Prof. Giuseppe Nibbi Tragòs oidos 2003 19-20-21 novembre 2003
LA CORONA ( STEFANOS ) RACCHIUDE LA TRAGEDIA…
La scorsa settimana ci siamo dati appuntamento citando un’affermazione pronunciata da un’ombra: dall’ombra di Achille. Achille viene incontrato da Odisseo nell’Ade, nel regno delle ombre; i due si parlano e, nel concludere il suo discorso, Achille dice ad Odisseo: la corona (stefanos) racchiude la (mia) tragedia, come dire, la corona è un oggetto simbolico che sostiene, col suo cerchio, tutta la rete dei racconti primordiali. Che significato ha questa affermazione? Che cos’è la corona? Tutto il mondo classico, dagli affreschi minoici, ai fregi ionici, ai frontoni dorici ai capitelli corinzi, ai banchetti romani, (fateci caso d’ora in poi…) è cosparso di corone, e questo oggetto trasformandosi via via, è arrivato fino a noi. A Roma, nell’età di Augusto, che poi è quella di Ovidio, all’inizio del I secolo, il mestiere del coronarius era un mestiere molto redditizio, perché le occasioni, sacre e profane, in cui le corone venivano usate, erano innumerevoli. Non deve sembrarci strano, dunque, se, l’argomento di questa sera, lo facciamo introdurre da un grande osservatore che è anche un famoso scienziato e naturalista, uno dei più illustri scienziati, naturalisti e osservatori dell’antichità.
Questo personaggio – che incontriamo, per primo, sul nostro percorso – si chiama Plinio, per la precisione si tratta di Caio Cecilio Plinio Secondo detto il Vecchio, che conosciamo semplicemente come Plinio il Vecchio (23-79 d.C.). C’è anche un Plinio il Giovane che è suo nipote, e che continuerà la sua opera. Plinio il Vecchio è l’autore di un’opera straordinaria della Stopenum di cui dobbiamo conoscere l’esistenza, un’opera non facile da leggere ma con la quale dobbiamo entrare in contatto, che s’intitola Storia naturale, opera monumentale in 37 libri. In quest’opera vastissima, Plinio si occupa di letteratura, filosofia, geografia, astronomia, botanica, zoologia, medicina vegetale e animale, mineralogia, ecc. Per scrivere quest’opera, Plinio ha letto e ha consultato circa 2000 volumi e cita più di 500 autori greci e latini: una straordinaria miniera di citazioni.
Storia naturale è una vera e propria enciclopedia, ma non è un semplice elenco di cose, non è un semplice catalogo di argomenti. Plinio il Vecchio, infatti, non tratta le materie che studia come un arido compilatore, ma le illustra e le commenta con grande passione: egli pensa che, per l’essere umano, il conoscere sia un’attività fondamentale e indispensabile per poter vivere la quotidianità e per poter dare un senso alla vita: vivere è conoscere, è imparare. Mentre gli animali, scrive, sentono ciascuno la propria natura e secondo ciò operano e provvedono, l’essere umano "di sé niente sa, se non impara e da se stesso, scrive Plinio, l’essere umano sa solo piangere". E dunque, per ogni individuo sapere è conoscere: "conoscere i luoghi dove abita e le persone tra cui abita, conoscere i fenomeni del cielo e della terra, soprattutto, scrive Plinio, conoscere quel mondo vegetale e animale donde traiamo il sostentamento quando siamo sani, e i linimenti quando siamo ammalati". Conoscere tutto questo, scrive Plinio, è la condizione essenziale della vita umana.
Probabilmente saprete che Plinio il Vecchio muore nel 79 d.C., una delle tante vittime della famosa eruzione del Vesuvio che ha distrutto Pompei ed Ercolano. Plinio era al sicuro, ma quando "la montagna" ha cominciato a manifestare tutta la sua potenza, non ha resistito alla tentazione di osservare più da vicino possibile quel formidabile fenomeno della natura, e così si è avvicinato troppo, ed è stato inghiottito dal maremoto che ha accompagnato l’eruzione. Chissà che descrizione sarebbe stato capace di fare di quel tragico avvenimento!
L’opera di Plinio il Vecchio ha avuto uno straordinario successo nel Rinascimento: i 37 libri della Storia naturale sono stati tradotti in volgare italiano nel 1470 dall’umanista neoplatonico e grande latinista Cristoforo Landino, membro dell’Accademia fiorentina (quella fondata da Marsilio Ficino, con Giovanni Pico della Mirandola), e su quella traduzione (che è un’opera d’arte!) hanno studiato tutti gli scienziati del 1500 e del 1600 (tra cui Galileo Galilei).
Che cosa c’entra la Storia naturale di Plinio il Vecchio con le corone? Nel XXI libro della Storia naturale, Plinio si occupa anche di questo argomento e fa alcune considerazioni utili per il nostro percorso nel territorio della tragedia. Leggiamo questa pagina dal XXI libro della Storia naturale di Plinio, un frammento che contiene delle affermazioni e alcune citazioni che dobbiamo commentare, in modo da iniziare una (lunga) riflessione:
LEGERE MULTUM….
Plinio il Vecchio, Storia naturale libro XXI (I sec.)
