Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza poetica beritica 2007 24-25-26 ottobre 2007
“FILOTRADUZIONISTI” E “CONTROTRADUZIONISTI” A CONFRONTO ...
Con l’itinerario della scorsa settimana abbiamo cercato di conoscere e di capire alcuni aspetti del significativo e complesso itinerario intellettuale messo in atto dalla cosiddetta “corrente filotraduzionista alessandrina” che, ad Alessandria d’Egitto, dal III secolo a.C. al I secolo d.C., ha portato a compimento la traduzione del Pentateuco (della Legge di Mosé) in lingua greca: la traduzione della Bibbia dall’ebraico in greco è un avvenimento molto importante nella Storia del Pensiero Umano, un avvenimento che va conosciuto, che va studiato (almeno nelle sue linee generali), in funzione della didattica delle lettura e della scrittura.
Abbiamo studiato che questo fenomeno di traduzione dall’ebraico al greco del Pentateuco corrisponde ad un itinerario intellettuale che è stato chiamato: il “ciclo alessandrino del movimento della sapienza poetica beritica”. Questo itinerario intellettuale – il “ciclo alessandrino del movimento della sapienza poetica beritica”, che è durato più di tre secoli – ha determinato la trasformazione del concetto di “patto materiale” (il patto in cui Dio promette ad Abramo una terra e la fecondità)”, espresso in ebraico dalla parola “berit” (che significa, appunto, “patto”, “accordo tra le parti”), nel concetto di “disposizione testamentaria” (Dio manifesta la volontà che le comunità della diaspora – gli ebrei che, a più riprese, sono emigrati sul territorio dell’Ellenismo – diventino eredi del testo della Legge di Mosé tradotta in greco, tradotta nella lingua dell’Ecumene) e difatti i traduttori (i Settanta mitici traduttori) rendono la parola ebraica “berit”, che significa “patto”, “accordo tra le parti”, con il termine greco “diatéke”, che significa “testamento spirituale”
E poi, la scorsa settimana, abbiamo studiato che il termine greco “diatéke”, nel suo significato di “testamento spirituale”, diventa determinante, in un secondo momento (dal I secolo d.C.), per la traduzione in latino del termine ebraico “berit” che viene espresso con la parola “testamentum” che serve (sotto il patrocinio di papa Clemente Romano che abbiamo incontrato nell’itinerario precedente) a designare “la nuova ed eterna alleanza in Cristo Signore” (ma questa è materia di un altro Percorso di studio) e a codificare (dal IV secolo, con la traduzione in latino, detta Vulgata, di Gerolamo) la dicitura che usiamo regolarmente (anche senza riflettere sulle parole) per indicare i due grandi settori della Bibbia: l’Antico e il Nuovo Testamento. Sappiamo che le esperte e gli esperti hanno chiamato questo periodo (lungo circa tre secoli), in cui i Libri della Bibbia vengono tradotti in greco, la “fase alessandrina del movimento della sapienza poetica beritica”.
La “fase alessandrina del movimento della sapienza poetica beritica” è anche l’ultimo grande ciclo di questo straordinario e variegato movimento culturale che dura, nel suo complesso, circa mille anni e al quale dobbiamo i Libri della Bibbia.
Ci siamo già chiesti la scorsa settimana: come mai se il “movimento della sapienza poetica beritica”, comincia a dare i suoi frutti circa 2500 anni fa (nell’Età assiale della storia) noi abbiamo iniziato ad occuparcene dalla fine cioè da quella che viene considerata l’ultima fase (che si sviluppa dal III secolo a.C. al I secolo d.C.)? Lo abbiamo fatto per perimetrare meglio il territorio su cui dobbiamo viaggiare: la “fase alessandrina del movimento della sapienza poetica beritica” ci fornisce delle indicazioni utili per percorrere a ritroso il sentiero che parte dalle “Origini”.
La scorsa settimana abbiamo incontrato le prime parole-chiave del catalogo che il “movimento della sapienza poetica beritica” ci ha lasciato in eredità e che vanno a formare un altro ramo importante del nostro “albero genealogico lessicale” (un ramo collocato sul piano dell’Età assiale della storia), queste parole sono: “patto”, “alleanza”, “testamento”, “eredità”. Queste parole-chiave, che abbiamo incontrato nell’ultima fase (la fase finale) di questo grande movimento culturale che chiamiamo “beritico”, le troviamo già dal principio (“in principio”…) e quindi costituiscono come una linea circolare di demarcazione che perimetra il vasto territorio che stiamo per attraversare e che contiene, in ogni suo punto, l’idea del “principio” e il senso della “fine”. Ma questo concetto lo capiremo meglio strada facendo.
La scorsa settimana abbiamo analizzato – in alcune delle sue parti – il testo della Lettera di Aristea scritta ad Alessandria intorno al 140 a.C.. Questa sera siamo ancora ad Alessandria nel II secolo a.C. e il nostro itinerario prende le mosse ancora una volta dal testo della Lettera di Aristea che, come abbiamo imparato, è il manifesto della corrente “filotraduzionista”. Dobbiamo ribadire che l’atteggiamento culturale del gruppo dei filotraduzionisti alessandrini – gli intellettuali che considerano necessario tradurre in greco i Libri del Pentateuco e che sono rappresentati dall’autore (che noi non conosciamo) della Lettera di Aristea – è anche quello di cominciare a ritenere (due secoli prima di Shaul-Paolo di Tarso e del Cristianesimo) non più necessaria un’osservanza rigorosa delle prescrizioni cerimoniali ebraiche espresse nelle pratiche del “culto” e nella fedeltà al Tempio di Gerusalemme che è sempre più in rovina.
L’autore della Lettera di Aristea si domanda: ma tutti questi “riti”, queste formalità cultuali, queste feste liturgiche (come quella della “dedicazione del Tempio”) sono ancora necessarie? Hanno ancora un senso i culti tradizionali nella nuova realtà “secolarizzata” dell’Ellenismo? Nella nuova realtà “secolarizzata” dell’Ellenismo – in cui le comunità dell’ebraismo si sono ormai da tempo integrate socialmente, politicamente ed economicamente – è necessario continuare a mantenere anche una rigida “separatezza” culturale, chiusa in canoni religiosi che non hanno più un senso perché diventati oramai incomprensibili? Non è forse meglio occuparsi della Scrittura e della sua forma? Non è più logico e produttivo attuare una “riforma di pensiero” che possa, in forme nuove, conservare e rivalutare, antichi contenuti, antichi valori?
Intorno a queste domande, e all’atteggiamento da tenere in tutte le comunità ebraiche presenti sul territorio dell’Ellenismo, si scatena un dibattito molto vivace che assume spesso i caratteri dello scontro violento, non solo verbale (a volte volano anche le sassate). Dobbiamo dire che la traduzione in greco nella versione dei Settanta – e lo abbiamo già affermato la scorsa settimana – non ha trovato, nelle comunità della diaspora, il consenso di tutti i gruppi e non è stata un’impresa indolore. Si formano infatti anche numerose associazioni di “controtraduzionisti” che operano con la stessa determinazione dei “filotraduzionisti”. Queste due correnti pensiero che operano e si scontrano nell’ambito della diaspora ebraica, e che costituiscono la base del “movimento beritico alessandrino” sono unite da una formidabile aporia: da una feconda contraddizione. Di che cosa si tratta? Che cosa succede? Succede che, paradossalmente, i “controtraduzionisti”, con i testi delle loro opere (perché producono!), indirizzati contro la cultura greca ma scritti in greco (nella lingua della koiné), invece di creare un contenimento all’innovazione, contribuiscono – in modo determinante – a dare la spinta maggiore al cambiamento, al rinnovamento culturale dell’ebraismo.
A questo punto – siamo in ballo e dobbiamo ballare – dobbiamo completare il quadro della situazione che riguarda la cosiddetta “fase alessandrina” del “movimento della sapienza poetica beritica”. A dare lustro letterario e fecondità di pensiero alla “fase alessandrina” del “movimento della sapienza poetica beritica” contribuiscono, quindi, entrambi gli schieramenti (“filotraduzionisti” e “controtraduzionisti”) e questo clima di conflittualità intellettuale si rivela particolarmente produttivo.
