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LO SGUARDO DI ERODOTO SULLA PAROLA “FISICA” E SUL TERMINE “LABIRINTO”…

Lezione N.: 
10

Prof. Giuseppe Nibbi      Lo sguardo di Erodoto 2007      10-11-12  gennaio 2007

 LO SGUARDO DI ERODOTO

SULLA PAROLA “FISICA” E SUL TERMINE  “LABIRINTO”…

     Ben tornati a Scuola e buon anno a tutti.

     Nell’ultimo itinerario del 2006 abbiamo visitato la penisola di Mani, nel Peloponneso: uno dei territori più affascinanti dell’Ellade. Di lì abbiamo fatto rotta verso est, abbiamo doppiato le isole Cicladi, abbiamo attraversato tutto il Mar Egeo e siamo approdati sul continente asiatico sulle coste della Ionia in una polis che si chiama Mileto e che Erodoto, nel testo de Le Storie, cita ben cinquanta volte: noi siamo approdati a Mileto perché vogliamo andare oltre le citazioni di Erodoto. Siamo arrivati a Mileto via “mare” proprio nel senso metaforico del termine, vale a dire sulla scia di questa importante parola-chiave su cui abbiamo imbastito una significativa riflessione prima della pausa natalizia.

     Il mare – allude Erodoto – ha ispirato alle poetesse e ai poeti lirici orfici un tema molto importante, di cui dobbiamo seguire lo sviluppo: il tema dell’armonia misteriosa dei contrari. Erodoto, ne Le Storie, utilizza centinaia di volte la parola “mare”, usando (come sappiamo) tre termini diversi. Erodoto utilizza il termine pélagos quando il mare fa pensare al Cielo, alla superficie navigabile, allo specchio della luce, del bene, della vita, dell’Immortalità. Utilizza il termine talassa quando il mare fa pensare all’Abisso in cui si naufraga, al baratro delle tenebre, alla voragine del male, alla sede della morte. E usa il termine póntos quando il mare diventa la metafora di qualcosa che unisce, di qualcosa che facilita la comunicazione. I primi due termini –pélagos e talassa – nominano e rappresentano il mare come sede del contrasto, mentre il termine póntos permette di riflettere sul fatto che, proprio in concomitanza con l’idea del contrasto, si tende a configurare il concetto dell’armonia.

     La parola “mare” (“pelagos”, “talassa”, “pontos”) va ad arricchire il catalogo (che si va formando strada facendo) della sapienza poetica orfica insieme alle parole: albero, poesia, perfezione, maschera, statua, prosopopea. Il mare viene considerato, per sua natura, – da principio, in origine – l’oggetto in cui i contrari si armonizzano, a cominciare dalla contraddizione (dall’aporia) più evidente: l’acqua del mare è salmastra e fa pensare alla morte, ma il mare pullula di vita. Il mare raccoglie tutte le acque e – allude Erodoto – dall’acqua traggono principio e alimento tutte le cose, e un dio detiene l’arché (il principio) di tutte le acque. L’acqua è il principio inafferrabile di tutte le cose ed è proprio per questo motivo che – allude Erodoto facendo tesoro della riflessione allegorica delle poetesse e dei poeti lirici dell’Età assiale della storia – le persone danno le spalle alla sicura terraferma per avventurarsi nel mare verso l’ignoto, rischiando il naufragio. Ma solo facendo così si può raggiungere un nuovo porto e incominciare un’altra navigazione del pensiero e poi un’altra, e poi un’altra ancora. Le nostre navigazioni del pensiero sono – secondo la natura del nostro Percorso – in funzione della didattica della lettura  e della scrittura.

     E a proposito della parola-chiave “mare” e delle metafore a cui il mare ci fa pensare non si può fare a meno di proporre la lettura o la rilettura di un romanzo che s’intitola Il postino di Neruda, pubblicato nel 1985, da Antonio Skármeta, scrittore nato nel 1940 ad Antofagasta in Cile. Il protagonista di questo libro è un giovane ex pescatore di San Antonio, in Cile, che si chiama Mario Jiménez il quale viene nominato postino dello sperduto villaggio di Isla Negra con l’incarico di recapitare la posta al solo individuo che riceva corrispondenza in quel luogo dimenticato da tutti: il grande poeta Pablo Neruda. Tra queste due persone, diversissime per cultura e per educazione, ma attratti da una reciproca simpatia, nasce un’inattesa complicità che dura solo una breve ma intensa stagione e che lascerà il segno di una profonda amicizia. Il testo di questo romanzo è insieme allegro e malinconico, comico e triste ma non è mai sopraffatto dalla tristezza.

     Abbiamo preso in considerazione Il postino di Neruda perché il vero protagonista di questo racconto è la poesia, è la sapienza poetica con la sua capacità di produrre metafore. I due personaggi da romanzo, Mario e Pablo, rimandano alla sapienza poetica orfica. Pablo, il poeta famoso, dovrebbe rappresentare Orfeo e Apollo, e Mario, il vero talento poetico, dovrebbe rappresentare Dioniso, ma lo scrittore è molto abile a far emergere in entrambi i personaggi, di volta in volta, la figura di Orfeo o Apollo (con la sua razionalità, l’armonia, l’euritmia) e quella di Dioniso (con l’istinto, la passionalità, il desiderio, l’esaltazione, la sofferenza). I due personaggi rappresentano bene il concetto orfico dell’armonia misteriosa dei contrari che trova nel mare (pelagos, talassa, pontos) la sua immagine. Leggiamo due pagine da:

LEGERE MULTUM….

Antonio Skármeta, Il postino di Neruda (1985)

Cresciuto tra pescatori, il giovane Mario Jiménez non sospettava che nella posta di quel giorno ci sarebbe stato un amo con cui avrebbe catturato il poeta. Appena gli ebbe consegnato il pacco, il poeta individuò con meridiana precisione una lettera che si diede a lacerare sotto i suoi occhi. Quella condotta inedita, incompatibile con la serenità e la discrezione del vate, incoraggiò il postino ad avviare un interrogatorio e, perché non dirlo, un’amicizia.

«Perché apre quella lettera prima delle altre?».

«Perché viene dalla Svezia».

... continua la lettura ...

     Dite anche voi un “arrivederci” a questo testo e continuate a leggerlo o a rileggerlo.

     Mentre eravamo in vacanza abbiamo raggiunto il porto di Mileto e in questa famosa polis abbiamo incontrato un personaggio con cui avevamo appuntamento. Questo personaggio si chiama Talete ed Erodoto, nel testo de Le Storie, lo cita quattro volte per mettere in evidenza la sua sapienza e le sue capacità tecniche: Talete è un ingegnere.

     Abbiamo detto poc’anzi che: dall’acqua traggono principio e alimento tutte le cose, e un dio detiene l’arché (il principio) di tutte le acque. Talete condivide pienamente questo concetto e lo elabora. Questo concetto – che dall’acqua traggono principio e alimento tutte le cose – si sviluppa attraverso i filoni del movimento della sapienza poetica orfica, attraverso l’epica, la lirica, la tragedia, la storia, l’eloquenza e, con Talete, si esplicita attraverso la fisica.

