Prof. Giuseppe Nibbi Lo sguardo di Erodoto 2006 23-24 - 29 (Redi) novembre 2006
LO SGUARDO DI ERODOTO
SUL PENSIERO DI ESIODO …
Siamo partiti dall’isola di Samo a bordo della nave Sidonia per attraversare, ancora una volta, il Mar Egeo da est verso ovest: siamo diretti nel golfo Maliakòs (a nord della penisola Attica), dove attraccheremo, per poi, via terra, inoltrarci verso sud, all’interno del territorio ellenico, nella regione della Beozia tra il monte Parnaso e il monte Elicona: lì c’è un personaggio che (pazientemente) ci sta aspettando: si chiama Esiodo. La scorsa settimana, durante la nostra navigazione immaginaria, ne abbiamo approfittato per dedicarci a un ulteriore viaggio virtuale. Mentre navigavamo virtualmente ci siamo spostati con la mente in Sicilia, in particolare a Santa Margherita in Bèlice presso il palazzo dei Filangeri di Cutò, e ci siamo messi sulle orme de Il Gattopardo. Il Gattopardo inteso come romanzo: il romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, un romanzo intriso di cultura orfica. E proprio per questo motivo a Erodoto e al capitano Agenore di Tiro il personaggio principale del romanzo, il principe Fabrizio di Salina, nonostante le sue “superbe affermazioni”, è risultato “simpatico”.
Questo personaggio è il frutto di una classica prosopopea orfica e lo scrittore Tomasi di Lampedusa è stato capace a far combaciare con maestria la parola poίesis, la poesia, con la parola téleios, la perfezione. Queste due parole-chiave, poesia e perfezione (insieme alle parole: albero, maschera, statua, prosopopea), si trovano ai primi posti del catalogo (che si va formando itinerario dopo itinerario) riguardante la sapienza poetica orfica. La sapienza poetica orfica è il primo importante movimento di pensiero della cultura greca: un movimento intellettuale che non ha mai cessato di evolversi e che continua a svilupparsi, sotto traccia, intorno a noi (quando mai la poesia ha cessato di esistere?).
Il successo meritato del romanzo di Tomasi di Lampedusa, nel 1958, è stato decretato dagli addetti ai lavori e da molti lettori: qualche decina di migliaia, e qualche decina di migliaia di lettori, nel 1958, erano molti: sono molti anche oggi, in quanto si stima che le lettrici e i lettori “forti” (coloro che si dedicano quotidianamente, da dieci minuti a due ore al giorno, alla lettura) siano circa cinquantamila. Quante cittadine e cittadini, a quasi cinquant’anni dalla pubblicazione, hanno letto Il Gattopardo in Italia? Un numero irrisorio, forse qualche centinaia di migliaia. Sappiamo che solo il 23% circa della popolazione adulta legge almeno un libro all’anno e questo avviene per il semplice motivo che la stragrande maggioranza dei cittadini adulti soffre (22 milioni in modo grave) di semianalfabetismo. È quindi necessario promuovere, da parte della Scuola pubblica degli adulti, una campagna di alfabetizzazione funzionale e culturale.
Il Gattopardo è un romanzo intriso di cultura orfica e questo fatto rende ancora più efficace la lettura di questo testo. La lettura di questo testo è veramente utile se chi legge conosce le parole-chiave della cultura orfica, se chi legge capisce le idee-cardine della cultura orfica. In tal caso, la lettura de Il Gattopardo (ma questa riflessione vale per centinaia e centinaia di testi intrisi di cultura orfica) permette alle lettrici e ai lettori di esercitarsi a riconoscere le forme intellettuali della sapienza poetica greca, che è una delle componenti fondamentali che costituisce la nostra dimensione culturale e che determina la struttura del nostro albero genealogico lessicale (soprattutto la padronanza della “forma” fa aumentare il gusto per la lettura).
Agenore di Tiro ed Erodoto si trovano proprio a loro agio con il testo de Il Gattopardo intriso di cultura orfica, tanto che il capitano della nostra nave, sostenuto da Erodoto, ha deciso di allungare il tragitto che ci separa dal golfo Maliakòs, e ha deciso di circumnavigare l’isola Eubea (da sud verso nord) lungo la costa occidentale. La costa occidentale dell’isola Eubea (se andate a constatare sull’atlante) si trova proprio a ridosso della penisola Attica e lì si forma uno stretto braccio di mare. Qui bisogna procedere lentamente e così possiamo permetterci di continuare il nostro itinerario virtuale (un viaggio virtuale dentro all’altro) in Sicilia, sulle orme de Il Gattopardo.
