Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza poetica beritica 2007 10-11-12 ottobre 2007
L’INGRESSO NEL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA BERITICA ...
Ben tornati e ben venuti a Scuola.
Ben tornate a tutte e a tutti coloro che hanno già partecipato agli itinerari di studio, ai viaggi intellettuali proposti da questa offerta formativa che è in attività da ventitre anni (dal 1° ottobre 1984).
E ben venuti a coloro che sono qui per la prima volta a celebrare il rituale della partenza di questo Percorso di Storia del Pensiero Umano in funzione della didattica della lettura e della scrittura (un titolo lungo e complesso: pubblicizzabile con difficoltà, ma tuttavia – da quasi un quarto di secolo – sempre ben frequentato).
Perché le cittadine e i cittadini (italiani e stranieri) decidono di frequentare la Scuola pubblica, perché scelgono di intraprendere un viaggio intellettuale (un lungo viaggio: da ottobre a giugno), perché s’impegnano a seguire un Percorso didattico? Perché pensano sia utile, sia importante, dedicare un po’ di tempo (qualche ora – tre, quattro, cinque, sei ore alla settimana) allo studio. O per meglio dire, usando il latino: allo “studium et cura” (la parola “cura” e la parola “studium” sono sinonimi, hanno gli stessi significati) e l’uso della lingua latina è utile molto spesso per definire meglio un concetto: in latino il significato del termine “studium” risulta molto più efficace, e significa: “prendersi cura” della propria “anima”, del proprio “corpo” e della propria “persona”. Lo studio, “studium et cura” è la forma più qualificata, più idonea, per occuparsi di se stessi, non tanto per far carriera materialmente ma soprattutto per progredire intellettualmente e spiritualmente: lo “sviluppo materiale” deve andare di pari passo al “progresso spirituale” (questo ammonimento risuona in tutta la Storia del Pensiero Umano) perché è il “progresso spirituale” che rende lo “sviluppo materiale” rispettoso dei valori umani e quindi un “bene”.
Purtroppo – ed è questa una lamentazione che dura da 2500 anni – il “progresso spirituale” e lo “sviluppo materiale” non sono mai andati di pari passo (se non in minima parte) e questo fatto ha creato, e crea, conseguenze spesso catastrofiche per il Pianeta che ci ospita. Lo studio, quindi, inteso come “studium et cura”, proposto come esercizio per favorire lo “sviluppo intellettuale” e il “progresso spirituale” deve accompagnare le cittadine e i cittadini nel loro quotidiano viaggio esistenziale. Se lo “studio” fa riferimento alla metafora del “viaggio” (del percorso, dell’itinerario) significa che, questa sera – come al solito, da ventitre anni – dobbiamo dedicarci, per qualche minuto, al “rituale della partenza”.Un viaggio ha inizio con la “partenza”, e la partenza è un “rito” che va celebrato.
La celebrazione del rituale della partenza è una circostanza necessaria: utile a far riflettere tutti noi sulla “natura” e sugli “obiettivi” di questo Percorso di studio, che – realizzandosi nella Scuola pubblica secondo l’Ordinanza Ministeriale n.455/97 – rappresenta un’offerta formativa, rivolta alle cittadine e ai cittadini italiani e stranieri, che intende favorire “lo sviluppo dell’esercizio della lettura e della scrittura”.
L’esperienza della “lettura” intesa «come riflessione e analisi sul testo scritto» e della “scrittura” intesa «come rappresentazione sintetica del proprio pensiero» è praticamente assente dalla vita della stragrande maggioranza delle persone. Sappiamo che in Italia «indipendentemente dal titolo di studio e dalle condizioni sociali le cittadine e i cittadini adulti che non leggono mai sono il 77% della popolazione e le cittadine e i cittadini adulti che non scrivono mai sono l’86% della popolazione»: questo dipende dal fatto che circa 40 milioni di persone (in Italia!) soffrono (a diversi livelli) di semi-analfabetismo e, tra queste, circa 22 milioni sono da considerarsi sulla soglia dell’analfabetismo. Documenti ufficiali di tutti gli Organismi internazionali (per esempio l’Unesco) dichiarano che: «Senza alfabeto non ci può essere crescita intellettuale e di conseguenza non ci può essere sviluppo democratico… Senza alfabeto non c’è democrazia…».
Questo Percorso rappresenta un “modello didattico” (uno dei tanti possibili) che vuole attivare dalla base – con la fattiva partecipazione delle cittadine e dei cittadini – una campagna di “alfabetizzazione culturale” perché “lettrici e lettori”, “scrivane e scrivani” non si nasce ma si diventa attraverso un itinerario di studio.
Questo Percorso vuole rendere operante (secondo l’Ordinanza Ministeriale n.455/97) un “modello didattico” (uno dei tanti possibili) per condurre una campagna di “alfabetizzazione culturale” attraverso i Centri Territoriali Permanenti per l’istruzione e la formazione in età adulta, vale a dire attraverso la Scuola pubblica che la Costituzione – all’art.34 – dichiara: «Aperta a tutti.».
Dopo averne chiarito la “natura” dobbiamo domandarci quali sono gli “obiettivi specifici” di questo Percorso didattico. A questa domanda molti di voi sanno già rispondere perché hanno subìto molte volte – ad ogni inizio di Percorso – il tradizionale “rituale della partenza” (e i rituali sono necessari ma sono ripetitivi). Questo Percorso didattico propone alle/ai partecipanti il raggiungimento dei seguenti “obiettivi specifici” (che cosa ci proponiamo di imparare in questo Percorso di studio? Per quale motivo frequentiamo la Scuola?):
*(primo) È necessario acquisire, o potenziare, l’abitudine a “leggere, per dieci minuti al giorno, quattro pagine al giorno”: l’esercizio della “lettura” è fondamentalmente una (buona) abitudine. Se si vuole legere multa (ancora una volta utilizziamo il latino, per definire il concetto della quantità), se si vogliono leggere molti libri, se si vuole leggere 1500-2000 pagine l’anno (da lettrici, da lettori forti) bisogna “imparare a leggere poco” (è un paradosso, ma: «si legge molto se si legge poco»), si legge molto (60 ore l’anno per 1500 pagine l’anno: questo è già un pacchetto da lettrici e lettori forti!) se si leggono “costantemente e con attenzione quattro pagine al giorno per dieci minuti al giorno”. È necessario, quindi, imparare a legere multum (questa volta utilizziamo il latino per definire il concetto dal punto di vista della qualità), che significa: “leggere costantemente, poco e bene”.
