Prof. Giuseppe Nibbi Lo sguardo di Erodoto 2007 14-15-16 febbraio 2007
LO SGUARDO DI ERODOTO
SU LA METEMPSICOSI, IL NUMERO, IL KOSMOS…
Siamo a Crotone, la ricca polis che si affaccia sulla costa calabra del mar Ionio, nel cui porto siamo sbarcati la scorsa settimana insieme ad Erodoto e al capitano Agenore di Tiro che guida la bella nave Sidonia con la quale stiamo viaggiando virtualmente sugli itinerari di questo Percorso in funzione della didattica della lettura e della scrittura. La scorsa settimana, proprio qui a Crotone, abbiamo fatto conoscenza con il personaggio più famoso della città: Pitagora di Samo. La straordinaria figura di Pitagora l’abbiamo incontrata attraverso una serie di frammenti tratti dalle più significative biografie che sono state scritte su di lui e questo ci è servito anche per incontrare, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, alcuni importanti personaggi della Storia della cultura come Porfirio di Tiro, Aulo Gellio, Giamblico di Calcide, oltre a Diogene Laerzio che puntualmente ci accompagna nei nostri itinerari da qualche settimana.
Ed è proprio Diogene Laerzio a raccontare, nella sua Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi, che un giorno Leonte, il tiranno di Fliunte, incontra Pitagora e gli domanda: «Chi sei? » e lui gli risponde: «Sono un filosofo». Questo è un episodio celebre nella Storia del Pensiero Umano (tutti i biografi di Pitagora lo riportano) e in particolare nella Storia del movimento della sapienza poetica orfica, perché è così che secondo la tradizione per la prima volta è stata pronunciata questa parola-chiave, filosofo, che, tradotta alla lettera, significa amante della sapienza (di Sofia). E come si configura la “sapienza” di cui Pitagora è amante?
Di Pitagora non ci è rimasto nulla di scritto e per conoscere le idee cardine della sua sapienza, del suo pensiero, tutti gli studiosi hanno concentrato la loro attenzione su tre scrittori, su tre scienziati – potremmo dire –, seguaci di Pitagora.
Il primo si chiama Alcmeone di Crotone ed è il medico di fiducia di Pitagora e quindi è da considerarsi suo contemporaneo. Alcmeone di Crotone ha scritto un trattato dal titolo Sulla natura (di cui ci rimangono una serie di utili frammenti) che dedica a Pitagora come se volesse attribuirne a lui il contenuto. Alcmeone di Crotone, nella sua opera Sulla natura, spiega la dottrina pitagorica delle opposizioni: questa concezione fa pensare al rapporto tra Pitagora e Zarathustra a cui abbiamo accennato nello scorso itinerario. Alcmeone di Crotone delinea una teoria medica partendo dalla dottrina pitagorica delle “opposizioni”, per cui ogni manifestazione della vita umana risulta dal concorso di qualità e di potenze opposte, quindi anche la salute dipende dall’equilibrio di queste potenze opposte e la malattia dipende dal prevalere delle une sulle altre. Alcmeone di Crotone viene considerato il padre dell’anatomia umana e lo scopritore della tuba uditiva (chiamata poi tromba di Eustachio) e dei nervi ottici. Alcmeone di Crotone pensa che l’organo della vita spirituale sia collocato nel cervello della persona e poi, secondo la tradizionale dottrina orfico-pitagorica, ribadisce il concetto dell’immortalità dell’anima.
Il secondo scrittore e scienziato a cui le studiose e gli studiosi fanno riferimento per mettere a punto le idee cardine della dottrina di Pitagora si chiama Archita di Taranto (430 a.C. circa - 360 a.C. circa). Archita di Taranto ha dato continuità alla Scuola pitagorica seguendone la rigida dottrina morale, quindi circa 150 anni dopo la comparsa e la scomparsa del Maestro (qualcuno pensa che in Archita si sia reincarnato Pitagora) dobbiamo constatare che la Scuola e il pensiero pitagorico è più vivo e produttivo che mai. Archita di Taranto è considerato nella Storia della cultura il fondatore della meccanica: gli viene attribuita l’invenzione della vite, della puleggia e di una colomba meccanica che è capace di volare. Archita di Taranto (come tutti i pitagorici) ha studiato l’acustica, sviluppando le intuizioni di Pitagora sulla musica, sull’armonia. Sappiamo, perché sono citate da molti autori, che Archita di Taranto ha scritto un numero considerevole di opere i cui testi sono andati tutti perduti. L’unica opera di Archita di Taranto di cui rimane una serie di frammenti è intitolata Sulla natura e l’autore la dedica a Pitagora come se volesse attribuirne a lui il contenuto.
Il terzo scrittore e scienziato a cui le studiose e gli studiosi fanno riferimento per mettere a punto le idee cardine della dottrina di Pitagora si chiama Filolao di Crotone (470 a.C. circa - 400 a.C. circa). Filolao di Crotone è un matematico che ha portato la dottrina della Scuola pitagorica fuori dalla Magna Grecia fino ad Atene. Filolao di Crotone viene ricordato soprattutto come astronomo: nelle sue numerose opere (ne rimangono frammenti nelle citazioni di altri autori) sviluppa e perfeziona la teoria cosmologica di Pitagora con la Terra che ruota come una sfera intorno a un punto centrale dell’Universo, così come ruota il Sole e ruotano i pianeti e le stelle e anche un misterioso pianeta invisibile che si chiama l’Antiterra (secondo la teoria pitagorica degli opposti, se c’è la Terra è necessario che ci sia anche l’Antiterra). Questo misterioso pianeta non lo possiamo vedere, afferma Filolao riprendendo il pensiero di Pitagora, perché siamo attirati e sempre rivolti verso un punto armonico dell’Universo che è antitetico all’Antiterra. L’unica opera di Filolao di Crotone di cui rimane una serie di frammenti è intitolata Sulla natura e l’autore la dedica a Pitagora come se volesse attribuirne a lui il contenuto.
Il fatto che tutti e tre i pitagorici eccellenti, Alcmeone, Archita e Filolao, abbiamo composto un’opera intitolata Sulla natura e l’abbiano voluta attribuire al Maestro ha creato una tradizione che vuole anche Pitagora autore di un’opera, di un poema orfico intitolato Sulla natura, andato perduto ma di cui si conservano le tracce nei testi (anch’essi frammentari) dei suoi tre principali discepoli.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Le discipline di cui si occupano i tre pitagorici eccellenti (Alcmeone, Archita e Filolao) sono: l’anatomia, la meccanica, l’acustica e l’astronomia…
Quale di queste materie ti piacerebbe studiare per prima?
Naturalmente le principali parole-chiave e idee cardine del pensiero di Pitagora si trovano riportate su molti testi. Per esempio (ed è l’esempio più celebre) dobbiamo citare le famose cinque notarelle scritte da (uno dei grandi) Aristotele (384-322 a.C.) il quale non nutre alcuna simpatia per il misticismo pitagorico. Aristotele nomina Pitagora cinque volte (quattro volte nella Fisica e una nell’Eudemo o Sulla anima) accompagnando sempre il nome di Pitagora con l’espressione (da intendersi in senso dispregiativo): «I cosiddetti pitagorici dicono …». Per essere precisi anche nella Metafisica di Aristotele c’è un riferimento sarcastico (che incontreremo fra un po’) sulla teoria dei numeri di Pitagora ma risulta una citazione indiretta, non riferita direttamente al Maestro di Crotone né ai suoi discepoli eccellenti. Comunque anche le cinque notarelle critiche e la citazione sarcastica della Metafisica scritte da Aristotele su Pitagora risultano utili per studiare la dottrina del Maestro di Crotone.
Per quanto riguarda la dottrina di Pitagora, le studiose e gli studiosi hanno concentrato la loro attenzione su tre questioni principali, legate a tre parole-chiave che trovano posto nel catalogo della sapienza poetica orfica: la metempsicosi, il numero e il cosmo.
