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LA PAROLA GRECA “DIATÉKE”: UN PONTE TRA LA PAROLA EBRAICA “BERIT” E LA PAROLA LATINA “TESTAMENTUM” ...

Lezione N.: 
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Prof. Giuseppe Nibbi           Lo sapienza poetica beritica          17-18-19  ottobre  2007

LA PAROLA GRECA “DIATÉKE”: UN PONTE TRA LA PAROLA EBRAICA “BERIT” E LA PAROLA LATINA “TESTAMENTUM” ...

     La scorsa settimana, dopo aver celebrato il tradizionale rito della partenza, siamo entrati nel vasto e accidentato territorio della Letteratura dell’Antico Testamento: qui abbiamo subito incontrato la parola ebraica berit, da cui deriva il termine beritico che dà il nome al complesso movimento culturale – chiamato appunto della sapienza poetica beritica– dal quale prendono forma i libri della Bibbia. La scorsa settimana abbiamo studiato che la parola ebraica beritsignifica patto, accordo tra le parti quindi non significa propriamente ciò che noi definiamo con la parola testamento o, per meglio dire, con la parola testamentum: il termine con cui la parola ebraica berit è stata tradotta, seppure non direttamente, in latino.

     La parola ebraica berit e la parola latina testamentum, come abbiamo potuto verificare la scorsa settimana, non combaciano propriamente, non sono proprio due termini affini. Noi sappiamo che in mezzo a questi due termini – berit (ebraico) e testamentum (latino) –, a giocare un ruolo importante c’è una parola greca; con l’itinerario di questa sera, partendo da queste considerazioni, dobbiamo avviare, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, una riflessione filologica che passa dal mondo della lingua e della cultura ebraica al mondo della lingua e della cultura greca fino al mondo della lingua e della cultura latina: un viaggio molto insidioso se si è costretti a sintetizzare, come siamo costretti a fare noi, in un Percorso in funzione della lettura e della scrittura. Dobbiamo tenere conto che la parola beritviene tradotta dall’ebraico in latino in un secondo momento: prima (tre secoli prima, circa) questa parola è stata tradotta –abbiamo detto – in greco.

     Intanto, se dobbiamo fare l’inventario delle lingue, è necessario sapere che i Libri dell’Antico Testamento – in quella che viene considerata la loro versione originale, nei codici più antichi che possediamo – sono scritti in massima parte in ebraico e alcune parti sono scritte in aramaico (sono in aramaico alcuni brani del Libro di Esdra e del Libro di Daniele e, a volte succede che certi nomi vengono scritti in ebraico e poi ripetuti in aramaico: ce ne accorgeremo leggendo il Libro della Genesi) e inoltre alcuni libri sono stati scritti direttamente in greco (il Primo e il Secondo libro dei Maccabei. il Libro della Sapienza e il cosiddetto Libro di Ester greco).

     A proposito del greconoi sappiamo che, in seguito alle conquiste e alla formazione dell’impero di Alessandro Magno, tra il 333 e il 323 a.C., la lingua greca s’impone in Oriente (in Egitto, in Asia Minore, in Persia, fino al fiume Indo) in quello che viene chiamato il territorio dell’Ellenismo. Qui, soprattutto in Egitto e in Asia Minore, ci sono numerose comunità ebraiche, molto attive culturalmente e presenti in tutte le più grandi città, perché, da secoli, per varie ragioni (economiche, politiche, sociali, religiose) molti ebrei sono emigrati – è quella che si chiama la diaspora (dispersione) ebraica – fuori dai ristretti confini della Palestina.

     Questi ebrei (il più famoso alla fine del I secolo d.C. diventa Shaul-Paolo di Tarso) parlano il greco, parlano la lingua dell’Ellenismo e quindi, ad un certo punto, sentono la necessità che anche i Libri dell’Antico Testamento (il loro riferimento identitario), scritti in ebraico e in aramaico, vengano tradotti in greco perché ormai questi ebrei della diasporanon capiscono più l’ebraico e l’aramaico. Questa importante operazione culturale, di traduzione dei libri della Bibbia in greco, a cominciare dal III secolo a.C., prende forma soprattutto ad Alessandria (la scorsa settimana abbiamo preannunciato che saremmo sbarcati ad Alessandria) all’ombra della grande biblioteca che questa città del delta del Nilo possiede e che, nel III secolo a.C., raccoglie circa 700.000 volumi: molti intellettuali della comunità ebraica di Alessandria svolgono la loro attività di studio in Biblioteca.

     La traduzione in greco dei libri della Bibbia – una delle più significative operazioni culturali dell’Ellenismo e uno dei più significativi investimenti in intelligenza della Storia del Pensiero Umano – è stata chiamata: la versione dei Settanta: perché è stata chiamata così?

     Prima di rispondere a questa domanda dobbiamo dire che il testo in greco dell’Antico Testamento – la versione dei Settanta– ha influenzato generazioni di intellettuali e, oggi, tutte le studiose e tutti gli studiosi di esegesi c’informano che la diffusione del Cristianesimo si è potuta culturalmente realizzare – nel bacino del Mediterraneo e oltre – soprattutto grazie a questa situazione culturale, che ha fatto da tramite.

     Abbiamo già incontrato – da un’altra angolazione – questo tema quando (qualche anno fa) siamo stati in viaggio nel territorio dell’Ellenismo in compagnia di Shaul Tarsensis-Paolo di Tarso e ne abbiamo studiato le Lettere (che sono state scritte direttamente in greco) e quando, più di un decennio fa, abbiamo attraversato il vasto territorio della Letteratura dei Vangeli (una Letteratura scritta in greco).

     Sappiamo che la traduzione in greco dei libri della Bibbia detta dei Settanta costituisce un ponte tra il cosiddetto giudaismo ellenistico (il movimento culturale che nasce nelle comunità della diaspora ebraica) e il cristianesimo antico: Shaul Tarsensis alias Paolo di Tarso (con gli esponenti della prima generazione cristiana), si forma culturalmente su questa traduzione dei libri della Bibbia e sul dibattito intellettuale che si è sviluppato – nelle comunità dell’ebraismo presenti sul territorio dell’Ellenismo – intorno a questa traduzione. La lingua greca delle Lettere di Paolo di Tarso e la lingua greca della Letteratura dei Vangeli ha come modello la lingua della traduzione greca dell’Antico Testamento detta dei Settanta.

     Qui è necessario – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – aprire una piccola parentesi (è necessario uscire per un momento dal sentiero principale) per riflettere sul fatto che tanto le Lettere quanto i Vangeli non sono scritti né nella lingua che parlava Gesù di Nazareth (l’aramaico), né in quella che parlerà – dal I secolo – la chiesa di Roma (che va ad imporre il suo primato per diventare il centro della Cristianità) cioè il latinum vulgaris (popolare). La chiesa di Roma comincia – dalla fine del I secolo – ad utilizzare il latinum vulgaris (popolare) in forma scritta (e noi sappiamo che la scrittura autentifica lo cose) con le cosiddette Clementine.

     La scorsa settimana abbiamo detto che questa sera avremmo assaggiato le prime clementine: di che cosa parliamo quando parliamo di clementinein funzione della didattica della lettura e della scrittura?

     Le Clementine o la Letteratura clementina (da non confondersi con le Costituzioni clementine di Clemente V pubblicate da Giovanni XXII nel 1307) è la prima raccolta di documenti ufficiali della chiesa di Roma formata da venti omelie (prediche) e dieci recognitiones (ricerche). Le Clementine vengono attribuite dalla tradizione a papa Clemente Romano, il primo papa (dal 92 al 101, secondo Eusebio di Cesarea) che possa essere considerato una figura storica, ma solo quattro omelie e tre recognitiones sono da considerarsi di Clemente Romano: gli altri testi sono stati scritti da altri autori in epoche diverse (tra il IV e il V secolo) soprattutto nelle parti in cui si narra la leggenda che Clemente Romano, noto esponente della Sinagoga di Roma, sarebbe stato convertito da San Pietro (che non è mai stato a Roma) e dove si narra, con stile romanzesco, dell’avventurosa ricerca, con riconoscimento finale (tipo l’episodio biblico di Giuseppe e i suoi fratelliche incontreremo a suo tempo), da parte di Clemente della propria famiglia.