*(secondo) È necessario imparare ad “analizzare un repertorio” (nel nostro caso i “repertori” sono soprattutto rappresentati da testi scritti): sa leggere chi “conosce” i significati (la forma e il contenuto) delle “parole-chiave” della Storia del Pensiero Umano, e sa leggere chi “capisce” la forma e il contenuto delle “idee-cardine” della Storia del Pensiero Umano.
*(terzo) È necessario imparare a sviluppare “una trama intellettuale”, cioè istruirsi a costruire il “catalogo dei pensieri”: a mettere in ordine i pensieri che nascono nella nostra mente (il pensiero è sempre in azione) quando riflettiamo sui significati delle “parole-chiave” e delle “idee significative” contenute nei “repertori” della Storia del Pensiero Umano.
*(quarto) È necessario acquisire l’abitudine a “sintetizzare un pensiero” attraverso la scrittura: uno dei pensieri che sono stati catalogati dalla mente che riflette, uno dei segmenti della trama intellettuale che la nostra mente ha tessuto. Per l’esercizio della “scrittura” valgono le stesse cose che abbiamo detto per la “lettura”: la scrittura è una (buona) abitudine ed è utile scrivere “quattro righe al giorno”, preferibilmente di carattere autobiografico. La “scrittura” è uno straordinario esercizio in funzione dello “studium et cura”, ed è utile a mettere in gioco una serie di comportamenti fondamentali: la “scrittura” serve a pensare, a riflettere, a considerare, a meditare, a pesare le parole, a fare un bilancio, a ricordare, a osservare, a progettare. La “scrittura” ci stimola a raccontare, a descrivere, a informare, a esprimere, a interpretare, ad argomentare.
*(quinto) È necessario imparare a riflettere sulla “trafila dell’apprendimento” e a imparare a potenziare le azioni attraverso le quali si realizza l’apprendimento (le cosiddette “azioni cognitive”), bisogna sapere che per “imparare ad imparare” è necessario mettere in atto sei azioni fondamentali: conoscere, capire, applicare, analizzare, sintetizzare, valutare.
Il “Percorso in funzione della didattica della lettura e della scrittura” sul quale ci stiamo incamminando si propone di “potenziare l’apprendimento” (l’apprendimento è un diritto-dovere delle cittadine e dei cittadini), e questo significa che dobbiamo imparare a “conoscere” (un catalogo di parole-chiave) e a “capire” (un catalogo di idee significative), dobbiamo imparare ad “applicarci” (su un repertorio culturale), dobbiamo imparare ad “analizzare” (a mettere in ordine la trama dei nostri pensieri), dobbiamo imparare a “sintetizzare” (a fissare, con la scrittura, il pensiero che ci seduce di più), e dobbiamo imparare a “valutare” (a misurare, a giudicare i risultati del nostro itinerario intellettuale), e tanto più – durante questa trafila – ci rendiamo conto di “non-sapere” e meglio è. «La cultura è un lungo viaggio all’interno della nostra ignoranza» (ci ricordano le pensatrici e i pensatori della Storia del Pensiero Umano da 2500 anni).
«La cultura non è una cosa – ci viene ancora ricordato – ma è un modo di fare le cose». Il compito primario della Scuola non è quello di “far imparare tante cose” (per rendere la “testa ben piena”) ma è quello di insegnare “come s’imparano le cose”, di insegnare il “modo in cui s’impara” (per rendere la “testa ben fatta”).
L’attività dei “Percorsi di Storia del Pensiero Umano in funzione della didattica della lettura e della scrittura” si sviluppa attraverso l’applicazione del “metodo dell’affabulazione didattica”. Questo metodo risulta efficace, nel settore dell’Educazione degli Adulti, per favorire il coinvolgimento della persona nel “processo d’apprendimento” e per rendere la persona capace di governare, attraverso le azioni cognitive, il proprio itinerario d’apprendimento in modo da imparare “a investire in intelligenza”.
Come si traduce sul piano pratico il “metodo dell’affabulazione didattica”? Ad ogni itinerario, la Scuola ci propone di “conoscere” la forma e il contenuto di alcune “parole-chiave”, ci propone di “capire” la forma e il contenuto di alcune “idee cardine”, ci propone di “applicarci” con attenzione sul “repertorio” (come stiamo facendo adesso), ci propone di “analizzare”, vale a dire di “catalogare i pensieri” che il “repertorio” fa nascere nella nostra mente, ci propone di “sintetizzare”, vale a dire di “scegliere un pensiero” e di scriverlo (bastano quattro righe per costruire una trama intellettuale), e infine ci propone di “valutare”, vale a dire di auto-governare l’andamento di questa trafila che, itinerario dopo itinerario, potenzia la nostra capacità di “imparare ad imparare”. Con il “metodo dell’affabulazione” la Scuola s’impegna, nel contesto di un “Percorso di didattica della lettura e della scrittura”, a presentare il “testo della Lezione”, a presentare “il repertorio e la trama” in modo che nella mente delle persone possano configurarsi tre elementi funzionali alla conoscenza: la “curiosità”, la “riflessione” e “l’immaginazione”.
Per concludere il (ripetitivo e tradizionale ma necessario) rituale della partenza dobbiamo dire che ci avvaliamo anche di due strumenti funzionali al “Percorso di didattica della lettura e della scrittura”.
Il primo strumento è la rivista L’ANTIbagno che quest’anno ha compiuto nove anni. In realtà si tratta di un “quaderno didattico interattivo” costruito in modo che ciascuna/ciascuno lo possa “leggere” ma soprattutto possa “utilizzare gli spazi”, lasciati appositamente a disposizione, per “scrivere” (per disegnare, per illustrare, per colorare, per appiccicare immagini): spesso (anche perché lo spazio a disposizione non è molto) è sufficiente una “parola” per esprimere il proprio pensiero, spesso è sufficiente un “segno” per rappresentare una riflessione, ed è in questo senso che, scrivendoci e disegnandoci sopra, questo “quaderno” si trasforma in una “rivista”: è in questo modo che diventa la “rivista propria di ciascuno”, pronta per essere letta e per cominciare il suo tragitto nella “biblioteca itinerante”.
Il secondo strumento di cui questa esperienza scolastica si avvale è il sito governato da “Franco mastrodiposta”. I “Percorsi di Storia del Pensiero Umano in funzione della didattica della lettura e della scrittura” sono in rete all’indirizzo www.inantibagno.it. Il sito è uno strumento molto utile e permette – iscrivendosi all’area riservata – di avere, di settimana in settimana, a disposizione il testo integrale delle “Lezioni” di questo Percorso e permette (volendo) a singoli e a gruppi di cittadine e cittadini (in altri Centri Territoriali) in Italia o residenti all’estero di seguire l’itinerario di studio a distanza (via FAD - Formazione a distanza). Inoltre il sito – che raccoglie già “Lezioni, repertori e trame” degli anni scolastici precedenti – permette anche di ripercorrere i viaggi di studio del recente passato.