La parola “metempsicosi” letteralmente significa: “migrazione dell’anima da un essere all’altro”. Secondo le fonti (i frammenti delle opere dei pitagorici eccellenti) che noi possediamo, Pitagora afferma di essere vissuto in epoche precedenti ben quattro volte (la scorsa settimana abbiamo ripercorso il tragitto delle sue reincarnazioni umane) e di aver «visitato», nell’intervallo tra una reincarnazione umana e l’altra, vari corpi di piante e di animali. La teoria pitagorica della metempsicosi ha le sue radici nei libri indiani dei Veda (Veda, in sanscrito, significa “sapienza”) e dimostra che il pensiero di Pitagora s’inserisce nell’ambito più vasto del movimento della sapienza poetica dell’Età assiale della storia (di cui conosciamo i caratteri). Secondo la dottrina pitagorica della metempsicosi, l’anima trasmigra da un corpo all’altro e accede ad un livello superiore (così è scritto in uno dei frammenti, ridotto a poche parole, dell’opera Sulla Natura di Alcmeone di Crotone) salendo dal grado più basso di venditore, a quello intermedio di atleta e poi a quello più elevato di spettatore: che cosa significa? Leggiamo questo frammento ricostruito da Bertrand Russell in che senso Pitagora fa l’apologia di colei o di colui che è spettatore:
LEGERE MULTUM….
Alcmeone di Crotone, Sulla natura (frammento ricostruito da Bertrand Russell)
Sostiene Pitagora che, in questa vita, ci sono tre tipi di esseri umani, proprio come ci sono tre categorie di persone che vanno ai giochi olimpici. La classe più bassa è formata da coloro che vanno a comprare e a vendere. Poi ci sono quelli che gareggiano per la ricchezza e per la gloria. Migliori di tutti sono però le persone che vanno semplicemente a vedere. La purificazione più perfetta è quindi la scienza disinteressata (distaccata dal vendere e dal comprare, aliena dalla ricchezza e dalla gloria) e ad essa si dedica l’amante della sapienza (philosophos) che si è completamente liberato dai vincoli della natura. …
Quindi l’anima degli esseri umani migra, salendo (venditore, atleta, spettatore) o retrocedendo (albero, cane, pecora, maiale, attira l’attenzione il fatto che nella dottrina pitagorica l’albero risulta superiore agli animali), a seconda di come la persona si è comportata sulla terra; quindi la morte, per citare altri due frammenti dall’opera Sulla Natura di Alcmeone di Crotone (lo stesso concetto lo troviamo anche in un frammento di Filolao di Crotone), è un momento di passaggio: è come un gancio tra una fine e un altro principio.
Leggiamo questi due frammenti:
LEGERE MULTUM….
Alcmeone di Crotone, Sulla natura (frammento)
Sostiene Pitagora che la morte consente l’aggancio di una fine con un altro principio per cui, mentre un corpo muore, l’anima, in quanto immortale, percorre una traiettoria circolare, non di più e non di meno di quanto facciano le stelle nell’etereo cielo. …
Sostiene Pitagora che il corpo altro non è che una tomba, un’angusta prigione dove l’anima è costretta a espiare le colpe accumulate …
La dottrina della metempsicosi ha fatto sì che Pitagora sia stato spesso preso in giro dagli scrittori satirici e da commediografi e drammaturghi di ogni tempo. Diogene Laerzio racconta ciò che scrive Senofane di Colofone (il primo critico pungente della mitologia tradizionale e della dottrina pitagorica della metempsicosi) il quale descrive Pitagora che trattiene per un braccio un uomo che sta bastonando un cane. «Ti prego,» dice Pitagora «non picchiare il tuo cane perché ho l’impressione che in questo animale si trovi l’anima di un mio amico». «E come fai a dirlo?» ribatte l’uomo. «Ne ho riconosciuto i guaiti», risponde Pitagora portando l’anima sul piano materiale e cadendo nel ridicolo. Anche nell’età moderna, dopo che il pitagorismo durante il Rinascimento è tornato in auge, soprattutto gli scrittori di teatro utilizzano la dottrina della metempsicosi come elemento di comicità.
Citiamo, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, un classico esempio che troviamo ne La dodicesima notte, la famosa commedia di William Shakespeare, in cinque atti, scritta tra il 1600 e il 1601. La dodicesima notte (di cui si può leggere il testo e seguirne una rappresentazione a teatro o vederla in una delle riduzioni cinematografiche che sono state girate prendendo spunto da questa commedia) narra la storia di Viola, una fanciulla innamorata del duca Orsino, la quale, per avvicinarsi all’amato e farsi notare, si traveste da uomo e riesce a farsi assumere da lui come servitore. Orsino, che non si accorge del travestimento, si serve di Viola come messaggero presso la bella Olivia di cui Orsino è innamorato. Ma la bella Olivia s’innamora del messaggero (di Viola travestita), e quindi l’intreccio è destinato a creare contemporaneamente situazioni sentimentali di grande comicità. Per aumentare l’effetto comico (permeato della tipica nostalgia shakespeariana), Shakespeare pone al centro della rappresentazione anche il personaggio di Malvolio, precettore molto pedante (e un po’ imbranato) che viene persuaso da tre buffoni-burloni che la bella Olivia si è innamorata di lui: lui se ne convince con tutte le buffe conseguenze che questa situazione comporta.
La dodicesima notte, una di quelle commedie in cui si rivela maggiormente il genio comico di Shakespeare, ha avuto e continua ad avere numerose realizzazioni sceniche. Se Pitagora avesse potuto conoscere il genio di William Shakespeare forse non se la prenderebbe a male per lo scambio di battute comiche sulla metempsicosi tra uno dei Buffoni e Malvolio…
LEGERE MULTUM….
William Shakespeare, La dodicesima notte (1600-1601)
BUFFONE - Malvolio, perché mai sei così contrario alla caccia?
MALVOLIO - Perché Pitagora ha detto che nel corpo di un beccaccino potrebbe albergare l’anima di mia nonna.
BUFFONE - E allora resta pure nella tua ignoranza, giacché non ti riconoscerò guarito fin tanto che non avrai il coraggio di uccidere almeno un beccaccino senza il timore di dover sfrattare l’anima di tua nonna…
La satira nei confronti della dottrina della metempsicosi non svaluta tuttavia il tema che Pitagora ha posto, nel movimento della sapienza poetica orfica, sul primato dello Spirito (Pneuma). Solo lo Spirito può avere la possibilità di non degradarsi e di continuare a vivere: è l’anima che dura in eterno e il corpo, la prigione dell’anima, è bene che si disperda nella polvere: in questo senso la morte del corpo assume un significato di liberazione, e la morte non deve essere temuta. Questo importante argomento di riflessione, per cui la cura dell’anima procura un alleggerimento dei mali di cui il corpo è inesorabilmente depositario, non ha mai cessato di essere presente nei repertori della Storia della cultura.
Poiché è necessario non far saltare i nervi a Pitagora che è piuttosto permaloso (anche Erodoto e Agenore di Tiro che satireggiano, ridacchiando, sulla dottrina della metempsicosi, sono chiamati a riflettere, in funzione della didattica della lettura e della scrittura presentiamo un romanzo che s’intitola Sostiene Pereira (1994) di Antonio Tabucchi. Molti di voi hanno certamente letto questo romanzo (che abbiamo già citato in un precedente Percorso) e se qualcuno non lo ha letto è invitato a farlo; e molti avranno visto il film tratto da questo libro (è anche l’ultimo film interpretato da Marcello Mastroianni che ricordiamo a dieci anni dalla morte). Noi adesso leggiamo due pagine tratte da questo romanzo e non è difficile capire perché. Pereira è un giornalista sulla soglia della vecchiaia: soffre di qualche acciacco ma soprattutto della solitudine dovuta alla recente vedovanza. Pereira è diventato il responsabile della pagina culturale del modesto giornale per il quale lavora, il Lisboa. Questo racconto è ambientato a Lisbona nel 1938 e in Portogallo c’è una dittatura; mentre in Spagna si sta combattendo una guerra sanguinosa e in Europa sta per scoppiare il secondo conflitto mondiale, Pereira è disorientato, si sente impotente: la sua formazione culturale lo porta, in questa situazione di disagio fisico, intellettuale e spirituale in cui vive, ad interrogarsi su temi orfico-pitagorici. «Pereira è tutti noi!» potrebbe sostenere Pitagora, e la sua è una rivincita sui satirici infatti nessuno (tanto meno i satirici) ha mai smesso di interrogarsi sui temi orfico-pitagorici.
LEGERE MULTUM….