     Analizzando il testo latino delle Clementine “originali emerge con chiarezza che Clemente Romano, come intellettuale ebreo della diaspora, conosce l’ebraico della toràh (fa molte citazioni bibliche), conosce il greco dell’Ellenismo (quindi conosce i testi della versione della Bibbia dei Settanta, delle Lettere di Paolo e dei Vangeli) e conosce il latino popolare (vulgaris) che è la lingua con cui si esprime nella sua vita quotidiana.

     Analizzando il testo latino delle Clementine “originali emerge con chiarezza che Clemente Romano ha capito (c’è stata una presa di coscienza intellettuale) il messaggio innovatore di Shaul Tarsensis (che è morto da circa trent’anni), ed è leggendo e studiando questo annuncio che, molto probabilmente, ha accolto la notizia della resurrezione di Gesù di Nazarethcome una novità culturale su cui fondare la speranza di salvezza.

     Analizzando il testo latino delle Clementine “originali si intuisce che Clemente Romano, da ebreo della diaspora ellenistica, ha capito l’importanza straordinaria dei testi, scritti in greco, delle Lettere di Paolo di Tarso: ha capito il concetto fondamentale per cui è necessario passare dalla visione della Legge presa alla lettera all’interpretazione dello Spirito della Legge.

     Clemente Romano (considerato il primo dei Padri Apostolici, insieme a Ignazio di Antiochia e a Policarpo di Smirne) scrive in greco una serie di Lettere sul modello di quelle di Paolo (spesso ci sono delle sovrapposizioni per cui è difficile distinguere tra i due autori), scrive in greco gli Atti degli Apostoli (che è il primo catechismocristiano), scrive in greco i primi due capitoli del Vangelo secondo Luca (il cosiddetto testo Protolucano) e poi raccoglie, ristruttura, codifica e traduce in latino (questa è una scelta strategica di grande importanza) le Lettere di Paolo di Tarso: con questa significativa operazione intellettuale, determina e orienta in modo decisivo la linea dottrinale del Cristianesimo (e questo tema, con le opere e i personaggi che abbiamo citato, lo abbiamo, già studiato, nell’anno 2000-2001).

     Shaul Tarsensis (più di cinquant’anni prima) aveva capito benissimo che la carta vincente per la diffusione dell’euanghelon (parola greca che significa la buona novella) era quella di usare la lingua dell’Ecumene (il territorio che va dallo stretto di Gibilterra all’Indo): il greco dell’Ellenismo.

     Clemente Romano capisce altrettanto bene che questo patrimonio culturale – la traduzione in greco dei Libri della Bibbia ebraica, le Lettere di Paolo e le stesse opere che lui ha prodotto – deve essere reso nella lingua dell’Impero romano (ormai padrone del mondo), il latinum vulgaris: l’idioma delle classi subalterne (che costituiscono lo zoccolo duro della nuova dottrina), l’idioma dei quadri dell’esercito e del pubblico impiego (una vasta fascia di nuova conversione) a cui il cristianesimo rivolge il suo messaggio di salvezza in un momento in cui è già iniziata la grande crisi delle Istituzioni imperiali.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Cerca – utilizzando l’enciclopedia e la rete di internet (ci sarà qualche sito sull’argomento?) – qualche notizia in più sulla figura di Clemente Romano e sulla “Letteratura Clementina”, buone ricerche…

     E ora, dopo questa necessaria parentesi, ritorniamo a camminare sul nostro sentiero: la lingua greca delle Lettere di Paolo di Tarso e la lingua greca della Letteratura dei Vangeli ha come modello la lingua della traduzione greca dell’Antico Testamento detta dei Settanta che viene considerata l’ultima grande fase letteraria del movimento della sapienza poetica beritica.

     Come mai stiamo iniziando il nostro viaggio dalla fine? Siamo entrati nel territorio del movimento della sapienza poetica beriticacondizionati dalla cultura greca e quindi siamo passati da un ingresso dal quale più che entrare saremmo dovuti uscire. C’è effettivamente un problema – in un argomento così complesso come la sapienza poetica beritica– di definizione degli orizzonti: ma andiamo con ordine, non abbiamo sbagliato strada perché è proprio di qui che dovevamo entrare, dal varco della cultura greca.

     Perché la traduzione dell’Antico Testamento in lingua greca è stata chiamata: dei Settanta? Perché una leggenda, che è andata formandosi nel corso di un secolo, attribuisce, questa operazione culturale, a settanta(due) saggi: sei per ogni tribù di Israele (12 tribù x 6 saggi). Questi saggi, ispirati e – dice la leggenda – raccolti sotto l’ala del Dio di Mosé, riuniti in una specie di concilio di traduttori, di simposio dei sapienti, ospiti delle autorità di Alessandria, nell’isoletta di Faro, a ovest del delta del Nilo (andate sull’atlante ad osservare la posizione di Alessandria), hanno tradotto la legge ebraica in settantadue giorni.

     Perché c’è bisogno di una copertura leggendaria per giustificare un’interessante operazione culturale che, in realtà, si è svolta nel corso di tre secoli, per opera degli scrivani delle comunità della diaspora ebraica? Perché è necessaria una copertura mitica? Perché è sorto un contrasto molto forte tra chi considera blasfemo tradurre la toràh (la Legge di Mosé) in un’altra lingua, in una lingua straniera, in una lingua che non sia l’ebraico, e chi sostiene, invece, che la toràh (i primi cinque libri della Bibbia, vale a dire il Pentateuco), scritta in ebraico, non la capisce ormai più nessuno tra gli ebrei della diaspora e tanto meno la capisce qualcuno nell’Ecumene e, quindi, c’è bisogno di una traduzione in lingua greca, perché è necessario capire la Legge se si vuole proporla come modello di civiltà: secondo lo spirito dell’Ellenismo bisogna, infatti, superare il nazionalismo a favore dell’idea dell’internazionalismo.

     Come facciamo noi a conoscere questi fatti, a conoscere la leggenda dei settanta(due) saggi traduttori, in quale modo abbiamo potuto conoscere le idee che sono emerse nel corso di questo grande dibattito? Noi siamo al corrente su questi avvenimenti perché possediamo alcune opere, alcuni testi scritti, che ci svelano i termini della questione e che ci permettono di capire gli elementi fondamentali di questo importante scontro culturale, di questo significativo contrasto intellettualetra filotraduzionisti (favorevoli alla traduzione in greco della Legge di Mosé, del Pentateuco) e controtraduzionisti (contrari alla traduzione in greco della Legge di Mosé, del Pentateuco).

     Attenzione, ricordiamoci che stiamo percorrendo questo itinerario per preparare il terreno alla comprensione del significato della parola greca – che questa sera dobbiamo identificare – con cui è stata tradotta la parola ebraica berit. E questa parola greca che dobbiamo identificare e che ha interpretato la parola ebraica berit, successivamente, è stata tradotta con la parola latina testamentume sappiamo già che, in questa prima operazione di traduzione in latino, è protagonista Clemente Romano. Facciamo nostri questi tasselli che poi proveremo a mettere insieme.

     Quali sono le opere che ci permettono di conoscere i caratteri del grande dibattito intellettuale che scaturisce intorno alla traduzione in greco dei libri dell’Antico Testamento?

     La prima di queste opere che incontriamo questa sera sul nostro itinerario s’intitola Lettera di Aristea,  l’opera principale che documenta la nascita di una nuova mentalità che si diffonde nelle comunità ebraiche presenti sul territorio dell’Ellenismo dal III secolo a.C.: una mentalità più laica.