Siete andati a caccia de Il Gattopardo questa settimana? La caccia incruenta a Il Gattopardo è aperta da mercoledì scorso. Se avete avuto un incontro ravvicinato con Il Gattopardo vi sarete resi conto di persona che la complessa figura del principe Fabrizio di Salina, protagonista assoluto del romanzo, è, come quella di tutti i grandi personaggi da romanzo (compresi i personaggi dei racconti allegorici di Erodoto), profondamente ambigua: si mette e si toglie la maschera in continuazione. Il principe Fabrizio di Salina è colto, è ironico, è autoritario, è animato da un disprezzo tutto intellettuale per il genere umano: egli incarna consapevolmente i tratti di una civiltà, quella dell’antica aristocrazia siciliana, ormai al tramonto sotto i colpi della storia. Il principe Fabrizio di Salina accoglie gli sconvolgimenti profondi, provocati dagli avvenimenti storici che portano all’unità d’Italia, con scetticismo, con lo smagato scetticismo di chi è convinto che la Sicilia, l’Italia e il mondo intero, non cambieranno mai. Quelli che possono cambiare sono solo i detentori del potere: al dominio immobile degli aristocratici, succede (in Sicilia nel 1860) quello attivo, imprenditoriale e spietato della nuova borghesia, avida e incolta, ben rappresentata nel romanzo dal personaggio di Calogero Sedara, che don Fabrizio detesta profondamente e, proprio per questo, maliziosamente, lo propone come Senatore del Regno (abbiamo letto quattro pagine, la scorsa settimana, in proposito). Don Fabrizio propizia anche il matrimonio tra la bellissima Angelica (il principale personaggio femminile del romanzo), figlia di Calogero Sedàra, e suo nipote, il bel Tancredi (Angelica e Tancredi: due nomi che sono tutto un programma dal punto di vista letterario e lo scrittore non li sceglie a caso). Questo matrimonio combinato, che (per fortuna) corona anche una storia d’amore, deve servire soprattutto per rimpinguare, con la cospicua dote della sposa, le sostanze ormai esaurite della casata nobiliare.
E ora leggiamo ancora tre pagine del romanzo per assistere all’entrata in scena della bellissima Angelica che lo scrittore descrive con la consueta ironia . In queste pagine compare anche Firenze: possiamo rinunciare a questa citazione? Noi dobbiamo sapere a quale proposito viene citata Firenze ne Il Gattopardo:
LEGERE MULTUM….
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo (1958)
Il Principe aveva sempre tenuto a che il primo pranzo a Donnafugata avesse un carattere solenne: i figlioli sotto i quindici anni erano esclusi dalla tavola, venivano serviti vini francesi, vi era il poncio alla romana prima dell’arrosto; e i domestici erano in cipria e polpe. Su di un solo particolare transigeva: non si metteva in abito da sera per non imbarazzare gli ospiti che, evidentemente, non ne possedevano. Quella sera, nel salone detto “di Leopoldo” la famiglia Salina aspettava gli ultimi invitati. Da sotto i paralumi di merletto i lumi a petrolio spandevano una gialla luce circoscritta; gli smisurati ritratti equestri dei Salina trapassati non erano che delle immagini imponenti e vaghe come il loro ricordo. Don Onofrio era già arrivato con la moglie e così pure l’Arciprete che, con la mantellina pieghettata giù dalle spalle in segno di gala, parlava con la Principessa delle beghe del Collegio di Maria. Era giunto anche don Ciccio l’organista (Teresina era di già stata legata al piede di un tavolo del riposto) che rievocava insieme al Principe favolosi tiri riusciti nelle forre della Dragonara. Tutto era placido e consueto, quando Francesco Paolo, il sedicenne figliolo, fece nel salotto una irruzione scandalosa: “Papà, don Calogero sta salendo le scale. È in frack!”
... continua la lettura ...
La Scuola rinnova l’invito a leggere o a rileggere Il Gattopardo (quattro pagine al giorno, per dieci minuti al giorno) ma nono solo.
Di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, oltre a Il Gattopardo, sono state pubblicate, postume, altre opere: i saggi di letteratura francese e inglese: Lezioni su Stendhal (1971), Invito alle lettere francesi del Cinquecento (1979), Letteratura inglese (1990-1991). Oltre a questi volumi (meno facili da leggere) c’è un’altra opera di cui la Scuola deve consigliare vivamente la lettura: quest’opera s’intitola Racconti ed è stata pubblicata, sempre a cura di Giorgio Bassani, nel 1961, a quasi tre anni di distanza dall’uscita de Il Gattopardo. Questo libro è composto da tre racconti veri e propri: il primo di questi racconti s’intitola Il mattino di un mezzadro e, come ha riferito a Giorgio Bassani la moglie dello scrittore, Licy, era il capitolo iniziale di un nuovo romanzo che si sarebbe dovuto intitolare I gattini ciechi e che in un certo qual modo avrebbe dovuto rappresentare il seguito e la conclusione de Il Gattopardo. Poi, questo libro è composto da altri due racconti: La gioia e la Legge e Lighea. Lighea (o La sirena) è un racconto in cui è presente tutta l’ironia della sapienza poetica orfica: se non facciamo troppo tardi, di questo romanzo orfico in quaranta pagine, ce ne occuperemo alla fine di questo itinerario.
Inoltre nei Racconti di Giuseppe Tomasi di Lampedusa troviamo un lungo scritto autobiografico intitolato I luoghi della mia prima infanzia, che risulta essere un testo indispensabile per conoscere e per capire che cos’era Santa Margherita in Bèlice e che cos’era il palazzo Filangeri di Cutò, sede del museo del Gattopardo, che abbiamo visitato la scorsa settimana. Di conseguenza la lettura dello scritto autobiografico intitolato I luoghi della mia prima infanzia risulta indispensabile per comprendere Il Gattopardo. Il palazzo Filangeri di Cutò, nel romanzo, fa da modello alle due dimore della famiglia Salina. Accanto a un romanzo come Il Gattopardo, qualunque altro scritto rischia di scolorire, eppure anche questi racconti e le pagine autobiografiche che li seguono sono opere di prim’ordine: vengono considerate minori soltanto per la quantità, non per la qualità.
Noi ora, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, prendiamo soprattutto in considerazione il testo de I luoghi della mia prima infanzia: queste pagine, ha dichiarato Licy, la moglie dello scrittore, non erano destinate alla pubblicazione; in queste pagine c’è la descrizione di due case dei Lampedusa, quelle a cui lo scrittore era più affezionato. Queste due grandi case, una di città e l’altra di campagna, sono andate (come del resto anche le altre case di proprietà dei Lampedusa) entrambe perdute: una, quella di Palermo, distrutta dai bombardamenti nel ‘43, l’altra, quella di Santa Margherita in Bèlice (il palazzo Filangeri di Cutò), venduta, negli anni successivi alla prima guerra mondiale, dallo zio, principe Alessandro Tasca di Cutò, deputato socialista al Parlamento.
