Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza poetica beritica 2007 7-8-9 novembre 2007
LA TENDENZA MARDOCHEISTA ELLENISTICO-ALESSANDRINA ...
Da quattro settimane ci troviamo ad Alessandria d’Egitto dove, dal III secolo a.C. al I secolo d.C., si è sviluppata la cosiddetta “fase ellenistico-alessandrina” del movimento della “sapienza poetica beritica”. Sappiamo che (lo abbiamo studiato nei primi tre itinerari di questo viaggio) il movimento della “sapienza poetica beritica” è un grande e variegato percorso culturale (che nel suo complesso è durato più di mille anni) al quale dobbiamo i Libri della Letteratura dell’Antico Testamento.
Sappiamo che la parola ebraica “berit” (che unifica tutti i Libri della Bibbia) significa “patto”, “accordo”, e questa parola è stata tradotta in greco con la parola “diatéke” che significa “testamento spirituale” e che, in latino, (da Clemente Romano e da Gerolamo) è stata tradotta con la parola “testamentum”.
Noi siamo consapevoli del fatto che i Libri della Letteratura dell’Antico Testamento sono uno straordinario apparato di Pensiero, un lascito spirituale (“diatéke”, in greco), un’eredità culturale (“testamentum” in latino) che, insieme a quello della “sapienza poetica orfica” (che abbiamo studiato nel Percorso dello scorso anno), costituisce parte integrante del nostro patrimonio intellettuale e del nostro albero genealogico lessicale (il catalogo delle idee-cardine e delle parole-chiave che danno forma alla nostra identità culturale).
Possono le cittadine e i cittadini europei non dedicarsi allo studio (studium et cura) di questi apparati di Pensiero all’interno di un progetto di Educazione permanente? Noi qui, in periferia, nella Scuola pubblica degli Adulti, ci proviamo, nonostante le difficoltà.
Abbiamo studiato che durante la cosiddetta “fase ellenistico-alessandrina” del movimento della “sapienza poetica beritica” – soprattutto intorno al II secolo a.C. – si confrontano (dovremmo dire si scontrano) con veemenza, due correnti di pensiero che ci hanno lasciato in eredità una serie di oggetti culturali che, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, risultano di notevole valore. Queste due correnti – lo sappiamo – prendono il nome di “filotraduzionista” e “controtraduzionista” perché l’oggetto del contendere è la traduzione in greco, dall’ebraico, dei Libri della Bibbia. Questa straordinaria operazione intellettuale – la traduzione in greco dei Libri della Bibbia nella cosiddetta versione dei “Settanta” – è stata portata a termine, nel corso di circa tre secoli, con caparbietà dagli intellettuali cosiddetti “filotraduzionisti” ed è stata osteggiata (con altrettanta caparbietà) con la creazione di opere di eccezionale valore letterario dagli intellettuali cosiddetti “controtraduzionisti”.
Sappiamo che la corrente “filotraduzionista” ha un suo manifesto culturale, un’opera, il cui autore è sconosciuto, che s’intitola Lettera di Aristea e che abbiamo imparato a conoscere nelle sue linee generali. Dobbiamo ribadire che l’atteggiamento culturale del gruppo dei “filotraduzionisti alessandrini” – gli intellettuali, alternativi alla tradizione, che considerano necessario tradurre in greco i Libri del Pentateuco, e che sono rappresentati dall’autore della Lettera di Aristea – ritengono non più necessaria un’osservanza rigorosa delle prescrizioni cerimoniali ebraiche espresse nelle pratiche del “culto” e nella fedeltà al Tempio di Gerusalemme che è sempre più in rovina. L’autore della Lettera di Aristea si domanda: ma tutti questi “riti”, queste formalità cultuali, queste feste liturgiche (come quelle della “dedicazione” e della “purificazione” del Tempio) sono ancora necessarie? Hanno ancora un senso i culti tradizionali nella nuova realtà “secolarizzata” dell’Ellenismo? Nella nuova realtà “secolarizzata” dell’Ellenismo – in cui le comunità dell’ebraismo si sono ormai da tempo integrate socialmente, politicamente ed economicamente – è necessario continuare a praticare anche la “perugìa” cioè una rigida “separatezza” culturale, chiusa in canoni religiosi che non hanno più un senso perché diventati oramai incomprensibili con il modo di vivere ellenistico-alessandrino? Non è più logico e produttivo attuare una “riforma di pensiero” che possa, in forme nuove, conservare e rivalutare antichi contenuti, antichi valori e istituire nuove feste condivise da tutti?
Intorno a queste domande, e all’atteggiamento da tenere in tutte le comunità ebraiche presenti sul territorio dell’Ellenismo, si scatena un animato dibattito che assume spesso i caratteri dello scontro violento, non solo verbale ma che conosce anche importanti e fattivi momenti di mediazione.
