umano pensa, agisce, vive soprattutto come cittadino: quindi la ragione individuale, la ragione soggettiva (l’Io) è fortemente condizionata dalla ragione collettiva (la Storia). Dato per acquisito il primato dell’interiorità dobbiamo riconoscere, sostiene il “giovane Hegel”,  che le dimensioni del territorio dell’interiorità sono determinate non dalla privatezza dell’Io ma dal carattere pubblico della Storia. La coscienza personale, riflette il “giovane Hegel”, più che essere determinata dall’Io individuale è piuttosto prodotta dalla Storia collettiva degli esseri umani.

     E poi il “giovane Hegel” a Francoforte comincia a pensare che esista un altro limite nel pensiero di Kant e di Fichte: essi infatti, nel costruire le loro filosofie, hanno continuato a ragionare come se nella realtà ci sia una netta distinzione tra ciò che è vero e ciò che è falso, tra ciò che è positivo e ciò che negativo. Ma la realtà e la Storia, comincia a pensare il “giovane Hegel”, contengono anche il “falso” e il “negativo”: come si fa a estromettere il “falso” e il “negativo” dalla realtà e dalla Storia? La realtà e la Storia esistono in quanto contengono le loro contraddizioni come “vere”: e questa considerazione dove porta? Facciamo, allude il “giovane Hegel”, un esempio banale: se qualcuno adesso mi chiede l’ora e io rispondo in modo convinto che sono le due e tre quarti, ebbene voi tutti, anche se non siete in possesso dell’orologio, pensate che io abbia detto una stupidaggine e tutti, “ragionevolmente”, ve ne accorgete del fatto che ho detto una stupidaggine (senza bisogno di guardare l’orologio); la realtà, la Storia, allude il “giovane Hegel”, contiene le sue contraddizioni come “vere”, perché è “vero” il fatto che io ho dato una risposta che può essere “razionalmente negata”, in quanto la “negazione” è parte integrante della realtà (e probabilmente è anche un elemento fondamentale della “ragione”, pensa il “giovane Hegel”) perché è “reale” il fatto che io possa affermare il “vero” come è “reale” il fatto che io possa affermare il “falso”…

     Se alla richiesta dell’ora io rispondo che sono le dieci e cinque (a Bagno a Ripoli e a Impruneta) o che sono le sei e cinque (a Firenze) qualcuno, che non ha l’orologio, potrà pensare che l’ora reale sia effettivamente questa, ma aggiungerà anche, in modo interrogativo: “sono già le dieci (sono già le sei)?” cioè farà una ragionevole affermazione permeata comunque di “negatività” perché la realtà dell’ora (il tempo, la Storia) non dipende dalla verità, ma dalla razionalità. La realtà (ecco dove va a finire il suo ragionamento) non dipende da ciò che è vero o da ciò che è falso ma dipende da ciò che è ragionevole: il “reale” e il “razionale” dipendono uno dall’altro e, forse, la Realtà e la Ragione s’identificano.

     E allora, si domanda il “giovane Hegel”, possiamo affermare che la realtà si sviluppa attraverso la razionalità, attraverso una logica necessaria? E possiamo affermare che nella realtà tutto ciò che è reale è razionale e che tutto ciò che è razionale è reale?

     Prima di rispondere a questa domanda il “giovane Hegel” comincia a riflettere sul fatto che bisogna impegnarsi a superare la contrapposizione tra vero e falso (tra ragione “statica” e ragione “dinamica o dialettica”) – dove Kant e Fichte, secondo lui, si sono arenati – recuperando il concetto di “negatività” nel senso della “necessaria contrapposizione” che è un dato di fatto che nello sviluppo della Storia appare evidente. Perché, allude il “giovane Hegel”, siamo qui questa sera? Siamo qui per una scelta, e questa scelta determina una affermazione; ma per realizzare questa scelta, per fare questa affermazione, e quindi per rendere possibile la realtà effettuale, tutto dipende dalla “negazione”, nel senso che per essere qui, per affermare la nostra presenza, ci siamo “negati” di andare da un’altra parte, ci siamo “negati” un’altra cosa. Il concetto di “negatività”, nel senso della “necessaria contrapposizione”, appare evidente, allude il “giovane Hegel”, come dato di fatto per “affermare” la realtà. L’esistenza della Realtà è strettamente legata al concetto della “negazione”.

     L’opera più significativa che il “giovane Hegel” scrive a Francoforte è il saggio intitolato Lo spirito del cristianesimo e il suo destino. In quest’opera riusciamo a trovare il filo conduttore della riflessione attuata dal “giovane Hegel”: una riflessione che lo porta (come abbiamo già detto) verso nuove intuizioni. Attraverso il filo conduttore della riflessione, attuata dal “giovane Hegel” a Francoforte, passano sei significativi elementi (i sei elementi di base del sistema) concatenati tra loro. Con questo filo conduttore il “giovane Hegel” comincia a costruire la trama del suo sistema.

     Il primo elemento è la critica al modo in cui Kant e Fichte interpretano il concetto della “ragione” come se fosse un oggetto “statico” e come se appartenesse solo alla sfera privata dell’individuo.

     Il secondo elemento è il contrasto tra la religione popolare dotata di una razionalità dinamica (o dialettica) e la religione positiva (vale a dire “istituzionalizzata”) legata ad una razionalità senza sviluppo e ad un legalismo statico.

     Il terzo elemento è il richiamo ai valori della religiosità e della democrazia dell’antica Grecia basati sulla “razionalità attiva” presente nella filosofia di Socrate.

     Il quarto elemento è l’allineamento agli ideali della rivoluzione francese che esaltano il ruolo pubblico dell’individuo che assume la sua principale dimensione costitutiva nella figura del “cittadino”.

     Leggiamo alcuni frammenti:

LEGERE MULTUM….

Georg Hegel, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino (1798)