Antonio Tabucchi, Sostiene Pereira (1994)
Sostiene Pereira di averlo conosciuto in un giorno d’estate. Una magnifica giornata d’estate, soleggiata e ventilata, e Lisbona sfavillava. Pare che Pereira stesse in redazione, non sapeva che fare, il direttore era in ferie, lui si trovava nell’imbarazzo di mettere su la pagina culturale, perché il “Lisboa” aveva ormai una pagina culturale, e l’avevano affidata a lui. E lui, Pereira, rifletteva sulla morte. Quel bel giorno d’estate, con la brezza atlantica che accarezzava le cime degli alberi e il sole che splendeva, e con una città che scintillava, letteralmente scintillava sotto la sua finestra, e un azzurro, un azzurro mai visto, sostiene Pereira, di un nitore che quasi feriva gli occhi, lui si mise a pensare alla morte. Perché? Questo a Pereira è impossibile dirlo.
... continua la lettura ...
Ma l’essenza del pensiero pitagorico non sta tanto nel tema della metempsicosi che non è strettamente un argomento pitagorico. L’originalità del pensiero pitagorico è legata alla parola-chiave Numero che con Pitagora assume un significato particolare. Pitagora pensa che il Numero (scritto con la maiuscola) sia l’arché, vale a dire l’elemento primordiale dell’Universo. Il Numero è per Pitagora quello che per Talete è l’umido, quello che per Anassimandro è l’indeterminato (l’àpeiron), e quello che per Anassimene è l’aria, l’aria, l’aria (sappiamo che c’è aria e aria). Per Pitagora il Numero, come elemento primordiale dell’Universo, ha uno spessore di natura materiale ma soprattutto ha un valore di natura intellettuale, di natura teoretica. Pitagora introduce nel movimento della sapienza poetica orfica un principio riformatore: il pensiero teoretico. Di che cosa si tratta?
Per capire questo concetto e per capire il valore teoretico dei numeri, è necessario imbastire una riflessione. A questo proposito prendiamo in considerazione un frammento di un’opera intitolata Sui numeri pitagorici il cui autore è (Speusippo di Atene 393 circa-339 a.C.). Speusippo di Atene è il nipote di Platone a cui succede nella direzione dell’Accademia. Speusippo, pur ammettendo l’esistenza del mondo delle Idee, tuttavia nega che questo mondo possa avere un rapporto con il mondo degli esseri umani. Speusippo (che guarda il pensiero di Platone con una lente pitagorica) descrive la realtà come una struttura costituita da differenti livelli indipendenti tra loro, questi livelli sono: i numeri, le grandezze, l’anima e i corpi sensibili. Leggiamo questo significativo frammento che aiuta a capire il valore del Numero come arché, come elemento costitutivo dell’Universo.
LEGERE MULTUM….
Speusippo di Atene, Sui numeri pitagorici (frammento)
Secondo Pitagora è chiaramente specificato che il numero Uno è un punto, il numero Due una retta, il numero Tre un piano e il numero Quattro un solido. …
Pitagora ha precisato che due Unità Punto individuano una retta, tre Unità Punto costituiscono un piano e quattro Unità Punto sono un solido. Ciò detto dal momento che tutte le cose di questo mondo, esseri umani compresi, hanno una forma, è sempre possibile scomporre questa forma in un insieme di punti o di linee e quindi, in definitiva, di numeri. …
Aristotele (abbiamo già annunciato questa citazione) nel XIV libro della Metafìsica scrive con tono ironico un appunto sulle qualità fisiche che la Scuola pitagorica vorrebbe attribuire ai numeri, ma si guarda bene dal fare il nome di Pitagora: nomina Eurito che è un pitagorico della seconda generazione, un discepolo di Filolao di Crotone, ma senza qualificarlo. Leggiamo questo ironico appunto aristotelico:
LEGERE MULTUM….
Aristotele, Metafisica (Libro XIV)
Eurito (pitagorico della seconda generazione, discepolo di Filolao di Crotone) si era messo in testa di trovare il numero caratteristico di ogni essere vivente e a tale scopo aveva cominciato a contare il numero dei punti, che aveva materializzato con delle pietruzze, necessario a comporre l’immagine della persona e del cavallo …
Ora, a parte il problema delle qualità fisiche dei numeri (su cui, in compagnia di Aristotele, possiamo ironizzare a lungo), Pitagora ha il merito (indiscusso) di riflettere sul fatto (e ci lascia in eredità questa riflessione) che tutti i fenomeni naturali sembrano essere regolati da una logica superiore. In particolare Pitagora ha scoperto l’esistenza di un rapporto costante (una proporzione) fra la lunghezza delle corde di una lira e gli accordi fondamentali della musica (una metà per l’ottava, tre metà per la quinta e quattro terzi per la quarta). Questa scoperta lo induce a pensare che ci sia una Mente divina, un Architetto celeste che, con una Legge Matematica chiamata Armonia (accordo, proporzione), diriga la natura. In greco la parola armonia significa accordo (è l’accordo musicale studiato da Pitagora) e significa proporzione (è il rapporto costante fra la lunghezza delle corde di una lira e gli accordi fondamentali della musica). Lo studio pitagorico dell’armonia musicale (l’accordo, la proporzione) conduce alla visione dell’Armonia cosmologica. Diogene Laerzio, con poche righe, ci mette al corrente sulla visione pitagorica della creazione del mondo: leggiamo che cosa scrive:
LEGERE MULTUM….
Diogene Laerzio, Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi
Dicevano i pitagorici: «Che cosa è più saggio? Il Numero. E che cosa è più bello? L’Armonia». All’inizio dei tempi, evidentemente, c’era stato il Caos (il Disordine), poi la Monade (il numero Uno) ha creato i numeri, e dai numeri ha creato i punti e le linee e, infine, è giunta l’Armonia a consolidare le giuste distanze fra le cose. Tutto questo per Pitagora è il Cosmos, ovvero l’Ordine dell’Universo.
Manifestazioni della divina Armonia sono: la salute, la virtù, l’amicizia, l’arte, la musica e anche la giustizia sociale è l’espressione dell’Armonia dei Mondi. …
Per Pitagora il Numero è al centro di tutto: è il “punto fermo” che determina l’esistenza dell’Universo. E come si traduce in greco ionico la parola numero? La parola numero, in greco ionico, corrisponde al termine aritmós. Se analizziamo la parola constatiamo la presenza, come prima lettera, di una alfa che, in greco (a volte, come in questo caso) rappresenta una negazione, significa “non” oppure “senza”. Che cosa vuol dire che, in greco ionico, la parola numero, aritmós, corrisponde a un termine che coincide con l’espressione: senza ritmo, non ritmico, senza cadenza? Significa, ribadisce Pitagora, che il numero, aritmós, è un “punto fermo” e secondo la dottrina pitagorica su questo “punto fermo” si regge l’Armonia dell’Universo. L’intuizione pitagorica dell’ordine numerico rende ancora più chiaro il concetto della perfezione elaborato dal movimento della sapienza poetica orfica che abbiamo studiato nella prima parte del nostro Percorso (ottobre-novembre 2006). Il concetto pitagorico del Numero, inteso come “punto fermo”, capovolge l’idea arcaica del rapporto di corrispondenza tra la perfezione e l’infinito. Pitagora ribadisce, all’interno del movimento della sapienza poetica orfica, che la perfezione (téleios) corrisponde a ciò che è finito (téleios), a ciò che è compiuto: la perfezione è un “punto fermo”, aritmós, è il Numero.
A Pitagora e alla sua passione per l’aritmetica dobbiamo il modo di avvicinarci ai numeri (i quali continuano a portare con sé mitiche allegorie), e a Pitagora dobbiamo il modo di studiare le relazioni tra i numeri stessi. Per Pitagora, fra i numeri esiste una gerarchia da rispettare: ci sono i numeri nobili e i numeri plebei. Nell’itinerario della scorsa settimana abbiamo nominato più di una volta la parola tetraktys. La tetraktys è il numero 10 che per i pitagorici rappresenta un’entità divina. Il numero 1, il numero 2, il numero 3 e il numero 4 sono i più illustri fra tutti i numeri: e la loro somma, che è uguale a 10, forma il divino triangolo …
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Al tempo di Pitagora i numeri non vengono rappresentati con le cifre arabiche che entrano in circolazione tra il VII e l’VIII secolo d.C., ma i numeri sono “punti” che occupano uno “spazio”. I pitagorici infatti parlano di numeri triangolari, quadrati, cubici, e, avendo tutte le cose una forma geometrica, essi considerano i Numeri come il principio generatore, l’arché, di tutte le cose, affermando (questa affermazione diventa la parola d’ordine della Scuola pitagorica) che «tutte le cose sono Numeri». La tetraktys è il numero 10 e forma il divino triangolo. Difatti, anche sul Catechismo cristiano cattolico, quando è stato necessario dare una forma a Dio, con quale immagine è stato rappresentato (come lo abbiamo disegnato sui nostri quaderni del Catechismo) Dio? Con il triangolo, con la divina tetraktys, e voi capite che ora Pitagora se la ride davvero.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Il tuo triangolo preferito è equilatero, isoscele o scaleno?