Dobbiamo dire che la traduzione in greco nella versione dei “Settanta” da parte degli intellettuali “filotraduzionisti” scatena una forte reazione culturale da parte degli intellettuali “controtraduzionisti” i quali rispondono con grande creatività producendo una serie di opere che entreranno addirittura a far parte di una sezione particolare della Letteratura dell’Antico Testamento: la sezione dei “Libri deuterocanonici” (del secondo canone ellenistico-alessandrino) di cui, penso, abbiate verificato la presenza su un indice della Bibbia.
Abbiamo già detto nelle scorse settimane che questa forte reazione culturale, questa esplosione di creatività da parte degli intellettuali “controtraduzionisti” genera una formidabile aporia, una feconda contraddizione. Che cosa succede?
Succede che, paradossalmente, i “controtraduzionisti”, con i testi delle loro opere, indirizzati contro la cultura greca ma scritti in greco (nella lingua della koiné), invece di creare un contenimento nei confronti di quella che considerano un’innovazione deleteria e blasfema (la traduzione della Legge di Mosè in greco), contribuiscono in modo determinante a dare la spinta maggiore al cambiamento, al rinnovamento culturale dell’ebraismo. E a dare lustro letterario e fecondità di pensiero alla “fase ellenistico-alessandrina” del “movimento della sapienza poetica beritica” contribuiscono entrambi gli schieramenti (“filotraduzionisti” e “controtraduzionisti”) e questo clima di conflittualità intellettuale si rivela particolarmente produttivo, soprattutto quando si creano delle mediazioni tra le correnti contrapposte.
I “controtraduzionisti” vogliono contrastare con veemenza lo svolgimento della cosiddetta “fase traduzionista alessandrina”, vogliono ostacolare il più possibile il lavoro di traduzione dei testi della Bibbia in greco (la versione dei Settanta) e vogliono contrastare opere come la Lettera di Aristea ma, in questa loro attività di opposizione, i “controtraduzionisti” producono a loro volta una serie di opere scritte in greco che, per il loro valore letterario, esaltano la “fase ellenistico-alessandrina” del “movimento della sapienza poetica beritica” e rafforzano notevolmente la cultura greca, che loro vorrebbero contrastare, favorendone una maggiore penetrazione nel mondo ebraico. Quali sono queste opere che vengono prodotte in ambiente “controtraduzionista”?
Sono – anche se ad attribuire delle etichette dobbiamo andare sempre molto cauti (e ce ne accorgeremo questa sera…) – i Libri cosiddetti “deuterocanonici” della Bibbia e noi abbiamo puntato la nostra attenzione, nell’ultimo itinerario svolto, sul Primo e sul Secondo Libro dei Maccabei.
Questi due Libri sono stati scritti nel II secolo a.C. ad Alessandria e rappresentano, come abbiamo studiato – soprattutto il testo del Secondo Libro dei Maccabei (datato intorno al 124 a.C.) – l’alternativa “controtraduzionista” al testo della Lettera di Aristea (datata intorno al 140 a.C.) che si presenta come il manifesto dei “filotraduzionisti”.
Come abbiamo anticipato quindici giorni fa, questa sera dobbiamo prendere in considerazione un altro testo (che compare, con delle variazioni, in due Libri) di grande interesse, il quale, come il testo dei Libri dei Maccabei, dovrebbe costituire un’alternativa nei confronti delle idee di apertura verso la cultura dell’Ellenismo coltivate dai “filotraduzionisti” e propagandate dalla Lettera di Aristea. Abbiamo detto che questo testo (che compare, con delle variazioni, in due Libri) “dovrebbe costituire un’alternativa”: per quale ragione usiamo il condizionale?
Ma prima di prendere in considerazione questo testo (i due Libri che, con delle variazioni, lo contengono) dobbiamo – come abbiamo anticipato due settimane fa, e sicuramente non avrete dimenticato – riaprire una parentesi in funzione della didattica della lettura della scrittura.
Nel 2006 è stato pubblicato per la prima volta in Italia il racconto La moglie di don Giovanni scritto nel 1938 di Irène Némirovsky: una grande scrittrice che dal 2005 abbiamo imparato a conoscere. Perché ci occupiamo di questo racconto di Irène Némirovsky? Perché nel nostro Percorso, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, abbiamo incontrato due elementi, due parole-chiave, due idee-cardine.
Il primo di questi elementi è rappresentato dalle “lettere”, nel senso del genere letterario dell’epistolario: il genere letterario più significativo della “fase ellenistico-alessandrina” del movimento della “sapienza poetica beritica” e in particolare abbiamo studiato la Lettera di Aristea e la Prima lettera agli Ebrei dell’Egitto con cui inizia il Secondo Libro dei Maccabei.