     Ed ecco che ci troviamo di fronte ad una parola significativa: la parola-chiave “fisica”. Questa parola, oggi, determina il nome di una disciplina molto importante: la fisica. La fisica è una scienza che indaga i fenomeni naturali e vuole formulare un sistema di leggi che permettano una conoscenza razionale e più esatta possibile di questi fenomeni. La fisica contemporanea ha un campo d’indagine molto preciso: lo studio della materia, dell’energia e dei loro reciproci rapporti. La fisica è la scienza che tratta del comportamento delle cose nello spazio e delle loro modificazioni nel tempo. Possiamo dire – come ci suggeriscono gli studiosi – che il cammino di questa disciplina, che si chiama “fisica”, inizia da Mileto, inizia dalla Scuola fondata da Talete.

     Dei fatti, delle situazioni, della struttura che riguarda la Scuola di Talete a Mileto noi non sappiamo nulla di certo. Conosciamo però la cosa fondamentale: l’intuizione di Talete su cui si basa la Scuola di Mileto. Talete pensa che il principio di tutte le cose (l’arché) vada ricercato, non nel soprannaturale, non nell’ultraterreno, non nel mitico, ma bensì nei fenomeni della natura. Talete pensa che il principio di tutte le cose (l’arché) vada ricercato non nelle grandi immagini mitiche create dalla fantasia delle poetesse e dei poeti nel tempo degli albori ma bensì attraverso l’analisi dei dati materiali forniti dall’esperienza. In greco il termine “esperienza” corrisponde alla parola empeiría, da cui deriva il termine “empirico” (ciò che deriva dell’esperienza), e Talete pensa che il principio di tutte le cose (l’arché) vada ricercato attraverso lo studio empirico dei fenomeni naturali. E la parola-chiave “fisica” è strettamente legata al termine “natura” per il semplice fatto che, in greco, la parola “natura” si traduce físis.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Qual è la prima parola che vi viene in mente pensando alla parola “fisica”? 

Scrivetela …

Potete anche spiegare e precisare – con quattro righe – la vostra scelta…

     Noi abbiamo già citato alcune parole-chiave legate alla parola “fisica” come: materia, energia, disciplina scolastica, esperimento.

     Quale direzione prende il movimento della sapienza poetica orfica con Talete? E, inoltre, si può ancora parlare di sapienza poetica nel momento in cui prende campo lo studio empirico dei fenomeni naturali? C’è ancora posto per la poesia, per la forma poetica?

     Prima di rispondere a queste domande dobbiamo riflettere sul fatto che siamo sbarcati sulle coste dell’Anatolia (sulla costa egea dell’odierna Turchia) e dobbiamo concentrare la nostra attenzione su altre due domande. Perché e come le polis greche compaiono e progrediscono sulla costa asiatica, sulla costa dell’Anatolia, 2500 anni fa?

     Noi sappiamo che la penisola della Grecia viene invasa dal popolo indoeuropeo degli Achei – che provengono da nord-est – attorno al 2000 a.C.. Gli Achei conquistano l’isola di Creta ed essendo culturalmente più arretrati subiscono l’influenza di questa raffinata civiltà che viene chiamata minoica dal mitico personaggio di Minosse: quante leggende, quanti racconti mitici sono legati a questo personaggio! Ce lo fa presente anche Erodoto nel testo de Le Storie.

     A questo proposito cogliamo l’occasione (approfittando della figura di Minosse citato nel testo de Le Storie) per aprire, brevemente, una parentesi sulla consapevolezza che ha Erodoto (che viene considerato il primo antropologo della storia della cultura) della distinzione tra gli avvenimenti e i miti. Erodoto, nel testo de Le Storie, comunica che Minosse appartiene ad un tempo leggendario: non all’età degli uomini ma all’età dei miti. Questo è uno dei punti nell’opera di Erodoto dove lo scrittore allude alla distinzione  tra racconto mitico e narrazione storica. Leggiamo che cosa scrive Erodoto nel libro III al capitolo 122 de Le Storie.

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Erodoto, Le Storie III  122

Infatti Policrate è il primo dei Greci, che noi conosciamo, che abbia concepito il disegno di dominare sul mare, senza contare, naturalmente, Minosse di Cnosso e qualche altro che prima di lui regnò sul mare; ma dell’epoca cosiddetta degli uomini [questo per dire che Minosse appartiene all’età dei miti] fu Policrate il primo; e aveva buone speranze di estendere il proprio impero sulla Ionia e sulle isole.

     Minosse, il mitico re di Creta, è – secondo la leggenda – figlio di Zeus e di una fanciulla che si chiama Europa: sappiamo che Zeus rapisce e seduce Europa trasformandosi in un bellissimo toro bianco. Secondo la tradizione più diffusa Minosse diventa re di Creta a danno dei fratelli Radamanto e Sarpedonte e anche Erodoto ricorda questa tradizione leggendaria nella sua opera: leggiamo.

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Erodoto, Le Storie I  173

Essendo venuti a contesa in Creta i figli di Europa, Sarpedonte e Minosse, per il potere, Minosse, che nella lotta era rimasto vincitore, scacciò dal paese Sarpedonte e i suoi fautori.

     Secondo il racconto mitico Minosse chiede a Poseidone, il dio del mare, di far emergere dall’abisso un toro, promettendo di sacrificarlo agli dèi per consacrare il suo potere a Creta. Ma il toro emerso dall’abisso è così bello agli occhi di Minosse (anche lui, come sua madre Europa, ama i tori) che vuole tenere per sé lo stupendo animale, ma questo fatto attira su Minosse la vendetta di Poseidone: il dio del mare ispira a Pasifae, la sposa di Minosse, un’irresistibile passione per il toro. Pasifae si accoppia con il toro e nasce il Minotauro, un mostro dal corpo umano e dalla testa taurina. Minosse rinchiude il Minotauro nel labirinto progettato e costruito da Dedalo (Dedalo e suo figlio Icaro, anch’essi prigionieri del labirinto (come narra un filone della leggenda, che tutti conosciamo), cercheranno di fuggire volando senza successo). Il Minotauro è un mostro feroce che si nutre di carne umana. Per vendicare la morte del figlio Androgeo, di cui erano responsabili gli Ateniesi, Minosse dichiara guerra ad Atene, la sconfigge e impone agli Ateniesi un tributo di vittime umane: ogni anno un certo numero di fanciulle ateniesi dovevano essere date in pasto al Minotauro. Qui s’innesta il ciclo di racconti sul mitico eroe attico Teseo che, con l’aiuto di Arianna (del filo di Arianna) penetra nel labirinto e uccide il mostro.

     Secondo una diversa tradizione, Minosse fu un re di proverbiale saggezza: diede ai Cretesi le prime leggi, dettate da Zeus stesso, e fu fatto giudice supremo dei morti.