Il (ripetitivo e tradizionale ma necessario) rituale della partenza ci ha permesso di prendere il passo, e così il viaggio (dell’anno scolastico 2007-2008) è incominciato. Il rituale della partenza ci ha messo al corrente sul “perché” e sul “come” dobbiamo intraprendere un viaggio di studio, ma: “da dove” parte il nostro Percorso? Come si configura (che forma ha) il punto, lo spazio, il luogo della nostra partenza?
La prima settimana dello scorso mese di maggio (circa cinque mesi fa) abbiamo concluso il primo Percorso dell’anno scolastico 2006-2007 (venticinque itinerari di studio) in compagnia di Erodoto e della sua opera: Le Storie. Poi abbiamo concluso l’anno scolastico 2006-2007 con cinque itinerari dedicati alla Fenomenologia dello Spirito, un’opera pubblicata nel 1807. La Fenomenologia dello Spirito di Hegel è una delle opere più significative, più stimolanti e più complicate (più difficili da leggere e da capire) della Storia del Pensiero Umano. Le “parole-chiave” più importanti della Fenomenologia dello Spirito sono tre termini che hanno un peso notevole nella Storia della Cultura e nell’esercizio dell’investire in intelligenza, e sono le parole: “coscienza”, “autocoscienza” e “ragione”.
Quante volte usiamo, e quante volte incontreremo ancora nei nostri Percorsi, queste parole! Sappiamo che le parole “coscienza”, “autocoscienza” e “ragione” non derivano direttamente dalla Fenomenologia dello Spirito di Hegel ma entrano nell’opera di Hegel (entrano nella Storia del Pensiero Umano) filtrate attraverso il “movimento della Sapienza poetica orfica”: il tema più ampio che abbiamo trattato nello scorso anno scolastico 2006-2007. Sono proprio le parole “coscienza”, “autocoscienza” e “ragione” – suggeriteci da Hegel – che ci riportano a Le Storie di Erodoto e al “movimento della Sapienza poetica orfica”. Se Hegel (e, con lui, tutta la generazione romantica, “titanica” e “galante”, che abbiamo incontrato in questi ultimi anni) non avesse studiato con passione la cultura greca e il “movimento della Sapienza poetica orfica” di cui Erodoto si fa portavoce, non avrebbe potuto disegnare il suo itinerario (la sua “fenomenologia”) dalla “coscienza”, all’“autocoscienza”, alla “ragione” e oltre, fino allo “Spirito”. Quindi sono proprio le parole “coscienza”, “autocoscienza” e “ragione” che ci riportano al “movimento della Sapienza poetica orfica”, che è stato terreno di studio dello scorso anno scolastico e, a loro volta, queste parole ci servono per dare consistenza al punto, allo spazio, al luogo della nostra attuale partenza. A questo proposito, chi vuole (da se medesimo o con l’aiuto di qualcuno più esperto) può stampare e leggere sul sito www.inantibagno.it le 25 lezioni su questo argomento.
Adesso noi dobbiamo ricordare che, studiando il tema della “Sapienza poetica orfica” – utilizzando il testo de Le Storie di Erodoto – abbiamo scoperto e catalogato una serie di “parole” e di “idee” che vengono ritenute proprie del “movimento della Sapienza poetica orfica”: queste “parole” e queste “idee” – sul piano dell’Età assiale della storia – costituiscono un rigoglioso ramo de “l’albero genealogico lessicale”. Che cos’è “l’albero genealogico lessicale”? “L’albero genealogico lessicale” è l’oggetto che contiene, che dà forma al catalogo delle “parole-chiave” che, dalle origini, costituiscono il patrimonio culturale che la Storia del Pensiero Umano ci ha lasciato in eredità. Come c’è un “albero genealogico famigliare” (tutte/tutti noi lo possediamo) che descrive il percorso della nostra vita biologica così c’è un “albero genealogico lessicale (delle parole e delle idee)” che descrive il percorso intellettuale della tribù dell’homo sapiens di cui tutte/tutti noi facciamo parte insieme a tutte le/gli abitanti del Pianeta che ci ospita. Se vogliamo “alfabetizzarci” e se vogliamo cominciare a capire “chi siamo” (a capire in che cosa consiste la “cultura umana”) dobbiamo imparare a conoscere “l’albero genealogico lessicale” che comprende, a cominciare dai rami più bassi: le parole e le idee degli “albori” e “dell’Età assiale della storia” (che abbiamo studiato due anni fa), e le parole e le idee del “movimento della Sapienza poetica orfica” (che abbiamo studiato lo scorso anno), e le parole e le idee della “Sapienza poetica beritica” (che, itinerario dopo itinerario, incontreremo nel Percorso di studio di quest’anno). La conoscenza e la comprensione de “l’albero genealogico lessicale” ci permette, quindi, di cominciare a chiarire la nostra identità: che è “l’identità umana”, dalla quale scaturiscono quelle che chiamiamo le “culture” che sono il terreno di coltura del nostro intelletto. Sull’ultimo numero, il n.16, de la rivista L’ANTIbagno, a pag. 6 e 7, c’è un servizio specifico in proposito: sul tema de “l’albero genealogico lessicale”.