Il secondo di questi elementi è la “saga famigliare”, e noi siamo venuti in contatto con la narrazione della storia leggendaria della famiglia dei Maccabei e prossimamente vedremo quanto sia importante, nel movimento della “sapienza poetica beritica”, il concetto della “saga famigliare”.
Questi due elementi significativi – le lettere e la saga famigliare –, che hanno caratterizzato la “narrativa” di tutti i tempi, compaiono entrambi, intrecciati tra loro, nel racconto (nel romanzo breve) di Irène Némirovsky che s’intitola La moglie di don Giovanni e di cui quindici giorni fa abbiamo letto l’incipit. Questo romanzo breve è una “lettera”, scritta alla signorina Monique dalla sua vecchia governante (come lei si definisce, anche se ha solo 52 anni) che l’ha cresciuta, e questa “lettera” – come abbiamo potuto ascoltare nell’incipit, forse lo ricordate – allude ad altre “lettere”: «…adesso quelle lettere che sono a casa mia – scrive la vecchia governante alla signorina Monique – mi danno l’angoscia». Chissà – con questa sua lettera – che cosa deve raccontare la vecchia domestica (come lei si definisce) alla signorina Monique e anche a noi.
Leggiamone altre due pagine: entriamo nella Famiglia (sempre, ironicamente, scritta con la lettera maiuscola) per fare la conoscenza del Signore e della Signora che sono i Genitori (anche questa parola porta sempre la maiuscola) della signorina Monique e i datori di lavoro della fedele governante che sta scrivendo per mano di Irène Némirovsky. Ma dobbiamo anche aggiungere che in questo racconto emergono anche, in chiara evidenza, le prime parole-chiave del catalogo che si sta cominciando a formare, itinerario dopo itinerario, su questo Percorso: le parole “testamento”, “eredità”, “patto”.
LEGERE MULTUM….
Irène Némirovsky, La moglie di don Giovanni (1938)
3 agosto
Quando il povero Signore è venuto a mancare, la Signorina era così giovane che c’è da chiedersi che cosa sa e che cosa non sa. Sono entrata nella sua Famiglia quando ancora abitava in avenue Hoche. La Signorina Monique aveva sei anni, il Signorino Robert due, e il Signorino René non camminava ancora. Il Signore era molto bello, così bello che nessuna delle fotografie che certamente la Signorina possiede ne rende l’idea. Siccome dopo il fatto la Signorina e i suoi Fratelli sono cresciuti tutti e tre nella Famiglia della Signora, penso che sulla condotta del Signore lei sa già tutto quello che è possibile sapere. La Signora Contessa, la Nonna della Signorina, non era molto tenera col genero. E in fondo lo si capisce. È una gelosia naturale in una Madre. Oh! Signorina Monique, se Dio mi avesse dato dei figli, sarei stata gelosa del loro amore, avrei trepidato per la loro felicità fino a uccidere chi avesse tradito mia figlia! Signorina, quando sono entrata a servizio in avenue Hoche, nessuna cameriera durava più di sei o sette mesi, e adesso che è sposata e conosce la vita penso che la Signorina capirà perché. Io avevo già trentaquattro anni. Avevo una certa istruzione, ero andata a scuola fino a quattordici anni, grazie ai sacrifici della mia povera mamma. Non le sarò mai abbastanza riconoscente, anche adesso che molte cose non le ricordo più. Non ero come quelle povere ragazze che non sanno niente. Credono a tutto quello che gli si racconta e sono convinte che la vita è come nei film. Se avessi messo gli occhi su qualcuno, sarebbe stato uno del mio mondo e non un Ricco che può dare a una ragazza povera solo baci che dopo si pagano con lacrime amare. Non ero tagliata, io, per quelle cose. Dio sa se sono sempre stata al mio posto con il Signore, ma era impossibile non vedere com’era bello e seducente, con quella sua aria di burlarsi di tutti, i magnifici denti e i baffetti sopra le belle labbra. Era generoso e, Signorina Monique, di Uomini generosi non ce n’è tanti. Amava le donne non solo per avere delle