     Erodoto nella sua opera, nel libro VII, – nella terza citazione che fa su di lui – ricorda la morte di Minosse, avvenuta in Sicilia. Il corpo di Minosse – secondo il mito – giace nei pressi di Agrigento ed ecco che l’eredità cretese – l’eredità dei racconti minoici interpretati dalla sapienza poetica orfica) – sbarca nella Magna Grecia.

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Erodoto, Le Storie VII  170

Si racconta, infatti, che Minosse, giunto in Sicania (che ora si chiama Sicilia) alla ricerca di Dedalo, vi perì di morte violenta [Secondo il mito, Minosse sarebbe stato ucciso dalle figlie di Cocalo, re di Camice, che non volevano fosse consegnato Dedalo]. Passato un po’ di tempo, per incitamento d’un dio, tutti i Cretesi, in massa, eccetto quelli di Policne e di Preso, venuti con una grande flotta in Sicania, avrebbero assediato per cinque anni la città di Gamico [Sorgeva sopra un’erta roccia, ai cui piedi più tardi fu fondata Agrigento] che, ai tempi miei, era abitata da Agrigentini. Alla fine, però, non riuscendo a conquistarla, né a rimanere più a lungo a lottare con la fame, se ne sarebbero andati abbandonando il campo…

     Ma chiudiamo questa parentesi e torniamo agli Achei. Gli Achei a Creta si appropriano del concetto della città-palazzo. A Creta – come tutti sappiamo – ci sono due famose città palazzo, Crosso e Festo, e per saperne di più su questi due significativi siti è utile leggere la guida della Grecia o i siti della rete. Dallo sviluppo del concetto della città-palazzo cretese nasce la polis micenea, la città Stato. Inoltre gli Achei a Creta si appropriano dell’idea del labirinto. La parola-chiave “labirinto” rimanda ad un catalogo di termini significativi: dedalo, groviglio, intrico, intrigo, guazzabuglio, ginepraio, meandro.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Vi siete mai trovate, trovati in un “labirinto”? 

Scrivete quattro righe in proposito…

     Il concetto del “labirinto” viene elaborato dal movimento della sapienza poetica orfica la quale ne trae una significativa metafora esistenziale che ha prodotto nel tempo numerosissimi oggetti culturali. Il labirinto – secondo il movimento della sapienza poetica orfica – è una situazione che, in un primo momento, produce l’angoscia dello smarrimento, l’affanno di aver perso l’orientamento, l’ansietà di non trovare la via d’uscita, ma successivamente questa situazione induce l’essere umano a farsi delle domande e a cercare pazientemente, con la ragione, delle risposte – seppur parziali – per orientarsi e per riflettere. Un esempio tipico in cui si può riscontrare questa situazione – elaborata dal movimento della sapienza poetica orfica – è il testo dell’Odissea. Odisseo non resiste alla tentazione di infilarsi in tutti i labirinti che incontra.

     Di fronte alla parola “labirinto” non possiamo fare a meno di pensare a Franz Kafka: il noto (a tutti ) scrittore contemporaneo nato a Praga nel 1883 e morto nei pressi di Vienna nel 1924. Franz Kafka si è preso cura di continuare a sviluppare il concetto del “labirinto” sulla scia della sapienza poetica orfica. Se volete fare un’escursione in un “labirinto” – seguendo il solco della sapienza poetica orfica – potete leggere o rileggere Il processo, un romanzo che Kafka ha scritto dal 1914 al 1915 e che è stato pubblicato postumo nel 1925.

     Il protagonista di questo romanzo Josef K. una mattina viene arrestato, senza essere colpevole di alcun reato e senza sapere perché: comincia per lui una lunga odissea giudiziaria. Josef K. diventa il simbolo di una condizione che non è solo storica (c’è anche la premonizione degli orrori e del buio in cui la storia d’Europa, una ventina d’anni dopo, sarebbe precipitata con la seconda guerra mondiale) ma soprattutto Josef K. è il simbolo di una condizione esistenziale: l’essere umano vive in un labirinto, in una trappola universale ed eterna che lo attanaglia senza scampo. Ma la scrittura di Kafka, oltre ad essere spietata, è talmente lucida che costringe la lettrice, il lettore, a fare i conti consapevolmente con l’angoscia, con l’affanno, con l’ansietà. Quando leggiamo Kafka dobbiamo tenere ben presente che lui non ripiega sul pessimismo: il pessimismo è, secondo il suo modo di pensare, una sterile forma consolatoria.

     Gli esseri umani vivono in un “labirinto” e un “labirinto” non è un vicolo cieco ma è un complicato reticolato di vie con un’entrata e con un’uscita, la presa di coscienza di questo fatto tiene comunque in vita la speranza, anche oltre la morte, e questa idea la troviamo nel terribile e sibillino finale (si è cominciato ad usare l’aggettivo “kafkiano”) de Il processo: di questo finale kafkiano ora non diciamo niente per nulla togliere a chi non avesse ancora letto questo romanzo. La persona è consapevole – allude Kafka – che il labirinto ha un’entrata e ha un’uscita che corrispondono alla nascita e alla morte. La persona non ha memoria della nascita e della morte non sa né dove, né quando: come può la persona – allude Kafka, ironico, – vivere (non essere persa) se non in un labirinto? E meno male che c’è il labirinto! Se non ci fosse il labirinto, se non ci fosse il complicato reticolato di vie – allude Kafka – ci sarebbe una bella strada diritta e comoda che porterebbe direttamente dall’entrata all’uscita.

     Il labirinto, il complicato reticolato di vie, fa riflette sul fatto che la vita abbia un senso riscontrabile ne l’armonia misteriosa dei contrari: c’è l’angoscia, l’affanno, l’ansietà – sentimenti che Kafka sa descrivere con straordinaria lucidità – perché c’è il sollievo, la calma, la serenità.

     Leggiamo l’incipit, l’inizio (questo possiamo leggerlo) de Il processo di Franz Kafka nella traduzione di Primo Levi. Leggiamo fino a quando compare la parola “labirinto”.

LEGERE MULTUM….

Franz Kafka, Il processo (1914-1915)

Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., poiché un mattino, senza che avesse fatto nulla di male, egli fu arrestato. La cuoca della sua affittacamere, cioè della signora Grubach, che ogni mattino verso le otto gli portava la prima colazione, quel giorno non venne. Era la prima volta che una cosa simile capitava. K. aspettò un poco; col capo appoggiato al guanciale, notò che la vecchietta sua dirimpettaia lo osservava con una curiosità per lei del tutto inconsueta, ma poi, deluso ed affamato ad un tempo, si decise a suonare il campanello. Subito bussarono alla porta, ed entrò un uomo che in quella casa K. non aveva mai visto prima. Era di corporatura snella ma robusta, e portava un vestito nero ed attillato che, come certi abiti da viaggio, era munito di varie pieghe, tasche, fibbie, bottoni, e di una cintura, e che quindi aveva un aspetto particolarmente pratico, benché non si capisse bene a che cosa dovesse servire.