I “controtraduzionisti” vogliono contrastare con veemenza la cosiddetta “fase traduzionista alessandrina”, vogliono ostacolare il lavoro di traduzione dei testi della Bibbia in greco (la versione dei Settanta) e vogliono contrastare opere come la Lettera di Aristea. Ebbene, in questa loro attività di opposizione, i “controtraduzionisti” producono una serie di opere scritte in greco che, per il loro valore letterario, esaltano la “fase alessandrina” del “movimento della sapienza poetica beritica” e rafforzano la cultura greca che loro vorrebbero contrastare. Le opere degli autori “controtraduzionisti” finiscono per evidenziare maggiormente il movimento culturale che vorrebbero combattere: con il loro strenuo intento di conservazione riusciranno a produrre – nell’ambito dell’ebraismo della diaspora – una maggiore innovazione culturale di quanto abbiano fatto i filotraduzionisti. Quali sono queste opere cosiddette “controtraduzioniste”? …
Prima di incamminarci sulla strada della conoscenza di alcune parti significative dei testi di queste opere dobbiamo capire – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – quali sono le idee su cui, in generale, si fonda la cultura delle comunità della diaspora ebraica e quindi: andiamo con ordine perché il sentiero è impervio.
Questa sera, per conoscere meglio la “fase alessandrina del movimento della sapienza poetica beritica” e per capire meglio l’attività delle sue correnti (soprattutto della “corrente controtraduzionista” visto che della “corrente filotraduzionista” ce ne siamo occupati la scorsa settimana studiando il testo della Lettera di Aristea), dobbiamo imboccare e percorrere un tratto di un sentiero collaterale che porta il nome di un celebre personaggio: il (per dirla in greco) Megalexandròs, cioè Alessandro il Macedone o Alessandro Magno, il quale nel 331 a.C. conquista l’Impero persiano. Con questa conquista comincia a prendere forma quel vasto Stato che conosciamo col nome di “territorio dell’Ellenismo”: un territorio che va dal mar Mediterraneo fino al fiume Indo.
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A questo proposito, potete consultare l’atlante, anche un atlante storico, per prendere visione in modo più efficace di questa realtà storica…
Questo territorio (il territorio dell’Ellenismo) unisce sotto lo stesso potere politico-amministrativo tanti popoli con usi, costumi e culture diverse. Alessandro, e i dirigenti di questo vastissimo Stato (Alessandro ha avuto come precettore e consigliere anche Aristotele), pensa che sia utile e sia possibile far convivere tutta questa gente insieme, favorendo la nascita dell’Ecumene (conosciamo il termine “ecumenico” che significa “universale”, significa “di tutta la terra abitata”: il termine “Ecumene” definisce una civiltà di carattere non più nazionale ma universale che tende ad esaltare le varie diversità senza contrapporle ma (diremmo oggi) “mettendole in rete” in un sistema unitario).
Le diversità diventano una ricchezza se inserite in un quadro di collaborazione: “mettendo in rete” le reciproche diversità si è innescato, sul territorio dell’Ellenismo, un processo di conoscenza, e il “conoscersi” ha significato instaurare forme di comunicazione attraverso le quali sono stati creati dei “linguaggi”, sono stati costruiti degli “alfabeti comuni”, delle “espressioni interculturali” (a questo proposito, abbiamo già studiato a suo tempo, in questi anni di Scuola, molti oggetti – nel campo dell’arte, della letteratura, della filosofia – che l’Ellenismo ci ha lasciato in eredità). La scorsa settimana abbiamo ricordato il fenomeno della koiné: la lingua greca (il greco alessandrino) che diventa l’idioma comune, lo strumento d’unione sul vastissimo territorio dell’Ellenismo e la struttura portante della rete è data dalla lingua greca.
Su questo vastissimo territorio vengono abolite le frontiere, si costruiscono una serie di strade (di piste) a lunga percorrenza che collegano Oriente e Occidente (sappiamo che, utilizzando queste piste, molti intellettuali occidentali andranno in pellegrinaggio in Oriente a studiare i libri indiani dei Veda), e vengono fondate decine di città (molte di queste città prendono il nome di “Alessandria”) e sono provviste (hanno tutte lo stesso Piano regolatore) di strutture di aggregazione (l’agorà, il foro, il tempio, le terme) e soprattutto sono dotate di biblioteche aperte al pubblico. Alessandria d’Egitto si caratterizza come “capitale dell’Ellenismo” proprio per la consistenza della sua Biblioteca (circa settecentomila volumi): una ricchezza che attira le studiose e gli studiosi da tutta l’Ecumene.
E non è un caso che ad Alessandria d’Egitto, dal III secolo a.C., vengano aperte centinaia di Scuole filosofiche, alcune delle quali faranno davvero “scuola” (pensiamo alla “Scuola di strada” di Ammonio Sacca che darà l’avvio alla corrente del Neoplatonismo). L’Ellenismo si configura come uno straordinario laboratorio: intellettuale, politico, culturale, interculturale, artistico, letterario. Anche i territori della Palestina, occupati dalle tribù di Israele (che avevano dato vita a due Stati: ma ne parleremo a suo tempo), entrano a far parte della Supernazione dell’Ellenismo e perdono la loro indipendenza: il midrash, il racconto cerimoniale, che narra del patto (la berit) in cui Dio (l’Onnipotente Altissimo/El Shiaddaim) promette ad Abramo il possesso della terra di Canaan, si rivela con l’andar del tempo un impegno non mantenuto.
E perché questa promessa non è stata mantenuta? Si domandano molti ebrei, che, di conseguenza in questa situazione di instabilità economica, politica, sociale e ideologica emigrano dalla Palestina a più riprese e danno vita a quel fenomeno sociologico e culturale che è stato chiamato: la “diaspora (dispersione)”. Naturalmente sono soprattutto gli ebrei della “diaspora”, ad essere influenzati maggiormente dalla cultura dell’Ellenismo.
Gli ebrei delle comunità della “diaspora” sono in esilio, sono in difficoltà, sono in sofferenza ma, all’interno del grande laboratorio dell’Ellenismo, vengono a trovarsi, dal punto di vista culturale, in condizioni favorevoli, con una loro cultura “ben strutturata”, caratterizzata da tre “elementi forti” di riferimento.
Il primo elemento forte di riferimento è il “Tempio di Gerusalemme”: un oggetto da evocare in modo mitico perché ormai corrisponde ad un’immagine lontana tanto nello spazio quanto nel tempo, che i più, materialmente, non hanno mai visto, ma che comunque, come metafora, serve a mantenere vivo il senso dell’unità, della coesione politica ed etnica. Il “Tempio di Gerusalemme” è soprattutto un “faro spirituale” che serve per dare un senso alla “diaspora”, che è diventata un esilio perpetuo e l’idea di ritornare materialmente in Palestina viene coltivata ma solo in modo rituale. Il Tempio è, per giunta, una struttura sempre in via di ristrutturazione (ne prenderemo atto quando, prossimamente, passeremo attraverso il Libro di Esdra), e gli ebrei della diaspora (spesso brontolando…) fanno la “colletta per il Tempio”: versano periodicamente mezzo sheqel, l’equivalente di due dracme greche, proprio per la ricostruzione del Tempio. Questa “colletta” – con la quale ci si metteva a posto la coscienza – dava l’idea che si stesse accumulando un “tesoro comune” a vantaggio della costruzione dello Stato “futuro”.
Dobbiamo dire che, a questo proposito, nel periodo dell’Ellenismo, sul concetto del “Tempio”, assistiamo ad una variazione di rilievo: dal II secolo a.C. il “Tempio di Gerusalemme” comincia ad essere chiamato il “Secondo Tempio”, proprio perché il “Primo Tempio”, quello cosiddetto di “Salomone”, era stato distrutto dai Babilonesi (nell’ormai lontano VI sec a.C.) e tutto questo evento – legato alla progettazione, alla costruzione e alla consacrazione del “Primo Tempio” – era ormai ben collocato nel midrash: in una grande narrazione che troviamo, tuttora, nel Primo Libro dei Re e che possiamo leggere dal capitolo 5 al capitolo 8. Il “Primo Tempio” risulta essere un “oggetto culturale” che trova posto nella memoria – una memoria leggendaria più che storica – delle tribù di Israele, e gli ebrei delle comunità della diaspora ne coltivano il mito. L’idea mitica e il concetto culturale che gli ebrei delle comunità della diaspora, durante l’Ellenismo, si sono fatti del “Primo Tempio di Salomone” è assolutamente svincolato da legami di carattere etnico e politico (la Palestina è via via occupata e governata da “estranei”): il Tempio è un’immagine che ha una valenza spirituale.