Giuseppe Tomasi scrive queste memorie, intitolate I luoghi della mia prima infanzia, (lo afferma la moglie Licy) per lenire la tristezza che lo scrittore prova per la perdita di queste dimore che erano legate ai più cari ricordi della sua vita, “un tentativo – scrive Licy a Bassani – di neutralizzare la nostalgia rievocando i ricordi connessi al tempo della sua infanzia. (La prima patria è quella dei ricordi)”.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
C’è una casa (o più di una) “perduta” (che hai dovuto o voluto lasciare…) che fa parte dei tuoi ricordi?
Scrivi quattro righe in proposito…
Non fate come ha fatto Erodoto (lo dico sottovoce per non farmi sentire perché è un po’ permaloso, ma lui lo sa che ha commesso un errore, e ora se ne rende conto) che non ha scritto neppure una parola di genere autobiografico, se non degli accenni allusivi, pensando che fosse una cosa superflua. Comportatevi invece come Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
Se oggi si visita Santa Margherita in Bèlice e il museo di palazzo Filangeri di Cutò senza aver letto i Racconti di Giuseppe Tomasi di Lampedusa si rimane molto delusi perché questo palazzo (purtroppo, e per l’incuria e per il terremoto) non è più quello che era: rivive nella scrittura, prende forma con la lettura.
E allora leggiamo alcuni frammenti tratti dai Racconti. Il primo frammento riguarda il viaggio (siamo all’inizio del 1900) da Palermo a Santa Margherita in Bèlice, un viaggio avventuroso che la famiglia Lampedusa affrontava per andare a passare l’estate nel palazzo Filangeri di Cutò di proprietà della famiglia della madre dello scrittore, Beatrice.
LEGERE MULTUM….
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Racconti (1955-1957)
I luoghi della mia prima infanzia
Il viaggio
Ma la casa di Palermo aveva anche delle dipendenze in campagna che ne moltiplicavano il fascino. Esse erano quattro: Santa Margherita Bèlice, la villa di Bagheria, il palazzo a Torretta e la casa di campagna a Raitano. Vi era anche la casa di Palma e il castello di Montechiaro, ma in quelli non andavamo mai.
La preferita era Santa Margherita, nella quale si passavano lunghi mesi anche d’inverno. Essa era una delle più belle case di campagna che io abbia visto. Costruita nel 1680, verso il 1810 era stata completamente rifatta dal principe Niccolò Filangeri di Cutò, padre di mio bisnonno materno in occasione del soggiorno lunghissimo che vi fecero Ferdinando IV e Maria Carolina, costretti in quegli anni a risiedere in Sicilia, mentre a Napoli regnava Murat.
... continua la lettura ...
Nel museo del Gattopardo di palazzo Filangeri di Cutò si può vedere una serie di fotografie che documentano l’arrivo dei Lampedusa a Santa Margherita in Bèlice come lo descrive Giuseppe Tomasi nel suo racconto. Ma leggiamo un altro frammento:
LEGERE MULTUM….
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Racconti (1955-1957)
I luoghi della mia prima infanzia
La casa
Posta nel centro del paese, proprio nella piazza ombreggiata, si stendeva per una estensione immensa e contava, tra grandi e piccole, un cento stanze. Essa dava l’idea di una sorta di complesso chiuso ed autosufficiente, di una specie di Vaticano, per intenderci, che racchiudeva appartamenti di rappresentanza, stanze di soggiorno, foresteria per trenta persone, stanze per domestici, tre immensi cortili, scuderie e rimesse, teatro e chiesa privati, un enorme e bellissimo giardino ed un grande orto.
E che stanze! Il principe Niccolò Filangeri di Cutò aveva avuto il buon gusto, quasi unico al suo tempo, di non guastare i salotti settecenteschi. Nel grande appartamento ogni porta era incorniciata dai due lati da fantasiosi fregi di marmi grigi, neri o rossi, che con le loro armoniosissime dissimmetrie suonavano una fanfara gioconda ad ogni passaggio da un salone all’altro. …
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Qui comincia la descrizione dei saloni e della biblioteca. Andate a leggere per conto vostro (adesso qui non abbiamo tempo di leggere tutto): che libri ci sono, in primo piano, nella biblioteca di palazzo Filangeri di Cutò? C’è da rimanere sorpresi (scrive Tomasi di Lampedusa) se si pensa che la biblioteca era stata formata dal principe Niccolò che era un reazionario.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Se vi dedicate alla lettura di questo libro potete scoprire anche in quale stanza della casa dormiva il giovane Giuseppe Tomasi di Lampedusa e potete anche venire a sapere quale oggetto c’era sul suo letto (uno dei pochi oggetti che si è salvato di questo palazzo) e dove si trova oggi: buona lettura e buona ricerca.
LEGERE MULTUM….