Il discorso di Kant e di Fichte vuole ridurre la rivelazione cristiana dentro i confini della ragione e quindi il postulato dei due maestri è che la religione troverà il suo compimento e la sua fine nella morale razionale di cui il Vangelo di Gesù Cristo è una straordinaria anticipazione mitica. Kant e Fichte non tengono conto della funzione politica che spetta alla religione in quanto cemento di coesione popolare, e cioè in quanto Volksgeist, spirito del popolo. Il dualismo posto dai Lumi tra religione razionale e religione ecclesiastica non tiene conto di una terza realtà documentata dalla storia e cioè della religione popolare, che non si lascia affatto identificare con quella dei ceti ecclesiastici. Anche se intessuta di credenze, miti, passioni, la religione popolare è potenzialmente conciliabile con quella razionale del dotto, ma la conciliazione è un obiettivo storico lontano, non una realtà del presente. Nel presente, la religione popolare è il principio vitale delle nazioni, come lo fu, e in modo esemplarissimo, dell’antico popolo ateniese il cui eroe simbolico per eccellenza è Socrate. Come l’insegnamento di Socrate mira a ricondurre l’essere umano a se stesso, liberandolo da ogni falsa oggettivazione, così la democrazia ateniese ha preso tutto nelle proprie mani senza in nulla dipendere da poteri estranei alla volontà popolare. Con questo ragionamento l’immagine di Gesù si fa problematica: per un verso, secondo la linea interpretativa di Kant, Gesù è un precursore della religione razionale, il cui vero spazio è l’interiorità e la vita privata; per l’altro, opponendosi alla degradazione legalistica, opponendosi ai mercanti nel tempio, Gesù deve comunque adottare alcuni elementi positivi del giudaismo come il diritto, il culto, la gerarchia, insomma deve dar vita ad un gruppo organizzato, all’interno del quale si stabiliscono rapporti di dipendenza. Dobbiamo quindi fare una distinzione tra la religione soggettiva (basata sulla ragione e sulla coscienza individuale) e la religione oggettiva (basata sull’obbedienza ai dogmi e alle autorità esterne) con una ulteriore distinzione tra religione popolare, come quella dell’antica Grecia, e religione positiva come quella giudaico-cristiana. Mentre nella religione popolare i tratti della razionalità sono presenti in modo dinamico, anche se nell’involucro del sentimento e dell’immaginazione, nella religione positiva (istituzionalizzata) essi sono del tutto assenti o soffocati. In una religione positiva la fede è tutta volta all’al di là, è tutta imprigionata dalla sanzione del premio o castigo eterni. Il cristianesimo ha sviluppato di Gesù solo il nucleo positivo (quello della ragione statica e del legalismo rigido), non quello della razionalità dinamica che vi è luminosamente presente. Le chiese, senza distinzione tra quella cattolica e quelle evangeliche, esprimono e promuovono la religione positiva (istituzionale), non quella popolare il cui esito vero è la formazione del buon cittadino, del citoyen animato totalmente da ideali terreni di libertà e di giustizia, senza leggi oppressive, senza ceti privilegiati, senza autorità a cui assoggettare la coscienza. La rivoluzione compiuta in Francia con la presa della Bastiglia è stata compiuta in Germania con la liberazione della coscienza dal dispotismo ecclesiastico avviato da Kant e da Fichte ma il limite di Kant e di Fichte è stato di aver contenuto l’emancipazione nella sfera privata, di aver tenuto in sottordine la dimensione costitutiva dell’essere umano, quella, appunto, del cittadino…

     Il quinto elemento che passa attraverso il filo conduttore della riflessione attuata dal “giovane Hegel” a Francoforte è l’affermazione del concetto di “negatività” come “necessaria contrapposizione” nell’ambito della Storia e della Realtà. Quando il cristianesimo diventa una religione positiva, istituzionale (quando si dà un’organizzazione), afferma il “giovane Hegel”, nega la purezza evangelica, ma senza questa “negazione” (senza leggi, senza gerarchia, senza istituzione) il messaggio di Gesù si sarebbe dissolto nel nulla. Il puro messaggio evangelico viene “negato” dal legalismo istituzionale, ma quando noi, a nostra volta, neghiamo il valore della rigidità della legge affermando che conta lo Spirito della legge ecco che questa “negazione della negazione” finisce per avvalorare il puro messaggio evangelico.

     La religione dell’amore, afferma il “giovane Hegel”, nasce dalla “negazione” del rigido legalismo che a sua volta aveva “negato” la religione della legge dell’amore. L’amore (l’agape, la caritas, la condivisione) risulta essere una sintesi che deriva dalla negazione del puro messaggio evangelico da parte del legalismo e dalla conseguente negazione del legalismo da parte del puro messaggio evangelico e, quindi, perché si possa continuare a riaffermate il puro messaggio evangelico e la religione dell’amore è necessaria una continua “negazione della negazione”. La realtà dell’amore (dell’agape, della caritas, della condivisione), afferma il “giovane Hegel”, si manifesta attraverso una razionalità dinamica la quale si realizza nella continua dialettica incentrata sulla “negazione”. A questo punto il “giovane Hegel” intuisce che questa dialettica incentrata sulla “negazione” investe tutta le realtà.  Il “giovane Hegel”, partendo dalla teologia, riflettendo sulla religione dell’amore e sulla fede, comincia a definire il concetto di quella che diventerà, a breve, la “dialettica hegeliana”. Leggiamo questo frammento:

LEGERE MULTUM….

Georg Hegel, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino (1798)

Bisogna recuperare anche il negativo della storia, intendendolo come determinazione dell’infinito senza la quale l’infinito non è reale, ma astratto e vuoto di senso.

La positività del cristianesimo è, sì, la negazione della pura religione della coscienza insegnata da Gesù, ma senza quella negazione, in cui ha fatto sentire il suo peso l’opacità della condizione storica, la religione di Cristo si sarebbe dissolta nel puro nulla. La religione di Cristo è negata, sì, dal cristianesimo ma, attraverso la negazione della negazione, essa ritrova se stessa nella sua piena verità. Il cristianesimo, in quanto positività (rigido legalismo), è, sì, negazione della religione pura, ma in quanto è religione dell’amore, è anche negazione della propria positività (del proprio rigido legalismo) e come tale è la sintesi concreta della contraddizione.   

     Da queste riflessioni di carattere teologico prendono forma i concetti che danno un’identità e un’autonomia al pensiero del “giovane Hegel”.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

La parola “negazione” invita a riflettere su una serie di suoi significati legati alle parole: rifiuto, opposizione, protesta, diniego, ritrattazione, smentita, contrarietà …

Quale di queste parole metteresti per prima accanto alla parola “negazione”? 

Scrivila…

     Il sesto elemento che passa attraverso il filo conduttore della riflessione attuata dal “giovane Hegel” a Francoforte riguarda il concetto del “destino”. Infatti nell’opera di cui ci stiamo occupando, la parola “destino” la troviamo nel titolo: Lo spirito del cristianesimo e il suo destino. Se la realtà, riflette il “giovane Hegel”, si realizza in una continua dialettica incentrata sulla “negazione” significa che la “negazione” non è una “casuale drammatica rottura di qualcosa che nella realtà è già ordinato” ma è piuttosto un “elemento necessario perché la realtà possa manifestarsi”.

     Quindi la realtà è regolata da un principio necessario: la realtà è governata dalla Necessità. Il termine Necessità corrisponde alla parola greca filòs, e la parola filòs definisce anche il temine “amico” e il termine “filo, legame”, e corrisponde, nella cultura greca, alla forza (Ananke) che regola l’Universo e che fa dell’Universo un Tutto organico. Il concetto della Necessità, inteso in senso greco, appartiene al bagaglio intellettuale del “romanticismo”, appartiene alla poetica di Hölderlin ed è proprio confrontandosi con la poetica di Hölderlin che il “giovane Hegel” coltiva l’idea del “destino”.

     Il “giovane Hegel” fa corrispondere il “destino” al concetto della “necessità” inteso in senso greco ma soprattutto come lo intende Spinoza: e noi sappiamo che il “giovane Hegel” ha studiato con attenzione e con molta partecipazione il pensiero di Baruch (o Benedetto) Spinoza. Il “destino” (e lo sappiamo perché siamo appena tornati da un viaggio nel territorio de Le Storie di Erodoto) è avvolto da un alone di “negatività” e questo non è casuale per il “giovane Hegel” il quale considera il “destino” una “necessità”, vale a dire una forza necessaria in virtù della quale “ciò che è reale” è portato a “negare se stesso” perché solo negandosi può autodeterminarsi. Il destino è la forza necessaria che permette alla realtà di trovare la propria ragion d’essere attraverso la negazione di sé.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

L’atto della negazione è molto significativo: ti è capitato di negare qualcosa a qualcuno o ti è capitato che qualcuno ti negasse qualcosa? 