avventure o per vantarsi, ma ogni volta la sua era una grande passione. Si stancava subito, ma all’inizio faceva fuoco e fiamme. Era rimasto molto giovane di spirito. Era anche molto giovane di età: aveva due anni meno della Signora. La Signorina sa certamente che lui e la Signora erano cugini primi, cresciuti insieme, e che la Ricchezza veniva tutta dalla Signora. Altrimenti non si sarebbe mai sposato e tanto meno con la Signora che, poverina, non era per niente bella. So che, dopo il tragico fatto e fino alla sua Morte, la Signora è stata ammalata ed è rimasta perlopiù in Svizzera. Non so se la Signorina si ricorda di com’era sua Madre prima … La faccia non era poi così brutta e gli occhi, anzi, erano belli. Ma aveva un corpo sgraziato, troppo grande, troppo magro, come se braccia e gambe le fossero d’impaccio. Camminava a grandi passi e portava scarpe senza tacco, come un uomo. Non era sicura di sé, non aveva scioltezza. Era dimessa, senza un briciolo di civetteria. La Signora Contessa la rimproverava ancora come una bambina, le diceva che era brutta e goffa. E chissà quanto l’aveva tormentata quando la Signora era ragazza. La Signora Contessa, che in gioventù era stata bella, non si dava pace nel vedere che sua figlia le somigliava così poco e si preoccupava per lei. In effetti, Signorina Monique, per essere felice una donna dev’essere bella. La Signora sapeva di non esserlo, poverina, e si disperava. Ma dato che era anche molto intelligente aveva ben chiaro che nella vita bisogna essere un Tipo, e che il suo Tipo non poteva essere quello della donna graziosa, della bambola. Era molto assennata, molto istruita, si dedicava alla Musica, e in Società, come pure in Famiglia, che è sempre più severa della Società, tutti la apprezzavano. Dicevano: «E una Santa», e che sopportava le scappatelle del Signore come le donne del passato, mentre adesso si divorzia subito, io di qua, tu di là, e i figli si arrangino! La Signora faceva finta di non vedere, ed era la cosa più saggia, dicevano, perché amava suo Marito. Di questo amore nessuno dubitava. Le donne correvano tutte dietro al Signore, e quando lui le abbandonava perdevano la testa ancora di più. La Signorina sa come sono le donne, vero? Era naturale, dicevano, adorare un Marito bello e corteggiato come quello. Con lei era gentile. La rendeva infelice con le sue Avventure, si capisce, ma per il resto era sempre molto educato e rispettoso: «Ma sì, come volete, Nicole…Avete ragione, Nicole». Non le parlava mai con un altro tono, almeno davanti agli altri, e parecchie volte l’ho sentito dire alla Signorina e ai suoi fratellini: «Vogliate molto bene alla vostra mamma, miei cari. Avete la mamma migliore del mondo. Dovete ubbidirle e accontentarla in tutto». E i suoi begli occhi brillavano come se si burlasse di quel che diceva, ma aveva proprio uno sguardo così, non dipendeva da lui, uno sguardo tenero e vivace, ma quel che diceva gli veniva dal profondo del cuore. Rispettava molto la Moglie. Con i bambini non si può dire che fosse cattivo. Di loro non si occupava granché, ma l’ho visto molto in pena quando erano ammalati. Non sapeva farli giocare né parlarci insieme. Un bacio, una zolletta di zucchero che loro inzuppavano nel suo caffè quando pranzava a casa, non gli si poteva chiedere di più. Per dirla tutta, i bambini lo annoiavano. Si ha un bel dire, ma sono rari gli Uomini che amano i bambini. Sono carne e sangue della madre, ma quanto ai padri … La Signora, invece, viveva solo per i figli, diceva la gente, e che da grandi l’avrebbero venerata come una Santa. Ma con i suoi bambini era fredda e scostante come con gli altri. Di questo non aveva colpa: era timida e aveva paura di essere derisa. Si può ben dire che la vostra infanzia non è stata molto felice. Forse per questo volevo bene alla Signorina, che era affettuosa e giudiziosa come una donnina.