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Racconti (1955-1957)
I luoghi della mia prima infanzia
La chiesa e il teatro
Vi era anche la chiesa, che era poi il duomo di Santa Margherita. Dalla stanza delle carrozze si voltava a sinistra e, salito uno scalino, ci si trovava in un largo corridoio, che terminava poi nella stanza di studio, una specie di aula scolastica con banchi, lavagne e carte in rilievo, dove avevano studiato mia madre e le mie zie da bambine. Fu a Santa Margherita che, alla non tenera età di otto anni, mi venne insegnato a leggere. Prima mi si facevano delle letture: a giorni alternati mi si leggeva la “Storia Sacra,” e una specie di sunto della Bibbia e del Vangelo nei giorni di martedì, giovedì e sabato; e i lunedì, mercoledì e venerdì…la mitologia classica. In modo che ho acquistato una “solida” conoscenza di ambedue queste discipline: sono ancora in grado di dire quanti e quali fossero i fratelli di Giuseppe, e me la cavo fra le complicate beghe familiari degli Atridi. Prima ancora di saper leggere, mia nonna paterna era stata costretta dalla sua stessa bontà a leggermi, durante un’ora, La Regina dei Caraibi di Salgàri, e la vedo ancora mentre si sforzava di non addormentarsi leggendo ad alta voce delle prodezze del Corsaro Nero e delle smargiassate di Carmaux.
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LEGERE MULTUM….
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Racconti (1955-1957)
I luoghi della mia prima infanzia
La sala da pranzo rosa
… Un’altra delle stranezze della casa era il centro della tavola nella camera da pranzo. Esso era stabile: un grande pezzo di argenteria, sormontato da un Nettuno con tridente che minacciava la gente mentre accanto a lui un’Anfitrite faceva loro l’occhietto non senza malizia. Il tutto su una scogliera che sorgeva nel centro del bacino d’argento, circondato da delfini e mostri marini che, mediante un congegno di orologeria nascosto in una parte centrale della tavola, spruzzavano acqua dalle bocche. Un insieme certamente festoso e fastoso che, però, aveva l’inconveniente di imporre tovaglie che avessero sempre un grande buco nel centro, dal quale doveva spuntare il Nettuno. (I buchi del taglio erano mascherati da fiori e da foglie.) Nella sala non vi erano credenze, ma quattro grandi consoles, col piano di marmo rosa; e l’intonazione generale della stanza era rosa, sia per il marmo, sia per la toilette rosa della principessa nel grande quadro, sia per la tappezzeria delle sedie che era rosa anch’essa, non antica, ma di delicata intonazione.
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E per concludere un ultimo frammento:
LEGERE MULTUM….
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Racconti (1955-1957)
I luoghi della mia prima infanzia
…Sul soffitto (della colossale anticamera) Giove avvolto in una nube purpurea benediceva all’imbarco Arugerio (Ruggero II, primo normanno re di Sicilia nel 1130) che si preparava dalla nativa Normandia a salpare verso la Sicilia; e Tritoni e Ninfe marine folleggiavano attorno alle galee, pronte a salpare sul mare madreperlaceo. …
Di fronte a questa immagine che richiama la cultura orfica, ecco che, senza neppure accorgercene, a bordo della nostra nave Sidonia siamo arrivati all’approdo nel golfo Maliakòs, e, come abbiamo annunciato, troviamo ad aspettarci, non Tritoni e Ninfe, ma un personaggio che di Tritoni e Ninfe se ne intende, questo personaggio si chiama Esiodo. Esiodo sapeva (glielo avevo “mito-grafato” a suo tempo, prendendo accordi con lui) che durante il nostro viaggio virtuale avremmo fatto un altro viaggio virtuale, in Sicilia (nella Mega Ellas), in compagnia di Giuseppe Tomasi di Lampedusa; era possibile quindi registrare un ritardo da parte nostra.
Esiodo non lo sa ancora (e glielo comunicheremo strada facendo) che Giuseppe Tomasi di Lampedusa negli anni 1926-1927 collaborava con una rivista letteraria genovese (scriveva di letteratura francese e inglese) intitolata Le Opere e i Giorni. Per questo motivo Giuseppe Tomasi di Lampedusa risulterà certamente simpatico anche ad Esiodo. Perché? Lo capiremo strada facendo.
Esiodo non è venuto a prenderci con un landau (su cui viaggiavano i Lampedusa) ma con uno scené (Esiodo non è un aristocratico è un contadino). Uno scené, in greco, è un carro da trasporto più largo e più lungo (trainato da cavalli ma anche da muli) di quelli solitamente usati (trainati dai buoi) per lavorare in campagna e per piccoli spostamenti da un podere all’altro. Sullo scené viaggiavano anche gli attori che recitavano i drammi satireschi spostandosi da un villaggio all’altro nelle campagne dell’Ellade (li abbiamo incontrati e abbiamo girovagato con loro a suo tempo, nel 2003, sul percorso della tragedia). Questo tipo di carro, adattato allo scopo, lo ha utilizzato, in anteprima, Tespi, il primo attore organizzato della storia del teatro. Lo scené serve anche da palcoscenico: al centro dello scené veniva montato l’albero (fallico) che serviva da scenografia. Ora si può capire che cosa significa l’espressione: mettere in scena, che tutt’oggi viene usata regolarmente.
Questa sera, sull’albero dello scené (che funge da albero genealogico lessicale), il capitano Agenore di Tiro (esperto anche in viaggi terrestri), dopo aver ben ormeggiato la Simonia, issa le nostre bandiere: la bandiera della poίesis-poìesis, della poesia e la bandiera del téleios, della perfezione.
Esiodo, allude Erodoto, proporrà (per questo motivo lo stiamo andando a trovare a casa sua) nuove bandiere per il nostro albero genealogico lessicale: proporrà nuove parole-chiave sulla scia del movimento della sapienza poetica orfica. A bordo del nostro carro, del nostro scené, ci dirigiamo verso sud, verso l’interno del territorio ellenico, nella regione della Beozia, tra il monte Parnaso e il monte Elicona, e questo paesaggio ricorda tanto la Sicilia: così il cerchio si chiude, ma solo per un attimo, solo per il tempo di formulare una domanda: che cosa abbiamo da imparare a casa di Esiodo, a scuola da Esiodo? Questa domanda ci riporta subito sul sentiero di Erodoto.