Proprio su questo argomento, poi, nella tradizione delle cosiddette Storielle ebraiche si ironizza pesantemente – da parte degli ebrei della diaspora mitteleuropea – sul fatto che sia necessario continuare a “cacciare dei soldi” per ristrutturare un Tempio che è “spirituale” e quindi si legge che l’astuto Sholem vorrebbe sostituire il mezzo sheqel della colletta con un sospiro devoto: «Non versi il mezzo sheqel della colletta per la ristrutturazione del Tempio, Sholem?» «Ma, rabbino, se si tratta di una ristrutturazione spirituale, come ha mirabilmente detto nel suo sermone, è senz’altro più appropriato un sospiro devoto rivolto all’Altissimo che un materiale mezzo sheqel!». Quindi il “Secondo Tempio” è l’immagine spirituale del “Primo Tempio” che è stato materialmente distrutto e di cui – senza nessuna convinzione reale, bensì rituale – si auspica la ristrutturazione.
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Si consiglia la lettura del capitolo 5 del Primo Libro dei Re (tutti abbiamo una Bibbia a portata di mano) dove Salomone prepara la costruzione del Tempio organizzando il lavoro obbligatorio di grandi masse di operai: si sente, nel racconto, l’influenza della cultura egizia, e viene in mente anche la descrizione che Erodoto (nostro compagno di viaggio di questi ultimi due anni) fa, nel II libro de Le Storie, della costruzione delle piramidi…
Visto che siamo in tema approfittiamo per dire che questo cosiddetto “Secondo Tempio” sarà sottoposto ad una massiccia ristrutturazione molti anni dopo, intorno al 37 a.C, sotto il regno di Erode il Grande, re di Giudea: un fantoccio nelle mani dei Romani, che stanno diventando i nuovi padroni di tutta quest’area mediorientale. Questo Erode (morto nel 4 d.C.) lo conosciamo tutti per via del testo del Vangelo secondo Matteo che al capitolo 2 ci racconta la famosa “strage degli innocenti”. I Romani favoriranno la realizzazione di queste “opere pubbliche” di Erode per cercare di rendersi un po’ simpatici agli ebrei, ma non ci riusciranno mai. Il Tempio cosiddetto di Erode, è quello della storia della predicazione su Gesù di Nazareth (della Letteratura dei Vangeli), è quello degli Atti degli Apostoli e delle Lettere di Shaul-Paolo di Tarso.
C’è da dire che gli ebrei ci si riconosceranno in questo Tempio quando ci sarà, nel 64 d.C., la grande sollevazione popolare contro i Romani, con la liberazione di Gerusalemme e l’inizio della terribile “guerra giudaica” (ce la racconta, questa terribile guerra, uno storico ebreo trapiantato in ambiente romano, che abbiamo incontrato a suo tempo, e che si chiama Giuseppe Flavio, in un’opera che s’intitola appunto La guerra giudaica): in questa occasione, il Tempio sarà il quartier generale della resistenza contro un nemico troppo potente. E difatti quando, nel 70 d.C., i Romani sconfiggeranno definitivamente gli ebrei, l’imperatore Tito farà (un gesto aberrante) radere al suolo il Tempio che era stato di Salomone. Oggi, di quel tragico momento, rimane in piedi il “muro del pianto”.
Ma torniamo sul nostro sentiero. Stavamo dicendo che gli ebrei della diaspora, possiedono una “cultura ben strutturata” che si fonda su tre elementi forti: il primo di questi elementi, come abbiamo visto, è il “Tempio di Gerusalemme”.
Il secondo elemento forte di riferimento sono le “sinagoghe”. Che cosa s’intende per “sinagoga”? La “sinagoga” – synagogein in greco – è una struttura dove i membri della comunità si ritrovano per “condurre” (agogein) “insieme” (syn) una vita nel rispetto della Legge di Dio, della Legge di Mosé. Le sinagoghe delle numerose e influenti comunità della “diaspora” presenti in Mesopotamia e in Egitto si distinguono soprattutto per la loro vitalità culturale
Il terzo elemento forte di riferimento è certamente il più importante, anche perché lega gli altri due, e questo elemento è costituito, da quel grande apparato culturale che chiamiamo la Scrittura. La Scrittura, nel II secolo a.C., presenta due grandi settori: la torah e i nebiyim cioè i Libri che contengono Legge (in ebraico: “torah”) e i Libri dei Profeti (in ebraico: “midrash nebiyim”).
I Libri della Legge e i Libri dei Profeti, nel periodo ellenistico (nel II secolo a.C.), vengono sottoposti alla traduzione in greco nella versione dei Settanta. I testi dei Libri della Legge, la “torah” (facciamo l’inventario) sono: la Genesi, l’Esodo, il Levitico, i Numeri e il Deuteronomio.
I testi dei Libri dei Profeti, “nebiyim”, sono divisi in due sezioni: i Profeti anteriori con i Libri di Giosué, dei Giudici, il Primo e il Secondo Libro di Samuele e il Primo e il Secondo Libro dei Re, e i Profeti Posteriori con i Libri di Isaia, di Geremia, di Ezechiele, di Osea, di Gioele, di Amos, di Abdia, di Giona, di Michea, di Naum, di Abacuc, di Sofonia, di Aggeo, di Zaccaria e di Malachia.
A questi Libri che abbiamo inventariato – e che appartengono all’antico canone giudaico-palestinese – se ne aggiungono altri che vanno a costituire un terzo grande blocco di Scrittura che si sta formando durante la “fase alessandrina del movimento della sapienza poetica beritica” . Gli scrivani alessandrini (intorno al II secolo a.C.) studiano, traducono e mettono in ordine una serie di scritti antichi, redatti dopo l’esilio (dopo il 538 a.C.), e che ancora non fanno ufficialmente parte del canone della Bibbia: questo nuovo importante blocco di Scrittura si chiama: “ketubim”. Il termine ebraico “ketubim” significa gli “scritti (sapienziali e poetici)”: un catalogo di opere molto significative per la Storia del Pensiero Umano che comprende i Libri dei Salmi, di Giobbe, dei Proverbi, di Rut, del Cantico dei Cantici, del Qoelet, delle Lamentazioni, di Ester ebraico, di Daniele, di Esdra, di Neemia e i due Libri delle Cronache.
Gli scrivani alessandrini, inoltre – nel contesto dello scontro tra “filotraduzionisti” e “controtraduzionisti”, di cui ci stiamo occupando – producono anche nuovi testi, originali, composti in stile ellenistico che entrano nel canone, così detto ellenistico-alessandrino, della Bibbia: questi testi in più (che vengono anche chiamati: Deuterocanonici, del Secondo canone) sono i Libri di Baruch, di Tobia, di Giuditta, di Ester greco, i due Libri dei Maccabei, del Siracide, della Sapienza, la Lettera di Geremia e i Supplementi al Libro di Daniele.
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Siccome tutti (molto probabilmente anche tu) nella nostra biblioteca personale abbiamo una Bibbia ecco che, a questo punto, possiamo scorrerne l’indice in modo che si riproduca, nella nostra mente, l’idea dei due canoni: giudaico-palestinese ed ellenistico-alessandrino…
E ora sintetizziamo: abbiamo detto che gli ebrei delle comunità della “diaspora” sono in esilio, sono in difficoltà, sono in sofferenza ma, all’interno del grande laboratorio dell’Ellenismo, vengono a trovarsi, dal punto di vista culturale, in condizioni favorevoli, con una loro cultura “ben strutturata”, caratterizzata da tre “elementi forti” di riferimento: il Tempio, le Sinagoghe e la Scrittura. La Scrittura è un grande apparato intellettuale formato dai Libri della torah (la Legge), dai Libri dei nebiyim (i Profeti), e dai Libri dei ketubim (gli Scritti sapienziali e poetici). Questi tre elementi – soprattutto quella grande biblioteca che è la Scrittura – producono una attenzione notevole da parte del mondo della cultura ellenistico verso le comunità della “diaspora”. Forse, dicono le studiose e gli studiosi di esegesi, l’essere sorte queste comunità della diaspora per via di sconfitte e di tragedie deve aver stimolato, sollecitato particolarmente in esse l’effervescenza culturale. Un’effervescenza culturale che si manifesta all’interno del “movimento alessandrino della sapienza poetica beritica” dove due correnti di pensiero – filotraduzionisti e controtraduzionisti (è di lì che siamo partiti questa sera) – si sfidano in un lungo e fruttuoso duello intellettuale. E allora vediamo un po’ più da vicino i termini dello scontro tra queste due correnti.