– Chi è lei? – chiese K., levandosi a sedere nel letto; ma l’uomo eluse la domanda, come se la sua venuta fosse una faccenda scontata, e disse soltanto: – Lei ha suonato? – Anna mi deve portare la colazione, – disse K., che frattanto tentava di stabilire, dapprima in silenzio, e usando solo l’osservazione ed il ragionamento, chi mai fosse quell’uomo. Costui tuttavia non si attardò ad esporsi ai suoi sguardi: si volse alla porta, e la socchiuse per dire a qualcuno che palesemente stava lì accanto: – Vuole che Anna gli porti la colazione – . Ci fu nella camera accanto una risatina, senza che si potesse capire dal suono se essa veniva da una sola persona o da parecchie.

L’intruso non poteva certo averne ricavato alcuna notizia che già non conoscesse prima; tuttavia si rivolse a K. e gli disse in tono ufficiale: – Non si può. – Che novità sono queste? – disse K.: saltò dal letto e si infilò rapidamente i pantaloni. – Voglio proprio vedere chi c’è di là, e che scuse troverà la signora Grubach per questa seccatura – . Si era bensì accorto subito che non avrebbe dovuto dire quelle cose ad alta voce, perché in certo modo esse comportavano il riconoscimento di un diritto al controllo da parte del nuovo venuto, ma lì per lì la cosa non gli parve importante. Comunque, l’uomo la prese in questo senso, infatti disse: – Non preferisce restare qui? – Non voglio né restare qui né parlare con lei, finché lei non si sarà presentato. – Era per il suo bene, – disse il nuovo venuto, ed aprì deliberatamente la porta. La camera accanto, in cui K. entrò più lentamente di quanto avrebbe voluto, non gli apparve a prima vista molto diversa da come era stata la sera prima. Era il soggiorno della signora Grubach: un locale strapieno di mobili, tendaggi, porcellane e fotografie. A ben guardare, tutt’al più era adesso un po’ più sgombro di prima, ma non era facile vederlo perché una variazione c’era sì, e non trascurabile: nella camera c’era un uomo, seduto con un libro in mano davanti alla finestra aperta. Alzò il capo e disse – Lei avrebbe dovuto rimanere in camera sua! Non glielo ha detto Franz? – Sì, me lo ha detto. Ebbene, lei che vuole? – disse K., guardando alternativamente la nuova conoscenza e l’uomo chiamato Franz, che si era fermato sulla porta.

Dalla finestra aperta si vedeva di nuovo la vecchia vicina, che con curiosità senile si era affacciata al davanzale di fronte per non perdere nulla di quanto accadeva.

– Insomma, io voglio la signora Grubach, – disse K., facendo l’atto di strapparsi ai due, che tuttavia erano ben lontani da lui, e di andarsene. – Niente affatto, – disse quello che stava alla finestra, gettando il libro su un tavolino e levandosi in piedi – Lei non se ne può andare: lei è in arresto. – Si direbbe proprio che sia così, — disse K., e chiese: – E perché, poi?

–  Non siamo autorizzati a dirglielo. Torni in camera sua e aspetti. Il procedimento è solo agli inizi, lei saprà tutto a tempo debito. Parlandole così amichevolmente io sorpasso i limiti del mio incarico, ma spero bene che nessuno ci ascolti oltre a Franz, e del resto anche lui le dimostra una cordialità che è fuori di ogni prescrizione. Se avrà sempre tanta fortuna quanta ne ha avuta nella nomina dei suoi guardiani, può aver fiducia nel suo avvenire – .  K. avrebbe voluto sedersi, ma si accorse allora che in tutta la camera non c’era alcun sedile fuori della poltrona di fronte alla finestra. – Vedrà che ci darà ragione, – disse Franz, avvicinandosi a K. insieme col suo collega: quest’ultimo era assai più alto di K., e gli batté più volte la mano sulla spalla. Entrambi esaminarono la camicia da notte di K. e gli dissero che adesso gliene sarebbe toccata una molto più brutta; ma loro due si sarebbero presi cura della sua camicia e di tutta la biancheria, e se il suo caso si fosse concluso favorevolmente gliela avrebbero restituita. – È meglio che la roba la dia a noi e non al deposito: al deposito ci sono spesso dei furterelli, e poi laggiù, dopo un certo tempo, vendono tutta la roba e addio, non stanno mica a guardare se un processo è finito o no. E questi processi sono interminabili, specie in questi ultimi tempi. Si capisce che alla fine lei dal deposito riceve poi il ricavo della vendita; ma prima di tutto questo ricavo è già scarso in partenza, perché all’atto della svendita quello che conta non è la misura dell’offerta ma la misura della corruzione; e poi, l’esperienza ce lo ha insegnato, passando di mano in mano, e di anno in anno, questi quattrini si riducono ancora.

K. non dava molto ascolto a questi discorsi. Non dava gran peso alla questione del suo diritto di disporre delle sue cose, posto che pure ancora ne disponesse; gli sarebbe importato assai di più che si mettesse in chiaro la sua situazione, ma in presenza di quei tipi non gli riusciva neppure di raccogliere i suoi pensieri: la guardia numero due (che altro potevano essere se non guardie?) premeva la sua pancia contro di lui con cordialità ostentata, ma se lui alzava lo sguardo, vedeva un viso asciutto ed ossuto, dal naso grosso e storto, che si accordava male col corpo massiccio, e che al di sopra del suo capo cercava intesa col suo compagno. Che gente era? Di che cosa parlavano? Quale autorità rappresentavano? Alla fine dei conti K. viveva in uno Stato di diritto, dappertutto regnava la pace e tutte le leggi erano in vigore: chi si permetteva di entrare a casa sua per sopraffarlo? Lui aveva sempre avuto tendenza a prendere le cose per il loro verso, ad accettare il peggio solo quando il peggio era arrivato, a non prendere provvedimenti per l’avvenire neppure quando l’avvenire si prospettava carico di minaccia come un labirinto.

     E ora nel labirinto – sulla scia della sapienza poetica orfica – potete entrare per conto vostro e continuare la lettura ( o la rilettura) di questo significativo romanzo.

     L’idea del “palazzo” e l’idea del “labirinto” servono agli Achei per evolversi e, in questa affermazione, ritroviamo il concetto della trasmissione delle tradizioni culturali, delle parole e delle idee, da un popolo all’altro a cui allude Erodoto nel IV libro de Le Storie. L’idea del “palazzo” e l’idea del “labirinto” servono agli Achei per dar vita ad una loro civiltà che si sviluppa sul continente ellenico e che, dal suo centro più importante, Micene, viene detta micenea: siamo negli anni dal 1600 al 1200 a.C.- L’idea del “palazzo minoico-cretese” (che non è circondato da mura: la cretese è una potente civiltà mercantile che ritiene di non avere nemici ) fornisce il modello per la costruzione del “castello miceneo” (del palazzo fortificato, della rocca: gli Achei sono guerrieri e hanno bisogno di un nemico per esistere): intorno a questo elemento architettonico (il castello, la rocca, l’acropolis) si sviluppano successivamente tutti gli altri elementi costitutivi della polis.