Scrivi quattro righe in proposito…

     Sul tema della negazione non possiamo fare a meno di fare una digressione in funzione della didattica della lettura e della scrittura. Abbiamo di fronte un libro che s’intitola Bartleby lo scrivano: viene considerato uno dei più significativi racconti dell’800; difatti, per la prima volta è stato pubblicato nel 1853, e il suo autore è conosciuto soprattutto per aver scritto uno straordinario romanzo, che è diventato un “mito della letteratura” per le sue metafore: Moby Dick. Lo scrittore in questione si chiama Herman Melville, è nato a New York nel 1819, in una famiglia agiata, e può quindi dedicarsi agli studi letterari fino alla morte del padre. Con la morte del padre la famiglia Melville cade in miseria e questo fatto costringe Herman ad imbarcarsi nel 1841, come marinaio, su una baleniera e intraprende per quattro anni una navigazione avventurosa nei mari del Sud che procura molta materia alla scrittura giornaliera di Melville. Ma Melville (sebbene abbia aspirato a questo) non si guadagnerà mai da vivere facendo lo scrittore, fa l’impiegato al porto di New York, all’ispettorato delle Dogane. E pubblica a sue spese i suoi romanzi, i suoi racconti e le sue poesie, con un completo insuccesso editoriale, compreso Moby Dick. Herman Melville muore nel 1891 e dopo cinquant’anni dalla sua morte, i lettori più attenti e i critici letterari riconosceranno in lui uno dei più significativi scrittori dell’800 e dell’età contemporanea.

     La storia di Bartleby lo scrivano – che incontriamo a proposito del tema hegeliano della “negazione” – è anche frutto della delusione per essere uno scrittore incompreso: il pubblico del suo tempo voleva, forse, solo avventure senza riflessione. Melville utilizza l’avventura allo scopo di riflettere sui valori della vita. Bartleby è uno scrivano un po’ comico che rivendica il silenzio e l’otium, e si ribella pacatamente – con una calma, una compostezza e un’educazione esemplare – contro tutte le pressioni dell’utilitarismo di una società che trova unicamente la sua ragion d’essere nelle operazioni speculative.

     Questo racconto è una significativa allegoria sul valore che ha lo scrivere, sull’importanza che ha il fatto di dedicarsi costantemente alla “scrittura”: è una parabola che ha fatto “scuola”. La storia di Bartleby ce la racconta l’avvocato che lo assume, come scrivano, nel suo studio a Wall Street, siamo nel centro del mondo della finanza. Quest’uomo cerca di farsene una ragione del comportamento di Bartleby. Perché Bartleby a un certo punto smette di scrivere? L’avvocato sembra credere che Bartleby abbia smesso di scrivere perché gli è diminuita la vista a furia di copiare notte e giorno. Ma Bartleby non spiega nulla: pallido, mite, laconico, è, dicono gli esegeti, un personaggio tagliato sul modello della Letteratura dei Profeti che Melville conosce molto bene. Bartleby, come la figura di un profeta, incarna la negazione completa, l’opposizione assoluta ad un mondo che usa la scrittura: quel meraviglioso strumento che è la “scrittura”, solo per giustificare “interessi”, per imbastire legalmente “imbrogli”. Negando la “scrittura” (direbbe alludendo il “giovane Hegel” se lo avesse conosciuto) Bartleby ne afferma la ragion d’essere. Bartleby appare quasi come la figura del “Servo di Jhwh”, nel Libro di Isaia, la figura della povertà, del poco, del nulla, del resto, del diseredato.

     Ci fa una grande tenerezza la figura incantata di Bartleby, che parla pochissimo, in continua meditazione, che riduce tutto il suo parlare a un’unica frase, usata come un ritornello, che è diventata celebre, per il modo di “negare” le cose, infatti la frase che Melville fa dire a Bartleby esalta – in senso hegeliano – il valore dialettico” della negazione. Bartleby lo scrivano per negare afferma: Avrei preferenza di no. Questa frase non suona come un vero rifiuto, è piuttosto un modo per declinare un invito a fare, ma è il rilancio di un invito a pensare, di un’esortazione a riflettere. Con Bartleby non si riesce a litigare, non si riesce a contrastare la sua negazione, ma,come ci dice l’avvocato, non si può far altro che domandarci: ma che cosa gli passa per la testa? A che cosa sta pensando?

     La frase “Avrei preferenza di no” è una “negazione” che chiude una conversazione, ma che apre una riflessione. Melville ci vuole dire che questo fenomeno vale anche per la “scrittura”: che apre sempre una riflessione. La potenza della scrittura non sta nel mettersi a ragionare se scrivere mi serve o non mi serve: nell’esercizio della scrittura, la sua ragion d’essere sta nell’atto stesso (nel meccanismo intellettuale) che la crea. La potenza della scrittura sta nell’essere senza aspettative, nel rimanere sospesa – dice Bartleby – soltanto come “preferenza”. Quindi bisogna cogliere l’occasione per ribadire il concetto che: si deve prendere l’abitudine (quotidiana, dieci minuti, quattro righe…) di scrivere senza aspettative, perché le “aspettative” possono mettere in moto il meccanismo psicologico di sentirsi in dovere di non scrivere. Secondo il canone della “ragionevolezza” l’esercizio della lettura e della scrittura non fa parte della vita quotidiana ma viene presentato ai cittadini e fatto interiorizzare ai cittadini come fosse una sovrastruttura mentale (a che cosa serve leggere e scrivere? Non si vive forse normalmente e tranquillamente senza leggere e senza scrivere?) governata in modo virtuale dall’invadenza televisiva (le norme della ragionevolezza, i canoni linguistici, le regole di comportamento compresa quella di non sentire l’esigenza di leggere e di scrivere, oggi, sono dettate soprattutto dalla televisione, scrive Karl Popper). Un libro presentato in televisione (senza che neppure sia “sceneggiato”), ci dicono le ricerche fatte, viene considerato come “se fosse stato letto”. Quindi non ascoltate l’Io-dominante, oggi supportato dall’interferenza mediatica, non siate “ragionevoli” in questo caso, ma create la vostra scrittura con la “necessaria razionalità” senza cedere alla “doverosa ragionevolezza” che ci spinge verso il tubo catodico (sei sette ore al giorno) che somministra il “facilese” e “l’ignorantese”. (Il “leggere” e lo “scrivere” creano le condizioni perché si costruisca una “adultitudine” di pensiero nei confronti dell’inadeguatezza di pensiero generalizzata…). L’avvocato chiede a Bartleby: «Vuoi tu essere un po’ ragionevole?»  E Bartleby risponde: «Avrei preferenza di no, a non essere un po’ ragionevole». E ora leggiamo: diamo la parola all’avvocato.

LEGERE MULTUM….

