Autorizzazione all'uso dei cookies

LO SGUARDO DI HEGEL SULL’ADULTITUDINE DI PENSIERO ...

Lezione N.: 
29

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sguardo di Hegel  2007     30-31  maggio  -  1  giugno 2007

LO SGUARDO DI HEGEL 

SULL’ADULTITUDINE DI PENSIERO ...

     La scorsa settimana abbiamo studiato le figure, le famose Gestalten presenti nel capitolo sull’Autocoscienza della Fenomenologia di Hegel: la figura del servo-padrone, la figura dello stoicismo, la figura dello scetticismo e la figura della coscienza infelice; attraverso queste figure (come se fossero le stazioni della via crucis) la coscienza soggettiva diventa autocoscienza responsabile.

     Hegel, con le figure dell’autocoscienza, vuole spiegare, vuole far apparire (fenomé) come l’itinerario dello spirito individuale corrisponda all’itinerario dello Spirito universale nella storia: infatti la figura del servo e del padrone fa riferimento alla storia antica, al concetto della corvée (quando il servo lavora in cambio del vitto e della protezione), le figure dello stoicismoe delle scetticismo fanno riferimento alla storia greca e romana, la figura della coscienza infelice si riferisce alla storia medievale. Quindi la storia dello spirito individuale ripercorre la Storia dello Spirito universale.

     Dalla Fenomenologia dello Spirito di Hegel proviene un preciso suggerimento didattico che la Scuola deve cogliere – e soprattutto per questo motivo ci siamo occupate/occupati di quest’opera – il quale consiste nel fatto che per intraprendere un viaggio nella nostra coscienza e per passare al piano dell’autocoscienza dobbiamo studiare a scopo propedeutico la Storia dello Spirito e, quindi, dobbiamo incamminarci su un Percorso di Storia del Pensiero. Alla luce della Fenomenologia dello Spirito l’alfabetizzazione culturale assume un importante valore politico, sociale e collettivo.

     Sappiamo già che l’autocoscienza, scrive Hegel, proseguendo nel suo itinerario, attraverso l’allegoria del servo-padrone raggiunge le figure dello stoicismo e poi dello scetticismo. Con queste due figure – abbiamo studiato – l’autocoscienza entra in contrasto con se stessa e questo contrasto dà luogo ad uno sconforto che produce una nuova figura: la figura della coscienza infelice. Quali sono gli effetti della coscienza infelice? Leggiamo le parole di Hegel:

LEGERE MULTUM….

Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Fenomenologia dello Spirito (1807)

L’autocoscienza, con la figura della coscienza infelice, sente il contrasto – già avvertito dallo scetticismo – non come opposizione fra coscienze singole, ma come dissidio tra una coscienza immutabile che è quella divina e l’altra mutevole che è quella umana. L’autocoscienza, con la figura della coscienza infelice, reagisce e incontra la devozione e l’ascetismo: questa figura è tipica della religiosità medioevale che riconosce la miseria e l’infelicità della carne e cerca di liberarsene unendosi con Dio, cioè unendosi con la coscienza immutabile. (Questa è la via della Religione – la scorsa settimana abbiamo già riflettuto su questo concetto – in particolare del Cristianesimo: è la via della fede che può attenuare l’infelicità)

In virtù di tale unificazione la coscienza riconosce di essere essa stessa la Coscienza Assoluta e cioè di essere ogni realtà. Questa consapevolezza innalza la coscienza allo stadio della ragione, che non considera più il mondo in opposizione con se stessa ma lo riconosce come propria concreta espressione. Dapprima la ragione si pone come osservatrice.

     La Fenomenologia dello Spirito, cioè la storia del cammino del nostro spirito individuale, percorre secondo Hegel un itinerario che passa, quindi, attraverso la coscienza, l’autocoscienza e la ragione e, come abbiamo letto ora, la figura della coscienza infelice fa emergere il piano della ragione.

     La prima caratteristica che la ragione possiede, scrive Hegel, è quella di porsi come osservatrice. La ragione, scrive Hegel,, in primo luogo ricerca se stessa osservando la natura e questo momento corrisponde – nell’itinerario dello Spirito che ha già attraversato la storia dell’Umanità – al naturalismo rinascimentale del XVI secolo e poi, attraverso la scienza, corrisponde all’empirismo moderno del XVII secolo. Purtroppo le leggi scientifiche, scrive Hegel, appaiono astratte di fronte alla concretezza della natura e di conseguenza la ragione, delusa dalla scienza, abbandona il suo atteggiamento di osservatrice.

     E allora subentra nella ragione, scrive Hegel, un atteggiamento attivo: la ragione muove alla propria ricerca non più nelle cose ma in se stessa, nel suo essere pratico, trasformandosi da ragione osservatrice in ragione attiva.

     Dapprima la ragione – come nel Faust di Goethe, scrive Hegel – va alla ricerca del piacere sensibile immediato, ma nella ricerca del piacere impulsivo la ragionenon trova quell’appagamento intellettuale che la mette di fronte alla realtà oggettiva. Se la ragione si ferma al piacere sensibile immediatonon riesce ad avere una visione del proprio destino né a crescere dal punto di vista umano.

     Allora la ragione tenta di appropriarsi del proprio destino vivendo con la legge del cuore, e qui Hegel allude al movimento romantico, allude alla sua contemporaneità, allude al mondo dei sentimenti come viene rappresentato nella letteratura del romanticismo, dalle Confessioni di Rousseau ai Masnadieri di Schiller (due opere che abbiamo studiato a suo tempo e che Hegel conosce bene).

     La ragione, scrive Hegel, cerca di imprimere la legge del cuore, cioè il primato dell’interiorità,  negli eventi del mondo.

     Infine poiché la legge del cuore, non essendo utilitaristica ma disinteressata, urta, scrive Hegel, contro l’utilitarismo della legge di mercato, la quale sembra imporsi come una potenza superiore, la ragione attiva capisce di doversi rendere disinteressata, e di conseguenza vive il suo terzo momento: quello della virtù.

     Quindi nel suo tragitto la ragione assume tre aspetti: dapprima  è osservatrice, poi è attiva,  e dopo è virtuosa. Lo scopo pratico della ragione che si fa virtù, scrive Hegel, è quello di far trionfare la giustizia.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Rifletti sui tre aspetti della “ragione” descritti da Hegel: che cosa hai potuto osservare (la ragione osservatrice) di interessante ultimamente? … A quale attività (la ragione attiva) ti sei dedicata/dedicato con soddisfazione in questi ultimi tempi? … Quale delle tre virtù teologali – fede, speranza, carità – metteresti, oggi,  al primo posto (la ragione virtuosa)?…

Scrivi quattro righe in proposito…

     E ora leggiamo che cosa scrive Hegel in proposito:

LEGERE MULTUM….

Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Fenomenologia dello Spirito (1807)

Lo scopo della ragione che si fa virtù è quello di far trionfare la giustizia anche se per questo l’intero mondo dovesse risultarne distrutto. Questa pretesa di ricondurre la realtà del mondo, che è l’essere, all’ideale della virtù che è un dover essere, è però anch’essa destinata a fallire: il mondo, proprio perché concreto, non si lascerà mai piegare a quell’astratto vagheggiamento che è la virtù. Ed ecco allora la ragione realizzare attraverso l’eticità la conciliazione di essere e dover essere: è un’eticità concreta, in antitesi con l’astratta moralità perseguita dalla virtù, che si attua nelle forme storiche che disciplinano la vita delle persone. Nelle istituzioni e nelle leggi, nel diritto e nello Stato, nella famiglia e nella società cessa ogni pretesa della ragione di ricondurre l’essere al dover essere e si placa quella inquietudine che aveva spinto lo spirito ad errare attraverso la triplice vicenda della coscienza, dell’autocoscienza e della ragione.

     Con il concetto della ragione che si fa virtù termina la prima parte (formata da Introduzione, Coscienza, Autocoscienza, Ragione) della Fenomenologia dello Spirito: la prima parte della Fenomenologia ha soprattutto un significato teorico, dopodiché inizia la seconda parte che ha un significato eminentemente pratico. E lo scopo pratico della ragione che si fa virtù, scrive Hegel, è quello di far trionfare la giustizia, ma perché la giustizia trionfi è necessario che l’eticità diventi una cosa concreta e non rimanga un’aspirazione, un astratto vagheggiamento, e allora è fondamentale il ruolo delle istituzioni, delle leggi, dello Stato.

     Noi sappiamo che ultimamente il concetto dello Stato forte, dello Stato autorevole, che Hegel ha contribuito a introdurre nella storia degli ultimi secoli, è stato duramente contestato. Apparteniamo ad una generazione (post-hegeliana?) che ha assistito alla denuncia dell’invadenza dello Stato, che ha assistito alla caduta degli Statalismi che hanno fallito il loro compito di produrre eticità e di far trionfare la giustizia, apparteniamo a una generazione che assiste al trionfo e, contemporaneamente spesso alla debacle, del liberismo, che oggi domina il mondo (ma lo ha forse cambiato in meglio?), il quale vede nelle regole imposte dallo Stato (per quanto leggero sia) un impedimento agli affari che dovrebbero produrre ricchezza per tutti. Assistiamo anche al paradosso che, quando il liberismo fallisce (alla fine di ogni ciclo di sfruttamento), qualcuno – nonostante lamenti l’invadenza dello Stato – incamera ugualmente profitti chiedendo aiuto allo Stato, pretendendo che lo Stato diventi assistenziale (piuttosto che solidale). Siamo una generazione che assiste alla crisi dello Stato e ai conseguenti vuoti che si creano e che spesso vengono riempiti dai prodotti di una nuova forma di invadenza: quella dei cosiddetti mezzi di comunicazione di massa.

     Le problematiche sono tante e complicate: chissà che cosa direbbe Hegel, oggi? Sarebbe deluso avendo sostenuto l’idea dello Stato come strumento propulsore dell’eticità intesa come la sintesi del Diritto e della Morale? Che cosa direbbe oggi Hegel non lo sappiamo: continuiamo a riflette su quello che ha scritto, sugli aspetti che possono essere utili per costruire, nel nuovo scenario mondiale, la convivenza tra le persone e tra i popoli.

     La virtù, per non diventare e per non essere (un’illusione, una pia intenzione, un’ipocrita esibizione) un astratto vagheggiamento, scrive Hegel, deve entrare in corrispondenza con la ragione legislatrice, con la ragione che esamina, conosce e capisce le leggi. Abbiamo letto poco fa che cosa scrive Hegel: «La ragione realizza un’eticità concreta che si attua nelle forme storiche – la famiglia, la società, lo Stato – che disciplinano la vita delle persone».

     Su questo punto, ancora una volta, Hegel entra in polemica con Kant. La semplice universalità della legge (il fatto di avere la legge morale nel cuore), scrive Hegel in polemica con Kant, non basta a far conoscere se una determinata scelta sia buona o non sia buona. Solo la ragione legislatrice che si concretizza nello Stato, scrive Hegel, può dare delle leggi precise.

     E qui Hegel si pone e pone un problema che (da che mondo è mondo) è sempre di attualità: ma quando una legge è giusta? Nella Fenomenologia dello Spirito Hegel risponde in modo sintetico (approfondirà queste tematiche nelle opere successive dando anche delle risposte contraddittorie tra loro che hanno innescato tutto quel meccanismo interpretativo che rende vastissimo il campo degli studi hegeliani). Hegel scrive: «Una legge è giusta quando corrisponde a quanto esige la Storia, tenendo presente che il soggetto della Storia è lo spirito di un popolo organizzato in uno Stato Le leggi quindi non possono essere comandi arbitrari di una coscienza singola (si capisce che Hegel ha letto la Repubblica di Platone), ma la legge, prosegue Hegel, è la volontà pura e assoluta di tutti, e le leggi devono essere vissute dal singolo individuo: in questo consiste l’eticità».

     Qui Hegel pone un problema didattico molto importante: le leggi dovrebbero essere essenziali, scritte con un linguaggio comprensibile, spiegate alle cittadine e ai cittadini in modo che possano essere imparate perché è proprio attraverso la ragione legislatriceche la persona si avvicina a l’eticità che è il valore più alto dello spirito. L’eticitàè lo spirito vero, è il momento, scrive Hegel, in cui «la coscienza si riconosce come spirito». Scrive Hegel: «L’eticità è la sintesi del Diritto (che è una tesi) e della Moralità (che è un’antitesi), in quanto la legge del dovere, liberamente accettata dal soggetto morale, si determina in un bene concreto. Questo bene concreto si realizza nella famiglia (che è una tesi), nella società (che è un’antitesi) e nello Stato (che è una sintesi)».

     E – come dicevamo prima – il concetto dello Stato come sintesi depositaria dell’eticità assume con Hegel un forte carattere che condiziona (nel bene e nel male) la storia dell’800 e del ‘900, pensiamo prima di tutto allo Stato prussiano del quale Hegel partecipa alla costruzione.