Disegna il tuo triangolo preferito: non aver timore, è, in ogni caso, una figura “divina”…
Sul tema dei numeri ecco un frammento dall’opera Sulla natura di Filolao di Crotone: siamo alle orini della Smorfia, il manuale che contiene il valore numerico di determinate immagini.
LEGERE MULTUM….
Filolao di Crotone, Sulla natura (frammento)
Tutte le cose che ci è dato conoscere posseggono un numero e ogni numero ha un suo significato particolare: il numero 1 è l’intelligenza, il numero 2 l’opinione [sempre duplice], il numero 3 è la certezza, il numero 4 è la giustizia, il numero 5 è il matrimonio, il numero 6 [il suo cubo] è il ciclo delle reincarnazioni, il numero 7 è il tempo ciclico [forse perché sono sette i giorni della settimana] …
Nell’itinerario della scorsa settimana abbiamo potuto constatare che dal testo de Le Storie di Erodoto emerge anche il fatto che nell’antichità a Crotone (dove in questo momento stiamo incontrando Pitagora) deve essersi sviluppata un’importante Scuola di medicina di cui, nel tempo, si sono perse le tracce. Su quale base facciamo questa affermazione? Sulla base che ci fornisce uno dei racconti allegorici, di stile romanzesco (che abbiamo letto la scorsa settimana), imbastiti da Erodoto nel III libro de Le Storie in cui uno dei protagonisti è un medico di Crotone che si chiama Democede e che risulta essere molto qualificato nella sua professione. Ci sono dei rapporti tra la Scuola di medicina di Crotone e la Scuola pitagorica che fiorisce in questa città? A questa domanda le studiose e gli studiosi non sono (per ora) stati in grado di rispondere. C’è un particolare, tuttavia, che invita alla riflessione. Secondo Pitagora i numeri posseggono anche qualità terapeutiche ed è per questo motivo che i pitagorici hanno messo a punto i cosiddetti quadrati magici. A noi viene subito da pensare, come dice la parola stessa, che si tratti di magia (di superstizione) più che di medicina (più che di scienza). I quadrati magici funzionavano (e a volte funzionavano davvero…) come funziona un placebo: che cos’è un placebo? Il placebo (è un verbo latino, significa piacerò) è una sostanza priva di azione farmacologica (un po’ d’acqua e zucchero) somministrata per indurre nei pazienti la suggestione di essere sottoposti ad una terapia attiva. I quadrati magici creano una suggestione e hanno avuto molto successo tanto nell’antichità quanto nel Medioevo e nel Rinascimento. I quadrati magici venivano incisi su lastrine d’argento e preservavano dalla peste, dal colera e dalle malattie veneree; uno è questo:
13 3 2 16
8 10 11 5
12 6 7 9
1 15 14 4
Se si sommano le cifre di ogni rigo, o di ogni colonna, o di ogni diagonale, si ottiene sempre come totale il numero 34. Perché abbiamo scelto questo quadrato magico? Perché è il più famoso ed è il più efficace. Non penso sia efficace sotto il profilo medico, ma può esserlo in funzione della didattica della lettura e della scrittura: questo quadrato magico lo si può trovare in un famoso quadro di Albrecht Dürer che s’intitola La Malinconia: le cifre centrali, il 15 e il 14, dell’ultimo rigo indicano la data dell’opera 1514.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Vai a cercare questo famoso quadro su un catalogo – lo trovi in biblioteca o sulla rete – delle opere di Albrecht Dürer e osserva (non è casuale, siamo nel Rinascimento) questo particolare pitagorico…
Questo quadrato è davvero magico: si ottiene sempre il numero 34 anche se si sommano i quattro vertici (13-16-1-4), i quattro numeri centrali (10-11-6-7) e perfino le cifre di ognuno dei quattro quadrati minori.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Scrivete almeno tre numeri (ma possono anche essere cinque) che per voi sono particolarmente suggestivi…
Potete anche scrivere quattro righe in proposito per giustificare questa suggestione: che cosa vi lega a questi numeri?…
Non dimentichiamoci che tutti noi, fin da piccoli, abbiamo avuto a che fare con una tavola pitagorica che una volta si trovava in fondo a tutti i quaderni a quadretti: è tanto che non la ripassate questa tavola?… La sapete ancora tutta a memoria?…
Chissà quanti nostri ricordi sono legati alle “tabelline” (quella del 9 è anche un po’ magica: la somma dei risultati fa sempre 9)…
Le straordinarie suggestioni che i numeri, con le loro correlazioni nascoste, danno a Pitagora e ai pitagorici procurano loro delle vere e proprie estasi mistiche. Pitagora deve aver provato quindi una grandissima delusione – e questa delusione viene documentata in alcune citazioni – quando una notte nel fare il rapporto tra la diagonale e il lato di un quadrato, scopre che il risultato è diverso da qualsiasi numero intero o decimale. Fino a quel momento tutto sembrava ubbidire alle leggi dell’Armonia: ma non era così. Eppure Pitagora, proprio lavorando sulla diagonale, aveva già scoperto che il quadrato costruito sull’ipotenusa era equivalente alla somma dei quadrati costruiti sui cateti (il famoso teorema di Pitagora). Ma quella notte l’ipotenusa lo tradiva e non ne voleva sapere di farsi dividere da uno dei suoi lati. Pitagora, in realtà, aveva fatto un’altra scoperta molto importante: aveva messo in evidenza la presenza dei numeri irrazionali. Ma questa scoperta non procura al Maestro alcuna gioia: per lui e per i suoi discepoli la presenza dei numeri irrazionali è una terribile disgrazia perché tutte le loro teorie vanno a gambe all’aria.
Abbiamo già detto la scorsa settimana che la scoperta dei numeri irrazionali fu tenuta rigidamente nascosta ma un discepolo, un traditore, di nome Ippaso, con il chiaro intendimento di danneggiare la Scuola, divulgò la notizia “per tutto il mondo”. Ippaso però, come ci racconta Diogene Laerzio, fu colpito dalla maledizione del Maestro e fece naufragio a poche miglia da Crotone, mentre cercava disperatamente di prendere il largo.
Bisogna dire che, a parte l’uso magico del Numero, ciò che resta dell’insegnamento pitagorico è l’affermazione che l’Armonia domina nel mondo e che il Numero, inteso come “punto fermo”, prevale sull’infinito indeterminato: su questo concetto nasce l’idea del kosmos, l’idea dell’ordine dell’Universo basato sul principio che tutte le cose e tutte le idee sono articolate nell’unità. Quindi la diversità non si oppone all’unità, anzi trova in essa il suo vero senso e vedremo, strada facendo, che questa ulteriore idea avrà il suo sviluppo.
Il terzo argomento pitagorico importante, dopo il tema della metempsicosi e del Numero, riguarda il Cosmo. La visione cosmologica di Pitagora (a cui abbiamo già fatto accenno) è molto affascinante. Pitagora pone al centro dell’Universo non la Terra ma un Fuoco non meglio identificato, chiamato dai pitagorici: la Divina Madre da cui tutti gli astri nascono e nella quale, dopo il grande anno (un ciclo di tempo non ben identificato), tutti si immergono per poi rinascere. Intorno a questo Fuoco ruotano dieci astri: la Terra, la Luna, il Sole, i cinque Pianeti allora conosciuti, il cielo delle Stelle fisse e, anche per raggiungere il divino numero 10, un corpo celeste chiamato Antiterra, a cui abbiamo già accennato. L’Antiterra è un pianeta, in tutto simile alla Terra, avente la stessa orbita, situato secondo Pitagora in posizione diametralmente opposta rispetto al Fuoco Centrale e pertanto invisibile. Alla Scuola pitagorica si attribuisce la scoperta della doppia rotazione del sole, una diurna, da est a ovest, con un cerchio parallelo all’equatore, e una annuale, da ovest a est, secondo un cerchio, l’eclittica, il cui piano è inclinato su quello dell’equatore. I dieci astri, sostiene Pitagora, percorrono orbite circolari ed emettono nel loro movimento una musica dolcissima, la cosiddetta Armonia delle Sfere. Purtroppo noi non siamo in grado di percepire questo meraviglioso suono perché, sostiene Pitagora, esso è continuo e il nostro orecchio non riesce a captare alcun rumore se non per contrasto nei confronti del silenzio. Al di là delle dieci orbite celesti c’è poi, sostiene Pitagora, lo spazio infinito, ma nel momento in cui, aggiunge il Maestro di Crotone, noi saremo in grado di sederci al di là delle orbite celesti e allungheremo una mano ecco che renderemo “finito” (téleios) anche questo spazio.