In antico le corone servivano a onorare gli dèi e i Lari pubblici e privati, le tombe e i Mani. Poi furono per le statue degli dèi, per le vittime sacrificali, per gli sposi. Poi per gli atleti che vincevano i giochi. Poi per i poeti o i guerrieri che eccellevano. Poi per la gioia dei banchetti. Gli amanti appendevano corone alle porte degli amati. E Cleopatra pensò anche, un giorno, di avvelenare Antonio con i petali di una corona. Dalle mummie egizie a tutti i culti successivi, si direbbe che il mondo mediterraneo abbia a lungo camminato in quell'immagine circolare, in quei fiori significativi ed effimeri che per ogni circostanza variavano. Tale era l'onnipresenza delle corone che un'intera letteratura si sviluppò su di esse. Pochi altri argomenti parevano altrettanto adatti alle gare di erudizione fra i sofisti a convito. Ma, se retrocediamo dal loro amabile chiacchiericcio verso l’origine, che cosa ci viene incontro? La prima corona arriva dalla tragedia e fu un omaggio di Zeus a Prometeo, venne dunque dagli dèi come dono per l'uomo più ambiguo verso di loro, minaccia e salvezza: Prometeo ha rubato il fuoco della sapienza agli dèi e lo ha donato agli uomini. Quella corona doveva equilibrare la pena dei vincoli in cui lo stesso Zeus aveva a lungo imprigionato Prometeo, incatenato alla roccia. Ora la fredda stretta del metallo della catena si trasformava in quello che Eschilo nella tragedia (Prometeo incatenato) chiamò il migliore dei vincoli: un intreccio circolare di foglie, ramoscelli e fiori. Era lo stesso processo per cui il cinto variegato di Afrodite si era sovrapposto alla rete soffocante di Ate come racconta Igino (Igino, Astronomia II 15, 4). Per Eschilo, la corona donata a Prometeo è antìpoina, una retribuzione, che è anche un riscatto. Prometeo se la era meritata rivelando a Zeus che il figlio di lui e Teti, se fosse nato, lo avrebbe soppiantato, per questo Zeus non si avvicinò mai alla ninfa invadente (Igino, Le favole). Così Prometeo, dopo aver ingannato il dio lo aveva anche salvato. E ora rimaneva fra gli uomini portando loro una nuova rivelazione, dopo quella del fuoco: la corona. Dalla catena alla corona: era sempre un vincolo, perché tutto ciò che di forte ci assale è un vincolo. Ma ora, quel vincolo, si alleggeriva, diveniva fragile e morbido, cingeva mollemente la testa, perché nella testa sono tutte le nostre sensazioni. Che cosa di tanto prezioso si celava in quell'intreccio vegetale? La perfezione (téleios), che era il dono greco per eccellenza, quello che perseguirono in ogni occasione.
Secondo Plinio la corona è, prima di tutto, l’oggetto simbolico che rappresenta la tέleios téleios, la perfezione: incoronare qualcosa o qualcuno lo rende perfetto! Allora ragioniamo con Plinio il Vecchio: se la perfezione – abbiamo studiato qualche settimana fa – sta nel racconto delle origini, nel canto del caprone, nel tragòs oidòs, nella tragedia, e abbiamo dimostrato che c’è una corrispondenza tra perfezione e tragedia, ecco che se la corona è l’oggetto simbolico che raccoglie in sé la rete dei racconti primordiali, non può che contenere anche la perfezione. C’è una corrispondenza, allora, tra la tragedia cioè la rete dei racconti primordiali, la perfezione, e la corona.
Così, è su questo presupposto che Plinio il Vecchio riflette sul simbolo della corona, facendo alcune citazioni erudite: cita Eschilo, e cita Igino. Plinio nel XXI libro della sua opera delinea una analisi molto significativa della corona come simbolo mitico, come oggetto tragico. E naturalmente fa risalire le origini della corona, come formidabile oggetto simbolico, ad uno dei personaggi (con Elena, con Achille) più significativi della tragedia, cantati dal primordiale canto del caprone: Prometeo. Secondo Plinio il Vecchio la corona, come oggetto simbolico, compare nella Stopenum con il testo della tragedia di Eschilo (databile intorno al 474 a.C.) dal titolo Prometeo incatenato.
Tutti avete sentito nominare Prometeo, e Plinio dà per scontato che noi lo conosciamo! Che cosa rappresenta Prometeo? Prometeo è probabilmente il personaggio tra i più universali del mytos greco, della tragedia: un modello che continuerà, e che continua a riprodursi nella Storia della Letteratura. Chi è Prometeo? Prometeo non è un dio e neppure un uomo, è un Titano, e la definizione moderna di questo termine la rimandiamo al percorso prossimo sul Romanticismo. La parola "titano", difatti, è una parola-chiave della cultura del 1800. Adesso, se volessimo definirlo con gli schemi della cultura dell’Antico Testamento – il titano Prometeo – è una via di mezzo tra un arcangelo, strumento della potenza divina – come Gabriele che potrà però anche diventare un ribelle come Lucifero – e Adamo, il primo uomo, punito per aver voluto avvicinarsi troppo all’albero della conoscenza, della scienza. Plinio il Vecchio nelle pagine della Storia naturale sente Prometeo come il simbolo dell’essere umano che vuol conoscere per imparare, e vuole imparare per continuare a conoscere.