Dal III secolo a.C., le comunità della “diaspora” – soprattutto in Mesopotamia, in Egitto, fino a Roma – cominciano ad avviare al loro interno un dibattito molto serrato su un argomento fondamentale: il tema della “separatezza”, in ebraico “perugìa”.
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Prima di applicarci per conoscere i termini di questo dibattito e per capire che cos’è la “separatezza”, la “perugìa”, coltivata nella comunità della diaspora ebraica, dobbiamo riflettere – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – sull’importante tema del “separare”…
La parola (il verbo) “separare” è legata ad altre tre parole (tre verbi) fondamentali: “dividere”, “allontanare”, “distinguere”…
Prendendo spunto dalla tua esperienza (dalla tua autobiografia) quale di queste tre parole metteresti per prima accanto alla parola “separare”?…
Scrivi quattro righe in proposito…
Che cos’è la “separatezza”, la “perugìa”, coltivata nella comunità della diaspora ebraica? Gli esponenti della corrente controtraduzionista affermano: “Siamo un popolo diverso, privilegiato, quindi dobbiamo vivere separati dagli altri per non contaminarci, né materialmente, né religiosamente, né culturalmente, siamo eredi di un Dio geloso”: questo è il dettato di chi sostiene in modo “fondamentale” l’idea della perugìa, della “separatezza”.
Noi sappiamo che, nonostante questo dettato, le comunità della diaspora sono socialmente integrate (integrate alla perfezione) nei paesi dove si trovano. Il diffondersi dell’Ellenismo, poi, ha ancora di più fatto cessare fenomeni di insicurezza e di perdita di identità religiosa in relazione alla lontananza dal Tempio e dalle terre di Israele. Sappiamo che i membri delle comunità della diaspora (tanto filotraduzionisti quanto controtraduzionisti) non hanno particolari nostalgie, se non “rituali”, della “terra promessa” (ormai considerata un mito) e del Tempio (considerato come una metafora spirituale).
Però lo scontro tra “filotraduzionisti” e “controtraduzionisti” s’intensifica sull’atteggiamento da tenere nei confronti della “separatezza”, della “perugìa”. I filotraduzionisti pensano si debba attenuare la “separatezza” mentre i controtraduzionisti pensano si debba accentuare.
È necessario fare alcune osservazioni di fondo su questo tema. E dobbiamo dire che il sistema della “separatezza” vissuto in modo integralista, crea dei problemi seri: per esempio, ad Alessandria, si scatenano contro gli ebrei alcune sollevazioni popolari, perché gli ebrei intransigenti non vogliono aprirsi, si chiudono per non contaminarsi: una delle urgenze che si pone, nei rapporti tra la comunità della diaspora ebraica e le altre comunità che vivono nelle polis dell’Ellenismo, è quello dei matrimoni “misti”, un problema che si trascinerà nel tempo. L’ellenismo favorisce la cultura dei matrimoni “misti”, tra cittadini di etnie diverse: la “perugìa” ebraica descrive come intollerabile, come blasfemo il mescolamento del sangue.
Il modo di comportarsi, le regole e i riti religiosi ebraici in questi mondi pagani – la Mesopotamia, l’Egitto, l’Ellade, Roma mondi che sono normalmente strutturati in modo “politeista, con tante divinità – finiscono per suscitare una diffidenza profonda. E la gente di questi posti non tollera la “separatezza” perché la cultura “politeista” mesopotamica, egizia, ellenica, romana, ha la caratteristica di essere “sincretica”, di mettere insieme opinioni diverse: si pregano, si adorano, ci si interessa di più divinità religiose contemporaneamente.
“Sincretismo” e “separatezza” si presentano, quindi, come due termini antitetici e il rapporto tra questi due elementi è motivo di scontro all’interno delle comunità della diaspora ebraica: i “filotraduzionisti”, pur senza aderire guardano con interesse alla cultura sincretica, mentre i “controtraduzionisti” applicano tassativamente la “perugìa”.
Il nucleo centrale dell’ideologia dei gruppi controtraduzionisti si caratterizza per un esclusivo rapporto con il Dio-unico, geloso e collerico (“Io sono il Signore Dio tuo. Non avrei altro Dio all’infuori di me”…) e questo rigoroso monoteismo, espresso in lingua ebraica, risulta incomprensibile alla cultura “pagana”, fondata sul “sincretismo” che è un concetto di “apertura”. I pagani si raccomandano contemporaneamente a Iside, a Mitra, a Demetra e ad altri dei e adorare protettori divini differenti non suscita scandalo, anzi moltiplica l’effetto benefico.
Le popolazioni egizie, greche, romane, avrebbero gradito che gli ebrei si fossero avvicinati alle loro divinità, dimostrando qualche segno di rispetto nei confronti dei loro riti, ma gli ebrei ostentano la “separatezza”.
I filotraduzionisti interpretano questa esigenza dell’ellenismo traducendo in greco le Scritture (il Pentateuco) in modo da farsi capire.
I controtraduzionisti – e questo provoca contrasti – sono assai sospettosi nei confronti di quei pagani che avrebbero voluto avvicinarsi ai loro riti e che mostrano interesse nei confronti del loro Dio.
Gli ebrei della “diaspora”, in genere, non vogliono fare del proselitismo, non vogliono condividere con altri il loro Dio, e molti “pagani” non capiscono questo atteggiamento e si offendono: “Ma come? Io vorrei onorare il tuo Dio e tu me lo vieti?”. Per di più, “l’invisibilità” del Dio d’Israele e il divieto di “rappresentarlo” suscitano per un verso grande curiosità e, per un altro verso, grandi sospetti. Molti pagani pensano che non esista affatto, questo Dio “invisibile”, e che gli ebrei siano gente senza Dio, siano atei pericolosi (succederà, poi, anche ai Cristiani). Nei confronti di questa situazione i filotraduzionisti reagiscono con la traduzione dei testi della Bibbia in greco per rendere comprensibile, nell’Ecumene, la figura del Dio di Abramo e di Mosé fornendone una descrizione nella lingua della koiné.
Gli ebrei della diaspora risultano particolarmente sospetti anche al potere politico, perché i sovrani di Mesopotamia, d’Egitto e Alessandro e gli imperatori Romani esigono un culto, come se fossero delle divinità, e gli ebrei si ostinano tenacemente a non prestare omaggio a culti imperiali, per questo vengono guardati con irritazione e diffidenza e finiscono per essere considerati dei ribelli pericolosi.
Nei confronti di questa situazione i filotraduzionisti reagiscono con la traduzione dei testi del Pentateuco in greco per rendere comprensibile, nell’Ecumene, la Legge di Mosé che loro vogliono rispettare senza sovvertire altri ordini costituiti.
Quando muore Alessandro, nel 323 a.C, a soli 32 anni, il suo vasto Stato si spacca e la Palestina viene governata prima dai Tolomei, poi dai Seleucidi e poi dagli Erodiadi, e, con queste dinastie “estranee”, gli “ebrei delle diaspora” non vogliono proprio avere nulla da spartire: qui nasce l’idea che Dio abbia manifestato la volontà di far diventare le comunità della diaspora eredi del testo della Legge di Mosé.
I filotraduzionisti pensano che la Legge di Mosé debba essere tradotta in greco, debba essere tradotta nella lingua dell’Ecumene, e intraprendono questa strada. Su questa strada i traduttori (i Settanta mitici traduttori) rendono la parola ebraica “berit”, che significa “patto”, “accordo tra le parti”, con il termine greco “diatήkη-diatéke”, che significa “testamento spirituale” nel senso che gli ebrei della diaspora hanno “ricevuto in eredità il patto” proprio per tradurlo in greco, nella lingua dell’Ecumene: questa è la “disposizione divina” (“diatéke”).