     Il concetto hegeliano dello Stato come sintesi depositaria dell’eticità non è un’invenzione di Hegel e ha dei precedenti antichi ed Hegel nel testo della Fenomenologia fa un accenno che noi – da brave studentesse e da bravi studenti –abbiamo il dovere, seppur sinteticamente, di sviluppare. Scrive Hegel: « perché lo Stato prima in Oriente e poi in Occidente ». Che cosa significa questa affermazione, che lui non sviluppa: «prima in Oriente»? A che cosa si riferisce Hegel quando pensa allo sviluppo del concetto di Stato in Oriente?

     Per riflettere su questa indicazione dobbiamo ora – come abbiamo anche preannunciato la scorsa settimana – fare un rapido viaggio in Oriente, in Cina e, per la precisione, nella Cina del VI secolo a.C., in una città che si chiama Loyang che è stata denominata l’Atene del fiume Giallo. La città cinese di Loyang, dove risiede fin dal 771 a.C. l’imperatore della dinastia dei Chou, se non ha, nel VI secolo a.C., lo splendore di Atene, è però anch’essa, come Atene, uno spazio di confronto tra diverse correnti filosofiche. La corrente filosofica dominante in Cina, nell’età assiale della storia, prende il nome di ju-chia (in cinese chia significa scuola), e lo ju-chia è la Scuola confuciana, e noi abbiamo incontrato Confucio e studiato la sua opera lo scorso anno viaggiando in compagnia di Erodoto.

     Lo ju-chia, la Scuola confuciana, viene seguita dalla maggior parte dei cosiddetti letterati che ben presto però ne favoriscono la sclerotizzazione e difatti a Loyang il dibattito filosofico finisce per diventare una specie di virtuosismo logico che assomiglia poco alla maestria dei filosofi greci, i quali s’impegnano, con razionalità e con passione dialettica, nella scoperta delle leggi che reggono sia il mondo che la città. I filosofi confuciani sono dei burocrati che dettano solo delle regole formali le quali non hanno niente a che fare con l’organizzazione della polis greca, solcata da molti conflitti ma tuttavia feconda di ordinamenti democratici.

     A Loyang, nel VI secolo a.C., in contrasto con i confuciani, si sviluppa la Scuola dei logici: questa – alternativa al conformismo formalistico dei confuciani – tocca i vertici di pensiero che abbiamo conosciuto in Zenone di Elea. La Scuola dei logici, con curiosa coincidenza, fa uso degli stessi argomenti zenoniani, come quello della infinita divisibilità del segmento . Scrive uno dei maestri della Scuola dei logici: «Prendi una bacchetta lunga un piede e dividila in due parti ogni giorno e troverai che questo dimezzare non finirà mai, neppure per diecimila generazioni». La scuola di questi sofisti, in cinese, si chiamava Tsung-heng-kia, la Scuola dei filosofi capaci di sostenere qualsiasi tesi. Quindi a Loyang, l’Atene del fiume Giallo, nel VI secolo a.C., troviamo la sclerotizzata Scuola confuciana e la Scuola logica permeata di scetticismo.

     A queste due correnti piuttosto improduttive si oppone con grande zelo un personaggio che si chiama Mo-tse. Mo-tse nasce nel periodo della morte di Confucio, attorno al 480 a.C., e muore attorno al 380 a.C. (ma si tratta di date piuttosto incerte). Mo-tse ha scritto un’opera che (secondo la tradizione cinese) porta il suo nome e constava di 81 trattati, di cui ce ne restano 53, che però solo in minima parte possono considerarsi autentici (molti di questi trattati sono stati scritti successivamente dai suoi discepoli). I trattati di Mo-tse sono orazioni, sono dissertazioni il cui tema ricorrente è la salvezza della nazione e il cui bersaglio principale è la Scuola dei letterati, dei confuciani.

     A giudizio di Mo-tse, sono due i vizi dei confuciani: il primo è l’aver ridotto il servizio dello Stato a un complicato cerimoniale privo di senso (ad esempio, un figlio rimasto orfano – per esaltare la pietà filiale, predicata da Confucio – deve restare in lutto per tre anni, astenendosi fra l’altro dalla vita pubblica), il secondo vizio è quello di aver creato l’indifferenza religiosa. Con questi vizi, secondo Mo-tse, lo Stato va in rovina. Alle raffinatezze cortigiane dei letterati confuciani, Mo-tse contrappone una visione autoritaria dello Stato e all’indifferenza religiosa contrappone il ripristino della religiosità tradizionale con l’applicazione del monoteismo (il nome del Dio unico corrisponde alla parola Cielo).

     Mo-tse proviene da una famiglia di guerrieri, cioè da una classe sociale che era stata il nerbo dello Stato ma che, con la crisi dell’impero, si era disgregata in gruppi di cavalieri erranti pronti a tutte le avventure. Mo-tse crea attorno a sé una Scuola che assomigliava a una pattuglia militare (fa venire in mente Ignazio di Lojola con la sua Compagnia dei Gesuiti) rigidamente organizzata. La pattuglia dei filosofi-soldati è destinata a ristabilire la pace tra i prìncipi che insidiano il potere dell’imperatore e rompono l’unità del paese e a far valere nella società lo spirito di disciplina, proponendo, anche con l’esempio, regole di severità spartana: il vestito deve essere appena un riparo dal freddo e dal caldo, la casa deve essere solo un rifugio, il cibo solo il nutrimento indispensabile, la famiglia deve essere un mezzo per procreare e ripopolare la Cina, perché allora c’era un bassissimo livello demografico.

     Solo con la disciplina – secondo Mo-tse – si può costruire lo Stato, disciplina che riguarda i vari gradi della gerarchia dello Stato, al cui vertice c’è l’imperatore, il quale deve essere il più disciplinato di tutti perché ha anche lui un superiore, il superiore più esigente: il Cielo. E il Cielo punisce le sue disobbedienze: se l’imperatore non agisce secondo giustizia il Cielo scatena calamità di ogni genere. La necessità di un principio che garantisca la corrispondenza tra autorità e rettitudine spinge Mo-tse a fare appello non solo alle sanzioni del Cielo ma anche a quelle degli spiriti, che fanno parte di una  tradizione mitica e sono l’edizione popolare del potere celeste. Difatti solo col timore degli spiriti – afferma Mo-tse – è possibile mantenere il popolo nell’ordine.