Prometeo secondo le opere di Esiodo (la Teogonia e Le opere e i Giorni) è il creatore del genere umano: è il figlio di Giapeto e di Climene (o di Giapeto e Temi secondo Eschilo) il quale d’accordo con Zeus crea l’uomo formandolo con l’argilla: Prometeo è il demiurgo, il vasaio primordiale (questo racconto ricorre nelle "creazioni"…). Senonché, mentre Zeus vorrebbe la razza umana del tutto sottomessa, schiava, priva di genio inventivo, egli – il titano – disobbedendo al dio, dona agli esseri umani il fuoco (lo spirito, l’anima), cioè il germe, la scintilla della conoscenza. Prometeo ruba questa scintilla dal carro del Sole e la porta in terra. Quando Zeus, per riassoggettare gli uomini, crea Pandora, la prima donna, bella, avvenente, seducente ma maligna e traditrice (povere donne, non c’è cultura che non le veda e non le senta così, le prime donne!) con il suo vaso contenente tutti i mali che devono servire per contaminare la terra e indebolire gli uomini, Prometeo diffida di lei, diffida di quel modello (questo modello di donna, per lui, non è la donna!), e non si lascia convincere: sarà suo fratello – il bonaccione Epimeteo – a farsi subito conquistare da Pandora e a cadere in tentazione aprendo il famoso vaso fatale di Pandora. Al genere umano resterà la speranza (elpis elpis) che stava nel vaso insieme a tutti i mali. Per trionfare su Prometeo il ribelle, Zeus dovrà usare la violenza e per punirlo lo incatenerà ad una roccia sul Caucaso, dove quotidianamente un avvoltoio gli roderà il fegato.
Ma anche da prigioniero Prometeo non si piega: Zeus lo teme perché sa che lui conosce un segreto, un vaticinio che riguarda il destino del dio: Prometeo sa che Zeus è minacciato dalla nascita di un figlio futuro e Zeus vorrebbe sapere il quando, il come e il perché di questa faccenda che insidia la sua esistenza, e quindi gli promette, in mille modi, la liberazione, in cambio della rivelazione di tutti i particolari di questo vaticinio delle Parche che insidia l’esistenza di Zeus. Ma Prometeo non vuole tanto la salvezza, la liberazione per sé, la vuole e la chiede per l’Umanità: per il Genere umano chiede la liberazione dall’ignoranza: il male peggiore. Zeus promette, e Prometeo gli rivela che il figlio di lui e Teti (l’invadente ninfa marina che sposerà Peleo, e partorirà Achille), se fosse nato, lo avrebbe soppiantato, e per questo – lo sappiamo – Zeus non si avvicinerà mai alla ninfa la quale aveva conservato – da un passato glorioso – il dono della metamorfosi.
Zeus, conosciuto il misterioso vaticinio, riconoscente, libera Prometeo (lo fa liberare da Ercole) cambiando la catena (la corona del castigo) con una retribuzione (la corona del premio); però, poi, non mantiene la promessa di liberare l’Umanità dall’ignoranza, e lo scontro continuerà e continua (ma Zeus ne aveva le possibilità?).
L’immagine di Prometeo si concretizza nella corona e nella sua doppia valenza: la corona può essere contemporaneamente un castigo (una catena) e una retribuzione (antipoina antìpoina, un premio), ci comunica Plinio il Vecchio interpretando Eschilo. La corona, e tutti gli oggetti in cui si è trasformata:la ghirlanda, la collana, l’anello, porta con sé questa doppia valenza, quella di essere contemporaneamente un po’ catena e un po’ dono di liberazione: in questa complessa contraddizione si collocano tutti gli oggetti che incoronano, con il loro significato simbolico e questo, ancora oggi, è un motivo di riflessione.
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Quanti bracciali, braccialetti, collane, collanine, anelli abbiamo regalato e avuti in regalo?
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Il mito di Prometeo è e sarà sempre complesso e affascinante e di misteriosa vastità. Prometeo è il protettore degli esseri umani, è colui che rappresenta il loro genio inventivo e le capacità dell’ingegno umano. Prometeo è più sapiente di Zeus tanto da potergli annunciare la sua fine. La figura di Prometeo rappresenta il fatto che l’essere umano può trasformare il mondo con la conoscenza, simboleggiata dal fuoco, e questo indipendentemente dal volere di Zeus, il quale pretende che nulla cambi per mantenere il suo potere.
L’ignoranza è forza: e anche Zeus non ha molta voglia di studiare e d’imparare. Prometeo è l’espressione universale del pensiero umano che non è mai pago della meta raggiunta e si agita e lotta contro i limiti imposti dal Fato. Prometeo è il simbolo dell’essere umano che s’innalza al di sopra delle cose materiali che lo soddisfano solo parzialmente, e che supera il contingente ma non riesce mai a conquistare l’Assoluto, perché vive la contraddizione di essere a metà strada tra il cielo e la terra: questo è il destino dell’essere umano! Prometeo è il simbolo del ribelle, di colui che coltiva una ribellione che non potrà mai essere vinta perché è l’espressione della libertà dello Spirito umano, ma Prometeo il ribelle, contemporaneamente, non sarà mai vincitore perché non è possibile modificare e infrangere l’ordine delle cose (il Prometeo romantico).