I controtraduzionisti pensano invece che la Legge di Mosé debba essere conservata nella sua lingua originale come indice di “separatezza”, in nome della “perugìa”. I “controtraduzionisti” vogliono contrastare con veemenza la cosiddetta “fase traduzionista alessandrina”, vogliono contrastare il lavoro di traduzione dei testi della Bibbia in greco (la versione dei Settanta), e avversano opere come la Lettera di Aristea.
Ebbene, abbiamo detto che, in questa loro attività di opposizione, i “controtraduzionisti” producono una serie di opere scritte in greco che, per il loro valore letterario, esaltano la “fase alessandrina” del “movimento della sapienza poetica beritica” e, quindi, rafforzano la cultura greca che loro vorrebbero contrastare. Le opere degli autori “controtraduzionisti” finiscono per evidenziare maggiormente il movimento culturale che vorrebbero combattere: con il loro strenuo intento di conservazione riusciranno a produrre una maggiore innovazione culturale di quanto abbiano fatto i filotraduzionisti.
Le opere cosiddette “controtraduzioniste” – potenza delle aporie (delle contraddizioni) intellettuali – diventano tanto importanti da entrare nel canone ellenistico-alessandrino della Bibbia: un canone di opere, scritte in greco, che gli autori di questi testi avversano strenuamente.
Quali sono queste opere “deuterocanoniche”? Precedentemente – facendo l’inventario della Scrittura – le abbiamo elencate.
Se leggiamo l’indice dei Libri della Bibbia (come abbiamo consigliato di fare) troviamo due testi intitolati: Primo e Secondo Libro dei Maccabei. Questi due Libri sono stati scritti nel II secolo a.C. ad Alessandria (che, come sappiamo, è il centro propulsore dell’ultima fase del “movimento della sapienza poetica beritica”) e rappresentano – soprattutto il testo del Secondo Libro dei Maccabei – l’alternativa “controtraduzionista” al testo della Lettera di Aristea che si presenta come il manifesto dei filotraduzionisti. Questo fatto è un indicatore molto importante sul valore del dibattito in corso nell’ebraismo nel periodo dell’Ellenismo ad Alessandria: i “filotraduzionisti” lavorano intellettualmente alla traduzione della Bibbia in greco e i “controtraduzionisti” lavorano intellettualmente per mettere dei solidi paletti intorno a questa operazione culturale.
I Libri dei Maccabei frenano decisamente nei confronti dell’apertura al mondo greco, nei confronti dell’integrazione e dell’abbraccio con la cultura dell’Ellenismo “pagano e sincretico”, e chiamano i membri delle comunità alla resistenza culturale e alla salvaguardia della tradizione e dell’integrità ebraica. I Libri dei Maccabei rappresentano un ulteriore e poderoso contributo al dibattito in corso ma contengono affermazioni e propongono contenuti di tipo opposto a quelli della Lettera di Aristea. I Libri dei Maccabei formano un documento letterario (questa sera noi lo possiamo appena sfiorare) di straordinario interesse che meriterebbe uno studio molto più approfondito ma noi, ora, possiamo utilizzare questo documento solo con un obiettivo specifico relativo al nostro Percorso, attinente al sentiero su cui abbiamo scelto di procedere.
Intanto dobbiamo dire che il Primo e il Secondo Libro dei Maccabei sono due testi della Bibbia scritti direttamente in greco (lo abbiamo già accennato la scorsa settimana e affermato precedentemente): quindi questi testi, mentre da una parte vogliono mettere in guardia dal pericolo che la cultura greca possa svalutare la tradizione ebraica, dall’altra sono opere completamente inserite nella cultura dell’Ellenismo e finiscono per esaltarne la portata. Già questa contraddizione, questa significativa aporia – che prima abbiamo messo in evidenza – rende interessanti i due testi dei Maccabei.
Intanto tutti possediamo un testo dell’Antico Testamento (tutti abbiamo una Bibbia in casa) e quindi possiamo facilmente prendere visione dei due Libri dei Maccabei (si comincia a venire in contatto con un oggetto intellettuale prendendo atto della sua esistenza materiale).
I testi dei Libri dei Maccabei sono due significative opere scritte in stile ellenistico che criticano la cultura e contrastano i costumi dell’Ellenismo. Queste due opere non sono una la continuazione dell’altra: sono due midrash epici indipendenti uno dall’altro, sono il racconto eroico di due epopee scritte da due autori ebrei alessandrini di cui non conosciamo nulla, l’unica cosa che possiamo dire è che, certamente, appartengono alla corrente “controtraduzionista” della “fase alessandrina del movimento della sapienza poetica beritica”.
Il Secondo Libro dei Maccabei, in particolare, è stato scritto da un autore che ha fatto il riassunto di un’altra opera in cinque volumi scritti da uno storico, Giasone di Cirene, uno scrittore di cui conosciamo soltanto il nome. Giasone di Cirene, in cinque libri, racconta i complicati (e spesso improbabili) avvenimenti della storia ebraica del II secolo a.C..
I due Libri dei Maccabei mettono al centro di questi avvenimenti le gesta eroiche di un personaggio che si chiama Giuda Maccabeo. Il soprannome “Maccabeo” risulta oscuro nel significato ma questo termine dà il nome a tutta la narrazione epica: alla saga della “famiglia dei Maccabei”.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
A questo punto la mente va a quei romanzi dell’800 e del ’900 che raccontano grandi saghe familiari: ricordi il titolo di qualcuno di questi romanzi che hai letto e che ti è piaciuto particolarmente?…
Giuda Maccabeo, con i suoi fratelli Gionata e Simone, si ribella e lotta contro la persecuzione di Antioco IV Epifane, compiendo imprese leggendarie, non tanto per l’indipendenza politica del suo popolo ma soprattutto per amore della Legge di Mosé, del Tempio di Gerusalemme e dell’Alleanza (la berit) con Dio. L’identità storica degli avvenimenti “meravigliosi” narrati è molto incerta: si tratta, abbiamo detto, di un’epopea e chi ha scritto ha come obiettivo non quello di narrare avvenimenti storici, ma bensì di fare un’apologia dei personaggi eroici. Per questo motivo l’autore del Primo Libro dei Maccabei lascia spesso la veste dello storico (puntiglioso nella cronologia ma fantasioso nella descrizione degli avvenimenti e dei personaggi) per indossare quella del poeta di stampo orfico. Se leggiamo la presentazione, l’entrata in scena, di Giuda Maccabeo nel capitolo 3 del Primo Libro dei Maccabei ci rendiamo subito conto che l’autore compone un “carme elogiativo” tipico della cultura greca con cui vengono presentati gli eroi greci (viene in mente l’Iliade e la figura di Achille).
LEGERE MULTUM….
Primo Libro dei Maccabei 3, 1-9
Elogio di Giuda Maccabeo
Il figlio di Mattatia, Giuda soprannominato Maccabeo, succedette al padre.
Tutti i suoi parenti e quelli che si erano uniti a suo padre lo aiutarono e con grande entusiasmo combattevano per Israele.
Egli accrebbe la gloria del suo popolo, rivestì la corazza come gigante
e si cinse con le armi da guerra, scese in battaglia
e difese l’accampamento con la spada.
Nelle sue imprese fu come un leone, come leoncello ruggente sulla preda.
Inseguì gli empi braccandoli, i perturbatori del popolo distrusse con il fuoco.
Gli empi sbigottirono per paura di lui e tutti i malfattori furono confusi.
Sotto la sua guida la lotta di liberazione ebbe successo.
Diede filo da torcere a molti re
e con le sue imprese rallegrò i discendenti di Giacobbe.
Chi lo ricorda lo loderà sempre.
Egli passò per le città di Giudea e disperse gli empi e distolse l’ira da Israele.
Divenne celebre fino all’estremità della terra
perché radunò quelli che erano dispersi
L’autore vuole “dimostrare” – nel dibattito in corso tra filotraduzionisti e controtraduzionisti – che alcuni ebrei coraggiosissimi hanno saputo lottare per difendere la memoria e la continuità delle antiche tradizioni del popolo d’Israele, che hanno saputo esaltare le sue feste, che devono continuare ad essere celebrate anche nella “diaspora”, soprattutto quella della “dedicazione” e della “purificazione” del Tempio.
Quindi nei due Libri dei Maccabei, sotto forma di epopea, di midrash epico, c’è uno straordinario richiamo al popolo stesso della “diaspora” perché si integri pure sul territorio dell’Ellenismo ma senza dimenticare le proprie radici, le proprie tradizioni, i propri riti.