Le parole-chiave e le idee-cardine più significative che riguardano il “movimento della Sapienza poetica orfica” le abbiamo inventariate e, alla fine del primo Percorso dell’anno scolastico 2006-2007 (nel maggio 2007), utilizzando un questionario, abbiamo operato, su due cataloghi, una scelta. Hanno risposto al questionario 274 persone e hanno dato una “forma” al territorio della “Sapienza poetica orfica”. Questa “forma” non è solo un punto di arrivo ma è anche il punto di partenza del nuovo viaggio che – dopo aver preso il passo – stiamo per intraprendere. Vediamo i risultati della scelta: forse siamo anche un po’ curiosi visto che gran parte di noi ha partecipato a questa consultazione. Osserviamo quale aspetto ha assunto il paesaggio intellettuale del “movimento della Sapienza poetica orfica”: punto di arrivo e punto di partenza tra due Percorsi. Possiamo constatare che “due parole” sono state scelte più delle altre: queste due parole hanno totalizzato lo stesso numero di consensi e sono la parola “albero” e la parola “maschera”; poi a scalare troviamo le altre parole del catalogo: la mente, la verità, la logica, il mare, il soffio, il labirinto, il delfino, la necessità, il verosimile, l’opinione, la prosopopea, la radice, l’apparenza, il numero, il contrario, la materia, la fisica, l’umido, la misura e la statua che è la parola scelta di meno, però nessuna parola è stata esclusa: tutte le parole sono entrate in gioco:
parola per parola: le risposte …
l’albero la maschera
la mente la verità la logica il mare
il soffio il labirinto il delfino la necessità il verosimile l’opinione
la prosopopea la radice l’apparenza il numero
il contrario la materia la fisica l’ umido la misura la statua
Per quanto riguarda le idee si è nettamente affermata l’idea che: “Il principio di tutte le cose [l’arché] è nei fenomeni della natura” e forse (la scelta è oculata) perché risulta essere l’espressione che riassume un po’ tutte le altre. Leggiamo sulla tabella, secondo l’ordine decrescente delle scelte, le altre frasi:
idea per idea: le risposte …
Il principio di tutte le cose [l’arché] è nei fenomeni della natura …
[Panta rei] Tutto diviene e nulla è …
A mescolare tra loro le radici di tutte le cose [rhixomata] intervengono Odio [neikos] e Amore [philotes]
L’ Uomo [anthropos] è misura di tutte le cose: di quelle che sono, per ciò che [in quanto] sono, e di quelle che non sono, per ciò che [in quanto] non sono …
L’ Uno è Tutto, infinito, immobile, eterno …
Nulla è; se anche qualcosa fosse, non si potrebbe capire; e seppure si riuscisse a capire, non si sarebbe in grado di comunicarlo agli altri …
Tutto è in Tutto come stabilito dall’ Intelletto [Noùs] …
L’ Essere è e il Non-essere non è …
Tutto è Materia: la patria dell’animo virtuoso è l’ intero Universo …
Il numero [aritmós] è il “punto fermo” su cui si regge l’Armonia dell’ Universo …
(Quest’ultima frase va letta sottovoce in modo che non senta Pitagora che, lo scorso anno, ci ha guidato fino a Catania nelle terre de I viceré. Se Pitagora viene a sapere che ha avuto meno scelte di tutti sono guai (c’è comunque un antidoto: io vi consiglio di mettervi in tasca una fava e se per caso Pitagora dovesse manifestare la sua ira basta fargliela vedere e lui – lo sapete – si dilegua senz’altro).
Per quanto riguarda le parole-chiave dobbiamo fare subito una riflessione: sono stati scelti due termini – “l’albero” e “la maschera” – che hanno una “doppia valenza” alternata: che cosa significa? Significa (e molte/molti di voi, in viaggio lo scorso anno, saranno in grado di mettere in moto la memoria in questo caso) che il termine “albero”, in greco (nel greco ionico di Erodoto), viene espresso con due parole: c’è un termine che definisce l’albero nella sua forma naturale: “déndron”; e c’è un termine che definisce l’albero nella sua forma metaforica, allegorica: “istós”. In greco per definire l’albero della foresta, del bosco, dell’orto, del giardino, dell’aiuola si usa la parola déndron, mentre per definire l’albero della nave, l’albero della cuccagna, l’albero genealogico, l’albero motore, cioè l’albero in senso figurato si utilizza la parola “istós” e ora, quindi, dobbiamo ulteriormente contribuire a puntualizzare la scelta.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Quale “albero” vuoi scegliere per primo: quello “naturale” (déndron) o quello “metaforico” (istós)?… Probabilmente esiste un albero naturale o un albero metaforico al quale sei particolarmente legata/legato quindi scrivi una riga in proposito…
Per quanto riguarda la parola “maschera” sappiamo che c’è una doppia valenza in senso inverso perché in greco (nel greco ionico di Erodoto) il termine “maschera” corrisponde alla parola pròsopon la quale ha due significati: significa contemporaneamente “la maschera” e “il volto”. Questo perché – secondo la sapienza poetica orfica – un fenomeno, un avvenimento, un segno, è reale (ha un volto) solo se c’è un evento ideale (una maschera) che lo sostiene, che lo contiene (da questo concetto nasce l’idea che esistano gli dèi, per esempio: un temporale ha un “volto” perché ci sono i fulmini e i tuoni che, a loro volta, corrispondono alla “maschera” dietro la quale si nasconde il “volto” di Zeus), e ora, quindi, anche in questo caso, dobbiamo ulteriormente contribuire a puntualizzare la scelta.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Probabilmente esiste una “maschera” – o della tradizione popolare o dell’arte o del teatro o del cinema… – che tu vorresti accostare al tuo volto perché, secondo te, serve per dare un senso alla tua persona: scrivi una riga in proposito…
Intanto le scelte che abbiamo operato hanno dato una “forma” al territorio della “Sapienza poetica orfica”, e questa “forma” – abbiamo detto – non è solo un punto di arrivo ma è anche il punto di partenza del nuovo viaggio che (e, intanto, abbiamo preso il passo) stiamo per intraprendere. Quindi: il “paesaggio intellettuale” formato dalla parola “albero” e dalla parola “maschera” e dall’idea che “Il principio di tutte le cose [l’arché] è nei fenomeni della natura” costituisce il punto di arrivo e il punto di partenza tra due Percorsi.
Infatti nel nuovo territorio che dobbiamo attraversare – e del quale, adesso, siamo arrivati ai confini – tanto la parola “albero” nel suo duplice significato naturale e allegorico (e chi non ha in mente quel “giardino in Eden” i cui alberi sono contemporaneamente piante da frutto e allegorie esistenziali?), quanto la parola “maschera” in concomitanza con la parola “volto” (in questo giardino – tanto per fare un esempio – si aggira un Dio il cui volto è nascosto dietro una maschera e, sempre in questo giardino, i due primi abitatori, dopo aver fatto i conti con gli alberi cercano invano di mascherarsi!) e anche l’idea del “manifestarsi dei fenomeni della natura” in modo misterioso (fecondazioni inaspettate, grandi temporali sulle vette dei monti, avvenimenti catastrofici, mari che si aprono), hanno un ruolo molto significativo.
Ma ora nel momento in cui siamo arrivati nei pressi del grande territorio che contiene il significativo paesaggio intellettuale che vogliamo osservare, al quale è stato dato il nome di “movimento della sapienza poetica beritica”, dobbiamo – per non perderci – procedere con ordine. E quindi, per prima cosa, è necessario fare alcune considerazioni di carattere generale.