     La Lettera di Aristea è l’opera di uno scrivano ebraico, però, profondamente inserito nella cultura greca (si capisce che ha letto i Dialoghi di Platone). Il nome dell’autore di questo testo non lo conosciamo, ma è presumibile che sia uno studioso ebreo (una persona che frequenta assiduamente la biblioteca alessandrina) della potente Sinagoga di Alessandria dove i filotraduzionisti (gli intellettuali che considerano necessario tradurre in greco i Libri dell’Antico Testamento), hanno un peso consistente già dal III secolo a.C.. È in questo contesto che nasce la leggenda dei settanta(due) saggi traduttori ispirati dal Dio di Mosé: questa leggenda s’ispira alla sapienza poetica orfica. Il testo della Lettera di Aristea è databile intorno al 140 a.C..

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

La Lettera di Aristea è anche un elogio della traduzione e della necessità di tradurre per conoscere, per capire e per applicarsi …

C’è un episodio che ricordi in cui ti sei dovuta/dovuto cimentare con la traduzione?…

Scrivi quattro righe in proposito…

     Che forma ha il testo della Lettera di Aristea? Intanto, prima di tutto – in funzione della didattica della lettura  e della scrittura – dobbiamo prendere in considerazione il fatto che questo testo è una letterae dobbiamo dire che, nella letteratura dell’Ellenismo, il genere letterario della lettera, quello che si chiama l’epistolario, sostituisce e precorre il genere che poi, in tempi moderni, chiameremo: il saggio, vale a dire un testo per argomentare, per esprimere le proprie idee, le proprie opinioni, il proprio pensiero, le proprie riflessioni. Il genere della lettera si affianca al genere del dialogo, che ha avuto in Platone il suo grande codificatore: i Dialoghi di Platone (li incontreremo a primavera?) sono una delle più grandi raccolte di saggi della Storia del Pensiero Umano.

     La Lettera di Aristea è un testo epistolare scritto sotto forma di racconto, indirizzato a un certo Filocrate: un personaggio immaginario (sappiamo che filoς-filos, in greco, significa amico, amantee che krátos significa vigore, esuberanza, floridezza, fecondità, abbondanza; il nome Filocrate, in questo caso – dicono le esperte e gli esperti di filologia –corrisponderebbe a colui che ama arricchire il proprio patrimonio culturale, colui che ama allargare il proprio orizzonte intellettuale.

     La Lettera di Aristea può essere considerato un testo di propaganda: un racconto che vuole portare una serie di idee dell’Ellenismo, una serie di concetti della cultura greca, considerati positivi e compatibili con l’ebraismo, dentro gli ambienti intellettuali del giudaismo alessandrino. Quali idee contiene la Lettera di Aristea?

     Prima di tutto contiene un’idea di fondo molto importante, che diventa una testimonianza storica precisa sull’integrazione tra la cultura ebraica e la cultura greca: un’operazione fondamentale per lo sviluppo della cultura europea e per la nascita del Cristianesimo. L’autore della Lettera di Aristea scrive che il testo della toràh, della Legge (che corrisponde al Pentateuco, ai primi cinque libri – cinque rotoli, penta teuchoi– della Bibbia: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio) tradotto dai Settanta, deve essere considerato la traduzione ufficiale della Legge di Mosè. Il testo della versione greca della Legge di Mosé (del Pentateuco) tradotto dai Settanta – afferma l’autore della Lettera di Aristea – ha lo stesso valore del testo originale ebraico ma – allude l’autore – ha anche un valore aggiunto perché il greco è la lingua dell’Ecumene, quindi la lingua di tutta la terra abitata e, quindi, permette ad una moltitudine di persone di conoscere e di entrare in contatto con il testo della toràh, della Legge di Mosé (con il Pentateuco).

     E questo accreditamento (chiamiamolo così) viene fatto senza più bisogno di ricorrere alle leggende ma facendo appello alla cultura, non affidandosi al mito ma all’intelligenza (investendo in intelligenza): l’autore della Lettera di Aristea afferma che il Dio d’Israele ha voluto che i Settanta saggi, che via via hanno lavorato alla traduzione dei libri dell’Antico Testamento, possedessero una forte preparazione culturale greca, possedessero una profonda educazione ellenica; è da questo fatto, da questa competenza intellettuale (dalla conoscenza della lingua e della cultura dell’Ecumene), – afferma l’autore della Lettera di Aristea – che deriva l’ispirazione divina: i Settanta traduttori sono ispiratiperché sono competenti (sono sapienti) nella cultura e nella lingua che, in questo momento (IV-III-II secolo a.C.), unisce i popoli del creato.

     Sappiamo che c’è una parola greca, la parola koiné (letteralmente significa in comune, in pubblico), che definisce non solo la lingua greca dell’Ellenismo – che dal IV secolo a.C. ha cominciato ad affermarsi su un vasto territorio: da Gibilterra all’Indo – ma definisce anche la comunità linguistica e culturale unitaria che si forma su questo territorio perché sa mettere in comune (koiné) e sa rendere pubblici (koiné) oggetti culturali diversi che non sarebbero comprensibili (per esempio i Libri dell’Antico Testamento scritti in ebraico non sono più comprensibili neppure agli ebrei che sono emigrati ormai da secoli fuori dalla Palestina) se non venissero tradotti in un idioma comune, nell’ambito di una koinή-koiné.

     Nella Lettera di Aristea si profila un’idea fondamentale che a noi interessa in modo particolare in funzione del nostro Percorso, cioè viene a delinearsi l’idea che la cultura greca – la quale in questo momento (IV-III-II secolo a.C.) è dominante a livello internazionale (il termine internazionalismoè tipico dell’ellenismo greco, e nasce nell’ambito della koiné) – ha ricevuto in ereditàil testo della Legge di Mosé (il Pentateuco): il documento fondamentale scolpito dal Dio che ha creato l’Universo, che ha messo in ordine il Cielo e la Terra. La cultura greca – scrive l’autore della Lettera di Aristea – ha potuto ricevere in eredità il testo della Legge di Mosé  (i Libri della Bibbia) proprio per merito della presenza delle numerose comunità dell’ebraismo sul territorio  dell’Ellenismo (sono presenti in tutte le città, in tutte le polis grandi e piccole): un territorio (quello della koinή-koiné) che viene presentato dall’autore della Lettera di Aristea come una nuova e più vasta terra promessa.

     L’idea che si profila nella Lettera di Aristea, per cui la cultura greca ha potuto ereditare il testo della Legge di Mosé (i Libri della Bibbia) attraverso le numerose comunità dell’ebraismo presenti sul territorio dell’Ellenismo, fa sorgere il convincimento che esista un testamento, una disposizione  divinain cui si parla di un lascito culturale, intellettuale, spiritualeche presuppone il superamento delle cose materiali (non si tratta di un’eredità materiale) relativizzando anche l’idea della morte: Dio – scrive l’autore della Lettera di Aristeanon ha lasciato un’eredità di cose materiali (in greco kleronomìa) che presuppone la presenza della morte, ma ha trasmesso per l’eternità, attraverso un testamento spirituale, una disposizione divina (in greco diàtesis) per propiziare la vita.

     In questa citazione dobbiamo fare attenzione – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – al fatto che, in greco, ci sono due parole diverse per definire il termine eredità: infatti c’è un’eredità materiale, kleronomìae c’è un’eredità spirituale, culturale, intellettuale, diàtesis(nella lingua attica). Dobbiamo fare attenzione alle parole (e, a questo proposito, l’autore della Lettera di Aristea ci aiuta a capire), ricordandoci che stiamo percorrendo questo itinerario per preparare il terreno alla comprensione del significato della parola greca con cui è stata tradotta la parola ebraica berite, successivamente, la parola latina testamentum: per comprendere dobbiamo costruire un quadro con molti tasselli!