I due Libri dei Maccabei sono quindi uno straordinario documento perché risultano l’opera di due intellettuali ebrei, radicati nell’Ellenismo, che scrivono due significativi testi in perfetto stile ellenistico, per difendere la cultura ebraica dall’invadenza dell’Ellenismo stesso: le studiose e gli studiosi di esegesi definiscono questa operazione intellettuale come “un esercizio preventivo di vaccinazione culturale”.
La lettura dei Libri dei Maccabei non è facile (“difficile”, però, non significa impossibile) e non è didatticamente produttivo invitare le cittadine e i cittadini alla lettura senza fornire delle “chiavi” perché il testo possa aprirsi ad una maggiore comprensione.
Un primo contatto con i testi di queste due opere si può avere leggendo i capitoli 7 e 8 del Secondo Libro dei Maccabei. In questi due capitoli si esalta la “guerra santa” e si parla di “martirio” (è questo – con tutto ciò che comporta – un tema di grande attualità), si parla di “sacrificio” e si parla di “risurrezione” come premio per quelli che hanno lottato, che si sono sacrificati, che hanno creduto in una causa. «È bello – dice uno dei giovani martiri – essere uccisi dagli uomini, quando si ha una speranza: Dio ha promesso di ridare la vita». Si capisce che c’è un nesso molto profondo tra i Libri dei Maccabei e la Letteratura del Vangeli che verrà prodotta circa due secoli dopo.
Il testo del Secondo Libro dei Maccabei c’invita – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – a riflettere su alcune idee-significative. La prima riflessione riguarda il concetto della “resurrezione”: un concetto tipicamente “(greco) orfico” che sarà mutuato poi dal Cristianesimo. Ci troviamo di fronte ad un testo – il testo del Secondo Libro dei Maccabei – che vuol contrastare la cultura greca esaltando tuttavia un tema fondamentale della cultura greca, della “sapienza poetica orfica”: il tema della “resurrezione”. Sul testo del Secondo Libro dei Maccabei si è formato sicuramente Paolo di Tarso il quale, nell’elaborazione della sua dottrina sulla “resurrezione” (anastàsia, in greco), fa riferimento proprio al Secondo Libro dei Maccabei, che era un’opera notissima nell’area delle comunità dell’ebraismo nel I secolo.
La seconda riflessione che dobbiamo fare si riferisce al modo in cui gli “autori” del Primo e del Secondo Libro dei Maccabei, con questi due testi autorevoli, sono capaci di intervenire nel grande dibattito sulla “separatezza”, sulla “perugìa”, compiendo una significativa operazione intellettuale. L’autore del Secondo Libro dei Maccabei interviene nel dibattito in modo assolutamente scoperto per contrastare (senza citarla) la Lettera di Aristea che dichiara non più necessaria la fedeltà ai culti e non più indispensabile la celebrazione delle feste secondo il calendario liturgico di Gerusalemme. L’autore del Secondo Libro dei Maccabei interviene contro la Lettera di Aristea, senza citarla esplicitamente, ma con un implicito riferimento formale: infatti, se andiamo ad osservare il testo del Secondo Libro dei Maccabei possiamo constatare che quest’opera inizia con una Lettera (si risponde colpo su colpo utilizzando lo stesso genere letterario) indirizzata “agli Ebrei dell’Egitto (della comunità di Alessandria)”, e poi ne segue anche un’altra di cui si cita soltanto il saluto; il testo di questa seconda lettera (che serviva per dare più credibilità alla prima) era probabilmente ripetitivo e, per alleggerire la prima parte del Secondo Libro dei Maccabei, è stato poi tolto dall’autore.
La Prima lettera agli Ebrei dell’Egitto da parte degli Ebrei di Gerusalemme, con cui si apre il Secondo Libro dei Maccabei, è simbolica: l’autore del Libro costruisce questo documento (se la scrive lui) per dare autorevolezza alla sua opera. Sappiamo – abbiamo trattato l’argomento la scorsa settimana – che il genere letterario delle “Lettere” (l’epistolario) è un classico modello della letteratura ellenistica utilizzato per “dare direttamente delle raccomandazioni” e per polemizzare anche indirettamente (non ci meravigliamo, quindi, se la dottrina del Cristianesimo – e abbiamo studiato a suo tempo questo argomento – ha alla base un epistolario: le Lettere di Paolo di Tarso e il genere letterario che Shaul-Paolo, nel I secolo, utilizza, come possiamo constatare, ha una tradizione).
«Cari Ebrei della diaspora dell’Egitto, noi ebrei di Gerusalemme – ma l’autore del Secondo Libro dei Maccabei sta scrivendo da Alessandria d’Egitto, è un intellettuale alessandrino nato e cresciuto ad Alessandria e, molto probabilmente, a Gerusalemme non c’è mai stato (probabilmente a Gerusalemme è in contatto con qualcuno ma lo stile con cui è scritta la Prima lettera agli Ebrei dell’Egitto è lo stesso dell’autore del testo di tutto il Libro) – vi raccontiamo queste meravigliose avventure perché, se le ascolterete e vi rifletterete, Dio, il Dio dell’alleanza con Abramo, farà aprire il vostro cuore».
Ma leggiamo il testo originale della Prima lettera agli Ebrei dell’Egitto che si trova all’inizio del Secondo Libro dei Maccabei: con questa lettera l’autore vuole da subito (senza dichiararlo esplicitamente per non svalutare il suo testo) mettere in evidenza l’intento della sua opera che è quello di contrastare le idee dei filotraduzionisti contenute nella Lettera di Aristea. L’autore del Secondo Libro dei Maccabei parla di personaggi storici ipotetici e di fatti storici improbabili che sarebbero accaduti a Gerusalemme nel periodo in cui la Palestina ha fatto parte del territorio amministrato dall’Ellenismo ma a lui, in verità, non interessa raccontare la storia poco onorevole dei regni ebraici che si sono succeduti nella terra di Canaan; il suo intento è quello di costruire una leggenda gloriosa (un midrash epico) attorno ad un eroe che difende, a spada tratta, l’integrità, la “separatezza”, la “perugìa” dell’ebraismo, per poter polemizzare con argomenti validi su ciò che succede nel presente ad Alessandria tra il 140 e il 120 a.C. (il testo del Secondo Libro dei Maccabei porta la data del 124 a.C.): i “traditori” (di cui parla il testo raccontando l’epopea leggendaria come se fosse storia) sono i filotraduzionisti alessandrini e «la grande prova [la divisione] – scrive l’autore del Secondo Libro dei Maccabei – che ci ha colpiti in questi anni, di cui abbiamo sofferto molto» è l’attività della corrente filotraduzionista.
E ora leggiamo il testo della Prima lettera agli Ebrei dell’Egitto con cui inizia il Secondo Libro dei Maccabei:
LEGERE MULTUM….
Secondo Libro dei Maccabei 1, 1-9
Prima lettera agli Ebrei dell’Egitto
Noi Ebrei che abitiamo a Gerusalemme, nella regione della Giudea, salutiamo voi, nostri fratelli Ebrei che siete in Egitto, e vi auguriamo ogni bene. Dio vi riempia dei suoi doni e si ricordi dell’alleanza che egli ha fatto con Abramo, Isacco e Giacobbe, suoi servi fedeli. Egli conceda a tutti voi di poterlo adorare e di poter compiere con generosità e con prontezza quel che piace a lui. Dio apra il vostro cuore alla sua legge e ai suoi precetti e vi dia la pace. Egli vi ascolti quando pregate, si riconcili con voi e non vi abbandoni, quando vi trovate nelle difficoltà. Questo noi chiediamo per voi nella preghiera.