5 agosto
Ieri non ho scritto perché ero stanchissima, e soprattutto perché sono arrivata a un periodo molto brutto per la Signorina. Ho paura di darle un dispiacere parlandone, ma è necessario, per far capire alla Signorina quello che è successo. Chiedo Perdono dal profondo del cuore alla Signorina se le procuro qualche amarezza. Saranno giusto dodici anni questo autunno. La cosa era cominciata con una tresca con la Baronessa Debeers. Quest’estate ho visto su «Le Figaro» che ha perso un figlio di vent’anni in un incidente aereo. Leggo sempre la Cronaca Mondana e le inserzioni che riguardano i domestici, così non perdo di vista le persone che ho conosciuto in gioventù. In fondo è piacevole seguire la vita della gente; ma com’è breve la vita, Signorina Monique! Fa effetto leggere che una ragazzetta, ai miei tempi semplice sguattera, cerca un posto di cuoca-pasticciera in coppia con la figlia, cameriera. Tocchi con mano quanto è breve il nostro cammino. Non ci si pensa mai quando si è giovani, ed è meglio così, naturalmente! Quanto alla Signora Baronessa, è incredibile che abbia perso un figlio che aveva già vent’anni. Ce l’ho ancora davanti agli occhi! Lei sì che sapeva vestirsi! Me la ricordo una sera che era venuta a cena. Aiutavo il maggiordomo a servire i cocktail e l’ho vista bene. Del Signore e della Signora Baronessa si mormorava che stavano insieme fin dalla primavera. Nessuna avventura del Signore era mai durata così a lungo. Perciò li ho guardati ben bene. Mio Dio, com’era bella quella donna! Aveva un abito rosso molto accollato e semplice sul davanti e con la schiena nuda. Tornava da Biarritz e la sua pelle era tutta dorata. Quella trovata del vestito chiuso davanti e scollato dietro dopo l’hanno copiata in tante, ma allora era la prima volta che in Società si vedeva un vestito così e, Signorina Monique, tutti quei Signori facevano certi occhi … Mi pare ancora di vederli. Gli uomini, bisogna dirlo, sono proprio animali. Nessuno credeva che sarebbe stata una cosa seria, sia per lui che per lei. Nell’Alta Società – e Dio sa se ne ho viste, Signorina! – le storie d’amore servono a farsi ammirare dalla gente più che a mostrare dei veri sentimenti. Un po’ di svago, dei bei vestiti, biancheria fine, un pizzico di amor proprio ferito, qualche fitta di gelosia, e poi tanti saluti, avanti un altro. Ma per il Signore e la sua amica evidentemente era vero amore. Arriva come un ladro. Neanche sappiamo il suo nome e già ci ha preso il cuore. Il Signore aveva avuto tante donne, eppure sembrava la prima volta. Lui, che era sempre allegro e scanzonato, era diventato pallido e triste. E lei se lo mangiava con gli occhi. Noi della servitù cominciavamo a dire che c’era aria di divorzio. Il divorzio non c’è dubbio che lo avevano desiderato quasi subito tutti e due, ma la Ricchezza veniva tutta dalla Signora, e questo tratteneva il Signore. Questo, e forse anche i bambini. Non vorrei che la Signorina pensasse male dei suoi poveri Genitori, né credesse che lei e i suoi fratelli, con tutti quegli intrallazzi, venissero trascurati. Le ripeto che il Signore non era affatto cattivo. Sono sicura che il divorzio gli faceva paura per via dei bambini, ma ancora di più, bisogna ammetterlo, per via del denaro. Non è che gli piacesse il denaro, era troppo educato per questo, ma da quando era sposato con la Signora ne aveva sempre avuto in abbondanza, e siamo tutti schiavi delle abitudini. Comunque sia, anche se la Signorina troverà la cosa triste e penserà con amarezza ai suoi Genitori e alla sua infanzia, dobbiamo pur dirci che sono morti tutti e due. Dio li ha giudicati e solo Lui ha il diritto di giudicarci: non spetta a noi farlo, specialmente coi nostri Genitori che sono sacri, come adesso che la Signorina è madre ha tutto l’interesse a credere. Naturalmente, Signorina Monique, davanti alla servitù loro si nascondevano, ma non c’è niente da fare. Una parola che ti arriva all’orecchio mentre vai a rifare il letto, un fazzoletto bagnato di lacrime sotto un cuscino, una traccia di cipria su una giacca sono più che sufficienti. I padroni credono che li spiamo e che la nostra è curiosità … Ma posso assicurare alla Signorina che le storie dei padroni non ci interessano. Spesso, anzi, molte cose ci disgustano al punto che uno preferirebbe non veder niente, ma come si fa se salta agli occhi? A meno che tu non sia una macchina, ti interessi alle persone che ti danno il pane. Quindi la Signorina può stare tranquilla. Tutto quello che le dico, tutto quello che devo dirle, giuro davanti a Dio che è la verità. …
Quale “verità” deve essere rivelata, dalla vecchia governante, alla signorina Monique? Per saperne di più ci toccherà leggere ancora qualche pagina di questo racconto!
E ora torniamo ad occuparci del nostro specifico argomento.
In questa grande biblioteca che è la Bibbia noi troviamo due testi che portano il nome di Ester: il Libro di Ester ebraico e il Libro di Ester greco. Questo fatto (due Libri dedicati allo stesso personaggio, che narrano gli stessi avvenimenti, un testo scritto in ebraico e l’altro testo scritto in greco) non suscita in noi – a questo punto del nostro Percorso – più nessuna meraviglia perché conosciamo i termini e la dinamica conflittuale (tra “integrazione” e “separatezza”) che porta alla strutturazione della Letteratura dell’Antico Testamento.