     L’idea del “labirinto” mutuata alla società cretese (una società ricca, opulenta, lussuosa che genera il “mostro” e lo tiene segregato, ma tuttavia lo nutre di vittime umane purché non rechi disturbo) – come abbiamo appena studiato – serve agli Achei per cominciare (sul continente ellenico, in ambiente rurale) a sviluppare una riflessione di carattere esistenziale: è il movimento della sapienza poetica orfica che inizia a dare una forma ai propri contenuti partendo dalla formulazione di due domande: «Qualcuno si ricorda – in questo labirinto (in questa trappola, in questa prigione, in questa schiavitù) in cui ci troviamo – dov’è l’entrata, e qualcuno ha idea di dove possa essere l’uscita?».

     Per mettere un tassello in più al paesaggio intellettuale che rappresenta le origini del movimento della sapienza poetica orfica dobbiamo dire che, intorno a queste due domande (che possono sembrare banali, ma non lo sono affatto), prende forma la figura di Orfeo. In particolare, – se ci pensate – la fiaba di Orfeo ed Euridice è sostenuta, nel suo impianto narrativo, dal concetto di “entrata” e di “uscita”. Orfeo entra in quello che, nella nostra mente, è il labirinto per eccellenza, il mondo dell’Ade. Orfeo (vale a dire i poeti anonimi, sconosciuti, che hanno creato questa leggenda) individua l’entrata e crede di trovare una via d’uscita ma, nel momento in cui usa la ragione cioè nel momento in cui pensa che non sia possibile riportare in vita la sua amata (è solo un’illusione), si volta, e incontra gli occhi di chi? Questa domanda se la pone Fernando Pessoa nel Libro dell’inquietudine. Orfeo si volta – gli era stato vietato dalla dèa Persefone, la regina degli Inferi: Orfeo deve fidarsi sulla parola che Euridice avrebbe potuto seguirlo – ma Orfeo, colto dal dubbio, si volta e incontra gli occhi di chi? Chi, sta seguendo Orfeo verso l’uscita del labirinto dei labirinti? Incontra gli occhi di Euridice o della dea Persefone che lo ha ingannato perché vuole tutto per sé il canto (l’amore) di Orfeo? Perché Orfeo ritorna disperato dal suo viaggio? Ritorna disperato perché ha perso definitivamente Euridice per colpa della sua trasgressione al divieto? Oppure è disperato perché è stato ingannato dagli dèi che – frutto del nostro sogno, immaginazione della nostra mente – sono anch’essi prigionieri nel labirinto? Orfeo si rende conto che l’uscita dal labirinto dell’Ade non è altro che l’entrata nel labirinto terreno, e che lui – per ora – è solo passato da un labirinto in un altro labirinto.

     Per concludere questa riflessione, che fa del termine labirinto una delle parole chiave del catalogo della sapienza poetica orfica, dobbiamo dire che, nel greco di Erodoto il termine “entrata” si traduce eìsodos, mentre il termine “uscita” si traduce éxodos. Queste due parole affini ci ricordano senza dubbio un grande racconto legato al titolo di un libro che s’intitola, appunto, il libro dell’Esodo (dove è tutto un entrare e un uscire da labirinti), ma questa è un’altra storia che prossimamente rincontreremo. È una storia di sapienza poetica veterotestamentaria che si colloca nell’Età assiale e in questa narrazione si riscontrano radici comuni (analoghe parole-chiave e idee cardine simili) con le  narrazioni della sapienza poetica orfica.

     A questo punto dopo aver citato la parola labirinto ho sentito su di me lo sguardo severo di Erodoto il quale mi ha sussurrato con un certo disappunto: «Ma come, non mi citi? La più famosa descrizione del Labirinto l’ho scritta io e tu non mi prendi neppure in considerazione?». Gli ho ricordato che il suo Labirinto è stato già stato citato nel Percorso dello scorso anno (2005-2006) ma lui si è imbronciato ancora di più ribadendo (prendendomi in contropiede) che ci sono nuovi studenti e che, ogni tanto, è necessario, per tutti, ripassare. E allora per tornare a vederlo sorridere, e poi, in verità, – Erodoto ha ragione quando dice che bisogna ripassare, rievocare, rinfrescare la memoria – io non me lo ricordavo più bene questo episodio.

     Erodoto racconta del Labirinto nel II libro de Le Storie, nel quale narra i suoi viaggi in Egitto (del II libro de Le Storie si consiglia la lettura). Nel testo del II libro de Le Storie scopriamo che, al tempo di Erodoto, le piramidi non erano il più grande monumento d’Egitto. Il monumento più grande, l’opera più stupefacente che si trova in Egitto al tempo di Erodoto è il Labirinto: leggiamo che cosa ci racconta Erodoto (che nel frattempo ha ricominciato a ridere sotto i baffi).

LEGERE MULTUM….

Erodoto,  Le Storie  II  147 148

Finora ho esposto quello che dicono gli Egiziani soltanto; dirò ora quanto gli altri uomini e, d’accordo con loro, pure gli Egiziani affermano che è avvenuto in questo paese: a ciò si aggiungerà anche qualche particolare di quello che io stesso ho veduto.                              Riacquistata la libertà, dopo il regno del sacerdote di Efesto [bisogna leggere i capitoli precedenti per capire di che cosa si parla…], gli Egiziani (poiché essi mai potevano vivere se non avevano un re) crearono dodici re, dopo aver diviso l’Egitto intero in dodici dipartimenti.                       

Costoro, legatisi per mezzo di matrimoni, regnarono stabilendo queste norme di vita: non eliminarsi reciprocamente; non cercare di possedere uno più dell’altro; essere amici il più possibile. E la ragione per cui stabilirono queste leggi e vi si attenevano scrupolosamente, è questa: era stato loro predetto fin da principio, subito appena saliti al potere, che quello tra loro che avesse libato nel santuario di Efesto con una coppa di bronzo, avrebbe dominato su tutto l’Egitto: infatti essi solevano raccogliersi tutti insieme in tutti i santuari.

 

Stabilirono, poi, anche di lasciare un monumento a ricordo del comune dominio e, quando l’ebbero deciso, costruirono il Labirinto, che si trova un po’ sopra il lago Meri, press’a poco all’altezza di quella che è detta la “città dei coccodrilli” [Shodit, che più tardi divenne Arsinoe]. L’ho visto io stesso ed è superiore a quanto si possa dire: poiché se si facesse un calcolo di tutte le costruzioni dei Greci e delle loro opere d’arte, apparirebbero certo di minore impegno e di meno grave spesa che non questo labirinto; eppure, il tempio di Efeso e quello di Samo [templi famosi, sacri ad Artemide a Efeso e ad Eracle a Samo] sono ben degni di essere ricordati.

Già le piramidi erano al disopra di ogni possibile descrizione e ognuna di esse degna di essere confrontata con molte e grandi opere greche, ma il Labirinto vince il confronto anche con le piramidi. In esso, infatti, vi sono dodici cortili coperti, con le porte di fronte l’una all’altra; sei rivolte a nord, sei aperte verso sud; e i cortili sono contigui, e un muro unico li recinge all’esterno.