Herman Melville,  Bartleby lo scrivano  (1853)

Sono un uomo piuttosto anziano. La natura della mia professione, negli ultimi trent’anni, m’ha portato ad avere contatti fuori del comune con ciò che si direbbe un interessante ed alquanto singolare genere di individui, dei quali fino ad ora, ch’io sappia, nulla è stato scritto: mi riferisco ai copisti legali, agli scrivani. In gran numero ne ho conosciuti, sia per pratica di lavoro che a titolo personale, e, quando volessi, potrei narrare svariate storie, che forse farebbero sorridere le persone benevole, e forse farebbero piangere le anime sentimentali. Ma rinunzio alla biografia di ogni altro scrivano per pochi momenti della vita di Bartleby, che fu scrivano, il più stravagante di quanti abbia mai veduto, o di cui abbia avuto notizia. Laddove, di altri scrivani, potrei scrivere l’intera vita, nulla del genere è possibile nel caso di Bartleby. Ritengo non esistano documenti per una completa e soddisfacente biografia di quest’uomo. Il che, per le lettere, è senz’altro una perdita irreparabile. Era Bartleby uno di quegli esseri, dei quali nulla è possibile accertare, salvo ricorrere a fonti originali, che, in tal caso, sono molto scarse. Quanto i miei occhi attoniti videro di Bartleby, questo è tutto ciò che so di lui, oltre, in effetti, ad una vaga notizia che verrà riferita in seguito. Prima d’introdurre lo scrivano, com’egli apparve ai miei occhi per la prima volta, sarà opportuno accennare a me, ai miei impiegati, al mio lavoro, ai miei uffici, e all’ambiente in generale; poiché qualche descrizione al riguardo è indispensabile per un’adeguata comprensione del personaggio principale che verrà presentato. In primis: io sono un uomo che, fin dalla giovinezza, è stato sempre profondamente convinto che la via più facile sia la migliore. Quindi, benché svolga una professione proverbialmente inquieta, agitata, a volte persino turbolenta, tuttavia nulla del genere ho mai tollerato venisse a turbare la mia tranquillità. Sono uno di quegli avvocati privi d’ambizioni, che mai fanno appello a una giuria, o tentano con ogni mezzo di strappare l’applauso del pubblico; che, invece, nella pacata atmosfera di un tranquillo rifugio, tranquillamente trafficano con i titoli azionari di gente ricca, e ipoteche, e titoli di proprietà. Chiunque mi conosca mi considera persona eminentemente cauta… Qualche tempo prima del periodo in cui ha inizio questa piccola storia, il mio lavoro era notevolmente aumentato. Mi era stato conferito quel buon vecchio incarico, ora abolito nello stato di New York, di Magistrato della Cancelleria. Non era incarico troppo arduo, bensì gradevolmente remunerativo. Raramente vado in collera, e ancor più raramente indulgo in pericolose indignazioni per torti e soprusi; ma, qui, mi sia consentito di essere temerario, e di dichiarare ch’io considero l’improvvisa e violenta abrogazione della carica di Magistrato della Cancelleria, ad opera della nuova Costituzione, un un atto prematuro: in quanto, avendo io fatto il conto di godere a vita di quei profitti, ne ebbi soltanto l’utile di pochi anni. Ma ciò sia detto di sfuggita. Erano i miei uffici ad un piano rialzato, al numero di Wall Street. Ad un’estremità, essi si affacciavano su un bianco muro all’interno d’un vasto pozzo d’aerazione, che penetrava nel palazzo da cima a fondo. Tale veduta avrebbe potuto esser considerata senz’altro insipida, mancante di ciò che i pittori paesaggisti chiamano “vita”. Ma, se così era, la veduta sull’altro lato dei miei uffici offriva, quanto meno, un buon contrasto. In quella direzione le mie finestre presentavano la libera vista d’un alto muro, annerito dagli anni e dall’ombra perenne: il quale muro non richiedeva l’uso di alcun cannocchiale per rivelare le sue occulte bellezze, bensì, a beneficio d’ogni miope spettatore, ergevasi a soltanto dieci piedi dalle mie finestre. Grazie alla grande altezza dei fabbricati attorno, e al fatto che i miei uffici erano al secondo piano, lo spazio tra quel muro e il mio somigliava non poco a una enorme e quadrata cisterna. Nel periodo che immediatamente precedette l’avvento di Bartleby, avevo alle mie dipendenze due persone, quali copisti, e un fanciullo, quale fattorino. Il primo, Turkey, ovvero “Tacchino”; il secondo, Nippers, ovvero “Chele”; il terzo, Ginger Nut, ovvero “Zenzero”. Si direbbero nomi, questi, non molto facili da trovarsi sulle pagine di un annuario. In verità si trattava di nomignoli che i miei impiegati s’erano mutuamente attribuiti, ed erano ritenuti esprimere le loro rispettive persone e caratteri… Ora il mio lavoro iniziale di legale commercialista, incettatore di titoli, redattore d’ogni sorta d’oscuri documenti, s’era notevolmente accresciuto per aver io ricevuto l’incarico di magistrato. V’era adesso molto lavoro per gli scrivani. Non solo dovevo sollecitare gli impiegati alle mie dipendenze, ma pure procurarmi altri aiuti. In risposta a un’inserzione, un immobile giovanotto comparve un bel mattino sulla soglia del mio ufficio, essendo la porta aperta perché era d’estate. Rivedo ancora quella figura, scialba nella sua dignità, pietosa nella sua rispettabilità, incurabilmente perduta! Era Bartleby. Dopo pochi cenni sulle sue qualifiche, lo assunsi, lieto d’aver nel mio corpo di copisti un uomo dall’aspetto così singolarmente composto, che, pensai, avrebbe potuto influire in modo benefico sull’indole caotica di Turkey, nonché su quella impetuosa di Nippers. Avrei dovuto dire, prima, che porte pieghevoli di vetro molato dividevano i miei locali in due zone, una delle quali era occupata dai miei scrivani, l’altra da me medesimo. In conformità col mio umore, a volte spalancavo tali porte, oppure le richiudevo. Stabilii di assegnare a Bartleby un angolino presso i battenti pieghevoli, ma sul mio lato, così da aver quell’uomo tranquillo a portata di mano, nel caso si presentasse qualche difficoltà di minor conto. Collocai il suo scrittoio accanto a una piccola finestra su quel lato della stanza, finestra che all’origine s’apriva su una veduta laterale di certi scuri cortili e muri in mattone, ma che, essendo stati eretti altri fabbricati, al momento attuale non permetteva alcuna veduta, benché lasciasse penetrare un po’ di luce. A tre piedi dai vetri della finestra si trovava un muro, e, da molto in alto scendeva la luce, filtrando tra due alti edifici, quasi come da una piccola apertura in una cupola. A rendere tale sistemazione vieppiù soddisfacente, procurai un alto e verde paravento, che poteva riparare Bartleby dai miei sguardi, quantunque senza allontanarlo dalla mia voce. E così, in certo qual senso, la privatezza e lo stare assieme si davan la mano. All’inizio Bartleby svolse una straordinaria quantità di lavoro scritturale. Quasi fosse da lungo tempo affamato di cose da copiare, egli pareva pascersi con ingordigia dei miei documenti. Non si concedeva pausa per la digestione. Si dava da fare notte e dì, copiando sia con la luce del sole che al lume di candela. Mi sarei senz’altro compiaciuto di tanta solerzia, fosse egli stato allegramente operoso. Invece continuava a scrivere in silenzio, con moto scialbo e meccanico. Parte inevitabile del lavoro d’uno scrivano è, ben s’intende, la verifica dell’accuratezza delle sue copie, parola per parola. Ove vi siano due o più scrivani in un ufficio, essi s’assistono l’un l’altro in tale esame, l’uno leggendo la copia, l’altro controllando l’originale. E’ questo un lavoro molto insipido, tedioso e letargico. Non ho difficoltà a immaginare che, per qualche indole sanguigna, esso sarebbe affatto intollerabile. Ad esempio, non riesco a credere che quel famoso poeta, il Byron, si sarebbe adattato di buon grado a sedere insieme a Bartleby onde esaminare un documento legale di, poniamo, cinquanta pagine fittamente vergate in minuta calligrafia. Talora, nell’urgenza del lavoro, avevo l’abitudine di prestare il mio aiuto nell’esame di qualche breve documento, chiamando Turkey e Nippers allo scopo. Una tra le mie mire, nel collocare Bartleby a portata di mano dietro il paravento, era di ricorrere ai suoi servigi in simili banali evenienze. Credo fu il terzo giorno dacché  egli era con me, il primo nel quale fosse sorta la necessità di fargli esaminare le sue scritture, che, avendo io premura di sbrigare una faccenda di poco conto che m’impegnava al momento, bruscamente detti una voce a Bartleby. Posta la fretta e la mia naturale attesa d’immediata obbedienza, sedevo col capo chino sul documento originale posto sul mio scrittoio, e la mano destra obliquamente protesa a porgere in modo un po’ nervoso la copia, così che, appena emerso dal suo riparo, Bartleby potesse afferrarla e procedere all’opera senz’alcun indugio. In tale esatta posizione sedevo, quando lo chiamai, spiegando in fretta cosa desiderassi da lui, ovvero, che esaminasse con me un breve documento. Immaginate la mia sorpresa, meglio, la mia costernazione, quando, senza muoversi dal suo privato, Bartleby con voce singolarmente mite, ma ferma, replicò: “Avrei preferenza di no.” Rimasi per qualche istante seduto in perfetto silenzio, cercando di riavermi dallo sbigottimento che m’aveva preso. Lì per lì m’accadde di pensare che le mie orecchie non avessero udito bene, o che Bartleby avesse del tutto frainteso ciò ch’io intendevo dire. Ripetei la mia richiesta con voce più chiara che potei, ma, con tono altrettanto chiaro, mi giunse la medesima risposta dianzi udita: “Avrei preferenza di no.” “Preferenza di no?” gli feci eco, alzandomi in grande eccitazione, e attraversando la stanza d’un balzo. “Come sarebbe a dire? Cosa vi prende? Voglio che m’aiutiate a esaminar codesto foglio, prendetelo,” e glielo gettai. “Avrei preferenza di no,” disse egli. Lo guardai impietrito. Il suo volto era smunto e composto, gli occhi grigi tranquilli e velati. Non un segno di turbamento lo animava. Vi fosse stata, nei suoi modi, la minima traccia d’inquietudine, collera, impazienza o impertinenza; in altre parole vi fosse stato in lui alcun tratto d’ordinaria umanità, senza meno l’avrei cacciato di forza dai miei uffici. Ma, per come stavano le cose, non mi sarebbe parso altrimenti che cacciar dalla porta il mio pallido busto in gesso di Cicerone, situato sulla mia scrivania. Rimasi a scrutarlo per qualche attimo, mentre egli continuava diligentemente a scrivere, indi tornai a sedermi al mio scrittoio. Tutto ciò è molto strano, pensavo. Qual è la miglior cosa da fare? Ma avevo fretta di sbrigare il mio lavoro. Decisi di trascurare l’accaduto, per il momento, rinviando la sua considerazione ad un momento di tranquillità. Così, chiamato Nippers dall’altra stanza, lo scritto venne rapidamente controllato. Alcuni giorni dopo, Bartleby terminò la stesura di quattro prolissi documenti, il quadruplicato di una settimana di testimonianze raccolte in mia presenza nell’alta Corte di Cancelleria. Divenne necessario esaminarli. Si trattava di una causa importante, e una grande accuratezza era indispensabile. Avendo tutto predisposto, chiamai dalla stanza attigua Turkey, Nippers e Ginger Nut, intendendo metter le mie quattro copie in mano ai miei quattro impiegati, mentre io avrei dovuto legger l’originale. Di conseguenza, Turkey, Nippers e Ginger Nut avevano preso posto in una fila di seggiole, con in mano ciascuno il proprio documento, quando chiamai Bartleby perché s’unisse a questo interessante gruppo. “Bartleby! Presto, sto aspettando.” Udii il lento stridere della sua sedia sul nudo pavimento, e presto egli apparve sostando all’ingresso del suo eremo. “Cosa si comanda?” disse in tono mansueto. “Le copie, le copie,” diss’io in tutta fretta. “Dobbiamo esaminarle. Ecco” e gli allungai il quarto dei duplicati. “Avrei preferenza di no,” disse egli, e silenziosamente sparì dietro il paravento. Per alcuni istanti fui trasformato in una statua di sale, in piedi alla testa della mia colonna di impiegati seduti. Riprendendomi, mi mossi verso il paravento, e gli chiesi ragione dell’inusitata condotta. “Perché vi rifiutate?” “Avrei preferenza di no.” Con chiunque altro sarei andato su tutte le furie; bandita ogni altra chiacchiera, l’avrei senza scrupoli cacciato via. Ma v’era qualcosa in Bartleby che, non soltanto stranamente mi disarmava, ma anche, in modo assai sorprendente, mi toccava e sconcertava. Presi a discutere con lui, e dissi