     Contro i confuciani, che sollevano dubbi sull’esistenza degli spiriti, Mo-tse usa argomenti molto pratici: o gli spiriti esistono, e allora è giusto celebrare riti in loro onore, o non esistono, e allora le celebrazioni valgono comunque perché il banchetto rituale è una buona occasione per far affratellare la gente.

     È chiaro che anche in Mo-tse si afferma l’indole cinese, che è di porre tutti i valori, anche quelli religiosi, al servizio dell’utilità comune: anche il Dio di Mo-tse (il Cielo, in linguaggio cinese) non è che il supremo principio di legittimità del potere imperiale, del potere dello Stato (la Divinità non è necessario che esista), dal quale discendono per delega, tutti gli altri poteri. A questa logica non si sottrae nemmeno la dottrina che ha meritato a Mo-tse una fama universale: la dottrina dell’amore. La dottrina dell’amore, in cinese Kieng-ngai, di Mo-tse fa pensare all’insegnamento di Gesù di_Nazareth: Gesù sarebbe il Mo-tse dell’Occidente. Già Confucio – abbiamo studiato l’anno scorso – ha affermato con anticipo di secoli la massima evangelica: «Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te, e fa’ agli altri ciò che vuoi sia fatto a te», ma l’aveva limitata alla benevolenza reciproca, escludendo il perdono delle offese e, di più, l’aveva confinata dentro una nozione di prossimo ricalcata sul primato dei rapporti familiari.

     Questo amore particolare (usa benevolenza solo nei confronti di quelli della tua famiglia) di stampo familista (pien-ngai) è, secondo Mo-tse, fonte di discriminazioni. L’amore, per essere universale, deve offrirsi nella stessa misura tanto alla madre, ai figli, quanto alla persona più lontana e sconosciuta, senza alcuna distinzione. Solo per questa via – afferma Mo-tse toccando di nuovo la corda dell’utilitarismo –solo cioè per la via del bene universale, si ottiene, di riflesso, il bene particolare.

     Ma le persone eccezionali, a cui si rivolge di preferenza Mo-tse, saranno libere anche dall’utilitarismo, sottoponendosi alle più dure rinunce per amore della giustizia universale. Scrive Mo-tse: «Uccidere una persona per salvare il mondo non è agire nell’interesse del mondo. Sacrificare se stessi per salvare il mondo, questo sì è agire per il bene del mondo! »

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Con l’atlante, con l’enciclopedia, con la rete fai una ricerca e una visita virtuale alla città cinese di Loyang: se Loyang è chiamata l’Atene del fiume Giallo significa che la Cina è vicina, buon viaggio…

     Nella Fenomenologia dello Spirito appare evidente il progresso che si è determinato nella definizione del concetto dello Stato. Hegel non parla di disciplina come adesione incondizionata ma parla di eticità cioè di vigilanza sul fatto che le leggi scaturiscano dai princìpi. Hegel non parla di ubbidienza acritica (l’ubbidienza non è una virtù) ma parla di coscienza, di autocoscienza e di ragione legislatrice. È attraverso la ragione legislatrice– l’educazione civica, l’educazione alla legalità – che la persona si avvicina a l’eticità che è il valore più alto dello spirito. L’eticitàè lo spirito vero, è il momento, scrive Hegel, in cui «la coscienza si riconosce come spirito» e sale sul gradino dell’autocoscienza perché coglie la sintesi tra il Diritto e la Morale.

     Il primo capitolo della seconda parte della Fenomenologia di Hegel è dedicato allo Spirito: in questo capitolo Hegel costruisce una vera e propria filosofia della storia. Hegel vuole descrivere come lo Spirito cerca la sua libertà attraversando la storia dell’Umanità e le diverse civiltà che si sono succedute nella storia del mondo: Hegel analizza la civiltà antica greca e romana, quella medievale dell’umanesimo, quella moderna rinascimentale e dell’empirismo scientifico, quella illuministica e quella romantica.

     Il primo momento di questo capitolo s’intitola: Lo spirito vero, l’eticità ed è una straordinaria interpretazione del mondo antico; i primi due paragrafi riguardano il mondo greco, un argomento che a noi interessa particolarmente perché siamo appena arrivati da un viaggio nel mondo greco in compagnia di Erodoto. Il mondo greco è sempre stato al centro degli interessi di Hegel e della sua generazione (delle/degli intellettuali romantici) e questo fin dai tempi della sua formazione giovanile all’istituto Stift di Tubinga dove lo abbiamo seguito lo scorso anno. Il mondo greco per la generazione di Hegel è stato oggetto di amore, di ammirazione, di nostalgia.

     Le pagine che Hegel dedica al mondo greco nella Fenomenologia dello Spirito sono tra le più interessanti perché l’argomento è particolarmente sentito da lui (diversamente per la civiltà romana per la quale non nutre molta simpatia: preferisce la polis greca piuttosto che l’impero romano). Nel mondo greco Hegel vede delle contrapposizioni, dei contrasti fondamentali, utili per intraprendere una riflessione esistenziale. Sappiamo che Hegel considera la contraddizione, il contrasto, l’aporia (parola-chiave e idea-cardine del movimento della sapienza poetica orfica) come elementi fondamentali per garantire il passaggio dalla coscienza all’autocoscienza e l’ingresso della coscienza sul terreno della ragione in quanto osservatrice, pratica, virtuosa e infine legislatrice dove l’autocoscienza s’incontra con lo Spirito.

     Nella polis greca uno dei contrasti più evidenti è quello tra la legge umana e la legge divina. Hegel considera questo tema molto importante: ci sono leggi non scritte (valori di principio) che vanno osservati ma contemporaneamente vale anche il principio che le leggi umane andrebbero sempre, comunque, rispettate. Questo è un dilemma che Hegel sente particolarmente: è stato rivoluzionario ma è anche conservatore. Questa contrapposizione viene drammaticamente presentata nel testo della tragedia greca che Hegel preferisce: l’Antigone di Sofocle. Ebbene, nel lungo capitolo dello Spirito della Fenomenologia, Hegel coglie l’occasione per fare un grandioso commento filosofico di questa tragedia nella quale il contrasto tra la legge umana e la legge divina rimane aperto.