Vi sono due ordini di stanze, parte sotterranee, parte sul livello del suolo sopra le prime: in numero di 3000; 1500 per ordine.

Le stanze superiori le abbiamo viste noi stessi passando da una all’altra e ne parliamo per averle visitate, ma di quelle sotterranee abbiamo solo informazioni per sentito dire; poiché quelli degli Egiziani che vi sovraintendono non hanno voluto assolutamente farcele vedere, dicendo che ci sono le tombe dei re che fin dall’inizio costruirono questo labirinto e dei coccodrilli sacri.

Così, delle sale che sono sotto terra diciamo solo quanto abbiamo sentito dire; ma le sale sopraelevate noi stessi abbiamo constatato che sono superiori a ogni umano lavoro. Infatti, il cammino per uscire dalle stanze che si attraversano, gli andirivieni che sono molto tortuosi per attraversare i cortili, ci davano motivo di straordinaria meraviglia, quando passavamo dal cortile alle sale e dalle sale nei portici; e poi dai portici in altre stanze e dalle stanze in altri cortili.

Il tetto di tutte queste costruzioni è di pietra, come anche i muri; questi, poi, sono coperti di figure incise; ogni cortile è circondato da colonne di pietre bianche, connesse tra loro alla perfezione. Vicino all’angolo dove ha termine il Labirinto, s’eleva una piramide alta quaranta orge, sulla quale sono scolpiti degli animali di grandi dimensioni; la via che porta a essa è stata scavata sotto terra.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Se sull’atlante o su una “guida” o sulla rete osservate una carta dell’ Egitto potete facilmente individuare la località di Al-Fayum…

     Al-Fayum si trova a cento chilometri dal Cairo ed è una famosa oasi. Poco distante da Al-Fayum c’è Coccodrillopoli, il cimitero dei coccodrilli sacri. Nell’oasi, oggi, si trova un cartello sul quale si può leggere: «Qui c’era il Labirinto, 305 metri per 244, costruito in pietra dal Faraone Amenemhat III, nel 2000 a.C.». Sembra che Erodoto non abbia visto nessun Labirinto, ma solo i resti di un antico palazzo: ha visto un po’ di pietre come possiamo vedere oggi noi in questo luogo. Ma dove è finito Erodoto che rideva sotto i baffi poco fa? Come mai è subito saltato a terra appena il capitano Agenore di Tiro ha concluso le operazioni di attracco nel porto di Mileto? Erodoto è voluto tornare sull’argomento del Labirinto e adesso è costretto a subire una (bonaria) requisitoria. Perché Erodoto ha mentito?

     C’è anche uno studio, un saggio del prof. Kimball Armayor che dimostra come Erodoto, in ragione della sua formazione culturale, il concetto del Labirinto lo ha nella mente, come lo abbiamo noi. Gli esperti affermano inoltre che – da come è disposto il testo greco – ci si accorge subito quando Erodoto mente dal fatto che ripete con insistenza sospetta la formula: io vidi, io vidi, io vidi alternandola con l’espressione io avrei potuto vedere.

     Erodoto anche quando mente ha dei meriti perché intuisce – ci fanno sapere gli antichisti – che la differenza fra ciò che gli uomini fanno e ciò che pensano di fare, o di aver fatto, è molto sottile. Erodoto conosce bene le “storie” della civiltà cretese, della civiltà micenea, della sapienza poetica orfica, e sa che il Labirinto è un’idea mitica, è una fantastica allegorìa morale molto importante per la nostra cultura.

     Erodoto pensa già – anticipando le opere dei semiologi contemporanei – che la parola storia può indicare insieme il resoconto delle cose accadute e, contemporaneamente, il racconto delle cose immaginate. Nel racconto della sapienza poetica orfica questo è quanto è successo ad Orfeo quando ha pensato (ha immaginato) che con il suo canto, perfetto compiuto iniziatico, potesse riportare in vita Euridice e invece ha capito (ha riflettuto) che con il suo canto, perfetto compiuto iniziatico, poteva solo consolarsi rievocando la memoria di lei: la trafila della memoria, attraverso il canto, perfetto compiuto iniziatico, può essere immortale.

     Le nostre lingue moderne, della parola storia, conservano i due significati fondamentali: la “storia” è il resoconto delle cose accadute e, contemporaneamente, è il racconto delle cose immaginate. Nella parola storia possiamo trovare sempre la realtà indissolubilmente intrecciata con l’immaginazione. Nel testo di Erodoto – abbiamo detto – quelle che suscitano (e che hanno sempre suscitato) maggior attenzione sono le storie fantastiche, disseminate lungo tutta l’opera. Queste storie fantastiche – e noi lo sappiamo – sono state raccolte, elaborate e scritte da Erodoto sotto forma di allegorìa morale perché, la storia, allude Erodoto, deve essere prima di tutto: maestra di vita. Inoltre le storie fantastiche di Erodoto sono tutte molto interessanti dal punto di vista della narrazione: sono già da considerarsi dei brevissimi romanzi storici e psicologici.

     Gli Achei vengono a contatto con la civiltà cretese ed elaborano i concetti di “palazzo” e di “labirinto”. Gli Achei diventano i dominatori del Mare Egeo e questo è il tempo (il XIII secolo a.C.) delle guerre intorno alla città di Troia per il controllo della zona strategica dell’Ellesponto. La civiltà micenea, sebbene forte e dominante, viene abbattuta dall’ondata migratoria di un altro popolo proveniente dal nord-est: i Dori che, dal 1200 a.C., invadono l’Ellade. L’invasione dei Dori determina un lungo periodo complesso e creativo: si consolida la cultura rurale e nascono rituali e cerimonie dai quali prende forma la religione orfica e il movimento riformatore della sapienza poetica che, per mezzo degli aedi, dei citaredi, dei rapsodi, si sviluppa in tutto il territorio dell’Ellade e noi sappiamo di che cosa si tratta.

     L’invasione dei Dori determina anche un grande spostamento di popolazioni dalla penisola ellenica verso ovest verso le coste dell’Italia meridionale, e verso est verso le coste asiatiche dell’Anatolia. Il periodo dell’invasione dorica viene chiamato medioevo ellenico e, in questo periodo (dall’XI al VII secolo a.C.), si determina lo sviluppo della sapienza poetica orfica in chiave religiosa (gli Inni sacri), in chiave epica (le Canzoni di gesta), in chiave lirica (i Poemetti lirici). Questo sviluppo lo abbiamo studiato (nelle sue linee generali) negli itinerari pre-natalizi: è questo un periodo di preparazione ad una nuova fase, i cui primi segni non si manifestano nella penisola ellenica ma nelle colonie fondate nel frattempo dalle popolazioni che, per sottrarsi alla subalternità della vita rurale e in cerca di nuove possibilità di sviluppo, sono emigrate nell’Italia meridionale (la Magna Grecia, la Mega Ellas), nelle isole dell’Egeo e sulle coste dell’Anatolia, nella Ionia.