Erodoto, nel brano che abbiamo letto due settimane fa (il capitolo 53 del libro II de Le Storie) cita Esiodo prima di Omero: forse la scelta dipende dal fatto che Esiodo è un personaggio in carne e ossa, un poeta realmente vissuto, mentre sull’esistenza di Omero, certamente, Erodoto nutre qualche dubbio. Ad Esiodo (che Erodoto cita per primo rispetto ad Omero e di cui dimostra di conoscere le opere) Erodoto riconosce la fatica (è una parola-chiave in Esiodo) di cercare le origini del Cosmo, mentre questo non avviene nelle opere di Omero. Erodoto vede in questa operazione culturale di Esiodo un lento ma graduale processo di distacco dai miti (un atteggiamento che condivide e che gli fa preferire Esiodo ad Omero). Esiodo, nell’opera intitolata Teogonia, scrive:
LEGERE MULTUM….
Esiodo, Teogonia
Solo alla fine, dopo che il Cosmo aveva più volte tremato per conto suo, Zeus spartì fra gli dèi gli onori. …
Erodoto conosce sicuramente questo verso molto significativo in cui, in modo evidente sebbene misterioso, Esiodo proclama che il Cosmo (il Mondo) esiste ben prima degli dèi e il Cosmo (il Mondo) trema (sa tremare) per conto proprio: Zeus e gli dèi vengono dopo la comparsa e la nascita del Cosmo (del Mondo). Erodoto preferisce le opere di Esiodo (anche se sono meno poetiche) rispetto a quelle di Omero.
Esiodo è, insieme ad Omero, il maggior poeta epico del periodo ionico. La figura di Esiodo non è, come quella di Omero, avvolta nella leggenda (e questo è un altro motivo per cui Erodoto preferisce Esiodo): dalle sue opere, nelle quali troviamo importanti particolari biografici, capiamo che Esiodo è vissuto realmente. Esiodo è nato nel VII secolo a.C. ad Ascra, un piccolo villaggio della Beozia posto ai piedi del monte Elicona, uno dei monti sacri alle Muse. È in questo territorio che, a bordo dello scené, stiamo viaggiando: completate voi la trama di questo viaggio che abbiamo messo in repertorio…
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Con l’atlante, l’enciclopedia, la guida della Grecia e la rete puoi fare (da Itaca, dove ci troviamo, non ci vuole molto…) un breve viaggio nella regione della Beozia visitando tre posti significativi: la cittadina di Livadiá, che è il capoluogo della Beozia (sai che cosa sono le Gole dell’Erkinas?) e poi le cittadine di Orhomenós – Orcómeno (sai chi è Minias?) e di Herónia - Cheronea (sai quale famoso personaggio è nato e morto a Cheronea?).
Buon viaggio, buona ricerca e scrivi quattro righe in proposito …
Il padre di Esiodo aveva vissuto per lungo tempo in Asia Minore (nella città di Cuma) per dedicarsi al commercio marittimo, ma gli affari non devono essergli andati molto bene e quindi era tornato in Beozia a dedicarsi all’agricoltura e alla pastorizia. La leggenda dice che Esiodo da bambino “pascolò il gregge sul monte sacro alle Muse” e, come racconta nella Teogonia, “le Muse gli apparvero e gli insegnarono il bel canto”: questa è una metafora per dire che aveva, molto probabilmente, frequentato una Scuola di sapienza poetica orfica simile alla Scuola di Samo di cui conosciamo il programma (o alla Scuola di Saffo, il Museo).
Esiodo ha avuto un fratello, Perse, il quale era uno scioperato, uno scialacquatore, un furbo: infatti Perse, alla morte del padre, cerca di far propria tutta l’eredità a scapito di Esiodo corrompendo anche i giudici. Esiodo, a questo proposito, scrive una serie di esortazioni morali rivolte al fratello che costituiscono il contenuto dell’opera intitolata Le Opere e i Giorni. Questo è anche il titolo della rivista letteraria genovese con la quale (scriveva di letteratura francese e inglese) collaborava Giuseppe Tomasi di Lampedusa negli anni 1926-1927.
Le Opere e i Giorni è un poemetto indirizzato al fratello Perse formato da 828 esametri e scritto in lingua ionica antica (la stessa lingua di Omero). Quest’opera, nel testo della quale troviamo alcune parole-chiave fondamentali nell’ottica della sapienza poetica greca, si può dividere in quattro parti: esortazioni al lavoro; precetti sull’agricoltura e sulla navigazione (che è considerata dagli esperti la parte più importante e più poetica); precetti morali; calendario dei giorni fasti e nefasti. In questo poemetto c’è un filo conduttore, un motivo fondamentale (che certamente Erodoto condivide): sulla terra, nel mondo, c’è il dolore (lúpe) e tutti gli esseri umani devono fare i conti con questa realtà. Secondo Esiodo gli esseri umani sono chiamati a misurarsi prima di tutto con il dolore (lúpe) piuttosto che con l’onore (timé): gli esseri umani non sono eroi. Esiodo spiega questo concetto raccontando il mito delle età del mondo, dall’età dell’oro a quella del ferro in cui lo scrittore registra un’involuzione nella storia dell’Umanità dovuta ad un incidente di percorso: gli esseri umani sono decaduti dall’età dell’oro (un’età paradisiaca) all’età del ferro (un’età infernale) a causa di un avvenimento non ben identificato (è il concetto del peccato originale che troviamo in quasi tutti i Racconti sulle origini). Gli esseri umani, scrive Esiodo, possono vincere (o per lo meno attenuare) il dolore (lúpe) coltivando due elementi fondamentali: il lavoro (érgon) e la giustizia (díke).