Quando regnava il re Demetrio, nell’anno 169 dell’era greca, noi Ebrei vi abbiamo mandato questa lettera: “Una grande prova [una divisione] ci ha colpiti in questi anni, e ne abbiamo sofferto molto. Giasone (qui si fa riferimento a un ipotetico sommo sacerdote che prende un nome greco e si schiera a favore dell’Ellenismo: Giasone è la trasposizione del nome ebraico Giosué) e i suoi hanno tradito la terra santa e il regno. Hanno incendiato il portale del tempio e hanno ucciso persone innocenti . Ma noi abbiamo pregato il Signore, ed egli ci ha ascoltati. Abbiamo offerto un sacrificio e fior di farina, abbiamo acceso le lampade e presentato il pane a Dio”. Ora, nell’anno 188 dell’era greca (corrisponde all’anno 124 a.C.), vi scriviamo perché anche voi celebriate la festa delle Tende nel mese di Casleu (qui l’autore dimostra di non aver ben chiaro il calendario dell’anno liturgico di Gerusalemme perché la festa delle Tende veniva celebrata nel mese di Tisri: in realtà lo scrittore vorrebbe invitare alla celebrazione della festa della purificazione del Tempio che si teneva nel mese di Casleu, novembre-dicembre)…
Per capire ancora meglio i termini della polemica leggiamo ancora un frammento dal capitolo 4 del Secondo libro dei Maccabei dove troviamo, descritto nei particolari, il personaggio di Giasone: l’ipotetico sommo sacerdote che prende un nome greco (commette un peccato gravissimo) e si schiera a favore dell’Ellenismo. Questo Giasone, ipotetico sommo sacerdote, non deve essere confuso (nel testo del Secondo libro dei Maccabei si citano due Giasoni) con lo storico Giasone di Cirene (un personaggio reale) al quale vengono attribuiti i cinque libri in cui si narra la storia (la leggenda) di Giuda Maccabeo. L’autore del Secondo libro dei Maccabei afferma, nel 2° capitolo (nel suo progetto letterario), di aver riassunto l’opera storica di Giasone di Cirene. Il fatto è che quest’opera storica di Giasone di Cirene (in cinque libri) non è nota in nessuna altra fonte: è stata assorbita dal testo del Secondo libro dei Maccabei e dopo è sparita dalla circolazione (forse per evitare di fare dei confronti visto che entrambi gli autori dei Libri dei Maccabei si prendono molte libertà sulla descrizione dei personaggi, sugli avvenimenti e sulla trascrizione dei documenti d’archivio a cui dicono di rifarsi, come la Lettera d’introduzione del Secondo Libro che risulta chiaramente essere simbolica)? Il Giasone ipotetico sommo sacerdote è, infatti, un personaggio allegorico, una tipica figura di “traditore dell’ebraismo” creata ad arte che serve all’autore per bollare di infamia i filotraduzionisti alessandrini (in particolare lo scrittore della Lettera di Aristea). Leggiamo questo frammento:
LEGERE MULTUM….
Secondo Libro dei Maccabei 4, 7-15
Giasone, fratello di Onia, ottenne con sistemi corrotti la carica di sommo sacerdote: andò a trovare il re (Antioco Epifane) e gli promise più di centoventi quintali d’argento se avesse ottenuto il permesso di fondare, di sua autorità, un ginnasio e una palestra e di dare la cittadinanza antiochena agli abitanti di Gerusalemme. Il re fu d’accordo e Giasone, preso il potere, impose subito alla nazione il modo di vivere dei Greci … distrusse le legittime istituzioni e introdusse consuetudini contrarie alla legge di Mosé.
Giasone si affrettò a fondare una palestra proprio sotto la fortezza (proprio davanti al Tempio), e obbligò i giovani più vigorosi a vestirsi come i Greci. L’influenza greca cominciò quindi a farsi sentire. Gerusalemme fu totalmente invasa dalla moda straniera a causa dell’arroganza dell’empio Giasone, che non si comportava affatto come sommo sacerdote.
I sacerdoti non curavano più la liturgia, anzi disprezzavano il tempio, trascuravano i sacrifici e, al primo segnale dato col disco nella palestra, partecipavano con ardore ai giochi proibiti dalla legge di Dio. Non avevano più stima delle gloriose imprese della loro patria e invece apprezzavano al massimo gli onori promessi dai Greci. …
I termini della polemica – in corso ad Alessandria – risultano evidenti. Ma noi – che stiamo riflettendo – ci domandiamo: ma ad Alessandria la polemica è soprattutto, oltre che di natura religiosa, di carattere culturale? Ad Alessandria il punto focale dello scontro è il problema delle “traduzioni”, della contaminazione della toràh con la lingua greca. E difatti sul testo del Secondo Libro dei Maccabei c’è ancora una riflessione da fare che è la più importante in funzione del nostro Percorso perché riguarda più direttamente lo scontro culturale in atto tra le due principali correnti di pensiero. Questo riferimento lo troviamo nel Secondo Libro dei Maccabei al capitolo 2. Sono solo tre versetti (13-14-15) che affermano come Giuda Maccabeo – sull’esempio di un saggio non ben identificato di nome Neemia, autore di un libro di memorie andato perduto – costruisce la “Biblioteca d’Israele”. La costruzione della “Biblioteca d’Israele” non è tanto l’auspicio per la realizzazione di un progetto alternativo alla “Biblioteca di Alessandria” (c’era troppa differenza, era uno sforzo impari) ma è l’affermazione che, se proprio è necessario tradurre dall’ebraico la Legge di Mosé, ebbene, che questo atto per lo meno avvenga in un recinto culturale proprio dell’ebraismo, in un’area intellettuale protetta, in uno spazio “separato” in cui sia evidente il rispetto per la “perugìa”.
L’accorato ammonimento dell’autore del Secondo Libro dei Maccabei vale per il presente ed è avvalorato dal fatto che i “filotraduzionisti” – contro cui l’opera è rivolta – sono intellettuali che frequentano a pieno titolo l’ambiente della “Biblioteca di Alessandria” e lì, in una situazione di “non-separazione” svolgono la loro attività letteraria nella convinzione che il rispetto della “perugìa (della diversità)” consista nel presentare il proprio patrimonio culturale (mettendolo a confronto) sul palcoscenico del grande teatro dell’Ellenismo nella lingua comune della koiné.
I due Libri dei Maccabei, e i Libri deuterocanonici controtraduzionisti in genere, sono opere di grande vitalità. La considerazione che, in definitiva, ne possiamo trarre è molto significativa: sarà anche la “guerra santa” (che i Libri dei Maccabei esaltano) a riscattare un popolo oppresso, ma, molto più importante per un popolo, è conservare la propria cultura per poterla mettere a confronto, in modo fruttuoso, con le altre culture. Difatti il grande patrimonio culturale dell’ebraismo – il prodotto del “movimento della sapienza poetica beritica” nel suo insieme – non solo si è conservato (in questo i “controtraduzionisti” hanno un merito) ma, attraverso il processo della dispersione e dell’integrazione (in questo i “filotraduzionisti” hanno un merito), è diventato il substrato fecondo della cultura europea: in modo particolare la Letteratura mitteleuropea trova nei testi dell’Antico Testamento la sua linfa vitale e ora ci rendiamo meglio conto del perché è avvenuto questo (il fervido dibattito culturale giova all’esercizio dell’investimento in intelligenza).
Leggiamo questi tre versetti fondamentali del Secondo Libro dei Maccabei:
LEGERE MULTUM….
Secondo Libro dei Maccabei 2, 13-15
Queste stesse notizie si trovano anche negli scritti e nelle memorie di Neemia (un libro apocrifo che è andato perduto). Egli fondò pure una biblioteca e vi raccolse libri riguardanti i re e i profeti, gli scritti di Davide e le lettere dei re relative ai doni votivi. Allo stesso modo anche Giuda Maccabeo raccolse tutti i libri andati perduti a causa della guerra che ci capitò ed essi sono ora presso di noi. Perciò se ne avete bisogno mandateci qualcuno che ve li porti.
C’è un altro testo di grande interesse che dobbiamo, strada facendo, prendere in considerazione, il quale, come i Libri dei Maccabei, reagisce alle idee di apertura dei filotraduzionisti verso la cultura dell’Ellenismo propagandate dalla Lettera di Aristea. Questo testo ha un titolo significativo: Libro della Saggezza di Salomone; è un’opera di autore ignoto, nella quale si legge un forte attacco contro quegli ebrei (filotraduzionisti) che si considerano “liberi pensatori”, e che “vivono una doppia vita” e “danno più importanza alla lingua e alla cultura greca che non all’ebraismo”. Questi ebrei “liberi pensatori (filosofi)” vengono etichettati come: “Figli di Caino che vogliono staccarsi dalla comunità”.