     Qui ha inizio un’interessante conversazione che ciascuno di voi, volendo, può leggere  per proprio conto, noi dobbiamo riprendere il cammino insieme a Hegel.

     Il “giovane Hegel”, riflettendo sulla natura della ragione e sul concetto della “negatività”, s’incammina sulla strada (questo itinerario di formazione dura diversi anni) che lo porta a definire le basi del suo pensiero. Dobbiamo seguirlo su questa strada: non è una strada agevole ma è ricca di spunti di riflessione, forse non è facile capire tutto, ma il venire a contatto con le parole-chiave e le idee significative che il “giovane Hegel” ci mette di fronte è senza dubbio un esercizio molto utile in funzione della didattica della lettura e della scrittura.

     A Francoforte il “giovane Hegel” scrive molte opere di argomento teologico e politico, tra queste opere viene considerato interessante il testo del cosiddetto Frammento di sistema (1800), che testimonia un momento di passaggio nel pensiero del “giovane Hegel” che si va definendo ed evolvendo con la forza di un fiume in piena.

     A questo punto dobbiamo fare una premessa metodologica e dobbiamo ribadire il fatto (risaputo da tutti) che la filosofia di Hegel è difficile: perché? Perché Hegel è una persona che produce e registra una quantità enorme di pensieri e quindi ha sempre messo i commentatori davanti alla possibilità di fornire diverse interpretazioni. Uno dei dibattiti culturali più appassionanti della Storia del Pensiero Umano è quello delle “interpretazioni” della filosofia di Hegel. Noi, umili studenti, in questo Percorso dobbiamo occuparci prima di tutto delle tesi su cui tutti i commentatori sono d’accordo, e dobbiamo occuparci delle parole-chiave e delle idee significative che vengono poste, da tutte le studiose e da tutti gli studiosi, alla base del “sistema hegeliano”, tenendo conto che, strada facendo nei Percorsi a venire, incontreremo buona parte delle varie interpretazioni che sono state date al pensiero di Hegel e che creano i presupposti per nuovi sistemi intellettuali.

     Dopo questa doverosa premessa metodologica dobbiamo dire che a Francoforte (siamo nel 1799) il “giovane Hegel” comincia a mettere a punto il primo segmento fondamentale del suo pensiero. Se il “destino”, pensa il “giovane Hegel”, è la forza necessaria che permette alla realtà di realizzarsi attraverso la negazione di sé,  questo significa che l’idea del “destino” corrisponde all’idea della “necessità” ed è quindi l’idea della “necessità” che garantisce l’esistenza del Tutto, che garantisce l’esistenza della Realtà.