Il mito di Prometeo porta anche a comprendere che la condizione umana è intessuta di contraddizioni (aporìe): l’essere umano deve imparare a vivere nelle contraddizioni perché la vita non è un segmento lineare, ma è una trafila di continue linee spezzate (il Prometeo esistenzialista). Questi grandi temi della Stopenum sono già contenuti nel testo della tragedia Prometeo incatenato di Eschilo e saranno e sono temi continuamente rielaborati dalla Storia della cultura
Dobbiamo dire che il catalogo delle opere antiche, moderne e contemporanee che hanno come protagonista la figura di Prometeo è vastissimo. Tutte le età e le correnti di Pensiero (gnosticismo, cristianesimo, umanesimo, rinascimento, illuminismo, romanticismo, esistenzialismo, surrealismo, espressionismo…) hanno interpretato il mito e la tragedia di Prometeo. Abbiamo già detto che il Romanticismo fa della figura di Prometeo un punto di riferimento e ne parleremo (Goethe). Il Romanticismo interpreta Prometeo come il ribelle indomito e ne fa uno dei suoi eroi nella prosa, nella poesia, nella musica, nel teatro, nell’arte.
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Facciamo alcuni riferimenti musicali sul tema di Prometeo: ricordiamo il balletto eroico allegorico musicato da Ludwig van Beethoven nel 1800 su commissione del coreografo italiano Salvatore Viganò (1769-1821), rappresentato nel 1801 a Vienna e nel 1813 alla Scala di Milano…
L’opera musicale più significativa sul mito del titano è il Prometeo di Gabriel Fauré, rappresentata all’Opera di Parigi nel 1907…
Buona ricerca e buon ascolto…
Sul piano letterario l’indice delle opere che hanno Prometeo come protagonista è lunghissimo; il fatto è che queste opere sono spesso, sì, dei capolavori, ma quasi sempre di difficilissima lettura: poemi, drammi, tragedie di notevole complessità. Tuttavia almeno un riferimento o due li dobbiamo fare, e allora citiamo per prima, quella che viene considerata, dagli esperti, l’opera più eccentrica sul tema di Prometeo. Quest’opera si presta alla lettura anche perché è un’opera contemporanea, e s’intitola Prometeo male incatenato (1899) ed è stata scritta da (quel provocatore di) André Gide (1869-1951). Questo è un romanzo (un trattato) meno conosciuto del famoso scrittore francese ma è considerato uno dei più originali per il contenuto e dei più sperimentali per la forma. Il Prometeo di Gide entra nella vita contemporanea (siamo alla fine dell’’800 e sta per nascere un nuovo secolo), e lo troviamo – Prometeo – seduto in un ristorante mentre ascolta i discorsi di due signori (Coclite e Damocle) seduti al tavolo vicino al suo (stanno parlando – male – delle scelte di un certo banchiere, il signor Zeus); di lì prendono il via una serie di storie, di avventure, di fatti aggrovigliati ma che hanno tutti un loro logico sviluppo. L’intento di Prometeo male incatenato è quello di innescare un processo di liberazione dalle regole assurde che incatenano, che legano le persone a una serie di ridicole convenzioni, spesso avulse dalla realtà e dalla ragionevolezza. Prometeo male incatenato si fa paladino di una vertenza perché gli essere umani imparino a legare le loro scelte di vita al senso morale. L’aquila che lo accompagna, e gli rode il fegato, è la coscienza che valuta inesorabile i comportamenti degli esseri umani, ma quell’aquila finirà arrosto: non resta che leggere per scoprire il come, il perché e da parte di chi, quell’aquila, metafora della coscienza spesso troppo invadente, finirà arrosto!
Prometeo male incatenato è una delle opere più significative di André Gide, ed è un romanzo filosofico (è un apologo) degno dei racconti del ‘700 illuminista, ma scritto con una tecnica sofisticata che prelude al surrealismo del ‘900 (il surrealismo è una corrente che incontreremo prossimamente, strada facendo).
Un altro racconto significativo (e leggibile!) sul tema del titano incatenato e liberato è il Prometeo di Franz Kafka (del 1919), pubblicato in Frammenti postumi, un testo in cui domina, come sempre, il carattere espressionista dell’autore praghese: d’altra parte, Prometeo, l’irriducibile ribelle senza possibilità di vittoria, è proprio, di per sé, un personaggio kafkiano.
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Cercali in biblioteca e buona lettura (cinque minuti al giorno)…
Per concludere la nostra riflessione sul rapporto esistente tra la figura mitica di Prometeo e l’oggetto simbolico della corona, che, con la tragedia del titano, si presenta contemporaneamente nel segno del castigo e del premio, dobbiamo affrontare, nelle sue linee generali, un argomento molto interessante, per noi cittadini del mondo occidentale che viviamo immersi in una cultura in cui la tradizione greca e quella giudaico-cristiana si intersecano reciprocamente. E la corona è proprio uno di quegli oggetti simbolici che lega indissolubilmente le due culture: greca e giudaico-cristiana. Sin dall’antichità (dal II, III sec.) gli scrittori cristiani si sono sempre occupati con interesse della figura di Prometeo e ne hanno dato un’interpretazione, ne hanno fatto l’esegesi in senso evangelico. La tragedia di quel Prometeo che si ribella "agli dèi falsi e bugiardi", che viene inchiodato sulla roccia del Caucaso in una posa simile al crocifisso, non può che riscuotere e riscuote tutta la simpatia dei Padri della Chiesa. In particolare Tertulliano (in Della pazienza 209-211 d.C) e Agostino di Ippona (nei Sermoni 470-480 d..C) ne parlano con grande entusiasmo e con grande calore: la figura di Prometeo è vista come parallela a quella di Gesù Cristo, anticipatrice della tragedia della passione, Prometeo è il prototipo dell’uomo dei dolori. Questa tradizione dura anche nel Medioevo, nel Rinascimento e nell’età Moderna.