Secondo la tradizione, Pitagora è il primo ad applicare al mondo fisico il termine kosmos. Il mondo, secondo la dottrina della Scuola pitagorica, è retto da un ordine scandito dal movimento delle stelle che, dopo un lungo periodo di anni, torna allo stesso punto, riportando la storia al punto di partenza: è la teoria dell’eterno ritorno, che si è diffusa nei secoli (fino in età contemporanea) nella Storia del Pensiero Umano. «Tutto ciò che è, già fu, sostiene Pitagora, e ciò che avviene, già avvenne». La nostra inquietudine derivata dal fatto che vorremmo cambiare l’immutabile ordine delle cose, sostiene Pitagora, non ha nessun senso. Ma su questo punto Pitagora e i suoi discepoli, che sono assai inquieti e cercano di esorcizzare la loro inquietudine, fanno un po’ di confusione (Erodoto drizza le orecchie) perché mettono la scienza, la mistica e la politica sullo stesso piano: ma queste discipline sono senz’altro interdipendenti ma autonome. Questa confusione tuttavia è gravida di potenziali sviluppi, che non tarderanno a manifestarsi e ce ne renderemo conto nei nostri prossimi itinerari.
Pitagora ha introdotto nella Storia del Pensiero Umano molte idee significative ma, soprattutto, il concetto del Pensiero teoretico. E che cos’è il Pensiero teoretico di Pitagora? La parola teorema (che probabilmente evoca in noi interrogazioni di matematica) in greco ionico significa: meditazione, riflessione profonda, significa guardare dentro le cose, significa indagare al di là dell’apparenza, cercare la natura divina dell’Essere. La parola teorema è formata da due termini significativi: in essa c’è teos, dio e il verbo rémein, osservare, considerare. Pitagora, con la sua Scuola, è stato l’iniziatore di quel tipo di vita detta teoretica, cioè una vita di carattere contemplativo. L’aspirazione che la persona, nei secoli, ha sempre coltivato per la vita teoretica, per la vita contemplativa ha determinato il fatto che le Scuole pitagoriche hanno continuato ad avere una tradizione. Ricordiamo, solo per rimandare il discorso perché questi argomenti appartengono ad altri Percorsi, autonomi da questo, che ripercorreremo, le Scuole neopitagoriche del I secolo d.C., alle quali dobbiamo un oggetto culturale molto significativo, un libro che s’intitola Corpus Ermeticus legato ad un personaggio che si chiama Ermete Trismegisto e che ha avuto una grande fortuna nel Medioevo e nel Rinascimento. Le figure più significative delle Scuole neopitagoriche del I secolo d.C. sono Apollonio di Tiana, Nicomaco di Gerasa, Numenio di Apamea, importanti intellettuali che sviluppano il concetto della Triplice divisione della divinità. La definizione trinitaria di Dio (che fa parte della “nostra” cultura più diretta) nasce da un lungo e complesso sviluppo intellettuale che passa attraverso il neopitagorismo e poi il neoplatonismo. Lo stile della vita pitagorica o teoretica condiziona anche i Padri della Chiesa del III, del IV e del V secolo: Basilio di Cesarea, Gregorio di Nazianzo, Gregorio di Nissa. Lo stile della vita pitagorica o teoretica, che comporta un’esistenza vissuta nella ricerca della purificazione mediante la contemplazione dell’armonia dell’Universo e mediante lo studio del Mondo creato, investe anche i Padri del deserto: Antonio, Epifanio, Gerolamo.
La Scuola pitagorica supera la mentalità magica dell’Orfismo, basata solo sulla potenza taumaturgica dei riti. La riflessione pitagorica parte dall’Orfismo ma lo stile di vita pitagorico supera e trasforma il concetto di vita orfica e la mentalità orfica. La mentalità orfica nella vita pitagorica o teoretica si rinnova con il culto della scienza, che diventa il più alto dei misteri (il più significativo dei riti) e il più importante mezzo di purificazione. Per capire come questi concetti pitagorici siano entrati nel mondo della cultura è utile leggere due dialoghi di Platone: il Fedone (il dialogo più orfico di Platone) è il dialogo sull’anima, su l’immortalità dell’anima, e il Gorgia, un dialogo sulla retorica ma che pone un tema attualissimo: è meglio cercare la comunicazione umana, la felicità, il piacere contemplativo piuttosto che cercare il successo.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Lo stile di vita pitagorico o teoretico prevede di contemplare, di osservare, di ammirare, di meditare: quattro azioni importanti nella vita dell’essere umano…
Quali persone, animali, oggetti, situazioni, argomenti, parole … hanno favorito, recentemente, la tua attività di contemplazione, di osservazione, di ammirazione, di meditazione?…
Scrivi quattro righe in proposito…
Platone riprende e sviluppa anche il concetto pitagorico del numero considerato come un indicatore dell’Essere. Che cosa significa che il Numero può fare da indicatore, da evidenziatore dell’Essere? Significa che le cose possono apparire mutevoli, ma attraverso il Numero esse rimangono sostanzialmente immutate, continuano ad Essere. Per esempio: quanti siamo qui, questa sera? Siamo in cento; se dieci di noi escono, qui rimaniamo (qui esistiamo) in novanta. Ma dal punto di vista dell’essenza, siamo sempre cento perché i dieci che sono usciti hanno cessato di esistere qui ma non hanno cessato di Essere. Quindi il numero è un ricognitore dell’esistenza, ma soprattutto è un predicato dell’Essere.
Il Numero assume per la Scuola pitagorica un forte valore simbolico e i Numeri rappresentano la realtà, ma soprattutto la forza simbolica della realtà: in questo senso diventano simboli religiosi, allegorie magiche. Tutto, sostiene Pitagora, deriva dall’Uno che è il principio di tutte le cose, e questa Unità assoluta viene chiamata monade. La monade è eterna, immutabile e annulla in sé, in quanto Unità, la molteplicità delle cose, i contrasti e le antitesi che si verificano nell’Universo. Dall’Unità derivano il pari e il dispari, e l’Uno, per conto suo, non è né pari né dispari: i pitagorici lo chiamano parimpari perché può rendere pari il dispari e dispari il pari. Il pari, sostiene Pitagora, rappresenta l’illimitato, il dispari rappresenta il limitato. Dalla loro opposizione, dal contrapporsi del pari e del dispari, nascono i contrasti della Natura.