Ma la figura di Ester – che è una bellissima e saggia ragazza ebrea che abita in Persia – è anche la metafora, è anche l’allegoria di una straordinaria operazione culturale che nasce nel contesto dello scontro tra la corrente “filotraduzionista” e la corrente “controtraduzionista”.
Se scorriamo l’indice della Bibbia ci rendiamo conto che i due Libri di Ester sono collocati in sezioni diverse: il Libro di Ester ebraico si trova nella sezione dei “ketubim”, degli “Scritti sapienziali e poetici”, mentre il Libro di Ester greco lo troviamo nella sezione dei “Libri deuterocanonici”
È facile per noi che stiamo studiando la “fase ellenistico-alessandrina” del “movimento della sapienza poetica beritica” – con le sue correnti, “filotraduzionista” e “controtraduzionista”, a confronto – capire che il testo del Libro di Ester greco rientra pienamente nella polemica in corso e viene scritto, in ambiente “controtraduzionista”, con un obiettivo specifico: quello di ribadire la necessità di celebrare le festività religiose ebraiche che sono un segno di unità del popolo ebreo della diaspora.
L’autore del Libro di Ester greco compone la sua opera – un po’ enfatica ma di grande valore letterario – per reagire al fatto che le festività tradizionali (soprattutto la festa della “dedicazione” e della “purificazione” del Tempio) non vengono più celebrate con la dovuta partecipazione in molte comunità della diaspora. In particolare ad Alessandria non si sente più, nella comunità ebraica, questa esigenza: il Tempio di Gerusalemme, come oggetto materiale, è ormai percepito come lontano e in rovina, e, per giunta, in mano a gerarchie, a dinastie, estranee all’antico Israele. Ad Alessandria è ormai in atto un processo di secolarizzazione e – come abbiamo studiato la scorsa settimana – il Tempio ha assunto, per la maggioranza dei membri della comunità ebraica, i contorni mitici di una metafora spirituale presente nel cuore di ciascuno (si parla esplicitamente di “Secondo Tempio”) senza che rappresenti più il segno reale di un’aggregazione nazionale.
Diventano sempre più numerosi gli ebrei della diaspora, in particolare ad Alessandria, che cominciano a domandarsi: che cosa abbiamo da festeggiare in relazione al Tempio di Gerusalemme? Noi dobbiamo festeggiare le “nostre ricorrenze” tenendo conto della situazione in cui ci troviamo.
Diventano sempre più numerosi gli ebrei della diaspora, in particolare ad Alessandria, che cominciano a chiedersi: non è forse meglio adeguarsi agli usi e ai costumi ellenistici e partecipare alla celebrazione delle festività pagane della città che ci ospita in modo da essere considerate cittadine e cittadini a tutti gli effetti?
L’autore del Libro di Ester greco – in questo contesto di laicizzazione in atto presso le comunità della diaspora – sente quindi l’urgenza di ribadire l’importanza delle “festività proprie” dell’ebraismo, ma capisce anche che è necessario affiancarle alle celebrazioni pagane in modo da rispettare tanto i tempi liturgici della città ospitante quanto il contenuto specifico delle feste ebraiche: affiora, in ambito “controtraduzionista”, con questo autore, una tendenza verso la mediazione. L’autore del Libro di Ester greco costruisce la sua opera con l’intento di istituire “una festività” per celebrare il “capodanno” che all’inizio della primavera coinvolgeva tutti i popoli dell’Ellenismo. Ebbene – pensa l’autore del Libro di Ester greco – celebriamo pure il “capodanno” nel periodo in cui lo festeggiano gli altri popoli dell’Ellenismo, ma che sia dal punto di vista della forma e del contenuto una “festa ebraica”.
L’autore del Libro di Ester greco compone la sua opera, anche e soprattutto, con l’intento di trovare una legittimazione per istituire “una festività” in cui si possano riconoscere tutti gli ebrei della diaspora (tanto i “controtraduzionisti” quanto i “filotraduzionisti”).
Per far fronte a questa esigenza l’autore del Libro di Ester greco (un intellettuale della corrente “controtraduzionista” ma “non integralista”, uno scrittore che sa guardare anche fuori dal proprio ambito) si mette al lavoro intorno alla fine del II secolo a.C..
Per riuscire in questa impresa certamente non facile di salvaguardia della religiosità in generale e di tutela delle festività ebraiche in particolare, lo scrittore del Libro di Ester greco riprende, per dare un contenuto al suo Libro, una saga tradizionale molto conosciuta. Lo scrittore del Libro di Ester greco utilizza un grande racconto leggendario di provenienza persiana, tramandato oralmente (forse anche per iscritto) con molte varianti (per quanto riguarda la collocazione storica), come sempre succede per i racconti mitici. Questo grande racconto leggendario, tramandato in diverse versioni, si rifà al tempo dell’esilio babilonese.