Nel testo del poemetto Le Opere e i Giorni troviamo la “favola del nibbio e dell’usignolo” che è considerato il primo esempio di favola nella letteratura greca. In questa favola l’uccello rapace aggredisce e uccide l’usignolo perché è più forte e usa i suoi artigli per fare il proprio interesse senza tener conto del valore, della bella voce dell’usignolo che delizia disinteressatamente il mondo intero: con questa favola lo scrittore vuole condannare la violenza e l’ingiustizia e vuole affermare che solo la virtù (ed è virtuoso chi si guadagna da vivere con il proprio lavoro έrgon-érgon) può rendere felici.
In funzione della didattica della lettura e della scrittura s’impone una riflessione sulle parole-chiave che caratterizzano il pensiero omerico (di cui ci siamo occupati due settimane fa) e le parole-chiave che caratterizzano il pensiero di Esiodo in modo da capire la differenza alla quale allude Erodoto. Nelle opere di Omero emerge la parola pátos che possiamo tradurre con forte emozione, emerge la parola menis che traduce il termine ira, ed emerge la parola timé che corrisponde al termine onore. Nelle opere di Esiodo emerge la parola lúpe che traduce il termine dolore, la parola érgon che significa lavoro, e la parola díke che corrisponde al termine giustizia.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Le parole “emozione”, “ira”, “onore”, “dolore”, “lavoro”, “giustizia” esprimono la “sapienza poetica” di Omero e di Esiodo (Erodoto nel testo de Le Storie utilizza spesso queste parole).
Scrivi l’elenco (componi il catalogo) di queste parole secondo l’importanza che, oggi, hanno per te (dalla più importante alla meno importante)…
La seconda opera importante di Esiodo s’intitola Teogonia ed è un poemetto in 1022 esametri. Teogonia è un trattato mitologico, il più importante trattato di mitologia antica che ci sia rimasto; quest’opera è soprattutto un dizionario di nomi sul quale gli studiosi, nel corso dei secoli, hanno potuto estendere le loro ricerche sulla cultura orfica. Particolarmente significativa nella Teogonia è il racconto della Titanomachìa, della lotta di Zeus contro i Titani, e il fatto importante è che uno dei Titani si chiama Prometeo: questo personaggio tutti lo abbiamo sentito nominare.
Esiodo è lo scrittore che mette in scena la figura di Prometeo, probabilmente il personaggio tra i più universali del mytos greco, della tragedia: un modello che continuerà, e che continua a riprodursi nella Storia della Letteratura. Chi è Prometeo nella descrizione che ne fa Esiodo? Prima di tutto Prometeo è uno degli oggetti intellettuali, uno dei repertori culturali più significativi della sapienza poetica greca ed è una raffigurazione di Orfeo. Sappiamo già, ne abbiamo parlato a lungo, che sotto traccia, alla base della sapienza poetica greca, c’è la figura di Orfeo. Prometeo non è un dìo e neppure un uomo, è un Titano e la definizione moderna di questo termine l’abbiamo trovata nel Percorso sul Romanticismo titanico: il termine titanico è sinonimo di enorme, di colossale, di grandioso, di immenso.
La parola titano è una parola-chiave della cultura del 1800. Se volessimo definire il titano Prometeo con gli schemi della cultura dell’Antico Testamento (e questo vale anche per Orfeo) dovremmo dire che questa figura è una via di mezzo tra un arcangelo, come Gabriele, che rappresenta lo strumento della potenza divina ma che potrà però anche diventare un ribelle come Lucifero, e come Adamo, il primo uomo, punito per aver voluto avvicinarsi troppo all’albero della conoscenza e della scienza, e come Lilith, la prima donna, che non vuole “stare sotto”…
Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) nelle pagine della Storia naturale cita Prometeo come il simbolo dell’essere umano che vuol conoscere per imparare, e vuole imparare per continuare a conoscere. Il personaggio di Prometeo è il protagonista, nelle opere di Esiodo, del primo racconto complesso e articolato sulle origini. Esiodo usa la cultura orfica per parlare del tema delle origini. Che cosa narra il primo racconto sulle origini che ci tramanda la sapienza poetica orfica? Prometeo, scrive Esiodo nella Teogonia, è il creatore del genere umano: è il figlio di Giapeto e di Climene (o di Giapeto e Temi secondo Eschilo) il quale d’accordo con Zeus crea l’uomo formandolo con l’argilla. Prometeo è il demiurgo, è il vasaio, è l’artigiano primordiale: questo racconto ricorre spesso nelle narrazioni che hanno per tema la “creazione”. Se non ché, mentre Zeus vorrebbe la razza umana del tutto sottomessa, schiava, priva di genio inventivo, egli, il titano Prometeo, disobbedendo al dìo, dona agli esseri umani il fuoco (dona lo spirito, dona l’anima), cioè il germe, la scintilla della conoscenza. Prometeo ruba la scintilla del fuoco della conoscenza dal carro del Sole e la porta in terra. Allora Zeus, per riassoggettare gli uomini, crea Pandora, la prima donna. Pandora è bella, avvenente, seducente ma maligna e traditrice (povere donne, non c’è cultura che non le veda e non le senta così, le prime donne!). Pandora possiede il vaso contenente tutti i mali che devono servire per contaminare la terra e indebolire gli uomini e Prometeo diffida di lei, diffida di quel modello (questo modello di donna, per lui, non è la “donna”), e non si lascia convincere: sarà suo fratello, il bonaccione Epimeteo, a farsi subito conquistare da Pandora e a cadere in tentazione aprendo il famoso vaso fatale di Pandora.