A questa tradizione si rifà un’opera molto particolare del Barocco spagnolo (siamo nel 1600) che non possiamo fare a meno di citare, per sapere che c’è. Quest’opera s’intitola La statua di Prometeo, è una commedia mitologica che rievoca la figura del titano come prototipo di Cristo, ed è stata scritta nel 1669 dal grande poeta Pedro Calderòn de la Barca (1600-1681). Il personaggio di Prometeo si presenta sul palcoscenico e rimane in scena con in testa una corona, ma non con una corona qualsiasi: con una corona di spine!
Voi capite i termini di questo problema inter-culturale, che hanno le loro radici nella tragedia! Questi due personaggi, Prometeo e Gesù Cristo, hanno in testa lo stesso oggetto simbolico e tragico: la corona! Nella Letteratura dei Vangeli – una letteratura scritta in greco – nei racconti che rievocano la Passione di Gesù di Nazareth (che sono le prime sentenze ad essere state scritte) spiccano una serie di oggetti simbolici provenienti dalla tradizione tragica: uno di questi oggetti fatali è la corona di spine: un oggetto costruito per castigare, per schernire, per sbeffeggiare che diventa, però, uno dei simboli forti della storia della salvezza (anticipando la croce), perché la corona è, dalle origini, il duplice e contraddittorio simbolo, tanto del castigo quanto del premio!
A questo proposito basta leggere quel famosissimo pezzo di letteratura "tragica" – da mettere in corrispondenza, in sinossi, con il testo del Prometeo incatenato di Eschilo – che è il cap.19 del Vangelo Secondo Giovanni (I sec.): vale la pena rileggere questo capitolo alla luce della tragedia di Prometeo. Tutti abbiamo negli occhi la scena evocata da questo testo! Gesù flagellato, sfigurato dalle botte che ha preso, avvolto in un mantello rosso, coronato di spine viene presentato (siamo sul palcoscenico della tragedia) da Pilato alla folla: "Ecce homo! Ecco l’uomo! – dice Pilato – secondo me non ha fatto nulla di male! Comunque, noi, aggiunge Pilato, che siamo il potere costituito, lo abbiamo bastonato, torturato, schernito, sbeffeggiato, punito, incoronato lo stesso, siete contenti?". Ecco l’uomo dei dolori! Ecco la paradossale condizione dell’essere umano alle prese con la sofferenza e con la morte, quando sono decretate dall’ingiustizia del potere: ecco la grande sfida tragica, contenuta nella corona di spine…"La corona contiene la tragedia", aveva detto l’ombra di Achille ad Odisseo, nell’Ade! La corona fa da ponte tra la cultura greca e quella cristiana…
Anche Pedro Calderòn de la Barca, nella sua commedia mitologica, riprende questo tema facendone l’esegesi: non saranno con le loro corone i re, i potenti, i gerarchi a salvare l’Umanità, ma sarà "l’uomo dei dolori", la persona che saprà sacrificarsi, che saprà fare della sua catena e della sua sofferenza una corona, intrecciata dagli ideali: di salvezza, di giustizia e di profonda solidarietà.
A questo proposito, per chi vuole ricercare e approfondire questo argomento – dopo aver citato Calderòn de la Barca – non possiamo non segnalare, almeno un’altra opera, altrettanto complessa ma significativa. Lo scrittore svizzero di lingua tedesca Carl Spitteler (1845-1924) ha scritto un saggio sotto forma di romanzo che s’intitola Prometeo ed Epimeteo (1881). Spitteler rielabora il mito di Prometeo attraverso elementi biblici, gnostici e cristiani, e nel 1924 riscriverà questo testo con il titolo di Prometeo il paziente, lo riscriverà in versi, sotto forma di poema in otto canti.
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La "corona di spine" è un’immagine molto significativa: il ponte tra Prometeo e Cristo (che cosa vi fa venire in mente ?).