Diciamo subito che l’esilio babilonese, subìto dalla classe dirigente e produttiva del popolo d’Israele tra il 587 e il 539 a.C., diventa – durante la “fase ellenistico-alessandrina” del “movimento della sapienza poetica beritica” (intorno al II secolo a.C.) – un punto di riferimento culturale: l’esilio diventa un’immagine mitica, si trasforma in un’allegoria per entrambe le correnti di pensiero (“filotraduzionista” e “controtraduzionista”) della diaspora ebraica alessandrina: mentre gli intellettuali “filotraduzionisti” – troviamo questa affermazione anche nella Lettera di Aristea – sostengono che il popolo ebreo in esilio a Babilonia ha potuto costruire la propria identità e la propria diversità integrandosi con la forte cultura mesopotamico-babilonese, gli intellettuali “controtraduzionisti” – e ciò appare nel contesto del Libro di Ester greco – sostengono che il popolo ebreo in esilio a Babilonia ha saputo distinguersi e ha saputo conservare la propria identità e la propria diversità culturale nonostante l’invadenza della forte cultura mesopotamico-babilonese.
Le due correnti sono in disaccordo sulla natura del ruolo che ha avuto l’esilio (l’esilio è tempo di “integrazione” o è tempo di “separatezza”?) ma sono in sintonia nel pensare che questo dramma sia stato, comunque, un momento propulsivo per la cultura dell’ebraismo: a Babilonia sono stati scritti i codici del Pentateuco e su questo importante tema, naturalmente, ci faremo tappa strada facendo.
Ad Alessandria l’avvenimento dell’esilio babilonese del popolo d’Israele, tra il 587 e il 539 a.C., diventa un concetto che esprime in modo allegorico l’esperienza che anche gli ebrei della diaspora stanno vivendo.
Quindi non è casuale il fatto che lo scrittore del Libro di Ester greco riprenda, per dare un contenuto alla sua opera, una saga tradizionale, un grande racconto leggendario di provenienza persiana, che si rifà al tempo dell’esilio babilonese.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Per leggere il testo del Libro di Ester greco (sono dieci capitoletti, circa sei pagine) ci vuole pazienza (non è come leggere un romanzo) ma è un’impresa possibile… Soprattutto è un esercizio propedeutico in funzione della didattica della lettura e della scrittura perché il personaggio biblico di Ester – che prende forma letteraria nel corso del ciclo ellenistico-alessandrino del movimento della sapienza poetica beritica – è stato utilizzato (per le sue molte sfaccettature) da molte scrittrici e molti scrittori di romanzi…
Anche il premio Nobel (dell’anno scorso) per la Letteratura: lo scrittore turco Orhan Pamuk utilizza il personaggio di Esther in uno dei suoi romanzi intitolato Il mio nome è rosso. Adesso questo romanzo (che probabilmente qualcuna/qualcuno di voi avrà letto) lo citiamo soltanto perché lo incontreremo ancora strada facendo a proposito di un altro argomento: leggiamo tuttavia un frammento da Il mio nome è rosso. Siamo a Istanbul nel 1591, e naturalmente anche in questa affascinate città c’è un quartiere ebreo.
LEGERE MULTUM….
Orhan Pamuk, Il mio nome è rosso (1998) Il mio nome è Esther
So che siete tutti curiosi di sapere che cosa c’era scritto nella lettera che ho dato a Nero. Dato che ero curiosa anch’io, mi sono informata. Se volete, immaginate di girare le pagine della storia all’indietro e vedrete cos’è accaduto prima che gli consegnassi la lettera: ve lo racconto.
Adesso è quasi sera, nella nostra casa, nel nostro piccolo quartiere ebreo all’imbocco del Corno d’Oro, io e mio marito Nesim, due poveri vecchietti – puf puf – cerchiamo di scaldarci mettendo legna nel focolare. Non fateci caso se adesso dico che sono vecchia, quando tra i fazzoletti, i guanti, le lenzuola di seta, le pezze di stoffa colorata per confezionare camicie arrivate con le navi portoghesi, infilo gioielli, costosi o meno, anelli, orecchini, collane che emozionano le donne, e mi metto il fagotto sottobraccio e giro tutta Istanbul, Esther è il mestolo e Istanbul il paiolo, la giro in continuazione. Porto lettere, pettegolezzi di porta in porta, ho fatto sposare metà delle ragazze di questa Istanbul, ma non ho iniziato questo discorso per vantarmi.
... continua la lettura ...