La parola contrasto, in greco ionico, corrisponde al termine aporia, e questo termine (che tante volte abbiamo usato) appare per la prima volta nel linguaggio pitagorico. Secondo la Scuola pitagorica i contrasti fondamentali, le aporie, sono dieci: il limite e l’illimitato, il dispari e il pari, l’unità e la molteplicità, la destra e la sinistra, il maschio e la femmina, la quiete e il movimento, la retta e la curva, la luce e la tenebra, il bene e il male, il quadrato e il rettangolo. Questi contrasti fondamentali, queste aporie, formano la Natura e la caratterizzano.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Tra i dieci contrasti fondamentali, tra le dieci aporie pitagoriche, tu quale contrasto, quale aporia, scegli per prima?…
Prova – secondo i tuoi interessi culturali, secondo il tuo modo di concepire la realtà, secondo la tua sensibilità intellettuale – a sistemare le aporie pitagoriche secondo una scala gerarchica (questo esercizio è una sfida che contiene, in modo virtuale, l’affascinante responsabilità di dover dare una forma al Mondo creato)…
Nell’essere umano, sostiene Pitagora, sviluppando un concetto orfico per eccellenza, l’aporia fondamentale è determinata dal contrasto tra il corpo e l’anima. L’anima, sostiene la Scuola pitagorica, è l’armonia; e il corpo, se vuole imbastire una relazione con la propria anima, deve coltivare il silenzio. La dottrina teoretica (il misticismo, la contemplazione, la meditazione, l’attenta osservazione delle cose) della Scuola pitagorica, già nel VI secolo a.C., mette in discussione il frastuono della polis considerato come se fosse un fattore di progresso, e respinge l’uso eccessivo di proteine considerato come una manifestazione della ricchezza e della potenza. Più che una Scuola, quella di Pitagora è una comunità religiosa dalla vita austera, in cui hanno peso alcune regole conventuali (che si perpetueranno nei secoli), come la regola dell’astinenza (o del minimo consumo) dalla carne nell’alimentazione e la regola del rigoroso silenzio periodico. Il rigoroso silenzio periodico deve servire perché la persona, liberata dal frastuono, possa entrare in contatto con il silenzio dell’Universo che è intriso di Armonia, creata dal divino movimento degli astri. La Scuola pitagorica individua nel frastuono della polis non un elemento di progresso ma un fattore alienante prodotto per rimuovere l’inquietante silenzio che stimola la riflessione esistenziale (intesa come vero strumento di progresso). Pitagora, abbiamo detto, sostiene che non sia possibile per l’orecchio umano percepire l’Armonia prodotta dal divino movimento degli astri. Resta quindi il silenzio, che è la dimensione che non può dare la possibilità all’orecchio di percepire in modo sensibile l’Armonia ma che può dare l’opportunità alla mente, al pensiero, di intuire intellettualmente l’Armonia.
Pitagora introduce decisamente, nel movimento della sapienza poetica orfica, la combinazione tra la tensione verso l’eterno e il dominio razionale dell’universo fisico. In seguito le due tendenze, quella religiosa e quella scientifica, che Pitagora e i suoi primi discepoli hanno tenuto congiunte, si scindono in due diversi orientamenti: il pitagorismo misterico e il pitagorismo scientifico che ha un’influenza profonda su Platone e su tutta la Storia del Pensiero Umano.
Pitagora è figlio di un orefice, nasce e cresce in una famiglia che appartiene alla classe imprenditoriale (alla borghesia), Pitagora è nemico della tirannide tanto da lasciare Samo (sceglie la via dell’esilio) nel momento in cui Policrate si sovrappone con la forza alle Istituzioni democratiche. Tuttavia a Pitagora viene attribuita una visione aristocratica della vita e della politica: Pitagora rifiuta l’idea di progresso inteso come sviluppo indiscriminato degli affari, del consumo, del frastuono. Per Pitagora il compito (il senso della vita) per l’essere umano è quello di liberare la propria anima dalla prigionia del corpo, e nemmeno la politica deve avere obiettivi diversi: la legislazione deve operare perché le attività della città siano compatibili con un ambiente in cui prevale il silenzio. Non si tratta di stare zitti, ma di imparare a percepire l’Armonia in modo da dare ai bisogni materiali, dopo aver soddisfatto in modo sobrio le necessità primarie, una dimensione marginale, per far sì che i bisogni dell’anima abbiano una posizione centrale. Sostiene Pitagora che per purificare il corpo, in modo da dare spazio alle esigenze dell’anima, è necessaria la musica. Infatti Orfeo (e Pitagora opera all’interno del movimento della sapienza poetica orfica) è il grande musico inquietante. E come si fa ad ascoltare la musica, a creare la musica, a far sì che la musica invada il nostro spazio se non cessa il frastuono. La musica, sostiene Pitagora, è il teorema che purifica l’anima, e l’anima purificata è armonia nel mondo: l’anima purificata è lo strumento di collegamento con l’Armonia dell’Universo. Pitagora respinge le urla dei riti dionisiaci che si sono mescolati al frastuono affaristico della polis, per invitare (anche per imporre: sembra che Pitagora abbia indetto una specie di guerra santa punitiva contro Sibari, città corrotta) all’ascolto dell’Armonia, del silenzio intriso di seduzioni armoniche.
Il programma della Scuola di Pitagora è molto affascinante ma è difficile da realizzare. Anche quando l’Armonia dei Mondi, con l’esercizio della contemplazione e della meditazione, viene percepita, quasi sempre si presenta alle orecchie, alla mente e ai pensieri in modo non molto rassicurante. Anzi, la percezione dell’Armonia dei Mondi che si traduce nell’ascolto dell’allarmante, dell’angosciante, del preoccupante silenzio cosmico provoca nell’animo della persona una profonda inquietudine esistenziale. E l’obiettivo dei pitagorici è proprio questo: l’Armonia (noi abbiamo addolcito questa parola) non è un fenomeno acquietante, consolatorio, tranquillizzante, rabbonente. Il concetto pitagorico dell’Armonia, che si fonde con l’esperienza dell’ascolto dell’inquietante silenzio cosmico, è radicato nella cultura orfico-dionisiaca.
Con l’idea pitagorica della ricerca dell’Armonia (condizione essenziale perché la persona possa entrare in contatto con il silenzio cosmico e misurarsi con l’inquietudine esistenziale) comincia una riflessione all’interno del movimento della sapienza poetica orfica che dura circa mille anni. Nel VI secolo a.C., con l’idea pitagorica della ricerca dell’Armonia, è come se Orfeo cominciasse a cantare il suo ultimo canto che dura fino al VI secolo d.C. (per mille anni). L’idea pitagorica della ricerca dell’Armonia corrisponde infatti al concetto dell’oistroς-oistros, del tafano fremente, e molti di voi sanno già di che cosa si tratta. C’è un momento nella Storia del Pensiero Umano che le studiose e gli studiosi hanno chiamato il finale dell’ultimo canto di Orfeo, ed è un tema che si presenta anche in relazione con il pensiero pitagorico. Questo momento può essere considerato come l’atto conclusivo di una cultura morente, ma è senz’altro anche il punto di rilancio di una serie di modelli culturali di natura orfica che rimangono ben presenti nella società moderna e contemporanea.
In che cosa consiste il tema riguardante il finale dell’ultimo canto di Orfeo? È un tema complesso ed enigmatico. Il finale dell’ultimo canto di Orfeo è rappresentato da un’opera colossale e dal misterioso autore che l’ha scritta: il finale dell’ultimo canto di Orfeo è legato ad uno dei più significativi enigmi dell’antichità, rappresentato dalla vita e dalle opere di uno scrittore che si chiama Nonno di Panopoli. Molti di voi conoscono già questo enigmatico personaggio, lo abbiamo incontrato spesso nei nostri Percorsi, che ogni tanto appare negli snodi più delicati della Storia del Pensiero Umano. Di Nonno sappiamo con certezza solo il luogo di nascita: Panopoli, in Egitto, una ricca città nel delta del Nilo. Sappiamo anche che a Panopoli si è sviluppata una delle più importanti Scuole Neopitagoriche dell’antichità e, pur senza avere dati in mano se non i riferimenti presenti nelle sue opere, si può ipotizzare, secondo le studiose e gli studiosi, una relazione tra la figura di Nonno e il pensiero pitagorico. Sulla data di nascita di Nonno di Panopoli vi sono, tra le studiose e gli studiosi, diverse scuole di pensiero: oggi però tutti accettano il fatto che Nonno è vissuto tra il V e il VI secolo d.C., nel momento in cui il Cristianesimo ufficialmente s’impone sulla cultura greca. L’enigma di Nonno di Panopoli riguarda soprattutto le sue opere. Questo scrittore ci ha lasciato due opere straordinarie, stupefacenti, tanto per il loro valore, quanto per il dibattito culturale che hanno suscitato: una s’intitola Dionisiache (Dionysiakà), un poema epico in 48 canti (numero pari alla somma dei canti dell’Iliade e dell’Odissea) e l’altra s’intitola Metàbole kata Ioannin, cioè Parafrasi del Vangelo di Giovanni. Che cos’è una metàbole o una parafrasi? Metàbole in greco significa trasferimento di un testo in un nuovo testo. Una metàbole o una parafrasi è la riscrittura di un testo con parole proprie, sviluppandolo e dilatandolo con commenti e interpretazioni. Nonno riscrive il testo del Vangelo di Giovanni in versi esametri, commentandolo e interpretandolo, concetto per concetto e parola per parola. Ne viene fuori un’opera spropositata che sta quasi tutta ancora sui codici: ne è stata pubblicata solo una piccola parte.