Le radici della tradizione culturale europea affondano in un duplice terreno: il terreno del “movimento della sapienza poetica orfica” da cui deriva la cultura greca (molti di noi sono reduci da un viaggio, nel territorio della “sapienza poetica orfica”, compiuto lo scorso anno scolastico) e nel terreno del “movimento della sapienza poetica beritica (un termine – beritico – di cui dobbiamo studiare i significati)” da cui deriva la cultura dell’Antico Testamento.
Come l’Iliade e l’Odissea di Omero, come la Teogonia e le Opere e i Giorni di Esiodo, come Le Storie di Erodoto sono alcuni (ne abbiamo incontrati tanti) dei testi fondamentali della cultura greca la cui conoscenza è ritenuta indispensabile per un’adeguata comprensione di noi stesse/stessi, così i Libri dell’Antico Testamento (che, riuniti, formano la parte più consistente di quella biblioteca che chiamiamo: la Bibbia) sono altrettanto indispensabili per chi voglia comprendere il nostro patrimonio culturale in modo da capire meglio chi siamo, in modo da comprendere meglio la nostra identità umana. Noi ci accingiamo ad affrontare questo viaggio all’interno del vasto ed accidentato territorio del “movimento della sapienza poetica beritica” in funzione della didattica della lettura e della scrittura: questo è l’obiettivo istituzionale che la Scuola pubblica si pone.
I Libri della Bibbia sono anche un grande apparato di “testi sacri” e, a questo proposito, la Scuola pubblica non ha una competenza specifica: ci sono altre agenzie che, nella società – come prevede la Costituzione – hanno una competenza e sono i luoghi di culto e di studio delle varie confessioni religiose. La Scuola pubblica e laica non ha il compito di indicare alle cittadine e ai cittadini il carattere sacro o non sacro della Letteratura che si sviluppa dal “movimento della sapienza poetica beritica”: la Scuola pubblica e laica ha il dovere istituzionale di proporre un Percorso di alfabetizzazione culturale per potenziare la capacità di apprendimento della persona e per fornire maggiori strumenti in modo che le cittadine e i cittadini possano ipotizzare, operare, potenziare delle scelte in maniera autonoma e responsabile in ragione delle riflessioni che si formano nel loro pensiero.
C’è sempre stata una difficoltà a studiare i “testi biblici” che sono un patrimonio letterario e di Storia del Pensiero di straordinario valore ma completamente sconosciuti in quanto tali. La conoscenza del mondo biblico e, quindi, della “sapienza poetica beritica”, è molto superficiale ed è limitata agli stereotipi, ai modelli che si sono riprodotti per ripetizione attraverso i modi di dire della tradizione popolare, del catechismo dell’infanzia e, ultimamente, del linguaggio della pubblicità che fa spesso appello agli stampi più consueti dell’apparato biblico filtrati e riprodotti (a volte sulla scia della Storia dell’Arte) con maliziosa abilità: il giardino dell’Eden, Adamo ed Eva, il serpente tentatore, cioè la tentazione, il lasciarsi tentare, è sempre molto efficace per vendere e poi improbabili paradisi trasformati in caffetterie e molteplici allusioni a quel qualcosa di “prodigioso” che dovrebbe accomunare le caratteristiche divine a quelle del prodotto reclamizzato).
Ci sono sempre stati (e ci sono tuttora) degli impedimenti ad avere una conoscenza diretta della “sapienza poetica beritica” cioè di quel movimento culturale che porta alla codificazione dei libri della Bibbia perché, per secoli, i testi dell’Antico (e del Nuovo) Testamento, sono stati sì diffusi in lungo e in largo da zelanti predicatori ma mai letti direttamente dalle persone che non sapevano (l’analfabetismo era, ed è ancora diffusissimo) e non potevano leggerli, inoltre i libri dell’Antico (e del Nuovo) Testamento sono stati (e sono) al centro di infinite sottilissime disquisizioni fra teologi e filosofi che ne hanno – se così si può dire – “sequestrato i testi” allontanandoli ancora di più dalla massa delle ipotetiche lettrici e degli ipotetici lettori. Il contenuto delle storie dell’Antico e del Nuovo Testamento è stato divulgato soprattutto attraverso le immagini (e noi viviamo in un posto del mondo dove abbiamo la fortuna di “entrare in contatto diretto” con moltissime di queste immagini) ma dobbiamo pensare al fatto che anche gli artisti (soprattutto i pittori), nel Medioevo e nel Rinascimento, dovevano farsi leggere da qualcuno che era autorizzato (con il consenso dell’autorità) quelle pagine dell’Antico (e del Nuovo) Testamento che poi avrebbero trasformato in immagini.
Poi la Letteratura biblica è stata (ed è) anche oggetto di polemiche che sono sfociate spesso in lotte cruente. I testi dell’Antico (e del Nuovo) Testamento sono stati (e sono) invocati per giustificare la legittimità del potere costituito o, per contro, sono stati anche ispiratori di innumerevoli movimenti di protesta religiosa e di ribellione sociale (siamo ancora nell’anno di Fra Dolcino, 1307-2007). Questi testi, sebbene sconosciuti in quanto tali, hanno tuttavia costituito a lungo – soprattutto nel mondo cristiano del medioevo – il codice dei comportamenti e delle credenze collettive generalizzate.
Con l’avvento dell’età moderna e con la Riforma protestante – le 95 Tesi di Wittemberg di Lutero sono del 1517 e introducono la concezione del “sacerdozio universale” (tutti, uomini e donne, sono sacerdoti) e accreditano la teoria del “valore assoluto della Sacra Scrittura” – la/il fedele è invitato alla “lettura diretta” del testo della Bibbia senza il ricorso alla mediazione del sacerdote e questo fatto, grazie anche alla diffusione della stampa, favorisce, nei paesi in cui la Riforma si diffonde (dalla Germania di Lutero alla Ginevra di Calvino, dall’Inghilterra agli Stati Uniti) la conoscenza diretta e la lettura appassionata dei testi biblici, tradotti nelle lingue nazionali e venduti come veri e propri best-sellers.