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E adesso facciamo ancora un riferimento, l’ultimo, sulla Letteratura dei Vangeli, in relazione a quel testo che, tante volte, abbiamo letto, studiato e utilizzato: Gli Atti degli Apostoli. Secondo la tradizione – ricordate e dovete sapere che – questo libro è strettamente legato al testo del Vangelo secondo Luca. La tradizione del Vangelo secondo Luca comprende tre testi distinti: il primo testo è formato dai primi due capitoli del Vangelo di Luca, quello che viene chiamato "testo protolucano", un’introduzione che, sotto forma di catechismo, racconta l’infanzia mitica di Gesù; poi dal cap.3 al cap.24 abbiamo il testo del Vangelo di Luca propriamente detto; e infine, autonomo, il testo degli Atti degli Apostoli, che rappresenta la continuazione di questo Vangelo. Gli Atti degli Apostoli – ci dicono gli esegeti – non è un libro di storia, ma è un catechismo introdotto dai primi due capitoli del Vangelo di Luca: il testo protolucano (i primi due capitoli del Vangelo di Luca) e gli Atti degli Apostoli formano il primo testo catechistico della Chiesa di Roma. Questo "primo catechismo" è opera del primo papa storico della Chiesa di Roma, il Padre apostolico Clemente Romano (95-100)
(La tomba di Clemente Romano è la tomba di Pietro). Dove ci conduce questo riferimento agli Atti degli Apostoli? Abbiamo detto, all’inizio, che la parola corona, in greco si traduce stèfanos. Ebbene, tutti sappiamo che Stefano è anche il nome di uno dei più significativi protagonisti degli Atti e della nostra tradizione culturale: santo Stefano. Ora, gli Atti – ci dicono gli esegeti – non raccontano la storia, ma presentano un catalogo di simboli esemplari che i credenti devono fare propri ed imitare. Stefanos ha un nome simbolico, tragicamente simbolico: colui che porta la corona del primo martire, una corona che, da castigo, diventa premio. La sua festa la celebriamo il giorno dopo la nascita del Salvatore, il 26 dicembre. Ebbene, la storia del giovanissimo diacono Stefano la possiamo leggere nei cap.6 e 7 degli Atti degli Apostoli (andateveli a rileggere o a leggere!). Stefano – lo sapete – viene lapidato, e chi assiste a questa esecuzione? Assiste all’esecuzione, approvandola, il protagonista degli Atti, Paolo di Tarso, il quale è ancora un convinto persecutore della comunità cristiana, ma lì – ci dice il testo degli Atti – sarà costretto a raccogliere la convinta testimonianza di Stefanos: la corona (stèfanos) rinnova il ricordo, mantiene viva la memoria. Paolo di Tarso sarà costretto a raccogliere e a portare con sé quella tragica corona, il ricordo di Stefanos, di quella corona di spine, lo pungolerà e lo stimolerà a cominciare a maturare nuove scelte che si concretizzeranno, per lui, dopo qualche tempo. "La corona della vittima si è trasformata in corona di gloria" scrive Paolo nelle Lettere, introducendo la corona (stèfanos) già nella prima tradizione cristiana!
E questo oggetto, la corona, arriva da lontano, lo sapete, arriva dal canto del caprone, e con tutti i suoi significati mitici, rimane tra noi. La corona in origine indica la separazione: è la linea di demarcazione tra ciò che è dentro al cerchio magico e ciò che è fuori. Per questo la corona, in origine, è un oggetto che circonda qualcosa di sacro, rende sacro un frammento: la vittima sacrificale, la sposa, la statua. Nella poesia epica degli aedi, la corona è anche il bordo di una coppa che viene riempita proprio fino all’orlo. La corona indica il colmare, in greco epestépsanto, che è sinonimo di impregnare. Si parla, nell’Iliade (canto I, 470), di «giovani guerrieri che "epestépsanto" incoronavano di vino i crateri», cioè colmavano i bicchieri fino all’orlo. La corona è il bordo del contenitore, il punto dove la pienezza diventa sovrabbondanza. Quindi la corona è la pienezza e la pienezza è la perfezione. "Ciò che è colmo è perfetto e l'incoronare è l’immagine della perfezione".
La corona, in origine, racchiude il sacro, separandolo dal mondo comune e racchiude il perfetto nella sua pienezza autosufficiente. Anche la morte è il colmo della vita e si incorona anche la morte come qualcosa di perfetto: chi muore diventa perfetto (e ciò compare nei necrologi). Da dove vengono queste considerazioni? Se ritorniamo al testo di Plinio il Vecchio tratto dalla Storia naturale che abbiamo letto, constatiamo che Plinio, oltre a Eschilo cita anche un certo Igino.
"Era lo stesso processo per cui il cinto variegato di Afrodite si era sovrapposto alla rete soffocante di Ate come racconta Igino (Astronomia II 15, 4)". Chi è questo Igino? E che cosa significa questa citazione? Noi siamo destinati a incontrare personaggi significativi della storia della cultura i quali di solito sono sconosciuti. Ma il compito della Scuola è quello di svelare, di far emergere il patrimonio che abbiamo ricevuto in eredità.
Caio Giulio Igino è un intellettuale vissuto a Roma durante l’età di Augusto (all’inizio del I sec.). Igino di professione faceva il maestro elementare, ma è stato un raffinato bibliofilo, un bibliotecario, che si dedicava alla conservazione, alla catalogazione e alla lettura pubblica dei libri, per tutti quelli che non sapevano leggere. Igino è un colto poeta e di lui ci rimangono due opere significative: Astronomia, che un trattato in poesia e Le favole, 277 componimenti mitologici di fonte greca. Queste due opere di Igino sono due manuali di mitologia molto importanti per capire le complicate varianti nella rete dei racconti mitici. Igino è quindi una fonte utilissima per ricostruire tutte le complesse piste del canto del caprone.