     A questo punto possiamo capire che, attraverso il testo della Lettera di Aristea, entra in gioco un pensiero nuovo, subentra una nuova interpretazione del ruolo dell’ebraismo nel mondo, non più ristretto negli angusti confini mediorientali. L’antico patto (la berit) stipulato da Dio con Abramo (e la scorsa settimana abbiamo letto un frammento, abbiamo letto 9 versetti tratti dal capitolo 17 del Libro della Genesi, che racconta un momento della stipula di questo patto) e rinnovato successivamente – come racconta il Libro dell’Esodo – con il dono della Legge (la toràh) affidata a Mosé: questo patto (la berit) viene a costituire – scrive l’autore della Lettera di Aristea – un lascito di cui le comunità della diaspora, presenti su tutto il territorio dell’Ellenismo, e partecipi della koiné, sono venute in possesso.

     Ecco che comincia a delinearsi l’idea che il patto, la berit, corrisponda ad una eredità spirituale, diàtesisdi cui le comunità della diaspora ebraica presenti sul territorio dell’Ellenismo sono diventate erediin quanto depositarie della Legge di Mosé tradotta in versione greca e, quindi, comprensibile su tutta la terra abitata e quindi più consona alla volontà del Dio dell’universo.

     L’autore della Lettera di Aristea si pone anche il delicato problema che un’eredità presuppone un testamento – su questo concetto teologico abbiamo già riflettuto la scorsa settimana – e un testamentopresuppone la morte di chi lo detta, e chi lo detta è Dio (notaio di se stesso): e come fa Dio a fare testamento se è al di sopra della morte? Come si può pensare alla morte di un Dio che si proclama onnipotente ed eterno?

     L’autore della Lettera di Aristea approfondisce questo concetto e, con una sagace operazione intellettuale (siamo ad Alessandria nel II secolo a.C. dove ci sono centinaia di Scuole filosofiche), riflette operando una significativa distinzione tra l’essenza non conoscibile della natura divina e la realtà delle descrizioni (delle metafore, delle allegorie) con cui l’essere umano tenta di raffigurarsi l’immagine del Dio di cui sente, in modo misterioso, la presenza. Chi può conoscere Dio nella sua essenza? Ce lo possiamo solo raffigurare costruendo delle immagini, creando delle metafore.

     Ecco uno dei significativi dilemmi alessandriniche investe anche l’autore della Lettera di Aristea: si può credere in qualcosa e affermare che, questo qualcosa, è impensabile e indefinibile? Si può – e questo tema è rimasto e rimane sempre in evoluzione nella Storia del Pensiero Umano e nei vari movimenti che hanno coltivato la sapienza poetica– accettare che all’impossibile pensiero dell’Assoluto si sostituisca il sentimento dell’Assoluto e quindi l’uso della metafora, l’utilizzo dell’allegoria: più bella sarà la metafora (più bella sarà la poesia) e più Dio insufflerà, infonderà in quella immagine poetica, che tenta di raffiguralo, un po’ della sua essenza. Questa idea che abbiamo già trovato nel movimento della sapienza poetica orfica è costitutiva anche del pensiero del movimento della sapienza poetica beritica. Non è il Dio onnipotente ed eterno che muore ma bensì è la sua rappresentazione allegorica che si evolve riproducendo una nuova immagine a scapito di quella antica (il concetto dell’Assoluto non può sussistere senza il concetto del Relativo).

     L’autore della Lettera di Aristea allude al fatto che, nelle comunità ebraiche dell’Ellenismo, muore (viene meno) l’immagine del Dio tribale, del Dio nazionalista e materialista che promette la terra di Canaan ad Abramo e alla sua discendenza che promette un’eredità materiale, kleronomìa, sorge invece l’immagine di un Dio internazionale (un Logos) che trasmette un’eredità spirituale, culturale, intellettuale, una diàtesis: questo Dio vuole, quindi, che si traduca il testo della sua Legge in greco cioè nella lingua di tutta la Terra.

     Ecco che la cultura greca – allude l’autore della Lettera di Aristea – riceve in ereditàil patto, la berit, che Dio ha stipulato con Abramo e poi con Mosé: e questo  patto, la berit, non è un eredità materiale (kleronomìa) ma è un lascito spirituale (diàtesis).  La cultura greca – allude l’autore della Lettera di Aristea – riceve un lascito, riceve in consegna il testo della Legge di Mosé (dei Libri della Bibbia) da tradurre nella lingua dell’Ecumene, e diventa erede del patto: è mediante questo ragionamento (questo processo culturale) che la parola patto, berit e la parola testamento, testamentum si avvicinano inesorabilmente…

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Secondo la tua esperienza quale di queste parole: accordo, trattato, trattativa, intesa, alleanza, contratto, concordato, negoziato, legge, obbligo, vincolo, promessa… metteresti per prima accanto alla parola “patto”?…

Scrivi quattro righe in proposito di carattere autobiografico, ma – a patto che tu scriva - basta anche una sola parola…

     Prima di continuare il ragionamento filologico in corso dobbiamo dire ancora che, per avvalorare l’avvicinamento tra cultura ebraica e cultura greca nel periodo dell’Ellenismo, l’autore della Lettera di Aristea espone come propri (di ebreo) due concetti tipici della filosofia greca: il primo è il concetto di provvidenza presente nella natura e il secondo è il concetto del dominio di se stessi di fronte alle passioni umane. Queste due idee, che l’autore della Lettera di Aristea dice di coltivare come ebreo, sono due idee (come molti di voi ricorderanno) di Scuola stoica ed epicurea (Epicuro muore nel 270 a.C.). Non ci dobbiamo meravigliare: ricordiamoci che siamo ad Alessandria dove ci sono, nel II secolo a.C., le Scuole di filosofia più importanti dell’Ellenismo.

     Dal testo della Lettera di Aristea noi capiamo che la contiguità, la vicinanza, e possiamo dire, l’integrazione, tra la cultura del giudaismo che fiorisce nelle comunità ebraiche e quella dell’ellenismo è ormai – siamo nel 140 circa a.C. – un fatto compiuto. Il testo della Lettera di Aristea ci fa capire soprattutto che nelle comunità della diaspora ebraica si è cominciato a leggere i Libri dell’Antico Testamento interpretandoli in modo allegorico, in modo metaforico, si è cominciato a capire che sono frutto di un movimento sapienziale e poetico di cui bisogna risalire alle radici.

     Ecco perché abbiamo cominciato dalla fine: c’è un problema di definizione degli orizzonti, abbiamo detto.

    Nelle comunità ebraiche dell’Ellenismo si comincia a fare l’analisi del midrash che è il genere letterario (lo studieremo strada facendo) con cui sono scritti i Libri della Bibbia, a cominciare dal Pentateuco, dove  il genere letterario del midrash appare più evidente. Il midrash comincia ad essere studiato e interpretato per quello che è: il midrash non è un racconto storico, ma è un testo cerimoniale di tipo mitico. Il midrashè quasi sempre un testo poetico che dà forma al vastissimo repertorio di leggende tramandate oralmente e crea una stupefacente narrazione sulle origini e sui grandi patriarchi (sui grandi personaggi del Pentateuco che, pur inseriti in precisi contesti antropologici e in determinate situazioni storiche, risultano essere figure allegoriche): i cicli narrativi su Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe, Mosé ricalcano la storia spirituale di ogni persona che aspira a dare un senso alla propria vita.

     Si comincia a capire, in questo momento, – e il testo della Lettera di Aristea ne dà conferma – che la maggior parte delle leggende che stanno alla base dei Libri dell’Antico Testamento provengono dalle culture di altri popoli, soprattutto dalla cultura mesopotamica in lingua akkadico-sumera e dalla cultura egizia della corrente mefitica.