     La tragedia di Sofocle (496-406 a.C.) intitolata Antigone è un’opera molto famosa: ricordiamo che, quest’anno, il Maggio Musicale Fiorentino è stato inaugurato dall’Antigone di Ivan Fedele. L’Antigone di Sofocle è stata rappresentata, per la prima volta, in Atene, nel 442 o nel 441 a.C. e così siamo tornati, ancora una volta, nell’Atene del V secolo a.C.. I grammatici alessandrini c’informano che, in seguito al successo di quest’opera, a Sofocle viene assegnata una carica pubblica e risulta effettivamente che Sofocle in quegli anni ha partecipato, come stratega, ad una spedizione militare.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Dall’Antigone di Sofocle derivano molte altre opere omonime che hanno caratterizzato la produzione teatrale (musicale e non) europea: l’elenco è lunghissimo noi ricordiamo per tutte l’Antigone di Vittorio Alfieri (1749-1803), ideata nel 1776 e pubblicata nel 1783 se volete, con l’enciclopedia o sulla rete, potete fare una ricerca sulle ‘Antigoni’

     Nell’Antigone – ed è per questo che Hegel ne fa l’esegesi nella Fenomenologia – si svolge un grande duello di idee tra le leggi divine, sante e inviolabili, che andrebbero osservate e le leggi civili, utili e opportune che andrebbero altrettanto rispettate. Sulla scena di questa tragedia da una parte c’è una fanciulla, Antigone, e dall’altra c’è un re potente e autoritario, Creonte. In mezzo c’è il cadavere di un nemico della patria, Polinice, il fratello di Antigone che il re vuole sia dato in pasto agli uccelli, e la sorella vuole pietosamente seppellire. L’antefatto di questa tragedia appartiene alla cosiddetta saga tebana e difatti l’Antigone riprende la vicenda descritta in una tragedia precedente: Sette contro Tebe di Eschilo.

     Polinice ha condotto la spedizione dei Sette contro Tebe contro la sua città che è governata dal fratello Eteocle (ricordiamo che Polinice ed Eteocle sono i figli di Edipo) e tanto Polinice, che attacca Tebe, quanto Eteocle, che la difende, muoiono in battaglia. Ad Eteocle vengono resi gli onori funebri, mentre al traditore Polinice, secondo il diritto greco, non spetta la sepoltura in patria, ma solo oltre i confini. Tuttavia Creonte – che dopo la duplice uccisione dei due fratelli ha assunto il potere a Tebe e vuole dare una severa lezione a chi tradisce la patria – si spinge oltre e nega al cadavere di Polinice ogni tipo di sepoltura (che il suo corpo sia mangiato dagli uccelli!), emettendo un editto che decreta anche la morte per i trasgressori, per chi, preso dalla pietà, cerchi di dare sepoltura a quel corpo. Al decreto di Creonte si oppone l’altra figlia di Edipo, Antigone, che tenta, per due volte, di dare sepoltura alla salma di Polinice. Dapprima essa riesce, non vista, a coprire il corpo del fratello morto con uno strato di polvere, ma quando le guardie di Creonte hanno nuovamente scoperto la salma, essa torna e, nel nuovo tentativo di dargli una sepoltura simbolica, viene scoperta.

     Qui comincia la tragedia di Sofocle: dopo un canto corale in cui si esaltano le conquiste dell’intelligenza umana, entra in scena la guardia recando la colpevole appena catturata Antigone. Comincia a questo punto il dialogo, serrato e intenso, fra la fanciulla e il re Creonte. Antigone è impegnata ad esprimere le ragioni che l’hanno spinta a trasgredire, a disubbidire al decreto regio, da lei ritenuto empio, e Creonte è impegnato a rivendicare ai decreti e alle leggi fatte da chi governa l’autorità indiscutibile del diritto. Tra i due non c’è comunicazione, perché entrambi ragionano su due livelli diversi: Sofocle vuole sia così per imbastire una grande riflessione esistenziale. Prevale la ragione del più forte e, nonostante gli interventi della sorella di Antigone, Ismene, e di Emòne, il figlio di Creonte, che è il fidanzato di Antigone, la fanciulla viene condannata e condotta in una grotta dove sarà sepolta viva. Emòne vuole indurre suo padre a cambiare parere, non tanto per i suoi sentimenti nei confronti di Antigone, quanto a motivo della solidarietà che il popolo nutre verso la fanciulla. Ma Creonte resta ancor più fermo nella sua posizione, affermando che non spetta al popolo comandare ma spetta a lui, come supremo magistrato della città, far rispettare la legge. Di fronte a questa perentoria rivendicazione di potere, Emòne si allontana pronunciando parole in cui minaccia il suicidio.

     Dopo che il coro ha celebrato la potenza di Eros, Antigone rientra in scena ed esprime, in un uno struggente monologo troncato dal brutale intervento di Creonte, il rimpianto per tutto ciò che si accinge a lasciare. E mentre Antigone si avvia verso il suo infelice destino, sul palcoscenico compare l’indovino Tiresia, che in nome degli dèi cerca di convincere Creonte a permettere la sepoltura del cadavere. E quando Tiresia lancia una terribile maledizione contro Creonte perché paghi con la sua carne e il suo sangue l’empietà commessa, il re decide di mutare la sua decisione.

     Ma ormai è troppo tardi: quando va a far liberare Antigone dalla caverna, la trova impiccata con la propria cintura, ed Emòne, dopo aver dato sfogo al suo odio verso il padre, si uccide, trafiggendosi, sul corpo di lei. Un messaggero annuncia l’accaduto ad Euridice, la moglie di Creonte, che rientra in silenzio nel palazzo per darsi anche lei la morte dopo aver maledetto il marito. Creonte resta solo con il suo rimorso

     Nella tragedia di Sofocle tutte e due le parti risultano sconfitte: Antigone paga la propria fede con la vita e Creonte assiste alla rovina della propria famiglia.

     Hegel riflette su questo fatto. Il dramma ha due protagonisti, e si può distinguere una tragedia di Creonte e una di Antigone senza che l’unità di fondo di quest’opera sia messa in discussione. Antigone difende le leggi eterne e immutabili degli dèi, che nessuna autorità umana può abbattere o trascurare: ella rappresenta un’area culturale più arcaica, fondata sul génos, cioè sui legami di sangue, e sulle ragioni dell’affetto. Creonte è invece il rappresentante dell’autorità legittima del diritto, disperatamente legato alla sua fede nella potenza dello Stato. Ma nel suo decreto (dove si proibisce la sepoltura di Polinice) affiora una grande tracotanza che si risolve in uno scarso rispetto per l’Umanità: non si può ribadire il doveroso rispetto delle leggi mediante una legge disumana.