     Sulle coste dell’Anatolia si insediano i migranti dall’Attica, che vengono chiamati Ioni e che portano con sé, nella migrazione, anche le “forme” del movimento della sapienza poetica orfica la quale vive un ulteriore sviluppo, una nuova fase creativa proprio nelle colonie: nelle polis fondate e fatte prosperare, nel VI secolo a.C., dai migranti. La più florida delle polis ioniche è Mileto, che presiede una lega di dodici città ed è per un certo periodo la vera capitale del mondo ellenico.

     Se osservate l’atlante, se leggete su una guida della Turchia le pagine che si riferiscono a questo luogo, se navigate sulla rete, potete individuare il sito di Mileto. Gli scavi hanno portato alla luce costruzioni pubbliche grandiose, come l’agorà (la piazza cittadina) a forma quadrata di 200 metri per lato, e il teatro prospiciente il mare con 25.000 posti. Mileto diventa tanto fiorente che, a sua volta, fonda una novantina di colonie in molte parti del Mediterraneo occidentale, e anche nel Ponto Eusino, nel Mar Nero, e – ci racconta Erodoto – fonda colonie persino in Egitto, lungo i bracci del delta del Nilo. Fino a tutto il secolo VI, e cioè fino a quando non viene distrutta dai Persiani (nel 498 a.C.), Mileto è la capitale culturale del mondo ellenico, che accoglie, filtra, rielabora ed esporta non solo le innovazioni tecnologiche, ma soprattutto le parole-chiave e le idee cardine del movimento della sapienza poetica orfica che sono approdate qui – attraverso la migrazione – dal mondo rurale continentale ellenico. È a Mileto, prima ancora che ad Atene e a Delo, che avviene la trasformazione della figura rurale di Orfeo in modelli più consoni alla mentalità della polis.

     Nel percorrere la Storia del movimento della sapienza poetica orfica in funzione della didattica della lettura e della scrittura, da questo momento dovremo dare importanza non solo alla vita dei singoli poeti, poetesse, pensatrici e pensatori ma anche alla loro città: d’ora in poi non si potrà più prescindere dalla polis.

     Le città ioniche non sono come quelle dell’Egitto e dell’oriente che si presentano all’occhio del viaggiatore (di Erodoto) come un informe assembramento di popolazione soggetta a poteri sacri, come un immenso campeggio attorno ad un unico edificio nel quale abita il Re con i suoi sacerdoti e i suoi scribi. Le città ioniche sono creazioni organiche nate e cresciute secondo la legge stessa dell’evoluzione della specie fondata sulla lotta per la vita e sulla selezione naturale. Gli Ioni – i coloni che sono emigrati dall’Ellade e si sono stabiliti sulle coste dell’Anatolia, sulle coste di un paese straniero – hanno dovuto trasformare i loro accampamenti fortificati in villaggi cinti di mura poderose (secondo il modello del castello miceneo), per meglio difendersi dagli abitanti del luogo, e per proteggersi dai regni potenti che incombevano alle loro spalle: soprattutto l’Impero persiano. Si ha qui il primo distacco tra il villaggio cinto di mura e la natura: così nasce la polis.

     E la polis (la città-Stato) prende forma con la codificazione di regole, con l’organizzazione di una vita civica basata sulla produzione artigianale e sugli scambi commerciali. Gli Ioni adottano il ferro, usato dai Dori per le loro spade, anche come strumento di produzione, e diventano quasi imbattibili nella concorrenza del mercato mediterraneo, su cui spadroneggiavano da secoli i Fenici. Gli Ioni cominciano a battere moneta e a creare reti di agenzie commerciali non solo sulle coste del mare ma anche nell’entroterra: si addentrano nel territorio lungo il corso dei fiumi, per commerciare con la Lidia, grande produttrice di oro, ma ormai in declino, o con le capitali mesopotamiche, ricche di tesori favolosi.

     Dai Fenici gli Ioni imparano e adottano uno strumento che a loro sembra subito molto prezioso (più dell’oro): la scrittura alfabetica. La scrittura alfabetica (subito utilizzata dai mercanti) in breve tempo sostituisce quella micenea di stampo ideografico orientale (basata sui geroglifici), del resto già in disuso dopo il crollo dei ceti aristocratici e sacerdotali che ne erano i depositari. Qui, nelle polis della Ionia, per mezzo della scrittura alfabetica, il materiale orale, prodotto dal movimento della sapienza poetica orfica, comincia ad essere codificato e conservato. La scrittura alfabetica è lo strumento fondamentale per far risaltare le varie “forme” (Inni sacri, Canzoni di gesta, Narrazioni epiche, Composizioni liriche) con cui si esprime la sapienza poetica orfica. Il fatto che gli Ioni imparino e adottino dai Fenici il prezioso strumento (molto più dell’oro) della scrittura alfabetica ha un’importanza decisiva nella nascita e nello sviluppo del pensiero greco. Gli Ioni hanno il merito di aver capito la novità insita nella scrittura alfabetica.

     In che consiste questa novità, che novità porta con sé l’alfabeto? La novità dell’alfabeto consiste nel fatto di essere un sistema, che cerca di raggiungere lo scopo di catturare i suoni che vengono pronunciati nel parlare, dando a ognuno di essi un corrispondente simbolo scritto. Se ad ogni suono utile (se ad ogni fonema) riusciamo a far corrispondere un simbolo sarà possibile – combinando i simboli – dare una concretezza al linguaggio orale, sarà possibile dare una forma precisa al pensiero.  L’alfabeto è il primo importante strumento tecnologico di comunicazione e l’avvento della scrittura alfabetica, presso gli Ioni, ha determinato il primato del “vedere” su “l’udire” e ha prodotto dei cambiamenti alla stessa vista. La vista, da visione delle immagini del mondo, ha dovuto imparare a tradurre in significato una sequenza lineare di simboli visivi: l’alfabeto. La visione dell’alfabeto comporta un esercizio della mente che la visione per immagini non richiede, e ciò ha comportato un passaggio da un’intelligenza simultanea a una forma più evoluta: l’intelligenza sequenziale.

     L’intelligenza simultanea è caratterizzata dalla capacità di trattare nello stesso tempo più informazioni, senza però essere in grado di stabilire una successione, una gerarchia e quindi un ordine. L’intelligenza simultanea è la capacità che usiamo, per esempio, quando guardiamo un quadro, dove è impossibile dire che cosa vada guardato prima e che cosa dopo. L’intelligenza sequenziale, che usiamo per leggere e per scrivere, necessita invece di una successione rigorosa che articola e analizza i codici grafici disposti in linea. Sull’intelligenza sequenziale poggia il meccanismo della lettura e della scrittura. La scrittura alfabetica e l’intelligenza sequenziale hanno un’importanza decisiva nella nascita e nello sviluppo del pensiero greco.