Ora noi pensiamo che questo fatto, in linea di massima, sia stato positivo (ha anche incentivato l’alfabetizzazione), ma dobbiamo riscontrare che ha anche dei limiti che ostacolano il procedimento della “lettura consapevole” dei testi: che cosa significa? Significa che senza conoscere le linee portanti del “movimento della sapienza poetica beritica” cioè senza conoscere e senza capire i processi di formazione culturale e di costruzione intellettuale delle opere della Letteratura dell’Antico Testamento si rischia (e questo è avvento e continua a verificarsi) di leggere i testi in “modo fondamentale” così come appaiono scritti. Ma senza la necessaria preparazione filologica per decodificare le metafore intellettuali e le allegorie culturali con cui il testo è costruito viene a crearsi un “corto circuito interpretativo” che può spingere a comportamenti paradossali di stampo fondamentalista. Quindi per leggere la Letteratura dell’Antico (e del Nuovo) Testamento è necessario non solo essere alfabetizzati in “modo funzionale” (sapere leggere e scrivere) ma anche in “modo culturale”: questo significa che bisogna conoscere le parole-chiave e le idee-cardine del “movimento della sapienza poetica beritica”.
La Controriforma cattolica, con il Concilio di Trento (1545-1563, le decisioni del Concilio di Trento vengono sancite dalla bolla Benedictus Deus firmata da Pio IV) che ha condannato la Riforma luterana, per contrastare il pericolosissimo principio che privilegia la “lettura diretta” del testo sacro – principio considerato una minaccia nei confronti della gerarchia e del patrimonio dogmatico custodito dalla Chiesa di Roma –, ha favorito il definitivo allontanamento del pubblico dei fedeli da una “lettura diretta” della Bibbia, contribuendo così a quell’ignoranza del patrimonio della Letteratura biblica destinata ad accrescersi con l’avvento della cultura moderna.
L’Illuminismo (tra il 1740 e il 1800), infatti, con la sua critica della religione in generale e del Cristianesimo in particolare, ha contribuito in occidente alla crescita del fenomeno della cosiddetta “secolarizzazione” che ha posto i “valori civili” al di sopra dei “valori religiosi” e questo fatto, positivo per un verso, si è dimostrato negativo per un altro (anche perché, con la crescita della società industriale, tra i “valori civili” a cui dare concretezza in modo diffuso, la “scolarizzazione” è rimasto un privilegio concesso a pochi): la Letteratura biblica, da paesaggio culturale che nei secoli precedenti era familiare a tutti, per lo meno per sentito dire, ha perso ogni rilevanza ed è diventata terreno di studio e di ricerca per una minoranza di studiose e di studiosi. Infatti, nella contemporanea società secolarizzata, la grande biblioteca dei testi biblici (l’Antico Testamento conta 49 libri, il Nuovo Testamento 27 libri, in tutto 76 libri) ha continuato a costituire un punto di riferimento culturale obbligato per le/gli intellettuali ed le artiste e gli artisti (l’elenco è lunghissimo e per ora non facciamo nomi) che, pur avendo talora abbandonato la fede, hanno continuato a vedere nella Letteratura dell’Antico (e del Nuovo) Testamento una fonte di ispirazione per le loro riflessioni, per i loro dipinti, per le loro sculture, per i loro romanzi; ma, soprattutto le scrittrici e gli scrittori (dell’800 e del ‘900) hanno visto nella Letteratura dell’Antico (e del Nuovo) Testamento un documento insostituibile della creatività umana. Le scrittrici e gli scrittori (dell’800 e del ‘900) hanno il merito di aver fatto emergere (quasi sempre in modo inconsapevole) dai testi biblici le parole-chiave del “movimento della sapienza poetica beritica”.
A questo proposito dobbiamo citare un passo tratto dell’autobiografia del fondatore della nostra critica letteraria (il quale aveva la buona abitudine di scrivere dieci minuti al giorno), Francesco De Sanctis (1817-1883), che ha scritto anche la prima moderna Storia della letteratura italiana, il quale racconta come una volta, studiando il problema della lirica arcaica, dopo aver trattato di quella “greca di stampo orfico” (un tema di cui conosciamo il catalogo delle parole chiave: lo abbiamo utilizzato poco fa come punto di partenza), decise di avventurarsi nel campo, per lui sconosciuto, della lirica ebraica, facendo una ricerca sul libro dei Salmi e su altre forme poetiche dell’Antico Testamento: badate bene che Francesco De Sanctis non conosce la dicitura “sapienza poetica beritica” la quale non era ancora in uso. Sentiamo che cosa scrive Francesco De Sanctis nella sua autobiografia: un’esperienza, la scrittura autobiografica, alla quale tutti ci dovremmo dedicare scrivendo (con semplicità e con umiltà) dieci minuti al giorno. E poi se Francesco De Sanctis è per voi una figura poco nota, fate la sua conoscenza utilizzando l’enciclopedia o la rete, oppure leggendo qualche pagina da La giovinezza, che dà il titolo all’unica parte che De Sanctis è riuscito a scrivere (in parte l’ha dettata a sua nipote Agnese), un testo che è stato recentemente ripubblicato da Garzanti, nel 1981 e che trovate in biblioteca.
Ma ora ascoltiamo che cosa scrive Francesco De Sanctis a proposito dell’argomento che c’interessa:
LEGERE MULTUM….
Francesco De Sanctis, La giovinezza (1881)
Avevo sete di cose nuove, e quello studio era per me nuovissimo. Non avevo letto mai la Bibbia, come parola di Dio, moveva il sarcasmo. Nella nostra immaginazione c’erano il catechismo e le preghiere che ci sforzavamo di recitare nelle Congregazioni e la Bibbia entrava nel nostro disgusto di tutti i sacri riti. Lessi non so dove meraviglie di quel libro, come documento di alta eloquenza, e tirato dall’argomento delle mie lezioni, gittai l’occhio sopra il Libro di Giobbe. Rimasi atterrito. Non trovavo nella mia erudizione classica niente di comparabile a quella grandezza. Portai le mie impressioni calde calde nella scuola … quando lessi il libro tutto intero, la mia attenzione e la mia ammirazione guadagnarono tutti … Era per noi un viaggio in terre ignote e lontane dai nostri usi. Con esagerazione di neofiti, dimenticammo i nostri classici, fino Omero, e per parecchi mesi non si udì altro che Bibbia … Mi meraviglio come nelle nostre scuole, dove si fanno leggere tante cose frivole, non sia penetrata un’antologia biblica, attissima a tener vivo il sentimento religioso, ch’è lo stesso sentimento morale nel suo senso più elevato. …
È passato più di un secolo da questa «meraviglia» di Francesco De Sanctis e la Letteratura dell’Antico Testamento (e anche del Nuovo) continua a rimanere, nelle nostre scuole, e nella società in generale, un oggetto misterioso. E questo è, senza dubbio, un dato sconfortante se si pensa che questa biblioteca di testi (49 + 27 = 76 testi) costituisce uno dei «grandi codici» della tradizione intellettuale europea e mondiale. Questo significa che senza conoscere, senza capire e senza applicarsi sulle parole-chiave e le idee-cardine della Letteratura dell’Antico Testamento risulta difficile (se non impossibile)“leggere” e “decodificare” molti oggetti di Letteratura, di Arte, di Filosofia, di Politica, e via dicendo.