Lo scontro ad Alessandria, durante l’Ellenismo, è durissimo ma ha dato i suoi frutti. Chi vince in questo epocale scontro culturale? Possiamo affermare che entrambe le correnti contribuiscono a far sì che si affermi il “movimento della sapienza poetica beritica” nel suo insieme.
Di che cosa tratta (che libro è) il Libro della Saggezza di Salomone scritto in quattro versioni? Ce ne occuperemo tra tre settimane: prima di Salomone, che è re, dobbiamo incontrare una “regina”: dobbiamo dare la precedenza alle signore…
E, a proposito di signore, adesso, per concludere, appare sul nostro sentiero un personaggio, una scrittrice che – chi ha viaggiato ultimamente sui nostri Percorsi – conosce bene. Molti di voi hanno letto i suoi libri: alcuni li abbiamo presentati lo scorso anno. La pubblicazione di uno di questi libri, che s’intitola Suite francese (2005), è stata considerata, nell’anno 2005, un evento editoriale mondiale (questa parola – “evento” – va usata con moderazione e in questo caso va usata). L’interesse per questo romanzo è legato anche alla storia rocambolesca del manoscritto di quest’opera (dell’agenda in cui è contenuto): una storia in cui sono coinvolte le figlie bambine della scrittrice, salvate – insieme al prezioso testo – da due donne della Resistenza francese. Questa storia (avventurosa e commovente come un romanzo) del salvataggio del manoscritto di Suite francese, che abbiamo raccontato (ora non la possiamo ripetere) sotto lo “sguardo di Erodoto” nel dicembre del 2006, viene descritta – e quindi si può leggere – nella “postfazione” del libro. Suite francese è un’opera di grande valore narrativo (peccato non sia stata ultimata ne rimangono solo due parti intitolate: Temporale di giugno e Dolce) di cui si consiglia la lettura e la periodica rilettura
La scrittrice di cui stiamo parlando – non l’abbiamo ancora detto ma l’avete già capito – si chiama Irène Némirovsky. Irène Némirovsky è nata a Kiev nel 1903 in una ricca famiglia borghese, suo padre è un facoltoso banchiere ebreo che si chiama Arieh, ma si fa chiamare Leon, Leon Némirovsky (classe 1868), la madre si chiama Faiga ma si fa chiamare Fanny, nata a Odessa nel 1887, è morta a Parigi nel 1989. Fanny ha concepito Irène controvoglia: solo per compiacere il marito e quindi si disinteressa completamente della figlia che cresce allevata dalle governanti. Irène è poi emigrata a Parigi (dopo la Rivoluzione russa) nel 1919 dove è diventata, negli anni ’30, una famosa scrittrice francese, e infine è morta ad Auschwitz (come suo marito Michel Epstein) nel 1942.
Di Irène Némirovsky sono in corso di pubblicazione tutte le opere e possiamo già leggere, oltre a Suite francese anche il racconto breve Il ballo (2005) (dove il tema, autobiografico, dell’odio tra una figlia e una madre viene presentato con una finezza e un’ironia sorprendente), e poi i romanzi David Golder (2006) e Jesabel (2007). Ultimamente è stato pubblicato anche il racconto La moglie di don Giovanni (2006) scritto nel 1938.
Perché, questa sera, al termine del nostro itinerario, compare questo racconto di Irène Némirovsky? Compare perché nell’itinerario di questa sera, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, abbiamo incontrato due elementi, due parole-chiave, due idee-cardine: le “lettere” (in particolare la Lettera di Aristea e la Prima lettera agli Ebrei dell’Egitto) e la “saga famigliare” (la narrazione sulla leggendaria famiglia dei Maccabei). Questi due concetti-significativi – le lettere e la saga famigliare – compaiono entrambi, intrecciati tra loro, nel racconto (nel romanzo breve) di Irène Némirovsky.
E allora leggiamo, per concludere, l’incipit di questo racconto:
LEGERE MULTUM….
Irène Némirovsky, La moglie di don Giovanni (1938)
2 agosto 1938
Signorina, la Signorina scuserà se la sua vecchia domestica la chiama ancora così. So che è sposata, e ho letto su «Le Figaro» la notizia dei lieti eventi, la nascita del piccolo Jean-Marie e della sua sorellina. Porgo alla Signorina le più rispettose felicitazioni. Adesso avranno quattro e due anni. Che carini! E l’età più tenera, quando i bambini appartengono solo alla loro mamma. Ma per me, che sono stata a servizio dai suoi genitori sino a che Ella ha compiuto dodici anni e da allora non l’ho più rivista, sarà sempre la Signorina Monique. Mi prendo questa libertà scusandomi ancora.
Signorina, ho esitato a lungo prima di scrivere. Le cose che devo dire sono così gravi e di Famiglia che sarebbe senz’altro meglio poterle dire di persona. Ma la Signorina abita a Strasburgo, ha due bambini piccoli. Sono tempi difficili per tutti e io non penso che la Signorina verrebbe a Parigi fin da Strasburgo solo per incontrare una vecchia domestica che probabilmente ha dimenticato, anche se ho da dirle cose della massima importanza sui suoi Genitori. Alla fine i morti sono morti e non si può pretendere che uno faccia un viaggio così lungo e costoso per sentire delle vecchie storie che forse alla Signorina non interessano più. Io non la biasimo, può starne certa. La vita è la vita e ognuno deve vivere prima di tutto la sua.
Venire io dalla Signorina non posso, perché sono ricoverata in ospedale, dove mi devono operare fra pochi giorni di un brutto tumore, e sento che non guarirò. All’inizio l’ho presa molto male. Ho cinquantadue anni. Avevo messo due soldi da parte. Ho una casetta al mio paese, Soupresse, nelle Lande. Avevo sempre pensato di lavorare fino a cinquantacinque anni e poi vivere lì in santa pace. Di vivere in casa d’altri alla fine non ne puoi più, soprattutto quando non sei tanto giovane. Ma, come si dice, l’Uomo propone e Dio dispone, ed è proprio vero. Quando ho capito che per me era questione di giorni, mi sono decisa a mettere tutto per iscritto. La Signorina farà quello che vorrà, sono faccende di Famiglia e io non devo immischiarmi, ma almeno avrò la coscienza a posto e non starò a preoccuparmi di quello che succederà dopo la mia Morte, mentre adesso quelle lettere che sono a casa mia mi danno l’angoscia.
Per far capire tutto alla Signorina, preferisco interrompere questa lettera, riprenderla e finirla in settimana con calma. Quando torni con la mente al passato, vorresti dire tutto. Non sai da che parte cominciare. E molto difficile. Ma ho una settimana davanti a me. Mi operano martedì prossimo. Potrebbero operarmi prima, ma d’estate negli ospedali non c’è molta gente, e dato che prendono un tanto al giorno dalle assicurazioni sociali hanno tutto l’interesse a tenere i malati a lungo, ed è quello che fanno. Spero quindi che la signorina Monique avrà la pazienza di leggere questa lettera fino in fondo. …
Nel prossimo itinerario (insieme alla signorina Monique) leggeremo ancora qualche pagina di questa lettera, scritta dalla vecchia domestica (come lei si definisce, ma ha solo 52 anni), e questa “lettera” – come abbiamo potuto ascoltare – allude ad altre “lettere”: «…adesso quelle lettere che sono a casa mia mi danno l’angoscia». Chissà – con la sua lettera – che cosa deve raccontare la vecchia domestica (come lei si definisce) alla signorina Monique e anche a noi?
Tra due settimane (dopo la pausa dei Santi e dei Morti) – a proposito di “lettere” – dobbiamo incontrare una ragazza bellissima, che diventa regina di Persia e che si chiama Ester. La figura allegorica di Ester – alla quale sono dedicati due Libri della Letteratura dell’Antico Testamento – costituisce il supporto mitico di una straordinaria operazione culturale che si chiama la “questione del doppio Libro di Ester”: una “questione” che non possiamo ignorare.
Conoscere la “questione del doppio Libro di Ester” – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – permette di capire gli argomenti della cosiddetta “tendenza mardocheista elleinistico alessandrina” del movimento della sapienza poetica beritica. L’avete mai sentita nominare questa “tendenza”?
E allora: non perdete l’occasione di affrontare la “questione del doppio Libro di Ester”.
Siate sagge e siate saggi (come Ester e come Salomone), accorrete, la Scuola è qui: tra quindici giorni, dopo la pausa di riflessione dei Santi e dei Morti.