     Il conflitto tra Antigone e Creonte, sostiene Hegel, non si configura come contrapposizione dialettica di valori astratti, ma si cala nell’interiorità dolente (nella coscienza infelice) dei due protagonisti. Così Creonte, con la sua fede incrollabile ma unilaterale nella superiorità dello Stato, precipita nella sciagura, travolto dal suicidio del figlio e della moglie, e Antigone, dopo aver scelto risolutamente la via della disobbedienza civile, si avvia, nella solitudine e nel dolore, alla morte.

     Hegel – sulla scia di Sofocle e del pensiero sofistico ateniese del V secolo a.C.  – vuol mettere in evidenza il conflitto tragico che si perpetua tra la famiglia, le leggi divine, le leggi preesistenti del génos (i legami di sangue) e il diritto pubblico che tende a prevalere: un conflitto tuttora aperto. E se Antigone è il personaggio eroico che, nella difesa dei suoi principi, non ammette compromessi e che per questa sua condotta resta sola, anche Creonte è un personaggio tragico, convinto assertore dell’assolutezza dello Stato e della sua legge, destinato a riconoscere il proprio errore solamente dopo la morte del figlio e della moglie.

     Ma, oltre a questo, allude Hegel, si profila anche un altro contrasto: quello fra l’uomo, detentore unico del potere civile e politico nell’Atene classica, e la donna la quale appare più vicina alle tradizioni gentilizie e, nonostante sia depositaria della fecondità e della vita, appare più vicina agli dèi della morte.

     Hegel è un grande ammiratore di Sofocle perché Sofocle sa infondere nel personaggio di Antigone un’intensa pienezza umana. La forza d’animo di Antigone nasce dalla sua drammatica esperienza di vita: ha visto la fine del padre Edipo, e ora la morte dei due fratelli. Antigone ha il coraggio e la risolutezza di opporsi ad una legge ingiusta. E, come tutte le grandi figure create da Sofocle, deve seguire questa via nell’estremo isolamento: Hegel definisce questo momento come quello della figura dell’anima bella. Con una tecnica drammatica usata più volte, infatti, Sofocle riesce a conferire alla protagonista un particolare rilievo contrapponendole un personaggio di indole più comune: la sorella Ismene. Questa contrapposizione mette in evidenza l’assolutezza morale di Antigone e la sua aspirazione suprema alla coerenza, anche a prezzo della morte considerata bella e nobile. Il personaggio di Ismene, pavida e remissiva, rappresenta invece la norma, con la sua deplorazione degli eccessi e l’accettazione della condizione della donna, costretta dalla necessità a non opporsi ai potenti. La coraggiosa accettazione della morte da parte di Antigone non esclude il rimpianto della vita e questo arricchisce umanamente il personaggio il quale si fa spirito”.

     E – ribadisce Hegel – lo spirito d’Antigone fa sì che, con consapevolezza, si ponga attenzione all’umanità sofferente, alla solitudine e all’infelicità umana, una situazione che Hegel chiama la notte dell’autocoscienza. La figura della notte dell’autocoscienzadescrive il momento in cui la persona è convinta di fare, pagando un caro prezzo, delle scelte fondamentali ma è anche consapevole del fatto che queste scelte, almeno nell’immediato, non servono a niente.

     Nella tragedia Antigone di Sofocle sono i morti che riscattano i morti, come prima i vivi hanno ucciso i vivi. La vita che s’intende – di cui Sofocle parla e su cui Hegel riflette – è di ordine spirituale, una vita che non muore nemmeno con la morte e che continua ad aver una forza nel mondo, anche se il corpo in cui era, sta, cadavere, lontano. È un motivo di alta efficacia: Sofocle fa morire Antigone molto presto, e la tragedia continua a svolgersi sul filo dello spiritodi lei.

     Nell’umanità messa in scena da Eschilo o da Euripide si trovano solo o vincitori o vinti, o schiavi o padroni, in Sofocle questo non avviene: vi sono e gli uni e gli altri, mescolati insieme tanto nella fortuna quanto nella sventura. Sui martiri e sui peccatori si stende una universale compassione: mentre il potere dà la vittoria a Creonte, una vittoria pagata ad amarissimo prezzo, la poesia rivendica in Antigone la gioia di morire per una causa perduta . E il problema rimane aperto…

     Ma leggiamo una pagina dall’Antigone di Sofocle:

LEGERE MULTUM….

Sofocle, Antigone (Secondo episodio)

CREONTE (Ad Antigone) Dico a te, sì a te che abbassi il capo: neghi o ammetti di aver compiuto il fatto?

ANTIGONE Sì, sono stata io, non lo nego.

CREONTE (Alla guardia) Vattene, tu guardia, vai dove ti pare; ormai sei libero; sei prosciolto da quella grave imputazione. (La guardia esce)

CREONTE (Ad Antigone) Quanto a te, dimmi semplicemente, e senza giri di frase: conoscevi l’editto, che vietava proprio ciò che hai fatto?

ANTIGONE Sì, lo conoscevo. E come potevo ignorarlo? Era pubblico.

CREONTE Eppure hai osato trasgredire questa norma?

ANTIGONE Sì, perché questo editto non Zeus proclamò per me, né Dike, che abita con gli dèi sotterranei. No, essi non hanno sancito per gli uomini queste leggi; né avrei attribuito ai tuoi proclami tanta forza che un mortale potesse violare le leggi non scritte, incrollabili, degli dèi, che non da oggi né da ieri, ma da sempre sono in vita, né alcuno sa quando vennero alla luce. Io non potevo, per paura di un uomo arrogante, attirarmi il castigo degli dèi. Sapevo bene – cosa credi? – che la morte mi attende, anche senza i tuoi editti. Ma se devo morire prima del tempo, io lo dichiaro un guadagno: chi, come me, vive immerso in tanti dolori, non ricava forse un guadagno a morire? Affrontare questa fine è quindi per me un dolore da nulla; dolore avrei sofferto invece, se avessi lasciato insepolto il corpo di un figlio di mia madre; ma di questa mia sorte dolore non ho. E se ti sembra che io mi comporti come una pazza, forse è pazzo chi di pazzia mi accusa.