     La Necessità, sostiene il “giovane Hegel”, investe anche il concetto della “ragione”. Kant e Fichte, pensa il “giovane Hegel”, hanno studiato a fondo (soprattutto Kant) il tema della “ragione” e i risultati dei loro studi sono importanti ma vanno utilizzati per andare ancora oltre. Kant e Fichte (soprattutto Kant) hanno concepito la “ragione” come uno strumento utile per dare ordine alla conoscenza. Kant, sul piano della conoscenza, ha codificato un “ragionamento fondamentale” dimostrando che noi, nell’ambito della ragione, riusciamo a conoscere “a priori” cioè indipendentemente dall’esperienza; soprattutto, Kant ha messo in evidenza l’importante questione dei “limiti della ragione” proprio per ribadirne le possibilità.

      Sta di fatto, pensa il “giovane Hegel”, che Kant e Fichte hanno considerato la “ragione” legata fondamentalmente al concetto di “ordine” e questo modo di vedere porta ad attribuire alla “ragione” una natura statica. La “ragione” viene confinata dentro il perimetro dell’ordine, un ordine che, per Kant e per Fichte, combacia con la morale, coincide con legge morale che è già scritta nel cuore (nell’interiorità) dell’essere umano. Secondo il “giovane Hegel” la “ragione” è prima di tutto legata al concetto di “necessità” e successivamente a quello di “ordine” e questo fatto la rende uno strumento “dinamico” e “dialettico”. Facciamo, allude il “giovane Hegel”, un esempio banale: prima di andare al mercato io preparo la lista della spesa ed è necessario che io la prepari se no mi dimentico qualcosa. Nella lista scrivo quello che mi manca, scrivo con ordine quello che mi necessita: farina, zucchero, burro, lievito… Quando arrivo al mercato tiro fuori la lista dalla borsa e, con ordine, comincio a prendere i prodotti che mi servono: farina, zucchero, burro, lievito. Mi dirigo, seguendo l’ordine della lista, al banco della farina e la prendo, poi mi dirigo verso il banco dello zucchero; se, mentre mi dirigo verso il banco dello zucchero passo davanti al banco del burro (che è in lista) che cosa faccio? Lo prendo senza rispettare l’ordine della lista, cioè “nego l’ordine in funzione della necessità”, ed è attraverso questa “negazione” che avvaloro l’ordine della lista. La ragione, pensa il “giovane Hegel”, è influenzata prima di tutto dalla necessità e poi dall’ordine e questa gerarchia deve essersi creata per ragioni storiche, non in virtù di uno slancio morale (non a causa del “bene”) né per un’intuizione estetica (non a causa del “bello”).

     Anche il concetto del “bene” e il concetto del “bello”, pensa il “giovane Hegel”, si risolvono nella Storia piuttosto che nell’interiorità: e noi ci rendiamo conto che il dibattito sul primato dell’interiorità, che ha caratterizzato il periodo tra il ‘700 e l’800, è a una svolta.

     Il procedimento della “ragione”, sostiene il “giovane Hegel”, si deve essere formato in concomitanza con la “storia dell’Umanità”: difatti, per l’essere umano delle origini, prima c’è il bisogno, prima c’è la necessità, poi viene l’ordine (ricordate le “parole degli albori”, ci torna utile l’opera di Erodoto). Il tema della “ragione”, pensa il “giovane Hegel”, va studiato in concomitanza al tema dell’evoluzione della Storia: la “ragione” non compare nella testa degli esseri umani per caso, ma attraverso una procedura legata alla “necessità”. La “ragione” è prima di tutto legata al concetto di “necessità” e poi a quello di “ordine” e questo fatto la rende uno strumento “dinamico” capace di creare contemporaneamente unità e sviluppo.

     Più che di “ragione”, afferma il “giovane Hegel”, dobbiamo parlare di “dialettica della ragione” che si evolve dentro la Storia: quindi la “ragione” ha una “storia” che deve essere studiata, e anche lo Spirito, ribadisce il “giovane Hegel”, cioè l’insieme delle idee create dalla ragione, ha una “storia” che deve essere studiata. Ecco che la “dialettica” non riguarda l’Io, come sostiene Fichte, ma riguarda la “ragione”: la “dialettica” è il processo attraverso il quale si attua la Ragione, non l’Io. Secondo il “giovane Hegel”, quindi, la “dialettica della ragione” dipende dall’idea della Necessità. 

     Se il “destino”, pensa il “giovane Hegel”, è la forza necessaria che permette alla realtà di realizzarsi attraverso la negazione di sé, questo significa che l’idea del “destino” corrisponde all’idea della “Necessità” ed è quindi l’idea della “Necessità” che garantisce l’esistenza del Tutto. Di conseguenza il “giovane Hegel” pensa che ogni cosa staccata dal Tutto sia frammentaria e quindi sia incapace di esistere senza il contributo dato dal resto del mondo. Uno studioso di anatomia anche possedendo un solo piccolo osso è in grado di ricostruire tutto l’animale, così, secondo il “giovane Hegel”, una persona che pensa, partendo da un solo e qualsiasi pezzo della realtà, può ricostruire la realtà nel suo complesso, almeno nelle sue grandi linee. Ogni pezzo, ogni frammento della realtà apparentemente isolato, ha, diciamo così, come degli uncini che lo uniscono strettamente al pezzo accanto, e questo, a sua volta, ha nuovi uncini, e così via, fino a ricostruire l’Universo.

     Non ci vuole molto a capire, sostiene il “giovane Hegel”, che il dato che noi percepiamo della realtà è quello dell’incompletezza, un’incompletezza che possiamo definire “essenziale” perché è attraverso questa incompletezza che passa la strada della conoscenza. Questa incompletezza essenziale appare tanto nel pensiero della persona quanto nel mondo delle cose. Quando ci viene in mente un’idea (e questo succede in continuazione ) questa ci si presenta subito come incompleta e come contraddittoria perché immediatamente ci si para davanti anche la negazione, anche l’opposto di questa idea: noi entriamo subito in contatto con l’antitesi dell’idea pensata. E allora per trovare una via d’uscita a questo dualismo (tra l’idea e la sua antitesi) dobbiamo trovare una nuova idea meno incompleta che è la sintesi dell’idea originale e della sua antitesi. Questa nuova idea, benché meno incompleta di quella da cui siamo partiti, ci si presenta tuttavia ancora incompleta tanto che compare subito la sua antitesi e dovremo combinarle ancora in una nuova sintesi.

     La “dialettica della ragione”, sostiene il “giovane Hegel”, si manifesta con questo ritmo, scandito dalla tesi, dall’antitesi e dalla sintesi che a sua volta è tesi di una nuova antitesi e via dicendo sulla strada del perfezionamento dell’idea. Se procediamo avanti di questo passo, sostiene il “giovane Hegel”, in modo dialettico, sulla strada del perfezionamento dell’idea, saremo in grado di raggiungere l’Idea Assoluta, cioè quell’idea che non è incompleta, l’idea che non ha un opposto, e non ha bisogno di essere ulteriormente sviluppata. L’Idea Assoluta si presenta dunque adeguata a descrivere tutta la Realtà: l’Assoluta Realtà.