     La cultura ionica si sviluppa su due diversi orizzonti e ne trae vantaggio: il primo orizzonte è quello della madre-patria, con cui gli Ioni mantennero sempre contatti reciprocamente fecondi, ma conservando la loro autonomia, il secondo orizzonte è quello del mondo orientale (asiatico), in cui gli Ioni sono geograficamente inseriti e che allora era molto più ricco culturalmente del mondo ellenico. In mezzo a questi due orizzonti gli Ioni riescono a preservare la propria identità culturale, utilizzano gli apporti provenienti dall’oriente senza tuttavia farsi assimilare, anzi mantenendo, rispetto all’oriente, la massima differenza.

     A dare forza alla loro indipendenza sono senza dubbio le forme politiche e sociali che essi sanno dare – anche in ragione della loro economia, che non poteva essere che mercantile – alla città-stato, alla polis. Il centro della vita pubblica degli Ioni non è il tempio, come in Egitto o come a Babilonia, ma è l’agorà: la pubblica piazza. In Egitto e a Babilonia l’attività culturale preminente a cui si dedica la popolazione è quella di imparare a memoria formule liturgiche da ripetere in modo più superstizioso che religioso mentre nella polis l’attività culturale per eccellenza a cui si dedicano i cittadini è l’agorazein, è l’andare in pazza a sentire quello che si dice, a sentire se ci sono novità, a discutere del tema del giorno.

     La casta dominante non è né il clero come in India, né l’aristocrazia come nella Cina di Confucio o nella civiltà di Micene. Nella Ionia domina il demos, il popolo attivo e produttivo, che ha come fonte e come obiettivo della propria cultura le attività artigianali e commerciali e che, una volta abbattuta la supremazia aristocratica, risponde di sé a se stesso e ai propri magistrati liberamente eletti. La cultura ionica ha un’impronta laica e democratica. Per questa vivacità, assicurata dalle strutture economiche e dagli ordinamenti, gli Ioni trasformano tutto ciò che importano, le materie prime come le idee. La geometria, che gli Egizi avevano elaborato in modo empirico come strumento di misurazioni catastali, è trasformata dagli Ioni in una scienza deduttiva basata su principi universali che crea i teoremi: i primi teoremi vengono attribuiti a Talete. L’astronomia, che i Babilonesi coltivano come un aspetto divinatorio della loro visione magico-religiosa del mondo, diventa una scienza che permette di prevedere il ritorno periodico delle eclissi (Talete prevede quella del 28 maggio del 585 a.C.). Inoltre l’astronomia permette agli Ioni – popolo di navigatori – di riferirsi all’Orsa Minore, alla Stella Polare, per individuare i punti cardinali.

     Il mondo fisico – e questa sera, in partenza, abbiamo inserito nel catalogo che si va formando (sul ramo della sapienza poetica orfica) la parola “fisica” – non è più per gli Ioni un campo di lotta dove potenze soprannaturali personificate si contendono il primato sulla testa degli esseri umani, ma è un territorio governato da precise regole che l’essere umano, con la sua intelligenza, può conoscere e può capire. L’Universo, il Kosmos, – secondo la cultura ionica – ha avuto origine a partire da un principio semplice (l’arché) e determinabile con la ragione.

     Prima di tutto gli Ioni sono cittadini impegnati a costruire lo Stato, impegnati a trasformare una moltitudine caotica nella organizzata e ordinata convivenza della polis. Le cittadine e i cittadini ionici riconducono l’Universo, il Kosmos, dentro i confini della razionalità umana. Col pensiero ionico, frutto della sapienza poetica orfica, ha origine, nel contesto dell’Età assiale della storia, un umanesimo nuovo: un umanesimo in cui la persona si pone dinanzi alla realtà con la pretesa di conoscerla e di dominarla.

     All’inizio del pensiero ionico c’è la figura di Talete ma soprattutto c’è la struttura della polis in cui è nato e in cui ha vissuto: Mileto. A Mileto si sviluppa la “fisica”: ha inizio in modo sistematico lo studio empirico dei fenomeni naturali.

     Per concludere l’itinerario di questa sera ritorniamo sul romanzo di Antonio Skármeta intitolato Il postino di Neruda per leggerne un breve frammento. Il postino Mario si è innamora della bella signorina Beatriz e per conquistarla usa le metafore che sa inventare e utilizza anche una poesia di Neruda: il poeta non condivide questo fatto ma Mario, per discolparsi, fa un’affermazione molto interessante.

LEGERE MULTUM….

Antonio Skármeta, Il postino di Neruda (1985)

«Poeta e compagno», disse deciso [Mario]. «Lei mi ha messo in questo pasticcio, e lei deve tirarmi fuori. Lei mi ha regalato i suoi libri, mi ha insegnato a usare la lingua per qualcosa che non sia soltanto appiccicare francobolli. È sua la colpa se io mi sono innamorato».

«Nossignore! Che io ti abbia regalato un paio di libri miei è una cosa, e un’altra, ben diversa, è che ti abbia autorizzato a usarli per plagio. E poi le hai regalato la poesia che avevo scritto per Matilde».

«La poesia non è di chi la scrive ma di chi la usa» …

     «La poesia non è di chi la scrive ma di chi la usa» risponde Mario al poeta. Ci siamo chiesti all’inizio di questo itinerario: si può ancora parlare di sapienza poetica nel momento in cui prende campo lo studio empirico dei fenomeni naturali? C’è ancora posto per la poesia, per la forma poetica, nel momento in cui la “fisica” assume una posizione centrale nel paesaggio intellettuale della cultura ionica?

     A Mileto e nella Ionia i pensatori e le pensatrici non hanno la vocazione per fare le poetesse, per fare i poeti, ma per parlare di “fisica” per descrivere i risultati dello studio empirico dei fenomeni naturali non potranno fare a meno di usare la poesia. «La poesia non è di chi la scrive ma di chi la usa».

     Siamo appena sbarcati a Mileto e la prossima settimana la visiteremo, accompagnati da Talete, per vedere com’era, 2500 anni fa, questa polis che, sebbene situata fuori dall’Ellade, è considerata la prima capitale dell’Ellade.

     La prossima settimana incontreremo anche Bertoldo: che cosa c’entra Bertoldo? Il 2006 – e qualche mese fa abbiamo ricordato questo fatto – è stato l’anno in cui il personaggio letterario di Bertoldo ha compiuto 400 anni (1606-2006)! Questo anniversario avrebbe meritato almeno una celebrazione da parte del mondo della cultura ma l’anno 2006 è passato e, come avete potuto constatare, nessuno lo ha ricordato: la Scuola sente il dovere istituzionale di festeggiare (senza sfarzo) il quattrocentesimo compleanno di Bertoldo.

     Che cosa c’entra Mileto con Bertoldo? Perché siamo venuti a Mileto a festeggiare Bertoldo? A Mileto la sapienza poetica produce una virtuale “zona umida” e una “zona umida” è di chi l’abita (di Bertoldo) non di chi la possiede (del re Alboino), così come la sapienza poetica non è di chi crede di averne il monopolio ma è di chi la usa per investire in intelligenza senza neppure sapere di possederla.

     Accorrete, la Scuola è qui …

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Gennaio 12, 2007