Igino, come scrive Plinio il Vecchio nella Storia naturale ci racconta – traducendola dalla tradizione greca, di cui è un profondo conoscitore – la fabula del cinto di Afrodite, la favola della corona di Afrodite, o di Venere, la dèa dell’amore. Sapete che la dèa Afrodite ci si presenta vestita unicamente di un cinto, una cinturina, una coroncina di fiori: si potrebbe pensare che, per questo, ci racconta Igino, Afrodite (o Venere) sia subito "disponibile"! Ebbene, ci sbagliamo! Quel cinto, quella corona, non si supera, non si oltrepassa, quella corona rende Afrodite già colma, già dotata di pienezza: la rende perfetta nella sua verginità. La dèa dell’amore – sembra paradossale ma, nella cultura greca – è incoronata, si distingue per la sua verginità, uno status che la rende perfetta (un’idea che entrerà nel cristianesimo, e abbiamo studiato a suo tempo questo passaggio che rende Maria di Nazareth, contemporaneamente vergine e madre: l’ellenismo e l’ebraismo s’incontrano nel cristianesimo in fase di espansione…)! La corona della verginità di Afrodite ha in sé la pienezza, la perfezione. E la verginità è la prerogativa maggiore, la più ambita dalle dèe dell’Olimpo, ci racconta Igino, alla verginità le dèe, non rinunciano: è il vero privilegio divino! Che li sopportino le donne mortali i brutali amplessi dei maschi, le faticose gravidanze, i dolori delle doglie, il pericolo mortale dei parti, e il sacrificio dell’allevamento della prole.
In Astronomia Igino ci racconta che Afrodite, per costruire il suo cinto, la sua corona, il suo vestitino, si fa prestare un po’ di fili dalla rete soffocante di Ate, una delle dèe degli Inferi, e si veste di quella corona invalicabile: la quale corona, per le belle forme di Afrodite, appare a forma di cuore. Leggiamo un frammento da Astronomia di Igino che ci serve anche per introdurre l’ultimo personaggio che incontriamo nel lungo itinerario di questa sera:
LEGERE MULTUM….
Caio Giulio Igino, Astronomia II 15, 4 (I sec.)
La corona di Afrodite è tessuta con i fili della rete soffocante di Ate,
e ci appare a forma di cuore: non è forse il cuore la sede dell’amore,
segnalata dall’accelerazione del suo battito e insieme dalla morte
segnalata dal suo arresto? Amore e morte, e non amore e vita,
sono i due poli in cui, per volontà degli Olimpi, si dibatte l’esistenza,
perché non c’è vita che si sostenga senza una parvenza d’amore,
reale o immaginario che sia, e così, per i mortali,
c’è la corona di Afrodite per celebrare l’amore e la corona di Ate,
che è la stessa, per celebrare la morte: solo Saffo, la decima musa,
osò ribellarsi, con una corona che non attingeva alla morte
ma alla vita, alla delicatezza, allo splendore, alla grazia, al gusto sublime…
E così – ci ricorda Igino – nella cultura tragica della corona, entra, infine, la grande poetessa Saffo, detta "la decima musa", nata a Mitilene capoluogo dell’isola di Lesbo nel VI sec. a.C.. La corona di Saffo la incontriamo alla fine, ma sta all’inizio; e qui vogliamo chiudere il cerchio: per essere esaurienti su Saffo ci vorrebbe un itinerario intero. Della poetessa Saffo – una delle più importanti poetesse di tutti i tempi – possediamo un catalogo di Frammenti che provengono dalle sue famose Odi. Saffo celebra e utilizza la corona come oggetto simbolico dell’amore, legato però alla vita, non alla morte: basta con la corona indossata dalle spose come se fossero bestie da condurre al sacrificio. Così Saffo si rivolge alla fanciulla Dica:
LEGERE MULTUM….
Saffo, Frammento 81
Cingi con amabili corone i tuoi riccioli,
riunendo con le tue morbide mani steli di anice;
perché le Cariti beate, preferiscono guardare ciò che è adorno di fiori
e distolgono lo sguardo da chi non porta corone.
Dica ormai il perfetto è in te, che accendi lo sguardo benevolo delle Cariti.
Non c’è più Ifigenia, convinta di portare la corona come sposa,
mentre quella corona la isola come vittima che sarà (sgozzata sull'altare)…
È soprattutto la poetessa Saffo che, nella sua opera, ha spostato l’ottica culturale dal sacro verso il perfetto, confidando nella potenza dell'estetica, della bellezza, rifiutando la forza e la brutalità. Le donne devono trovare in loro stesse la loro pienezza, devono rendersi autonome, non si devono concedere agli uomini (alla corona del sacrificio) finché gli uomini faranno l’amore come fanno la guerra. Nessun'altra tribù aveva tentato prima questa ribellione, che durò poco.
Saffo fondò una scuola (la casa delle Muse o Museo) dove le donne, le ragazze, imparavano a conquistare l’autonomia culturale, economica, sociale, che poi in quella società – ma sarà così anche dopo – perderanno con il matrimonio. Nella cultura di Saffo di Lesbo non c’è un problema sessuale, se mai c’è un problema erotico, l’amore non è genitalità, penetrazione, atto, ma è comunicazione, è racconto, è solidarietà, è celebrazione del piacere reciproco, che questo appartiene alla cultura femminile sull’amore.
Gli esperti ci dicono che l’importanza dell’opera di Saffo sta nell’aver formulato un concetto di grande modernità sul quale bisogna continuare a riflettere: per l’amore, è al cuore che si fa appello, non ai genitali, che pure sono adibiti per "fare" l’amore. Perché questo? Perché i genitali appartengono a una vita che non ci riguarda: i genitali sono lì a testimoniare non il nostro amore, ma l’amore che la specie ha di se stessa. L’amore deve servire a portare una nascita, ma prima di tutto deve servire alla nascita di noi stessi: dopo una vicenda d’amore, non dovremmo più essere quel che eravamo! L’amore, prima di far nascere la specie, deve far ri-nascere noi stessi, a riprova che "la vita è generata da amore", scrive Saffo. Queste idee avranno uno sviluppo futuro nella Stopenum, uno sviluppo recente.