CORIFEO Questa ragazza rivela l’indole fiera di un padre fiero: non sa cedere ai mali. CREONTE Ricordati però che i temperamenti troppo duri più facilmente si arrendono, proprio come il solidissimo ferro, se viene troppo indurito dal fuoco, alla fine più agevolmente si spezza e va in frantumi. E un piccolo morso, si sa, doma i cavalli più focosi: non si può permettere di fare il superbo chi è in mano altrui. Già costei aveva dimostrato la sua arroganza trasgredendo le leggi in vigore; e non contenta del primo, ecco un altro insulto, dal momento che si vanta e ride del proprio crimine. E certamente ormai io non sarei più un uomo, ma costei sarebbe l’uomo, se impunemente le arriderà un simile successo. No, sia pure figlia di mia sorella o ancora più legata nel sangue fra quanti onorano Zeus all’altare della mia casa: né costei né sua sorella sfuggiranno a morte amarissima; sì, accuso la sorella non meno che costei di aver partecipato al seppellimento del cadavere. Chiamatela. L’ho vista aggirarsi per la casa, poco fa, fuori di sé, incapace di controllarsi. Sono soliti tradirsi da sé, ancor prima di essere scoperti, quanti ordiscono nell’ombra trame delittuose. E ancor più detesto chi, sorpreso in flagrante, pretende di abbellire il suo crimine.

ANTIGONE E allora cos’altro vuoi più che avermi in tuo possesso e uccidermi?

CREONTE Nient’altro: se ho questo, ho tutto.

ANTIGONE Che aspetti dunque? Non una delle tue parole mi è sopportabile, né mai lo sia, del resto anche le mie parole sono fatte per dispiacerti. Eppure, come acquistare fama più illustre che dando sepoltura a mio fratello? E tutti costoro mostrerebbero di apprezzare il mio gesto, se la paura non sbarrasse loro la bocca. Ma fra i suoi molti privilegi il potere possiede anche quello di fare e dire ciò che vuole.

CREONTE  Tu sola, fra tutti i Tebani, la pensi così.

ANTIGONE No, la pensano come me, ma frenano la lingua per compiacerti.

CREONTE  E tu non ti vergogni a distinguerti da loro?

ANTIGONE  Non è una vergogna onorare i consanguinei.

CREONTE  E non era tuo fratello colui che cadde sul fronte opposto?

ANTIGONE  Sì, nato dalla stessa madre e dallo stesso padre.

CREONTE E dunque perché tributi all’altro un empio onore?

ANTIGONE Neppure il morto ti darebbe ragione.

CREONTE Certo, se tu lo consideri alla stessa stregua di quel sacrilego.

ANTIGONE Ma suo fratello è morto, non il suo schiavo!

CREONTE Che assalì questa terra! E lui cadde per difenderla.

ANTIGONE E tuttavia Ades desidera questi riti.

CREONTE Ma i giusti non devono ottenere gli stessi onori dei criminali.

ANTIGONE Chi può dire se fra i morti questa legge è santa?

CREONTE Il nemico non è mai un amico, neppure da morto.

ANTIGONE Io sono fatta per condividere l’amore, non l’odio.

CREONTE E allora, se vuoi amare, scendi sotto terra e ama i morti. Io, finché vivo, non prenderò ordini da una donna.

     «Io sono fatta per condividere l’amore, non l’odio»: questo è il verso fondamentale della tragedia, questo è il pensiero che Sofocle vuole mettere in evidenza. Questa è la voce dello spirito di Antigone che si manifesta secondo Hegel nella figura della notte dell’autocoscienza che rappresenta un ulteriore momento propulsivo perché lo spirito si fa consapevole del fatto che l’alba è vicina quando la notte è più fonda e quindi, nonostante l’oscurità, lo spirito coglie ogni barlume per rimanere sempre in cammino: per necessità, per avventura, per passione, per conoscenza. La notte dell’autocoscienza è il punto centrale dell’ultimo capitolo della Fenomenologia dello Spirito dedicato al Sapere assoluto.

     Ebbene la Fenomenologia dello Spirito termina con la figura del Calvario: tutti abbiamo presente questa figura. Se noi vogliamo raggiungere il sapere, se noi vogliamo essere protagonisti della resurrezione speculativa (la speculazione è la ricerca interiore), scrive Hegel, dobbiamo passare attraverso il Venerdì santo speculativo. Come Gesù Cristo ha dovuto passare attraverso la sofferenza, attraverso la passione e il Calvario per giungere alla resurrezione, così la nostra coscienza per arrivare al concetto, per avvicinarsi all’essenza delle cose, deve separarsi da ciò che è sensibile, deve andare oltre la certezza sensibile, oltre la percezione, oltre l’intelletto; la coscienza deve sapersi negare, deve superare se stessa per farsi autocoscienza e per passare – come in una via crucis – attraverso tutte le figure in cui lo spirito si manifesta: questo è il percorso che conduce al sapere.

     Perché Hegel usa la figura dolorosa del Calvario? Perché la coscienza si acquieta nella comoda posizione della presunta certezza sensibile, la coscienza si aliena (questo argomento continua ad essere di grande attualità) e la reazione a questa situazione risulta lacerante.

     La Fenomenologia dello Spirito termina, come la IX sinfonia di Beethoven con due versi di una poesia di Schiller. Nella IX sinfonia i versi di Schiller sono presi dalla poesia La gioia, mentre, per concludere la Fenomenologia, Hegel utilizza due versi dalla poesia intitolata L’amicizia. La poesia intitolata L’amicizia di Schiller termina con questi due versi: «dal calice di tutto il regno delle anime spumeggia fino a lui la sua infinità». Hegel modifica questi due versi in questo modo: «dal calice di questo regno degli spiriti spumeggia fino a lui, allo Spirito assoluto, la sua infinità».

     La Fenomenologia dello Spirito termina con un finale che riflette e potenzia la sofferenza (il Calvario), e questa è una tipica tematica (autobiografica?) legata alla figura della coscienza infelice. Senza la percezione della coscienza infelice( quindi non ci lamentiamo se la figura della coscienza infelicespesso ci travaglia perché significa che abbiamo preso coscienza) non c’è reazione da parte della ragione e quindi non c’è superamento, non c’è rinascita, non c’è la condizione che porta a raggiungere lo stadio più elevato che possiamo chiamare: l’adultitudine di pensiero.