     Questi temi – che sono temi fondamentali del movimento della sapienza poetica beritica – li studieremo strada facendo.

     Quindi, ad Alessandria – ed è uno studioso ebreo di nome Filone Alessandrino (che incontreremo prossimamente) il quale codifica, in modo definitivo, questo ragionamento – gli intellettuali ebrei, come l’autore della Lettera di Aristea, pensano e scrivono che i codici dei primi cinque Libri dell’Antico Testamento (il Pentateuco) e dei Libri dei Profeti si sono formati soprattutto in integrazione con la cultura delle leggende (delle epopee) di Babilonia e dell’Egitto faraonico. I codici del Pentateuco sono costruiti sulle forme e sui contenuti di culture che gli scrivani ebrei hanno potuto conoscere durante i cinquant’anni dell’esilio babilonese, dal 587 al 539 a.C.: è questo (il tema dell’esilio) naturalmente un argomento decisivo che riprenderemo a suo tempo, strada facendo, su questo Percorso.

     Se durante l’esilio babilonese, tra il 587 e il 539 a.C., c’è stata un’integrazione  tra l’ebraismo e la cultura di Babilonia e le ricche culture mesopotamiche, perché mai – pensano gli intellettuali come l’autore della Lettera di Aristea –, in periodo ellenista, non ci dovrebbe essere un’integrazione tra la Legge di Mosé e la potente cultura ellenica, tra i Libri del Pentateuco e l’internazionale lingua greca? Perché mai – pensano gli intellettuali come l’autore della Lettera di Aristea – non ci dovrebbe essere un inserimento della toràh nel contesto universale della koiné? Perché la Legge di Mosé non deve essere tradotta in greco e fatta conoscere al mondo? Anzi, nel testo della Lettera di Aristea, si arriva a pensare ad un parallelismo: la diaspora, la dispersione degli ebrei nel territorio dell’Ellenismo, ricorda tutto sommato una situazione simile a quella dell’esilio a Babilonia (un periodo ormai lontano che comincia ad essere esaltato come un momento topico, come un fatto decisivo nella storia dell’ebraismo: e difatti lo è e ce ne renderemo conto prossimamente).

     Se Dio ha permesso che a Babilonia (dove i ceti produttivi e la classe dirigente ebrea è stata deportata da Nabuccodonosor tra il 587 e il 539 a.C.) gli scribi del regno di Giuda, in esilio, abbiano potuto integrare le loro conoscenze con i modelli allegorici, patrimonio delle significative culture mesopotamiche, ebbene, non solo è lecito, ma – in questo nuovo e duraturo esilio sul territorio dell’Ellenismo – è anche doveroso che gli intellettuali ebrei – pensa lo scrittore della Lettera di Aristea – si uniformino agli schemi di una cultura forte e ricca come la cultura greca. L’autore del testo della Lettera di Aristea ribadisce l’utilità di una alleanza con la cultura forte e ricca dell’Ellenismo per rendere più forte e più ricca anche la cultura dell’ebraismo, in modo che il testo della Legge di Mosé (il Pentateuco), tradotto nella lingua della koiné, possa diventarne parte integrante.

     Il testo della Legge di Mosé (il Pentateuco) – allude l’autore della Lettera di Aristea –, ammantandosi di cultura greca, utilizzando lo strumento della koiné: si nobilita. Questo concetto – del nobilitarsi dei Libri del Pentateuco attraverso la lingua e la cultura greca – lo possiamo dedurre dal titolo di quest’opera. Aristea è un termine che non corrisponde al nome dell’autore: aristeia significa valore, superiorità, nobiltà (gli aristoi sono i nobili, l’arista è parte migliore, più saporita, in macelleria); quindi la traduzione  – ci dicono le studiose e gli studiosi di filologia – corrisponde ad una metafora: Lettera di Aristea corrisponde a Lettera che dà nobiltà.

     Il testo della Lettera di Aristea (la Lettera che nobilita la traduzione in greco del Pentateuco) si presenta come il manifesto dei filotraduzionisti alessandrini (gli intellettuali che considerano necessario tradurre in greco i Libri del Pentateuco) e rappresenta la manifestazione della volontà di ricevere in eredità il patto spirituale che Dio ha stipulato con Abramo: ecco che la parola berit (qui ci conduce tutto il ragionamento che abbiamo fatto finora), a contatto con la cultura greca dell’Ellenismo, perde la sua valenza materiale (e nazionalista) originaria. Il patto che Dio ha stipulato con Abramo, a contatto con la cultura dell’Ellenismo, diventa una disposizione di carattere spiritualerivolta a tutti gli esseri umani dell’ecumene.

     Nel greco alessandrino il termine disposizione si traduce con la parola diatéke (che deriva dal verbo diatitemi che significa dare disposizioni): il termine diatéke corrisponde, in particolare, al termine disposizione testamentariae quindi significa anche testamento e, per la precisione, significa: testamento di carattere spirituale (diàtesis, nella lingua attica). Ecco come attraverso quale itinerario (lungo più di due secoli), dalla parola ebraica berit, che definisce un patto materiale, si arriva alla parola greca che esprime il concetto di un lascito spirituale, culturale, intellettuale.

     E allora prendiamo finalmente in considerazione – dopo questa riflessione – la domanda iniziale e tiriamo delle conclusioni.

Abbiamo percorso questo itinerario per preparare il terreno alla comprensione del significato della parola greca (alessandrina) con cui è stata tradotta la parola ebraica berite, successivamente, nel I secolo d.C., proprio sulla base di questa parola, verrà tradotta la parola latina testamentum. La parola greca (alessandrina) che stiamo definendo fa da ponte tra l’antico concetto ebraico del patto e un nuovo concetto di pattoche, con il giudaismo ellenistico prima e con il cristianesimo subito dopo, si è venuto a configurare. E questo è il concetto di patto come testamento che tutti noi – vivendo in un ambiente di cultura cristiana – abbiamo assorbito senza fare distinzioni sul significato delle parole.

     Abbiamo studiato – ripetiamolo, perché è necessario – che la parola ebraica berit, che significa alleanza, patto, accordo tra le parti, non corrisponde propriamente ciò che noi definiamo con la parola testamento, non significa propriamente ciò che noi denominiamo con la parola testamentum che è il termine con cui, successivamente, la parola ebraica berit è stata tradotta in latino.

     La parola ebraica berit e la parola latina testamentum – come abbiamo potuto verificare già dalla scorsa settimana – non combaciano propriamente, non sono proprio due termini affini: lo sono diventati mediante una significativa operazione culturale, lo sono diventati perché, in mezzo, a giocare un ruolo importante nell’avvicinamento (a fare da ponte) tra la parola ebraica berit e la parola latina testamentum c’è una significativa parola greca di raccordo.

     Sappiamo che la parola beritviene tradotta dall’ebraico in latino con il termine testamentumin ambiente cristiano (dal I secolo in avanti per opera di papa Clemente Romano) nel momento in cui il Cristianesimo afferma ormai decisamente di aver ereditatol’antico e transitorio patto tra Dio e Abramo trasformandolo (come scrive Paolo di Tarso) in una nuova ed eterna alleanza e, quindi, chi traduce questa parola tiene conto (ne ha tutto l’interesse) della parola greca, o meglio, del significativo ragionamento culturale che si è sviluppato nelle comunità ebraiche dell’Ellenismo e che ha portato alla scelta di questa parola la quale è diventata lo strumento per trasformare l’idea di un patto materialeristretto ad una nazione  (la berit), in un lascito spirituale (la diàtesis)aperto all’Ecumene, a disposizione degli abitanti di tutta la Terra. 