In Saffo troviamo, per la prima volta, una corona che sembra attirare per se stessa lo sguardo delle Cariti, per non essere più il simbolo della catena, del castigo. Chi sono le Cariti? Le Cariti o Grazie sono ninfe, tre ninfe (Eufrosine, la lieta; Talia, la fiorente; Aglaia, la avvenente) datrici di tutto ciò che è bello e gioioso, tanto nella natura quanto nella vita di relazione: sono divinità le cui corone circondano lo spazio dedicato all’amore.
Scrive Saffo:
LEGERE MULTUM….
Saffo, Frammento 58 25
La corona delle Cariti è abrosynè (delicatezza, splendore, grazia, gusto)
io amo l’abrosynè…
Che cosa significa questa parola-chiave che non avrà fortuna tra i filosofi? Questa parola, abrosynè, non possiamo tradurla se non mescolando insieme quattro parole: la delicatezza, lo splendore, la grazia e il gusto. La abrosynè si presenta in contrapposizione a tò kalòn, la potenza della penetrazione, una categoria troppo pesante, per tutti. Mentre nella poesia ionica di Omero incoronare significa: colmare, impregnare, nella contemporanea poesia eolica di Saffo, incoronare è rivestire di delicatezza, di splendore, di grazia e di gusto. Perenne ambivalenza della corona – oggetto tragico per eccellenza – su cui, il mondo della cultura, e noi, continuiamo e continueremo a riflettere. Ricordiamocelo quando regaliamo o riceviamo in dono una collana, un anello!
Corona, ghirlanda, collana: sono la stessa figura simbolica, e si tramutano l'una nell'altra. Nella tragedia di tutti i tempi – nel senso del testo che si recita a teatro – la collana avrà e continua ad avere sempre un significato simbolico fondamentale, legando l’amore e la morte. La prima collana della tragedia, evocata nel canto del caprone, è la collana di Armonia, incontrata qualche settimana fa; questa collana la ritroviamo in una fabula di Igino, di cui leggiamo un frammento, allo scopo, di preparare la strada ad una altro racconto prossimo venturo.
LEGERE MULTUM….
Caio Giulio Igino, Le favole (I sec.)
La collana di Armonia
Quando Anfiarao lasciò il palazzo di Corinto per andare a combattere sotto le mura di Tebe sapeva benissimo, grazie alla sua veggenza, che quella spedizione gli sarebbe stata fatale. Soltanto la perfidia della moglie Erifile era riuscita a stanarlo dal suo nascondiglio perché raggiungesse il campo di Polinice: e, in compenso di quel tradimento, Erifile aveva ottenuto da Polinice la collana che Afrodite aveva donato ad Armonia. Nel cortile del palazzo, con l'elmo già calcato e la spada puntata verso il cielo, mentre i cavalli piegavano la testa impazienti, ancora tirati dalle redini, Anfiarao si volse per un ultimo sguardo, fissando innanzitutto il piccolo figlio Alcmeone. Già aveva spiegato, con pazienza, a quel bambino come un giorno avrebbe dovuto uccidere sua madre per vendicare suo padre, che ora lo salutava per sempre. Il bambino lo aveva ascoltato ridendo, distratto e giocoso, ma quelle parole gli sarebbero riaffiorate nella memoria come una filastrocca. Ora Anfiarao lo vedeva nudo, forte, che alzava le braccia in segno di saluto, su uno sfondo di donne. Altre braccia alzate si vedevano dietro di lui, bianche: erano di Demonassa, Euridice, le sue figlie, e riconosceva anche quelle scarne della vecchia nutrice. Dietro a tutte, con la testa avvolta dal manto, Erifìle: Anfiarao incontrò il suo sguardo freddo, che lo emulava nell'odio. Un braccio di lei era nascosto: lo teneva abbassato, e dalle sue dita pendeva, enorme e splendente, la collana di Armonia, una ghirlanda di luce dorata che sfiorava la terra.
"Date, vi prego, a mia madre questa collana", dice Europa durante il suo viaggio sulla groppa del bianco toro che la sta rapendo: ebbene, questa è sempre la stessa collana e allora continuiamo a tenere d’occhio le collane, corone che si muovono nella rete dei racconti con il loro significato di amore e di morte! Questa collana in particolare – ricordate non sono le perle che fanno la collana, è il filo – e il filo di questa collana lo riprenderemo quando ci troveremo nel territorio della tragedia dei Pelopidi: lì ritroveremo la collana di Armonia. Ma che cos’è la tragedia dei Pelopidi? Lo sapremo fra qualche settimana, non la prossima, perché la settimana prossima ci aspetta Odisseo, che naturalmente ha qualcosa da raccontarci.
Sapete che cosa racconta la tragedia di Odisseo? Accorrete, la Scuola è qui!
Prometeo ruba il fuoco, ruba il fuoco del sapere: il fuoco illumina, fa conoscere, sa far pensare, ma il fuoco, brucia anche! Sapete che nell’avvicinarci al fuoco della conoscenza ci si avvicina alla luce, ma si rischia anche di bruciare, di bruciarsi. Vale la pena rischiare, Odisseo ha rischiato: rischiate anche voi…