Per il modo in cui costruisce il testo, Nonno di Panopoli è stato spesso definito il primo grande scrittore barocco, ma addirittura si potrebbe definire rococò. Lo stile barocco rococò è ricco d’intarsi, di abbellimenti, di sovrapposizioni decorative: ebbene la scrittura di Nonno è altrettanto sovrabbondante, debordante, esorbitante, eccedente, traboccante. Il poema Dionisiache (Dionysiakà) è scritto in epilli, che sono versi esametri in stile alessandrino: versi voluttuosi, sinuosi, sensuali, sovrabbondanti di aggettivi, dove i riferimenti culturali si sovrappongono l’uno all’altro in un continuo gioco decorativo, intarsiato, stupefacente. Quest’opera racconta la storia del viaggio in India di Dioniso; durante questo viaggio (che è anche una spedizione militare e un pellegrinaggio) Dioniso narra tutte le tappe della sua leggenda, del suo mytos, del suo culto. Compiere un viaggio in India, per gli studenti e per gli intellettuali alessandrini, significava risalire alle fonti della cultura universale, riallacciarsi alla cultura dei libri dei Veda (i libri della Sapienza): la cultura dell’anima, dello spirito, della ricomposizione dell’Essere. Il pellegrinaggio in India è un viaggio di formazione alla ricerca di risposte sugli inquietatati interrogativi esistenziali che l’essere umano si è sempre posto e si pone. Le Dionisiache sono una apologia, un’esaltazione dei valori del movimento della sapienza poetica orfica che, tra il V e il VI secolo, dovrebbe giacere morente, in coma profondo. Nonno, nelle Dionisiache, esalta Dioniso e la cultura orfica, così come nella Parafrasi del Vangelo di Giovanni esalta Gesù Cristo e la cultura evangelica.
È chiaro che questa faccenda ci pone di fronte ad alcuni inquietanti interrogativi, anche perché le antichiste e gli antichisti non sono riusciti a capire quale delle due opere sia stata scritta per prima da Nonno. Che cosa successe a Nonno di Panopoli, che cosa ha influenzato la sua mente e le sue scelte? Quali interrogativi ci pone la sua vita e la sua opera? Chi era Nonno di Panopoli? È un neopitagorico o un neoplatonico che ha celebrato le ultime luci della cultura orfica con il poema su Dioniso e poi si è convertito alla nuova fede, al cristianesimo, allora già dominante, scrivendo la Parafrasi del Vangelo di Giovanni? Oppure, forse, è avvenuto l’inverso: Nonno è un cristiano che a un tratto viene folgorato dalla cultura orfica, tanto che dalla Parafrasi passa all’onda travolgente delle Dionisiache? Oppure, ci dicono gli esegeti, si può presentare una terza ipotesi: che Nonno abbia scritto nello stesso tempo le Dionisiache e la Parafrasi: con una mano disegna le avventure di Dioniso, con l’altra evoca il processo di Gesù di Nazareth? Nonno è un poeta orfico che guarda al cristianesimo o è un cristiano che guarda alla sapienza poetica orfica, oppure è un intellettuale laico che analizza entrambe le correnti, cercandone i tratti concomitanti? L’enigma di Nonno e delle sue opere si presenta in tutta la sua complessità.
Studiando la opere di Nonno si scopre che la mente di questo scrittore è profondamente commossa da entrambi gli esseri divini di cui parla: Cristo e Dioniso. E probabilmente non ha neppure bisogno di chiedersi quale dei due sia più importante per lui, e perché scriva su di loro: nessun elemento di fatto ci può aiutare a risolvere l’enigma. Rimane il testo delle sue opere e il suo stile ridondante come una valanga dilagante di parole: ma Nonno, per le esperte e per gli esperti, è un poeta che nasconde in sé un teologo. E noi dobbiamo domandarci: che senso ha la figura stilistica che ci viene incontro nella scrittura di Nonno, vale a dire la ridondanza, l’abbondanza, l’eccesso, l’esuberanza? In questa scelta stilistica troviamo l’intento teologico di Nonno che non è tanto quello di definire un dio orfico o un dio cristiano, ma quella di presentare un’idea di Dio. Come teologo, non importa se orfico o cristiano o laico, Nonno ci manda a dire con la sua scrittura poetica che bisogna avere fede nella ridondanza, nell’abbondanza, nell’eccesso, nell’esuberanza degli stimoli che ci spingono verso la conoscenza. Attraverso le manifestazioni del creato (della Natura, del cosmo), la Divinità (l’Armonia) ci dona innumerevoli stimoli: ridondanti, abbondanti, esuberanti, orientati verso la conoscenza, e l’essere umano deve imparare a riconoscerli. Per Nonno la poesia (l’imparare ad usare le parole come strumento poetico) è un mezzo per far avvicinare l’intelletto all’esuberanza del creato, della Natura, del cosmo, e all’esuberanza salvifica di Dioniso e di Cristo. Se nelle due opere di Nonno osserviamo i dettagli narrativi, ve n’è uno che ha indirizzato tutte le studiose e gli studiosi a seguire l’ipotesi che sembra più improbabile: quella di Nonno che scrive nello stesso momento le Dionisiache e la Parafrasi, senza percepire alcuna frattura tra l’una e l’altra opera.
Le due opere di Nonno contengono un concetto-chiave, un’idea determinante che lo scrittore ha sintetizzato nella parola oìstros, che, in greco, significa: il tafano (l’insetto dittero, appartenente alla specie dei Tabanidi). Innumerevoli volte, nelle Dionisiache, Nonno ci mostra l’operare del tafano, che rappresenta l’immagine stessa di Dioniso e della sua presenza. La stessa cosa avviene nel testo della Parafrasi del Vangelo di Giovanni dove Gesù viene paragonato al tafano che crea inquietudine nella nostra coscienza. Dioniso (e così Cristo) è come un tafano provocatore che ci stimola in continuazione, che c’infastidisce affinché non ci si lasci andare al torpore, alla noia, all’alienazione, all’assuefazione.
Le Dionisiache è un’opera dove abbondano le scene erotiche, le scene sensuali. Queste scene sono una metafora della conoscenza: l’educazione dei sensi, il controllo del desiderio, l’orientamento dell’energia sensuale, è propedeutica alla conoscenza. Le scene amorose nel testo delle Dionisiache sono capolavori poetici; e le scene amorose contengono tutte il ronzio melodioso, quasi rassicurante, del tafano, ma questa musica prelude al colpo del pungiglione: inaspettato, doloroso, provocatorio, stimolante, inquietante. Anche il silenzio cosmico sembra melodioso, quasi rassicurante, ma prelude all’inquietante interrogativo esistenziale: che cosa ci faccio io qui?
Una delle scene più sensuali è senza dubbio quella in cui Nonno racconta l’incontro amoroso tra Zeus e Semele in cui avviene il concepimento di Dioniso. Molti di voi conoscono già questa immagine mitica perché abbiamo già letto questo racconto nel Percorso sulla tragedia (2003-2004) nella versione di Ovidio da Le Metamorfosi. Leggiamo solo un frammento dal canto settimo delle Dionisiache in cui incontriamo l’Oistros Bròmio, il tafano fremente, con il quale Dioniso viene identificato fin dalla nascita. Ma soprattutto leggiamo questo frammento perché in un verso le parole mostrano quello che è stato chiamato l’enigma pitagorico di Nonno:
LEGERE MULTUM….
Nonno di Panopoli, Le Dionisiache Canto 7 (V-VI sec d.C.)
Premeva il dio (Zeus) le labbra eccitate sulla bocca della fanciulla (Semele) ridente,
facendola inebriare nell’abbraccio potente, cospargendola col nettare d’amore
perché concepisse un figlio, signore della nettàrea vendemmia
e come presagio di eventi futuri, levava in alto un grappolo,
oblio di tutti gli affanni, farmaco di molti malanni.
In realtà tutta la terra rideva, un vigneto fitto di foglie cresceva
e correva intorno al letto finalmente fecondato
e sulle pareti sbocciavano fiori di prato, stillanti rugiada oleosa e odorosa
per coronare dell’Oistos Bromio, il tafano fremente, la nascita misteriosa.