     E allora, a questo punto – dopo aver riflettuto sui dati a nostra disposizione, in particolare sul testo della Lettera di Aristea – rispondiamo alla domanda da cui, questa sera, siamo partiti: qual è la parola greca con cui i Settanta hanno tradotto la parola ebraica berit? La versione greca, cosiddetta dei Settanta, del Libro della Genesi traduce la parola beritcon il termine diatéke che significa disposizionee, in particolare, significa disposizione testamentariae, quindi, testamento nel senso di testamento spirituale (diàtesis), nel senso che la cultura greca ha ricevuto la Legge di Mosé.

     Dalla versione greca dei Settanta deriva la versione detta Antica Latina: la prima traduzione in latino dei Libri della Bibbia, dovuta soprattutto all’iniziativa della comunità ebraica di Roma, molto attiva culturalmente dal III secolo a.C.; poi, alla fine del IV secolo d.C., Gerolamo – il padre della Chiesa di origine dalmata, per anni eremita nel deserto siriano, che muore a Betlemme nel 420 – traduce in latino tutti i Libri della Bibbia e conclude nell’anno 406 questo suo grande e impegnativo lavoro intellettuale. Gerolamo traduce i Libri della Bibbia direttamente dall’ebraico tenendo però sotto gli occhi il testo della versione greca dei Settanta, il testo della versione Antica Latina e il testo delle Lettere di Paolo come sono state raccolte, ordinate e tradotte dal greco in latino, a Roma, da papa Clemente Romano nel I secolo (sulla Letteratura clementina siamo informati).

     La versione della Bibbia in latino di Gerolamo è stata chiamata Vulgata cioè divulgata, diffusa, di uso comune, di uso popolare(Il Concilio di Trento, nel 1546, ha riconosciuto la Vulgata di Gerolamo – che era già stato il testo canonico della Bibbia per tutto il Medioevo – come unica e autentica versione ufficiale della Sacra Scrittura).

     A questo punto possiamo capire senza difficoltà che Gerolamo nel tradurre in latino la parola beritguarda sì al testo originale ebraico ma, in questo caso, guarda con interesse il testo greco della Bibbia nella versione dei Settanta e guarda con interesse anche il testo, tradotto in latino da Clemente Romano, della Seconda Lettera ai Corinzi di Paolo di Tarso (perché questo interesse?).  Naturalmente Gerolamo osserva con grande interesse la parola greca diatήkη-diatéke nel suo significato di disposizione testamentariae quindi traduce decisamente il termine beritcon la parola testamentum.

     Noi, a questo punto, pensiamo che non ci sia da meravigliarsi: era già stato costruito dal giudaismo ellenistico il ponte tra il patto materiale (la berit)e il testamento spirituale (la diάtesiς-diàtesis)ma dobbiamo tuttavia rilevare che la scelta di Gerolamo risulta strategica: egli avrebbe potuto usare anche un altro termine; infatti Gerolamo utilizza la parola testamentum e non la parola foedus che, in latino, significa propriamente alleanza, patto, e che, quindi, avrebbe interpretato in modo più preciso il termine berit. Infatti la versione della Bibbia Antica Latina, curata dai rabbini della Sinagoga di Roma, traduce il termine ebraico berit proprio con la parola latina foedus che si rifà in modo inequivocabile al concetto di alleanza materiale legata alla promessa della terra e della fecondità, un concetto che rinnova e tiene in vita la tradizione dell’antico patto tra Dio e Abramo. I rabbini che traducono la versione Antica Latina della Bibbia hanno una mentalità conservatrice e da Roma preferiscono guardare verso Gerusalemme (verso il Tempio) e non verso Alessandria (verso la Biblioteca).

     Papa Clemente Romano – il quale, come sappiamo, è un intellettuale della Sinagoga di Roma che, sul finire del I secolo, sceglie di seguire la via del Cristianesimo e preferisce (in polemica con la Sinagoga) guardare prima verso l’Ellenismo e poi verso Gerusalemme – nel ricomporre e nel tradurre in latino la Seconda Lettera ai Corinzi di Paolo di Tarso usa la parola testamentum: ma di questo importante particolare che riguarda il testo della Seconda Lettera ai Corinzi  ne parliamo tra un momento.

     È chiaro che Gerolamo, scegliendo di tradurre la parola ebraica beritcon il termine testamentum, uniformandosi alla parola greca diatéke nel suo significato di disposizione testamentaria, vuole avvalorare – in un momento di forti contrasti nelle chiese cristiane (sapete che i forti contrasti, su tutta una serie di temi fondamentali, durano, con violenza, per tutti i primi secoli del Cristianesimo: ma questo è un altro Percorso) – che il Cristianesimo ha ricevuto dall’ebraismo non un’eredità materiale ma bensì un lascito spirituale, culturale e intellettuale temperato dal pensiero dell’Ellenismoe, da questo momento (siamo nel IV secolo), con la Vulgata di Gerolamo, – per definire le Sacre Scritture – si codifica in modo definitivo la dicitura: “Antico e Nuovo Testamento”.

     Paolo di Tarso nella metà degli anni 50, scrivendo ai Corinzi – Paolo di Tarso parla e scrive nella lingua greca della koiné – aveva già usato la dicitura antico testamento, palea diatéke. In funzione della didattica della lettura e della scrittura dobbiamo precisare che è la prima volta che viene usata l’espressione antico testamento così come noi ancora la usiamo per indicare i Libri del Pentateuco: questa espressione la troviamo nella Seconda Lettera ai Corinzi che Paolo di Tarso ha scritto tra il 55 e il 56 (è questo un argomento che abbiamo studiato a suo tempo, perché con Shaul-Paolo di Tarso abbiamo viaggiato, per il Mediterraneo, su due Percorsi). Paolo utilizza il termine diatéke mutuandolo dalla traduzione della Bibbia dei Settanta (uno degli apparati culturali su cui si forma) e capiamo che ormai, nel I secolo d.C., la versione greca del Pentateuco ha soppiantato, nel mondo della cultura, il testo ebraico che tuttavia continua da avere (pur risultando incomprensibile ai più) un ruolo importante nella liturgia.

     Paolo utilizza il termine diatéke – che, nel I secolo, si è imposto in modo generalizzato – anche per definire il patto, antico e provvisorio, tra Dio e Mosé (la berit) che si è materializzato nella Legge, ma da questo dato ci rendiamo conto che il termine ebraico berit, con il suo significato materiale specifico, è stato ormai rimosso e il termine greco diatéke definisce il concetto in tutti i suoi significati; quindi Paolo sente la necessità di introdurre un aggettivo – paleo-paleo, antico – per attuare una distinzione: c’è un antico patto, materiale e provvisorio (nella Legge), un antico testamento (perché la parola greca diatéke ha questo significato) e c’è una nuova ed eterna alleanza (nello Spirito), una nea diatéke.

     Quindi Paolo, nella Seconda Lettera ai Corinzi, utilizza in termini polemici il termine diatéke, testamento contro chi, nella comunità cristiana di Corinto, vuole rimanere ancorato ad una mentalità che – secondo Paolo – mantiene l’ebraismo chiuso in se stesso, invece di rinnovarsi. Gli ebrei della Sinagoga di Corinto che avevano deciso di seguire la via rivoluzionaria del Cristianesimo pretendevano però che i cristiani non ebrei (i pagani, i gentili) facessero proprie le pratiche cultuali previste dalla Legge di Mosé, compresa la circoncisione: Paolo prende posizione contro questa idea, in favore di un rinnovamento totale dei culti ebraici, in favore di quella che oggi chiameremmo la secolarizzazione, cioè di una mentalità di carattere laico. E è così che Paolo nelle sue Lettere costruisce, punto per punto, la distinzione tra l’antico patto transitorio tra Dio e Mosé e la nuova ed eterna alleanza in Cristo.