Per incontrare e per costruire il catalogo delle parole-chiave e delle idee-cardine della Letteratura dell’Antico Testamento è necessario entrare nel territorio del “movimento della sapienza poetica beritica”: e allora entriamo in questo grande e variegato paesaggio intellettuale. Il nostro viaggio è cominciato e, nel momento in cui attraversiamo il confine tra il territorio della “sapienza poetica orfica” da cui stiamo uscendo e quello della “sapienza poetica beritica” nel quale stiamo entrando, le prime due domande che necessariamente dobbiamo porci sono: che cosa significa il termine “beritico” e a che cosa corrisponde l’espressione “Antico Testamento”?
Alla prima domanda: che cosa significa il termine “beritico”? possiamo anche rispondere con una battuta, con un enunciato minimo.
Per quanto riguarda la seconda domanda: a che cosa corrisponde l’espressione “Antico Testamento”? non è possibile rispondere se non con una complessa riflessione il cui sviluppo va rimandato al prossimo itinerario.
Diciamo subito che il termine latino “testamentum” – che dà forma all’espressione “Antico (e Nuovo) Testamento” – traduce la parola ebraica “berit”. La parola ebraica “berit”, da cui deriva il termine “beritico” (e rispondiamo così alla prima domanda che ci siamo posti), significa “patto”, “accordo tra le parti” quindi non significa propriamente ciò che noi definiamo con la parola “testamento” (il “testamento, se mai, è una “disposizione unilaterale” che, a volte, scatena disaccordi più che accordi). Come mai succede questo? La parola ebraica “berit” e la parola latina “testamentum” non combaciano propriamente, non sono proprio due termini affini e tra l’espressione “Antico (e Nuovo) Testamento” e l’espressione “Antica (e Nuova) Alleanza”, che noi consideriamo speculari, non risulta esserci una precisa corrispondenza; quindi, partendo da questo fatto, dobbiamo avviare, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, una complessa riflessione filologica.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Hai mai ereditato inaspettatamente (non si ereditano solo cose materiali) qualche cosa? Scrivi quattro righe in proposito…
Il ragionamento che abbiamo fatto sul significato delle parole ci porta a rendere ancora più esplicito l’interrogativo che ci si pone di fronte: come mai c’è questo rapporto strano tra la parola “berit” e la parola “testamentum”?
Per procedere nel nostro viaggio di studio – come potete constatare il terreno si presenta subito impervio – dobbiamo fare riferimento ai testi. Nella letteratura biblica troviamo per la prima volta la parola “berit” nel Libro della Genesi – che tutti abbiamo sentito nominare: il testo del libro della Genesi lo studieremo in modo specifico strada facendo – al capitolo 17: e qui abbiamo subito una conferma del significato che ha, nel testo ebraico, questa parola.
Leggiamo questo frammento per capire in quale contesto si presenta la parola “berit”:
LEGERE MULTUM….
Genesi, 17 1-9
1 Quando Abram ebbe novantanove anni, il Signore gli apparve e gli disse: «Io sono il Dio onnipotente (El Shaddaim): cammina davanti a me e sii integro. 2 Io farò un patto (berit) tra me e te: i tuoi discendenti saranno sempre più numerosi». 3 Subito Abram si prostrò con il viso a terra e Dio parlò con lui: 4 «Ecco la promessa che faccio a te: tu sarai il capostipite di molti popoli. 5 Non ti chiamerai più Abram (padre eccelso) ma ti chiamerai Abraham (padre di moltitudini) perché ti renderò padre di una moltitudine di popoli. 6 E ti renderò molto, molto fecondo; ti farò diventare nazioni e da te nasceranno dei re. 7 Manterrò la promessa fatta con te e con la tua discendenza dopo di te di generazione in generazione, sarà una promessa valida per sempre: io sarò il Dio tuo e il Dio dei tuoi discendenti. 8 Darò a te e alla tua discendenza dopo di te il paese dove sei straniero, tutto il paese di Canaan in possesso perenne; sarò il loro Dio». 9 Dio disse ad Abramo: «Da parte tua devi osservare la mio patto (berit), tu e la tua discendenza dopo di te di generazione in generazione. …
Ora è facile capire che la parola “berit” fa riferimento preciso al concetto di “patto”, di “accordo” e in questo contesto – in cui un personaggio che si chiama Abramo (il cui nome, nella narrazione poetica, si perfeziona come in tutti i racconti mitici) riceve una promessa da un Dio “onnipotente e altissimo” – appare difficile attribuire alla parola “berit” il significato di “testamento”. Per come è congegnato il testo del frammento che abbiamo letto risulta esserci un motivo esplicito di natura teologica che esclude di poter far emergere dalla parola ebraica “berit” il concetto di “testamento” e non è necessario essere teologhe e teologi per capire.
Questo Dio “onnipotente e altissimo” (El Shaddaim) vuole stipulare un “patto (la berit)” in cui promette ad Abramo, in cambio della fedeltà, il possesso di una terra e la fecondità (per ora lui non ha figli propri) in modo che i suoi discendenti (che saranno numerosissimi) possano abitarla per sempre. Questo Dio “onnipotente e altissimo” (El Shaddaim) non lascia la terra (e tanto meno la fecondità) in eredità, per il fatto che non può lasciarla “in eredità”: e difatti il testo non allude al concetto di “eredità”. Questo Dio “onnipotente e altissimo” (El Shaddaim) non fa “testamento” per il semplice motivo che non può “fare testamento” perché un “testamento” (c’è bisogno di essere esegeti per capirlo) presuppone il venir meno (il distacco definitivo) di chi lo detta, ma come fa un Dio “onnipotente e altissimo” a preventivare la propria fine se sta proclamando la sua potenza?
E allora – ci domandiamo insieme alle studiose e agli studiosi – perché alla parola ebraica “berit” è stata accostata la parola latina “testamentum”? Questo atto si è compiuto (nel corso di circa due tre secoli) in virtù di una composita operazione intellettuale, in concomitanza di un complesso progetto culturale che va studiato in funzione della didattica della lettura e della scrittura.