Al genere umano resterà la speranza (élpis) che stava nel vaso insieme a tutti i mali. Per trionfare sul ribelle Prometeo, Zeus dovrà usare la violenza e, per punirlo, lo incatenerà ad una roccia sul Caucaso, dove quotidianamente un avvoltoio gli roderà il fegato. Ma anche da prigioniero Prometeo non si piega: Zeus lo teme perché sa che lui conosce un segreto, è a conoscenza di un vaticinio che riguarda il destino del dìo supremo. Prometeo sa che Zeus è minacciato dalla nascita di un figlio futuro e Zeus vorrebbe sapere il quando, il come e il perché di questa faccenda che insidia la sua esistenza, e quindi gli promette, in mille modi, la liberazione, in cambio della rivelazione di tutti i particolari di questo vaticinio delle Parche che insidia l’esistenza di Zeus. Ma Prometeo non vuole tanto la salvezza, la liberazione per sé, la vuole e la chiede per l’Umanità: chiede, per il Genere umano, la liberazione dall’ignoranza: che è il male peggiore. Prometeo rivela a Zeus il segreto che lui non conosce (ma come: Zeus, il re degli dèi non conosce neppure le cose che lo riguardano da vicino? Non è né onnisciente, né onnipotente). Zeus, conosciuto il misterioso vaticinio, riconoscente, libera Prometeo (lo fa liberare da Ercole) cambiando la catena, la corona del castigo, con una retribuzione: la corona del premio. Però, poi non mantiene la promessa di liberare l’Umanità dall’ignoranza, e lo scontro continuerà e continua…
Ma Zeus aveva le possibilità di liberare l’Umanità dall’ignoranza, visto che il primo ad essere ignorante è proprio lui? Il mito di Prometeo, raccontato da Esiodo nella Teogonia, è e sarà sempre complesso, affascinante e di misteriosa vastità. Prometeo è il protettore degli esseri umani, è colui che rappresenta il loro genio inventivo e le capacità dell’ingegno umano. Prometeo è più sapiente di Zeus, incarna il potere della sapienza poetica, tanto da potergli annunciare la sua fine. L’opera di Esiodo fa l’inventario degli dèi per metterli in soffitta, per archiviarli.
La figura di Prometeo rappresenta il fatto che l’essere umano può trasformare il mondo con la conoscenza, simboleggiata dal fuoco, e questo indipendentemente dal volere di Zeus, il quale pretende che nulla cambi per mantenere il suo potere. L’ignoranza è forza: anche Zeus, suprema divinità, non ha molta voglia di studiare e d’imparare. Prometeo è l’espressione universale del pensiero umano che non è mai pago della meta raggiunta e si agita e lotta contro i limiti imposti dal Fato, dal Destino. Prometeo è il simbolo dell’essere umano che s’innalza al di sopra delle cose materiali che lo soddisfano solo parzialmente, e che supera il contingente ma non riesce mai a conquistare l’Assoluto, perché vive la contraddizione di essere a metà strada tra il cielo e la terra: questo è il destino dell’essere umano. Siamo tutti “a metà strada”, allude spesso Erodoto ne Le Storie. Prometeo è il simbolo del ribelle, di colui che coltiva una ribellione che non potrà mai essere vinta perché è l’espressione della libertà dello Spirito umano, ma Prometeo il ribelle, contemporaneamente, non sarà mai vincitore perché non è possibile modificare e infrangere l’ordine delle cose (questo è il Prometeo romantico). Il mito di Prometeo, che troviamo in origine nelle opere di Esiodo, porta anche a comprendere che la condizione umana è intessuta di contraddizioni (di aporìe): l’essere umano deve imparare a vivere nelle contraddizioni perché la vita non è un segmento lineare, ma è una trafila di continue linee spezzate (questo è il Prometeo esistenzialista) .
Questi grandi temi della Storia del Pensiero Umano sono già contenuti nel testo delle opere di Esiodo e saranno e sono temi continuamente rielaborati dalla Storia della cultura a cominciare da Erodoto.
Dobbiamo dire che il catalogo delle opere antiche, moderne e contemporanee che hanno come protagonista la figura di Prometeo è vastissimo. Tutte le età e le correnti di Pensiero (gnosticismo, cristianesimo, umanesimo, rinascimento, illuminismo, romanticismo, esistenzialismo, surrealismo, espressionismo) hanno interpretato il mito e la tragedia di Prometeo. Il Romanticismo fa della figura di Prometeo un punto di riferimento e lo abbiamo studiato. Il Romanticismo interpreta Prometeo come il ribelle indomito e ne fa uno dei suoi eroi nella prosa, nella poesia, nella musica, nel teatro, nell’arte.