Sul letto sgombro di nubi, Zeus fece echeggiare, con sentimento sincero,
dai più lontani e profondi silenzi, gli armoniosi ma inquietanti fragori del tuono,
preannunciando i timpani delle feste notturne di Dioniso a celebrarne il mistero
con il loro incessante, assordante, ritmico, ditirambico, orgasmico suono.
L’undicesimo verso di questo frammento: «…dai più lontani e profondi silenzi, gli armoniosi ma inquietanti fragori del tuono…» contiene tre parole-chiave – silenzio armonia e inquietudine – della cultura neopitagorica. C’è anche un enigma pitagorico in Nonno di Panopoli? Che ci sia ciascun lo dice, come s’interpreti nessun lo sa. Quello che sappiamo è che il silenzio, l’armonia e l’inquietudine sono tre situazioni strettamente legate tra loro. Noi possiamo dire che l’inquietudine, provocata dall’armonico silenzio cosmico, si è dimostrato, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, un fenomeno intellettualmente molto produttivo che ha coinvolto scrittrici e scrittori di tutte le epoche. L’Armonia, come il tafano fremente, mette la persona di fronte alla coscienza di esistere, e il prendere coscienza di esistere inquieta profondamente perché suscita una domanda fondamentale: l’esistenza conduce all’essenza? Da 2500 anni, sulla scia del movimento della sapienza poetica orfica, questo interrogativo pitagorico accompagna l’Umanità. Questo concetto lo abbiamo incontrato, in un Percorso di qualche anno fa, nei Pensieri (1669) di Blaise Pascal: «Il silenzio eterno di questi spazi infiniti mi atterrisce. Smarrito in questo remoto angolo della natura. Che cos’è l’essere umano?».
Il titolo di una delle opere di Fernando Pessoa (1888-1935), lo scrittore portoghese di cui abbiamo già presentato Il poeta è un finitore, è molto esplicito: s’intitola Il libro dell’inquietudine:
LEGERE MULTUM….
Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine (1914, prime stesure)
La coscienza di esistere mi opprime un po’, con tutto il suo mistero e la sua forza di compresa profonda incomprensione. La coscienza di esistere è il tormento primo e ultimo della ragione. … Tutta la costituzione del mio spirito è indecisione e dubbio. Niente è o può essere positivo per me; le cose mi fluttuano intorno e anch’io fluttuo con esse nell’incertezza di me stesso. Tutto è per me incoerenza e cambiamento. Tutto è misterioso e gravido di significato. Ogni cosa è un simbolo sconosciuto dello Sconosciuto. Ne consegue paura, mistero, un timore sovrannaturale.
A causa delle mie tendenze naturali, del modo nel quale sono stato educato fin dall’infanzia, per l’influenza degli studi intrapresi sotto la loro spinta, per tutto questo ho un tipo di carattere assorto, egocentrico, taciturno, non autosufficiente ma smarrito in se stesso. Tutta quanta la mia vita è stata una vita di passività e di sogno. …Non ho mai preso una decisione che fosse nata dal mio autocontrollo, mai c’è stata una manifestazione della mia volontà cosciente. I miei scritti sono rimasti tutti incompiuti; sempre si intromettevano nuovi pensieri, straordinarie e inevitabili associazioni di idee che avevano come limite soltanto l’infinito. Non ce la faccio a smettere di odiare l’idea di portare a compimento qualunque cosa; a proposito delle cose più semplici, nascono diecimila pensieri, e diecimila associazioni di questi diecimila pensieri, e non ho la forza di volontà per eliminarli o per trattenerli, né per riunirli in un pensiero centrale, nel quale i particolari poco importanti potrebbero perdersi. … Io non pondero, sogno; non mi sento ispirato, deliro. So dipingere, ma non ho dipinto mai; so comporre musica, ma non l’ho mai composta. …Il mio carattere consiste nell’odio per il principio e per la fine delle cose, giacché sono punti definiti. Mi angoscia l’idea che possa trovarsi una soluzione per i più nobili e alti problemi della scienza e della filosofia; mi fa orrore che qualsiasi cosa possa essere decisa da Dio o dal mondo. Sebbene sia stato sempre un lettore vorace e appassionato, non ricordo nessuno dei libri che ho letto, tali erano state, mentre stavo leggendo, le condizioni di lettura del mio spirito, miei sogni, o meglio, provocazioni di sogno. Più che incoerente è vago il mio ricordo degli accadimenti, delle cose esterne. Rabbrividisco nel pensare quanto poco sia rimasto nel mio spirito della mia vita passata. Io, l’essere umano che afferma che l’oggi è un sogno, sono meno di una cosa di oggi. Vale di più, amici miei, l’ombra di un albero che la conoscenza della verità, perché l’ombra dell’albero è vera almeno finché dura, e la conoscenza della verità è falsa già nel momento in cui la si conosce. Vale di più, per un giusto intendimento, il verde delle foglie che un grande pensiero, poiché il verde delle foglie potete mostrarlo agli altri, mentre non potreste mai mostrare agli altri un grande pensiero. Nasciamo senza saper parlare e moriamo senza aver saputo dire. La nostra vita trascorre tra il silenzio di chi non parla e il silenzio di chi non fu capito, e intorno a tutto questo, come un’ape in un luogo senza fiori, germoglia incognito un inutile destino e pensare che l’Essere umano potrebbe, se possedesse la vera saggezza, godere dell’intero spettacolo del mondo con tutta la sua Armonia, da una sedia, senza saper leggere, senza parlare con nessuno, solo con l’uso dei sensi e con un’anima incapace di essere triste. …
Fernando Pessoa interpreta bene questa ulteriore contraddizione fondamentale, questa undicesima (ci perdoni Pitagora se andiamo altre il numero 10) aporia pitagorica rappresentata dall’armonia e dall’inquietudine. Pitagora ha potenziato e introdotto nel movimento della sapienza poetica orfica il tema della contraddizione, dell’aporia, del contrasto vitale: il tema dell’armonia misteriosa dei contrari. Questo tema ci spinge nuovamente a metterci in viaggio: dobbiamo ritornare nella regione della Ionia, sulla costa asiatica che si affaccia sul mar Egeo: per la precisione dobbiamo raggiungere la polis di Efeso, dove ci aspetta un personaggio (anch’esso mitico) che di contraddizioni, di aporie, di contrasti, del tema dell’armonia misteriosa dei contrari, se ne intende…
Dopo aver salutato il mistico Pitagora, che consiglia a tutti noi di essere più sobri e più umili in modo da poter intraprendere con cuore puro la via della conoscenza, la nostra bella nave Sidonia, ben pilotata dal capitano Agenore di Tiro, esce dal porto nuovo di Crotone. Sul ponte, Erodoto osserva con interesse la grande e poderosa struttura del Castello di Crotone, fatto costruire nel 1541 da don Pedro de Toledo, viceré di Napoli. Erodoto, che ha raccolto l’invito pitagorico all’umiltà, dichiara di non sapere nulla dei Viceré. Anche il capitano Agenore di Tiro, sebbene uomo di mondo, ammette di non sapere chi siano i Viceré. Prima di salire sulla nave, Erodoto su questo argomento ha interpellato Pitagora, il quale, in modo enigmatico, ha risposto: «A me è dato sapere che nei Viceré ci sono i numeri». Pitagora non avrebbe potuto rispondere se non in modo misterioso…
Ebbene, possiamo non soddisfare la curiosità dei nostri illustri compagni di viaggio? E allora, prima di puntare la prua verso est, verso Efeso, decidiamo di navigare verso sud, verso la Sicilia, verso la città di Catania. I Viceré, a questo punto, si sono subito messi in allerta, ma noi non abbiamo nulla da temere…
Ora sull’albero maestro della nostra nave sventolano, oltre alle bandiere della poesia e della perfezione anche le bandiere dell’armonia e dell’inquietudine (taraxis). Queste bandiere (poίesis, téleios, rmonia, taraxis) sono il nostro lasciapassare e i Viceré ci accoglieranno sicuramente nei loro territori. E a questo punto alla curiosità di Erodoto e di Agenore di Tiro si aggiunge anche la nostra curiosità: che cosa hanno da raccontarci I Viceré? E che significato ha l’affermazione enigmatica di Pitagora: «A me è dato sapere che nei Viceré ci sono i numeri…»?
Accorrere, che il viaggio continua e la Scuola è qui (pronta a dare i numeri)...