     Il fatto è che nel nostro intelletto, sostiene il “giovane Hegel”, ci sono “idee relative” le quali descrivono la realtà soltanto come appare a chi ne vede solamente una parte; per avere “idee complete” dovremmo avere la possibilità di vedere il Tutto, dovremmo avere la possibilità di osservare dall’alto, con un solo sguardo, la Realtà Assoluta. L’Assoluta Realtà noi la possiamo solo intuire e ce la raffiguriamo come  un singolo armonioso sistema, collocato fuori dallo spazio e fuori dal tempo. L’Assoluta Realtà noi la possiamo intuire come un armonioso sistema dove non esiste né il male né la materia.  L’Assoluta Realtà noi la possiamo intuire come un singolo e armonioso sistema interamente razionale e interamente spirituale.

     Se potessimo vedere l’Universo nel suo complesso (come possiamo supporre che lo veda Dio), sparirebbero lo spazio e il tempo, sparirebbero la materia e il male e sparirebbe ogni sforzo e ogni contrasto, e vedremmo invece un’eterna, perfetta immutabile unità razionale e spirituale.

     Dobbiamo dire subito che queste affermazioni hanno in sé qualcosa di sublime (inteso in senso “romantico”, ma ci rendiamo anche conto che, con queste affermazioni, ci stiamo incamminando oltre il territorio del “romanticismo”): queste affermazioni danno origine a un sistema che è costruito su un dogma (e lo stesso Hegel ne è consapevole) che ciò che è incompleto non possa bastare a se stesso ma abbia bisogno di appoggiarsi ad altre cose per poter esistere.

     A suo tempo, sui sentieri del ‘900, incontreremo filosofie le quali sostengono che l’essere umano è essenzialmente e ovviamente un frammento e che se fosse la somma della realtà sarebbe in contraddizione con la realtà stessa

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

La parola “incompletezza” fa pensare anche a qualcosa di “incompiuto”: c’è qualcosa che hai lasciato incompiuto nella tua vita e a cui pensi ogni tanto? 

Scrivi quattro righe in proposito…

     A Francoforte, dal 1797 al 1799, il “giovane Hegel” matura queste idee e comincia a codificarle e a sistematizzarle. Nel gennaio del 1799, a Stoccarda, muore suo padre che era un funzionario dell’amministrazione granducale e il “giovane Hegel” eredita (con gli altri due suoi fratelli) una rendita che gli permette di abbandonare il lavoro di precettore e di dedicarsi interamente agli studi per intraprendere la carriera universitaria. Il “giovane Hegel” decide quindi di trasferirsi in uno dei centri culturali maggiori della Germania (una città alla quale già guardava al suo arrivo a Francoforte): a Jena. L’Università di Jena è diventata, nell’ultimo decennio del Settecento, la roccaforte della filosofia critica: vi si sono avvicendati nell’insegnamento prima Reinhold (1787-1794) poi Fichte (1794-1799) – sappiamo anche come è stato licenziato Fichte da Jena… – e, dal 1798, insegna a Jena anche Schelling con il quale il “giovane Hegel” è rimasto sempre in contatto epistolare. L’Università di Jena coltiva un rapporto culturale molto fecondo con l’Università di Weimar: la città di Weimar (l’abbiamo visitata durante il Percorso dell’anno 2004) è considerata la capitale del romanticismo titanico da quando la duchessa Anna Amalia aveva chiamato presso di sé una serie di personalità importanti: Goethe, Herder, Schiller. Nel gennaio del 1801 il “giovane Hegel” (“giovane”, ma ha già 31 anni) arriva a Jena e inizia a lavorare all’Università: è solo uno dei dodici liberi docenti (diventa professore di ruolo solo nel 1805) e opera all’ombra di Schelling il quale invece, a 26 anni, ha già fatto carriera. Schelling ha già pubblicato le sue opere più importanti ed ha assunto ormai un deciso atteggiamento critico nei confronti del pensiero di Fichte. Il “giovane Hegel” condivide le idee di Schelling e fonda insieme a lui una rivista intitolata: Giornale critico della filosofia.

     Nell’estate del 1801 compare a Jena la prima opera del “giovane Hegel” che codifica in modo più sistematico il suo pensiero, quest’opera s’intitola: Differenza tra i sistemi filosofici di Fichte e di Schelling. In quest’opera il “giovane Hegel” scrive in modo più preciso e più chiaro le affermazioni che abbiamo già illustrato. La prima affermazione fondamentale fatta dal “giovane Hegel” (dopo avere studiato e riflettuto dal 1793 in avanti ed espressa, nel 1801, nell’opera Differenza tra i sistemi filosofici di Fichte e di Schelling) è che la filosofia ha il compito di ripercorrere coscientemente le varie fasi attraverso le quali la Realtà, la Realtà Assoluta, attua se stessa, e la filosofia non è uno slancio morale (come la definisce Fichte) e neppure un’intuizione estetica (come pensa Schelling) ma è pensiero logico, è conoscenza razionale.

     La Realtà Assoluta, scrive il “giovane Hegel”, possiede una natura razionale. L’Assoluto è Ragione, e la Realtà Assoluta si manifesta attraverso la razionalità, non attraverso la morale né attraverso l’estetica. La conoscenza non può essere basata su uno slancio morale, come sostiene Fichte, perché lo slancio morale è inconsistente e il processo dialettico proposto da Fichte è puramente teorico: infatti se l’Io puro, se l’Io soggettivo contenuto nell’interiorità dell’individuo, è la Realtà Assoluta significa che è già una sintesi assoluta e quando l’Io si manifesta, ponendo se stesso, il suo sviluppo è infinito e non trova ostacoli; l’Io puro di Fichte, afferma il “giovane Hegel”, è come una semiretta che iniziando da un punto (dall’Io puro) continua in modo indefinito in una determinata direzione, e questa tendenza morale dell’Io (come la chiama Fichte) finisce per non trovare mai appagamento. E poi: se ciò che Fichte chiama il Non-Io (il mondo e la natura) è solo un’immagine priva di consistenza reale (se il mondo e la natura sono solo un’immagine della realtà), significa, scrive il “giovane Hegel”, che il Non-Io non può essere un’antitesi reale nei confronti dell’Io puro, perché l’Io puro, essendo una sintesi assoluta, è già la realtà completa e allora, ciò che Fichte chiama il Non-Io, è solo un ostacolo immaginato non un’effettiva antitesi. Del pensiero di Fichte il “giovane Hegel” approva il concetto dello sviluppo dialettico dell’Assoluto ma la “dialettica”, come la concepisce Fichte, è da considerarsi, secondo lui, puramente teorica. Non è possibile che il Non-Io, considerato come una realtà inesistente, possa fare da “antitesi” all’Io puro che viene considerato come la Realtà Assoluta quindi come la sintesi assoluta: non c’è una reale relazione logica, scrive il “giovane Hegel”, tra l’Io puro (che è la Realtà completa) e il Non-Io (che è un’immagine della realtà). Il “giovane Hegel” afferma che la Realtà Assoluta è Ragione, è “razionalità” che trova il suo termine e la sua espressione più alta nel Pensiero di se stessa e di conseguenza tutta la realtà è espressione di questa essenza razionale, ed è per questo che possiamo affermare che: “tutto ciò che è reale è razionale e tutto ciò che è razionale è reale”.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Il termine “razionale” rimanda alle parole: logica, rigore, sistema, funzione, proporzione. Quale di queste parole metteresti per prima accanto al termine “razionalità”? 

Scrivila …

     Possiamo affermare che: “tutto ciò che è reale è razionale e tutto ciò che è razionale è reale”: come si spiega; scrive il “giovane Hegel”, questa formula? Leggiamo un frammento da Differenza tra i sistemi filosofici di Fichte e di Schelling:

LEGERE MULTUM….