     Vi ricordo che Paolo non è tuttavia consapevole del fatto che sta fondando una nuova religione, lui vuole riformare e diffondere l’ebraismo, perseguendo l’obiettivo che si era proposto Gesù di Nazareth con la sua predicazione: quello di umanizzare la Legge di Mosé.  Quindi, preso dalla violenta polemica che scoppia nella comunità di Corinto (che abbiamo studiato a suo tempo), Paolo conia l’espressione: antico testamento, palea diatéke.

     Prima di leggere il frammento che c’interessa dobbiamo ricordare – sempre in funzione della didattica della lettura e della scrittura – che il testo della Seconda Lettera ai Corinzi è una rapsodia, vale a dire è formato dalla ricucitura (rapsodia significa ricucitura, il rapsodo, in greco, è il sarto) dei testi di almeno tre Lettere di Paolo che sono state assemblate, unite insieme, da Clemente Romano (il rapsodo è lui) che ha raccolto, strutturato e tradotto in latino le Lettere di Paolo per costruire la dottrina del Cristianesimo.

     Paolo, nel testo di questa Lettera, utilizza il famoso episodio, che si trova raccontato nel capitolo 34 del Libro dell’Esodo, in cui Mosé – dopo i suoi incontri con Dio sul monte Sinai – aveva un volto così splendente che si doveva mettere un velo sul viso per non far accecare quelli con cui parlava e che lo guardavano in faccia. Paolo usa questo avvenimento, molto conosciuto, in termini polemici: Mosé – secondo Paolo – copre con il velo un’alleanza effimera e provvisoria. Il velo – secondo Paolo – è stato eliminato da Gesù, dal Cristo della fede, che si presenta come lo stipulatore (il nuovo Mosé) di una nuova ed eterna alleanzafondata sullo Spirito della Legge in contrapposizione con l’antico testamento [palea diatéke], con la Legge presa alla lettera. Paolo – e questo avviene per la prima volta nella Letteratura dei Vangeli – conia l’espressione antico testamento [palea diatéke] per definire il Pentateuco (proprio in quanto testo scritto e preso alla lettera) come un apparato di regole scritte, cavillose e spesso anacronistiche, che annientano i valori della Legge stessa e ne distruggono lo Spirito.

     Leggiamo questo frammento che, ora, dovrebbe essere più comprensibile:

LEGERE MULTUM….

Paolo di Tarso, Seconda Lettera ai Corinzi  3, 12-18

Forti di tale speranza, ci comportiamo con molta franchezza e non facciamo come Mosè che poneva un velo sul suo volto, perché i figli di Israele non vedessero la fine di ciò che era solo effimero. Ma le loro menti furono accecate; infatti fino ad oggi quel medesimo velo rimane, non rimosso, alla lettura dell’antico testamento [palaia diatήkη-palea diatéke], perché è in Cristo che esso viene eliminato. Fino ad oggi, quando si legge Mosè [il Pentateuco], un velo è steso sul loro cuore; ma quando ci sarà la conversione al Signore, quel velo sarà tolto. Il Signore è lo Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà. E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore…

     Abbiamo fatto un tentativo (e spero, almeno in parte, sia riuscito) per conoscere e per capire alcuni aspetti di quel significativo e complesso itinerario intellettuale messo in atto dalla corrente filotraduzionista alessandrinache, ad Alessandria, dal III secolo a.C. al I secolo d.C., ha portato a compimento la traduzione del Pentateuco in lingua greca con la relativa trasformazione del concetto di patto materiale (tra Dio e Abramo), espresso dalla parola berit in antico ebraico, in quello di testamento spirituale (tra Dio e le comunità della diaspora), corrispondente, nella lingua della koiné, al termine diatéke, fino alla parola latina testamentum che è servita a designare la nuova ed eterna alleanza in Cristo Signoree ha codificato la dicitura che usiamo regolarmente (anche senza riflettere sulle parole) per indicare i due grandi settori della Bibbia: l’Antico e il Nuovo Testamento. Le esperte e gli esperti hanno chiamato questo momento: la fase alessandrina del movimento della sapienza poetica beritica ed è anche l’ultimo grande ciclo di questa straordinaria e variegata corrente di pensiero alla quale dobbiamo i Libri della Bibbia e che abbiamo cominciato a studiare.

     Come mai – continuiamo a chiederci – abbiamo iniziato dalla fine ad occuparci del movimento della sapienza poetica beritica? Lo abbiamo fatto per perimetrare meglio (è una questione di orizzonti, abbiamo detto) il territorio su cui dobbiamo viaggiare, e abbiamo capito che su questo territorio dobbiamo procedere a ritroso, con l’andamento del gambero, sulla scia delle parole: patto, alleanza, testamento, eredità , che sono le prime parole-chiave del catalogo che comincia a formarsi in relazione al tema della sapienza poetica beritica. Questa sera abbiamo analizzato – in alcune delle sue parti – il testo della Lettera di Aristea.

     Dobbiamo ancora dire – proprio perché siamo ad Alessandria nel II secolo a.C. e quindi dobbiamo approfittarne e dobbiamo guardarci intorno – che l’atteggiamento culturale del gruppo dei filotraduzionisti alessandrini (gli intellettuali che considerano necessario tradurre in greco i Libri del Pentateuco) rappresentati dall’autore della Lettera di Aristea, è anche quello di cominciare a ritenere (due secoli prima di Shaul-Paolo e del Cristianesimo) non più necessaria un’osservanza rigorosa delle prescrizioni cerimoniali ebraiche espresse nelle pratiche del culto e nella fedeltà al Tempio di Gerusalemme sempre più in rovina. L’autore della Lettera di Aristea si domanda: ma tutti questi riti, queste formalità cultuali, queste feste liturgiche sono necessarie? Hanno ancora un senso nella nuova realtà dell’Ellenismo? Non è forse più importante la Scrittura stessa?  Non è forse più importante la forma della Scrittura? Intorno a queste domande e all’atteggiamento da tenere in tutte le comunità ebraiche presenti sul territorio dell’Ellenismo, si scatena un dibattito molto vivace che assume spesso i caratteri dello scontro violento, non solo verbale (volano anche le sassate).

     Dobbiamo dire che la traduzione in greco del Pentateuco (e via via di tutti i Libri della Bibbia) nella versione dei Settanta – lo abbiamo già accennato in partenza – non ha trovato, nelle comunità della diaspora, il consenso di tutti i gruppi ma bensì anche una forte opposizione e quindi non è stata un’impresa indolore.

     A questo punto – siamo in ballo e dobbiamo ballare – non possiamo fare a meno di completare, seppur sommariamente, il quadro della situazione che riguarda la cosiddetta fase alessandrina del movimento della sapienza poetica beritica.

     Ad Alessandria, nel periodo dell’Ellenismo: i filotraduzionisti lavorano intellettualmente, con determinazione, alla traduzione della Bibbia in greco e i controtraduzionisti, con altrettanta determinazione, lavorano intellettualmente per mettere un freno a questa operazione culturale: cosa ne viene fuori da questo scontro epocale? Ne vengono fuori alcune straordinarie opere i cui testi contrastano con le idee della Lettera di Aristea (che abbiamo conosciuto questa sera come manifesto filotraduzionista) e che vanno ad arricchire il patrimonio del ciclo letterario alessandrino del movimento della sapienza poetica beritica

     Quali sono queste opere che entrano in ballo? È un ballo molto lungo (più lungo del ballo de Il Gattopardo) quindi, su questa musica alessandrinaballeremo ancora la prossima settimana. Anche perché, prima di concludere, dobbiamo fare una digressione che è comunque attinente all’itinerario di questa sera.

     Questa sera abbiamo cominciato a costruire il catalogo delle parole-chiave che caratterizzano il  movimento della sapienza poetica beritica. Queste parole: patto, alleanza, testamento, eredità ci portano ad incontrare un romanzo intitolato L’eredità di Eszter, pubblicato a Budapest nel 1939 e scritto da Sándor Márai, una nostra vecchia conoscenza: lo abbiamo incontrato più di una volta. Sándor Márai è stato uno scrittore dimenticato per anni, per decenni, dall’editoria internazionale anche se è uno scrittore che va annoverato tra i grandi maestri della narrativa mitteleuropea del ’900.