Erodoto preferisce Esiodo ad Omero, preferisce il poeta contadino e pastore che dà voce alla condizione degli oppressi, dei subalterni. Per Esiodo il mondo degli Eroi è già morto, e i veri eroi sono i contadini e i pastori che vivono di onorato lavoro, non gli aristocratici “divoratori di doni”, né i perdigiorno, come suo fratello Perse, che dilapidano il frutto delle fatiche altrui. Con Esiodo comincia a farsi strada una nuova classe sociale (contadini e pastori che inurbandosi diventano artigiani, diventano creatori di manufatti) che darà vita alla polis e che, nella polis, contenderà il dominio all’aristocrazia. Ma per ora questa classe (la futura borghesia) è schiava della fatica della terra e, oltre alla terra, non può coltivare altro che la speranza. Che cosa resta infatti agli esseri umani che vivono del proprio sudore se non la speranza (élpis)? Non la speranza in un aldilà, ma la speranza che rende tollerabile la fatica in vista dei suoi frutti e che, in un mondo di sopraffazioni, si affida alla giustizia (díke) che, non tanto gli dèi, ma le Istituzioni umane dovrebbero garantire. Laboriosità (érgon), speranza (élpis), giustizia (díke): ecco l’etica di Esiodo che Erodoto condivide pienamente. Il movimento della sapienza poetica orfica, nel suo sviluppo documentato da Le Storie di Erodoto, getta le basi della cultura greca fatta di operosità (érgon), di passione civica (díke) e di tensione nel senso di contemplazione teorica (élpis).
Da questo catalogo di parole-chiave (poesia, perfezione, operosità, passione politica, tensione contemplativa) che entrano in rapporto, in sinergia, tra loro, si sviluppano le discipline che danno alla civiltà greca quello spessore che tutti le riconoscono: l’epica, la lirica, la tragedia, la storia, l’eloquenza e la filosofia. Queste discipline, gli strumenti su cui si sviluppa il Pensiero ellenico, sono intrise di cultura orfica.
Abbiamo detto che, alla fine di questo itinerario, ci saremmo occupati di Lighea, uno dei Racconti scritti da Giuseppe Tomasi di Lampedusa tra il 1955 e il 1957. Lighea (o La sirena) è un racconto in cui è presente tutta l’ironia della sapienza poetica orfica quindi risulta esemplare in funzione della didattica della lettura e della scrittura. La voce narrante, in questo racconto, è la voce stessa dello scrittore che veste gli abiti di un giovane giornalista emigrato dalla Sicilia a Torino e fa da spalla al protagonista: il senatore Rosario La Ciura . Chi è il senatore Rosario La Ciura?
Leggiamo un frammento del testo di Lighea:
LEGERE MULTUM….
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Racconti (1955-1957)
…Il mio sicilianissimo amor proprio era umiliato: ero stato fatto fesso; e decisi di abbandonare per qualche tempo il mondo e le sue pompe.
Per questo periodo di ritiro non poteva trovarsi luogo più acconcio di quel caffè di via Po dove adesso, solo come un cane, mi recavo ad ogni momento libero e, sempre, la sera dopo il mio lavoro al giornale. Era una specie di Ade popolato da esangui ombre di tenenti colonnelli, magistrati e professori in pensione. Queste vane apparenze giocavano a dama o a domino, immerse in una luce oscurata il giorno dai portici e dalle nuvole, la sera dagli enormi paralumi verdi dei lampadari; e non alzavano mai la voce timorosi com’erano che un suono troppo forte avrebbe fatto scomporsi la debole trama della loro apparenza. Un adattissimo Limbo.
... continua la lettura ...
Ma la vera protagonista di questo racconto è Lighea. Chi è Lighea? Entrerà in scena tra qualche pagina. Come è possibile che il senatore Rosario La Ciura alluda al fatto di aver sentito parlare il greco ionico come lo parlavano i Greci di 2500 anni fa? Che mistero nasconde questo personaggio?
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Fare delle rivelazioni rovinerebbe la sorpresa: scopriti tu questo mistero…
Questo racconto (sono venti pagine) merita di essere letto: lo trovi in biblioteca…
La casa di Esiodo ad Ascra, nella regione della Beozia, situata dinanzi ad una vasta piana formata da campi ben coltivati, alle pendici del monte Elicona, è una grande casa colonica (secondo la tradizione contadina) e c’è posto per tutti. La comunità rurale di Ascra (secondo l’ospitalità contadina) ci ha preparato una bella cena, il menù è quello delle battiture, delle vendemmie, delle fienagioni, delle frangiture. Al centro della tavola c’è, già pronto, il piatto forte: che cos’è? È il tragòs (il caprone) ben condito, ben guarnito, ben arrostito. Erodoto prende la parola per ringraziare il capitano Agenore che ha saputo ben guidare lo scené che ci ha condotti, sani e salvi, fin qui, poi per ringraziare Esiodo e la grande famiglia del villaggio di Ascra che ci ospita. Poi augura buon appetito a tutti e dice: «Ho anch’io, dopo cena, un bel racconto da narrarvi, intriso di cultura orfica». Erodoto vuole celebrare il tragòs-oidos (il canto del caprone, di qui deriva la parola tragedia) anche perché è stato sollecitato da una frase (che suona come un verso poetico…) del brano tratto da Lighea che abbiamo letto: “Saranno pericolosi come tutti i doni del mare che dà la morte insieme all’immortalità”…
Ma, per noi, a questo punto, il dopocena (di cui parla Erodoto) corrisponde al prossimo itinerario. Non perdetelo: volete forse perdere l’occasione di ascoltare Erodoto che ci racconta uno dei suoi straordinari racconti allegorici? I racconti allegorici di Erodoto sono tutti intrisi di cultura orfica, tutti impregnati di sapienza poetica. Erodoto ci comunica solo un’indiscrezione: il protagonista del racconto che vuole narrarci è un poeta, è uno dei più famosi citaredi della poesia lirica orfica. Chi sarà costui? Per saperlo è necessario incontrarlo, quindi: accorrete.
La Scuola – «finzione vera, paradossale autenticità», per dirla con Fernando Pessoa – è qui …