     La Fenomenologia dello Spirito di Hegel ha un utile valore didattico perché allude al fatto che per studiare (studium et cura) ci vuole coscienza, ci vuole autocoscienza, ci vuole ragione, ci vuole spirito, ci vuole tensione verso il sapere. Le famose figure – del servo-padrone, dello stoicismo, dello scetticismo, della coscienza infelice, dell’anima bella, della notte dell’autocoscienza, del Calvario – su cui la Fenomenologia ci propone di riflettere le possiamo riconoscere costantemente di passaggio dentro di noi se frequentiamo un Percorso di Storia del Pensiero Umano. La consapevolezza di questo itinerario (di questa Fenomenologia, del percorso della nostra coscienza verso lo spirito) ci porta verso l’adultitudine di pensiero. E il procedere verso l’adultitudine di pensiero è un obiettivo proposto dai Percorsi (gratuiti, graduali e continui) di didattica della lettura e della scrittura che devono fornire alla persona le competenze necessarie per poter amministrare le azioni dell’apprendimento: conoscere, capire, applicarsi, analizzare, sintetizzare e valutare”. Il leggere e lo scrivere sono tra le attività fondamentali che permettono alla persona di imparare a governare il proprio piano di studio in modo da favorire il cammino verso l’adultitudine di pensiero che è la condizione necessaria per poter gustare (la resurrezione speculativa) i repertori e i paesaggi intellettuali che le Culture Umane del Pianeta ci hanno lasciato in eredità.

     Inoltre, l’andare verso l’acquisizione dell’adultitudine di pensiero stimola nelle cittadine e nei cittadini – oltre alla volontà di conoscere (conoscere il bello) e di capire (capire ciò che è giusto) – il proposito di applicarsi (applicarsi al bene) per creare nuovi repertori culturali (l’educazione alla legalità) e per realizzare nuovi paesaggi intellettuali (l’acquisizione dell’eticità) che possano contribuire a umanizzare il Mondo. La tensione verso l’adultitudine di pensiero, in pratica, consiste innanzitutto – allude Hegel (parafrasando il linguaggio di Cicerone e di Seneca – nel prendere in considerazione ciò che è bene (a cogitare multum) invece di speculare su ciò che conviene (excogitare multa).

     Il sistema educativo di uno Stato etico non può, afferma Hegel, spingere le cittadine e i cittadini a speculare su ciò che conviene (a excogitare multa) favorendo l’appiattimento del pensiero e l’immobilità della coscienza, ma deve educare a prendere in considerazione ciò che è bene (a cogitare multum) creando la tensione verso l’adultitudine di pensiero. La tensione verso l’adultitudine di pensiero è la condizione necessaria, afferma Hegel, per seminare i valori dell’umanesimo: la legalità, la condivisione, la pace. Oggi si parla quotidianamente di educazione alla legalità: un tema complesso ma di importanza fondamentale.

     Hegel nella Fenomenologia dello Spirito pone un problema didattico molto importante: le leggi dovrebbero essere essenziali, scritte con un linguaggio comprensibile, spiegate alle cittadine e ai cittadini in modo che possano essere imparate perché è proprio attraverso la ragione legislatriceche la persona si avvicina a l’eticità che è il valore più alto dello spirito, il valore che assicura l’avvicinamento sostanziale  a l’adultitudine di pensiero. Si parla di avvicinamento sostanziale perché l’adultitudine di pensiero non è un punto d’arrivo ma una aspirazione permanente: è la tensione verso l’Educazione permanente.

     Noi, adesso, possiamo solo – in funzione della didattica della lettura e della scrittura (secondo la natura del nostro Percorso che si avvia alla conclusione) – riprendere un discorso al quale abbiamo già accennato nell’incontro con un singolare aedo contemporaneo, il poeta Alberto Cavaliere, il quale ha scritto La Chimica in versi di cui abbiamo letto l’Introduzione nel Percorso precedente in occasione della visita a Mileto, e poi Cavaliere ha scritto anche la gustosa Storia di Roma in versi (di cui abbiamo letto alcuni frammenti). Ebbene, Alberto Cavaliere, che ha fatto parte dell’Assemblea Costituente eletta il 2 giugno 1946 con il compito di scrivere la Costituzione del nuovo Stato democratico, aveva affermato – e non solo per scherzo – dopo la votazione finale del testo della Carta Costituzionale (il 27 dicembre 1947) che forse sarebbe stato necessario scriverne un testo anche in versi per favorire la conoscenza del Documento fondamentale dello Stato democratico da parte di tutti.

     A fare questa operazione didattica, a mettere in versi la Costituzione, insieme  ai suoi scolari, ci ha pensato ultimamente la maestra Anna Sarfatti. Cavaliere aveva ragione: la Carta Costituzionale sarebbe rimasta e ancora rimane un’illustre sconosciuta alle cittadine e ai cittadini italiani…

     Leggiamo alcuni frammenti da:

LEGERE MULTUM….

Anna Sarfatti, La Costituzione: abbecedario delle cittadine e dei cittadini

       Io, la Costituzione

Benvenute, benvenuti! A tutti mi presento, io sono il Documento,

il monumento dell’Italia unita, uscita e dalla guerra lacera e ferita,

che ha iniziato con me una nuova vita.

Vi metto davanti agli occhi, con le mie parole più belle, colorate farfalle:

Uguaglianza Diritto Libertà Pace Giustizia Dignità.

Mi lascerò sfogliare dalle vostre mani, vi aiuterò a capire quello che voglio dire

Per questo ho bisogno di voi, cittadine e cittadini della Scuola, della vostra intelligenza e del coraggio, ora accompagnatemi nel mio viaggio, bussiamo a ogni portone,

voi e io: la Costituzione!

... continua la lettura ...

     Nel salutare Hegel (solo in apparenza con leggerezza) che, di sicuro, incontreremo ancora nei territori che percorreremo prossimamente io aggiungerei:

La Scuola è una sorgente che dà da bere un nettare il più possibile genuino

perché ciascuna e ciascun cittadino possa procedere verso l’adultitudine di pensiero nel proprio cammino

     Queste rime non possono essere considerate poesia: sono solo un pro-memoria per ricordare che abbiamo attraversato il movimento della sapienza poetica orfica e che, quest’autunno, ci attende (come primo percorso) un viaggio nel movimento della sapienza poetica beritica. Di che cosa si tratta? La sapienza poetica beritica è il nome del complesso movimento culturale che porta alla elaborazione dei libri della Letteratura dell’Antico Testamento. La Letteratura dell’Antico Testamento è l’altro grande apparato, insieme alla Letteratura greca, su cui si basa la nostra cultura.

     Questa esperienza didattica (questa offerta formativa) riprende il suo cammino  in autunno:

Alla Scuola Redi: mercoledì 10 ottobre 2007 alle ore 20.30…

Alla Scuola Levi: giovedì 11 ottobre 2007 alle ore 20.30 …

Alla Scuola Don Milani: venerdì 12 ottobre 2007 alle ore 17 …

     Buone vacanze

     Dopo l’estate torneremo qui, accorrete: la Scuola è qui

 

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Giugno 1, 2007