     Sándor Márai è nato in Ungheria, a Budapest, ed è stato per un certo periodo della sua vita un famoso scrittore ungherese, e avrebbe potuto continuare a esserlo se, a causa degli avvenimenti storici che hanno condizionato la vita del suo paese e dell’Europa – Sándor Márai è nato nel 1900 – non avesse scelto l’esilio, e non avesse scelto di stare ai margini. Tutte le volte che nel suo paese è stata abolita la democrazia parlamentare: lui è andato in esilio. Ha vissuto in Germania, in Francia, negli Stati Uniti e anche in Italia: a Napoli e a Salerno (dal 1968 al 1979). Nel 1979 Sándor Márai è andato a insegnare negli Stati Uniti dove è morto nel 1989. Quando ha scritto di narrativa, Sándor Márai, ha scritto sempre in lingua ungherese, anche se in Ungheria le sue opere sono state al bando fino all’anno della sua morte. Oggi molti romanzi importanti di Sándor Márai  sono stati tradotti in italiano (l’elenco comincia ad essere lungo) e quindi li possiamo leggere. Il primo a essere pubblicato è stato il romanzo Le braci (1942), che è stato già tradotto in 25 lingue ed è un significativo monologo esistenziale.

     Sándor Márai, come scrittore, ha raccolto anche l’eredità del movimento del romanticismo ungherese: una corrente di pensiero elitaria, sentimentale ma straordinariamente ironica e graffiante. In un Percorso di qualche anno fa (sul romanticismo galante) abbiamo letto alcune pagine tratte dal romanzo La recita di Bolzano (1940), un romanzo molto interessante – che ha come protagonista Giacomo Casanova – scritto con uno stile particolare: Márai utilizza i registri del melodramma e dell’opera buffa dando alla sua narrazione una forma e un ritmo particolare.

     Questa sera, come abbiamo annunciato, leggiamo alcune pagine dal romanzo L’eredità di Eszter (1939) perché in questo caso il registro – un registro che tutte le più importanti scrittrici e scrittori mitteleuropei (e non solo mitteleuropei) hanno utilizzato – è quello che ha le sue radici nel movimento della sapienza poetica beritica.

     Innanzi tutto dobbiamo tener conto di una curiosità che – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – riguarda il nome della protagonista di questo romanzo: Ester è il nome di un famoso personaggio femminile biblico protagonista in due Libri. Nella Letteratura dell’Antico Testamento – andate a verificare questo fatto, tutti possediamo una Bibbia – ci sono due Libri di Ester: uno è scritto in ebraico (l’Ester ebraico) e  l’altro è scritto in greco (l’Ester greco) e sono stati composti entrambi nel II secolo a.C. e quindi risultano essere contemporanei della Lettera di Aristea. Noi ora possiamo capire meglio – dopo l’itinerario di questa sera – il fatto che nella Bibbia ci siano due testi omonimi che presentano somiglianze e differenze: questi due testi sono il frutto del ciclo alessandrino del movimento della sapienza poetica beritica e nascono nel clima dell’animato scontro culturale tra filotraduzionisti e controtraduzionisti (sappiamo di che cosa si tratta e ne vedremo i clamorosi sviluppi).

     Ma, ora, puntiamo la nostra attenzione sul romanzo di Sándor Márai. Eszter ha vissuto per vent’anni un’esistenza piana e senza scosse nella quasi inconsapevole attesa del ritorno di Lajos, un bugiardo, un imbroglione, un falsificatore di cambiali, un mascalzone, che tuttavia esercita sugli altri un fascino il cui effetto è paragonabile a quello di un sortilegio o di un terribile veleno. Lajos ha sempre ingannato Eszter: infatti aveva detto di amare una sola donna, lei, e poi aveva sposato sua sorella. Lajos un giorno fa sapere che sarebbe tornato, ed Eszter sa che Lajos torna per prendersi l’unica cosa di valore che ancora non si è portato via, e sa che lei non farà niente per impedirglielo. Qual è questa cosa di valore? Non è corretto dirlo: perché anticipare ciò che potete scoprire leggendo? Eszter sa anche che la storia non è finita perché: gli amori infelici non finiscono mai.

     Màrai è un maestro nel creare la tensione narrativa: è capace di stringere la nostra mente nella morsa della narrazione fino all’ultima parola. Leggiamo l’incipit di questo romanzo:

LEGERE MULTUM….

Sándor Márai, L’eredità di Eszter (1939)

Non so che cosa mi riservi ancora il Signore. Ma prima di morire voglio narrare la storia del giorno in cui Lajos venne per l’ultima volta a trovarmi e mi spogliò di tutti i miei beni. Rimando ormai da tre anni la stesura di questi appunti. Ora invece mi pare che una voce, contro la quale mi sento impotente, mi esorti a descrivere gli eventi di quella giornata e a riferire tutto ciò che so di Lajos, perché è mio dovere e il tempo a mia disposizione è contato. È una voce inequivocabile. Dunque obbedisco, nel nome del Signore.

... continua la lettura ...

 

     Ad Alessandria, nel periodo dell’Ellenismo, i filotraduzionisti lavorano intellettualmente, con determinazione, alla traduzione della Bibbia in greco e i controtraduzionisti, con altrettanta determinazione, lavorano intellettualmente per mettere un freno a questa operazione culturale. Il Percorso di studio che permette di conoscere, nelle sue linee generali, il movimento della sapienza poetica beritica parte da Alessandria, prende le mosse dallo scontro tra due agguerrite correnti di pensiero: quella dei filotraduzionsti e quella dei controtraduzionisti? Che cosa viene fuori da questo scontro culturale che ha fatto epoca? Ne vengono fuori – oltre ai Libri di Ester – alcune altre straordinarie opere i cui testi vanno ad arricchire il patrimonio del ciclo letterario alessandrino del movimento della sapienza poetica beritica. Quali sono le opere che i controtraduzionisti alessandrini fanno entrano in ballo per contrastare i filotraduzionistiche hanno nella Lettera di Aristea il loro manifesto? Perché sono importanti queste opere? Quali parole-chiave e quali idee-cardine mettono in evidenza? Intanto mettono in evidenza l’importanza della scrittura, del gesto dello scrivere

     Ascoltate, per concludere, che cosa fa dire Sándor Márai a Giacomo Casanova nel romanzo La recita di Bolzano (1940): Giacomo Casanova è appena fuggito dalla terribile prigione dei Piombi di Venezia in compagnia dell’abate Balbi:

LEGERE MULTUM….

Sándor Márai, La recita di Bolzano (1940)

So anch’io che la scrittura è una cosa magnifica, qualcosa di simile al potere. Qualcosa di simile al potere? ripeté Giacomo. È molto di più. E non è qualcosa di simile, Balbi, mettitelo bene in testa, la scrittura non è affatto simile al potere, la scrittura è il potere, l’unico potere autentico. La tua libertà la devi alla scrittura. Non ci avevo pensato, vedi. E hanno ragione i testi sacri, quando dicono che anche i poveri di spirito sono partecipi della grazia divina. La scrittura è la forza più grande che esista, la parola scritta è più forte del papa e del re, è più forte del doge. Come dimostra anche il nostro esempio. Abbiamo concertato la nostra fuga grazie alla scrittura, le lettere hanno spezzato le nostre catene, le lettere ci sono servite per intrecciare corde e lacci, e dall’inferno ci hanno ricondotti sulla terra.

     Abbiamo incontrato la Lettera di Aristea: incontreremo – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – altre Lettere: quali?

     Per saperlo, per studiarle: la Scuola è qui, accorrete…

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Ottobre 19, 2007