Georg Hegel, Differenza tra i sistemi filosofici di Fichte e di Schelling (1801)

La formula “tutto ciò che è reale è razionale e tutto ciò che è razionale è reale” si giustifica in quanto tutto ciò che è reale (che è esistente) ha una ragione logica per esistere e quindi  ciò che accade è necessario che accada, è giusto che accada e non può non accadere in quanto è espressione concreta della razionalità.

Ciò che è razionale è destinato ad accadere: se un programma non si attua significa che non è razionale. Possiamo affermare che Pensiero e Realtà concreta non sono distinti ma si identificano. L’identità di Pensiero e Realtà concreta non corrisponde all’Io-puro di Fichte e l’identità di Pensiero e Realtà concreta non corrisponde neppure all’Assoluto In-differente (di Schelling).

     Il “giovane Hegel” (come abbiamo detto) critica con durezza il sistema di Fichte, e in modo molto più morbido, ma non meno efficace, il “giovane Hegel” critica anche il sistema di Schelling: è la prima crepa che porta verso una rottura. Il “giovane Hegel” critica il fatto che l’Assoluto In-differente, concepito da Schelling come una realtà che basta a se stessa, possa trovare una motivazione (se basta a se stessa non ha motivazioni) per diventare prima Natura e poi Spirito: l’Assoluto In-differente di Schelling è come un punto fermo e non ha alcuna possibilità reale di sviluppo. Secondo il “giovane Hegel” è necessario costruire un sistema che unisca l’unità allo sviluppo e questo può essere garantito dall’identità che possiamo riscontrare tra il Pensiero e la Realtà concreta, tra il reale e il razionale. L’unità di razionale e reale, posta dal “giovane Hegel” a fondamento del suo sistema filosofico, viene spiegata con un’opera che diventa una delle opere più significative della Storia del Pensiero Umano, quest’opera s’intitola: La fenomenologia dello Spirito.

     A Jena, una sera d’estate dell’anno 1801, Schelling, Hölderlin e Hegel – ancora una volta riuniti insieme – vanno a teatro ad assistere alla rappresentazione di Amleto di Shakespeare. Tutti sappiamo che la scena più famosa di Amleto di Shakespeare è quella del celebre monologo in cui Amleto tiene in mano il teschio dell’amico Yorick. Ricordate le parole del testo del famoso monologo della scena prima dell’atto terzo di Amleto?

LEGERE MULTUM….

William Shakespeare,  Amletoatto III scena 1. ( 1600 )

         AMLETO

Essere non essere. È questo il problema.

È meglio per l’anima soffrire oltraggi per colpa della fortuna, o è meglio prendere le armi contro questi guai e opporvisi e distruggerli? 

È meglio morire? In fondo, morire, è nulla più che dormire.

È con un sonno che noi mettiamo fine al crepacuore, ai mille insulti che riceviamo e ai fastidiosi inconvenienti della carne.

Noi dobbiamo invocare la nostra fine con devozione.

Morire è come dormire, e dormire è sognare, e forse

E qui è il problema: che sogni faremo dopo che saremo usciti dal tumulto della vita mortale?

     Quella sera durante la recitazione del monologo il “giovane Hegel” è particolarmente inquieto e si agita sulla panca della platea da dove assiste, assieme a Schelling e a Hölderlin, alla rappresentazione del dramma: il celebre monologo dell’Amleto di Shakespeare invita certamente alla riflessione, ma che cosa passa nella mente del “giovane Hegel” in questa occasione? Hegel dedica un capitolo della Fenomenologia dello Spirito a questo monologo dell’Amleto ed è, molto probabilmente – dicono gli studiosi – il primo brano che scrive di quest’opera. Forse, stimolato dalla presenza dei suoi due compagni (con i quali rivaleggia), questo brano lo scrive la sera stessa in cui ha partecipato a questa rappresentazione teatrale. Che cosa passa nella mente del “giovane Hegel” in questa occasione, davanti al teschio di Yorick accarezzato da Amleto?

     Quando la coscienza della persona è ancora immatura, pensa il “giovane Hegel”, è spinta a credere che lo spirito si riduca ad una realtà materiale. La coscienza immatura è spinta a credere che l’essere dello spirito sia un osso, e allora non c’è che una via da seguire: quella di ripercorrere l’itinerario della conoscenza dello spirito ripartendo da questo osso, prendendo le mosse dalla scatola cranica. Gli antichi credevano che l’essere umano pensasse col cuore o con il fegato. Da quando si scoprì, con Galeno, scrive il “giovane Hegel”, che gli esseri umani pensano con il cervello si cominciò a guardare con attenzione alla scatola cranica.

     Ma leggiamo, per concludere, le parole di Hegel da:

LEGERE MULTUM….

Georg Hegel, La fenomenologia dello Spirito (1807)

Osservando il teschio di Yorick accarezzato da Amleto mi è venuto in mente che la povertà strutturale della scatola cranica contrasta certamente con le straordinarie proprietà del suo contenuto, il cervello.

Da un lato sta una moltitudine di quiete regioni craniche, mentre dall’altro lato abbiamo una moltitudine di proprietà spirituali, la cui quantità e determinazione dipenderanno dallo stato degli studi psicologici. Sappiamo bene che una qualsiasi scatola di cartone potrebbe contenere delle pietre preziose, ma nel caso del cranio la cosa è più complicata.

La scena in cui Amleto riflette sulla fragilità della vita tenendo in mano il cranio di Yorick contiene già in sé il contrasto tra la povertà materiale delle ossa craniche e lo stimolo a riflettere che esse producono: è vero che anche un cranio può suscitare in noi, come quello di Yorick in Amleto, ogni sorta di meditazioni; di per sé però il cranio è solo una cosa cruda e indifferente, nella cui immediatezza non è possibile scorgere né assumere altro che il cranio stesso e difatti quando la coscienza della persona è ancora immatura è spinta a credere che lo spirito si riduca ad una realtà materiale. La coscienza immatura è spinta a credere che l’essere dello spirito sia un osso, e allora non c’è che una via da seguire: quella di ripercorrere l’itinerario della conoscenza dello spirito ripartendo da questo osso, prendendo le mosse dalla scatola cranica.

     Per il “giovane Hegel” non c’è che una via da seguire: quella di ripercorrere l’itinerario della conoscenza dello spirito ripartendo da questo osso, prendendo le mosse dalla scatola cranica, dalla realtà materiale. Il “giovane Hegel” definisce l’itinerario della conoscenza dello spirito con un termine: con la parola “fenomenologia”. Il percorso di Hegel all’interno della propria coscienza per descrivere i modi e le vicende, attraverso cui lo spirito umano si sviluppa dal grado più basso (l’osso) fino a quello più alto (l’eticità), è un viaggio straordinario.

     Con la descrizione dell’indice delle parole-chiave e delle idee significative contenute nella prima parte della Fenomenologia dello Spirito (è un’opera complicata e va presa a piccole dosi…) si conclude, la prossima settimana, anche il secondo itinerario di studio di quest’anno scolastico 2005-2006. Non perdete questa occasione, non perdete la “fenomenologia” e quindi: correte a scuola. La Scuola è qui, e leggendo i testi, settimana dopo settimana, della Biblioteca itinerante, posso dire che anche la Scuola (con la dovuta umiltà) assume le caratteristiche di una “piccola fenomenologia” dello Spirito…

     Il viaggio continua …

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Maggio 19, 2006