Questa sera, in proposito, possiamo solo dire – ma è un’affermazione decisiva – che la parola ebraica “berit”, prima di essere tradotta in latino (circa due tre secoli dopo) con la parola “testamentum”, è stata tradotta in greco (la cultura greca continua ad accompagnarci…) e questo fatto è fondamentale per conoscere e per capire ciò che è successo: si tratta – come c’informano le studiose e gli studiosi – della cosiddetta “storia della migrazione delle parole-chiave dall’ebraico al latino attraverso il greco”. E, quindi, ci dobbiamo comandare: con quale parola greca è stata tradotta la parola “berit”? Questa parola greca la incontreremo la prossima settimana nel contesto (assai complesso) in cui deve essere collocata.
Senza dubbio questa parola-chiave – la parola “berit” – ha un’importanza strategica fondamentale nella Storia del Pensiero Umano infatti questa parola-chiave può riassumere in se stessa tutti i libri (tutti i 76 libri) della Bibbia. La parola “berit” taglia trasversalmente, unendoli, tutti i libri dell’Antico Testamento (è su questo apparato che in questo Percorso soffermiamo la nostra attenzione): è la parola-chiave per eccellenza e quindi non è casuale il fatto che il movimento culturale della “sapienza poetica” attraverso il quale prendono forma i libri della Bibbia (in particolare i libri dell’Antico Testamento) abbia assunto il nome di “beritico” piuttosto che di “vetero-testamentario”.
Adesso, per concludere, dobbiamo brevemente riflettere sul concetto della “berit” per quello che dice a noi oggi. Questa parola è importante – prima di tutto – per quello che significa sul piano della convivenza civile: come si fa a vivere, come cittadine, come cittadini, come persone, senza “fare patti”, senza “stipulare accordi”? Quanti modi di dire proverbiali – in tutte le culture – confortano questa affermazione! (Patti chiari ecc. ecc.). E poi quante volte diciamo nei nostri rapporti quotidiani con gli altri: “e va bene, sia così, a patto che…”.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Quando hai detto ultimamente: “Questo lo faccio ma a patto che …”?
Scrivi quattro righe in proposito…
Non temere di mettere per iscritto la “presunta banalità quotidiana”, il continuo patteggiare con noi stessi e con le altre persone sarà anche banale ma fa parte dell’essenza della vita e la parola “berit” è incardinata nella nostra esistenza: siamo eredi (in questo caso si può parlare di eredità) del movimento della sapienza poetica beritica e siamo sulla strada del viaggio che abbiamo cominciato ad intraprendere…
E adesso, per concludere questo primo itinerario, leggiamo due pagine tratte da un romanzo che s’intitola La spiaggia (è probabile che qualcuna/qualcuno di voi lo abbia letto). Il testo de La spiaggia (1941) è stato scritto da Cesare Pavese (1908-1950) che non ha bisogno di presentazioni. Il titolo del romanzo ci ricorda l’estate appena passata, la data di nascita dello scrittore (1908) ci ricorda che tra poco entriamo in un anno (2008) di “celebrazioni pavesiane: per i cento anni di Cesare Pavese” e il dovere della Scuola è quello di essere la prima a fare memoria.
Perché ci soffermiamo su queste due pagine? C’è un motivo, apparentemente, di ordinaria banalità. Questo breve romanzo ci porta d’estate sulla Riviera ligure a contatto con tre personaggi principali: una donna e due amici. Uno di essi (la voce narrante dello scrittore) racconta in prima persona le avventure di Doro, un suo amico di vecchia data quasi perso di vista e rincontrato per caso, e soprattutto racconta (assai affascinato e, anche se cerca di non darlo a vedere, traspare chiaramente la sua infatuazione) la vita di Clelia, la giovane moglie del suo amico Doro. È il mistero del loro rapporto che lo incuriosisce, quel “qualcosa che non va” e, soprattutto, è la personalità di Clelia, che è una tipica donna pavesiana coi suoi imprevedibili umori, le estrose reazioni, le confidenze improvvise. Attorno a Clelia si muovono gli altri personaggi e attorno a lei gravita la vita della spiaggia, con l’ozioso scorrere del tempo, con i discorsi inutili e con i molteplici intrighi sentimentali e i patteggiamenti che ne conseguano e che coinvolgono il narratore.
Nonostante la malinconia dei distacchi, La spiaggia è uno dei pochi libri di Pavese che termina con un tono di apertura nei confronti della vita. In questo romanzo lo scrittore sviluppa un argomento che risulta essere la chiave di lettura di questo testo: perché la vita non ci travolga è necessario imparare a patteggiare momento per momento con noi stessi e con le altre persone…
LEGERE MULTUM….
Cesare Pavese, La spiaggia (1941)
Da parecchio tempo eravamo intesi con l’amico Doro che sarei stato ospite suo. A Doro volevo un gran bene, e quando lui per sposarsi andò a stare a Genova ci feci una mezza malattia. Quando gli scrissi per rifiutare di assistere alle nozze, ricevetti una risposta asciutta e baldanzosa dove mi spiegava che, se i soldi non devono neanche servire a stabilirsi nella città che piace alla moglie, allora non si capisce più a che cosa devano servire. Poi, un bel giorno, di passaggio a Genova, mi presentai in casa sua e facemmo la pace. Mi riuscì molto simpatica la moglie, una monella che mi disse graziosamente di chiamarla Clelia e ci lasciò soli quel tanto ch’era giusto, e quando alla sera ci ricomparve innanzi per uscire con noi, era diventata un’incantevole signora cui, se non fossi stato io, avrei baciato la mano. Diverse volte in quell’anno capitai a Genova e sempre andavo a trovarli.
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La parola ebraica “berit”, da cui deriva il termine “beritico” (e rispondiamo così alla prima domanda che ci siamo posti), significa “patto”, “accordo tra le parti” quindi non significa propriamente ciò che noi definiamo con la parola “testamento”. Come mai succede questo? La parola ebraica “berit” e la parola latina “testamentum” non combaciano propriamente, non sono proprio due termini affini e sappiamo che, in mezzo, a giocare un ruolo importante, c’è una parola greca: partendo da queste considerazioni, dobbiamo avviare, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, una riflessione filologica.
Dove ci porta questa riflessione? Ci porta – ancora una volta – in una affascinante città: Alessandria, nella parte occidentale del delta del Nilo intorno al III secolo a.C.. Perché dobbiamo andare proprio ad Alessandria? Dobbiamo andare ad Alessandria anche per assaggiare le prime “clementine”.
Che cosa significa, che cosa nasconde questa frase sibillina, enigmatica, misteriosa, alessandrina? Lo scoprirete la prossima settimana: “a patto che (siamo o non siamo in territorio beritico?)” corriate a Scuola.
La Scuola è qui, il viaggio è cominciato: buon viaggio!...