Potete andare avanti per conto vostro: il romanzo Il mio nome è rosso lo trovate facilmente in biblioteca. Abbiamo letto questo frammento per mettere in evidenza una caratteristica – ripresa dallo scrittore – del personaggio biblico di Ester, o meglio, una peculiarità del Libro di Ester greco che consiste nella prerogativa di “far circolare le lettere”. Che cosa significa?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo occuparci della “forma” del Libro di Ester greco ma prima concentriamo la nostra attenzione – in modo molto sintetico – sul contenuto.
Il Libro di Ester greco racconta una vicenda che sarebbe accaduta (si tratta di una “leggenda”) ai tempi dell’impero persiano. Alla fine dell’esilio babilonese (538 a.C.) – ricordiamo che gli Ebrei vengono liberati con il famoso Editto di Ciro il Grande, condottiero persiano che sconfigge i Babilonesi (lo studieremo meglio prossimamente il testo di questo Editto) – molte famiglie ebraiche decidono di non tornare in patria ma di rimanere nel territorio dove sono state deportate perché ormai lì si sono integrate (questa è una prima affinità tra l’esilio e la diaspora ed è uno dei motivi per cui l’esilio, per gli Ebrei della diaspora, diventa un mito).
Qui, sul territorio dell’impero persiano, sorgono spesso dei contrasti tra gli ex deportati e le popolazioni locali perché gli Ebrei seguono usanze e modi di vivere diversi dagli altri, con uno spirito di chiusura, che crea diffidenza. Spesso queste rivalità sfociano in vere e proprie persecuzioni accompagnate da violente attività di repressione e da scontri armati. Il Libro di Ester greco rievoca uno di questi scontri in cui gli Ebrei ottengono la vittoria.
Ma chi è Ester, il personaggio che dà il nome a due Libri della Letteratura dell’Antico Testamento? Ester è una ragazza ebrea, molto bella e saggia, che diventa la sposa prediletta del re di Persia (il re di Persia ha tante spose) e quindi Ester diventa regina (naturalmente, essendo un personaggio leggendario, negli Annali dei re persiani il nome di Ester non compare). In quel tempo – racconta il Libro di Ester greco – il primo ministro persiano Aman, soprannominato Bugeo che significa il Fanfarone (e che è un personaggio leggendario che nella narrazione rappresenta il cattivo), per rivalità contro un funzionario ebreo di nome Mardocheo, organizza una persecuzione antiebraica. Mardocheo appartiene ad una nobile famiglia di ex deportati ebrei (è il personaggio leggendario che nel racconto rappresenta l’eroe) e in virtù della sua competenza ha fatto carriera nell’amministrazione dell’impero persiano (storicamente non è verosimile che un ebreo abbia svolto le alte funzioni di Mardocheo alla corte persiana, ma il Libro di Ester greco non è un Libro storico, è un racconto allegorico). Mardocheo scopre una congiura contro il re (nel Libro di Ester greco il nome del re persiano è Artaserse il Grande, e dovrebbe corrispondere ad Artaserse I) e viene ricompensato con la conferma nell’alto incarico a corte e con “alcuni doni”. L’incarico di Mardocheo – l’autore del Libro di Ester greco ci tiene a ribadirlo – comprende l’uso della scrittura: Mardocheo è un autorevole “scrivano” che sa utilizzare ad arte il più grande strumento di potere. All’inizio del Libro di Ester greco, a proposito dello sventato attentato al re, possiamo leggere: «Il re fece registrare il fatto nelle cronache ufficiali e anche Mardocheo ne scrisse un resoconto».
Per questi motivi il primo ministro Aman è invidioso di Mardocheo, lo teme e cerca di fargli del male organizzando un complotto per eliminarlo e prepara e fa firmare al re un editto che ordina lo sterminio degli Ebrei che sono rimasti in Persia fissando la data di questo avvenimento tirandola a sorte: la parola “sorte”, in lingua akkadica (la lingua dei Sumèri), si dice “pur” e al plurale “purim”, le “sorti”. Ma Mardocheo vigila e agisce coraggiosamente. Ma è Ester, a cui Mardocheo si rivolge, che riesce a capovolgere la situazione (a rovesciare le “sorti”) e ad ottenere dal re con un nuovo editto che gli Ebrei possano resistere con le armi alla persecuzione (in quanto sconfitti ed ex deportati non potevano armarsi).
Aman, reo di aver voluto comandare più del re, viene condannato a morte e Mardocheo viene onorato. Aman aveva gettato le sorti – i “purim” – per decidere lo sterminio degli Ebrei ma essi possono combattere e conseguono un’importante vittoria sui persecutori.
L’autore del Libro di Ester greco ricostruisce questo racconto leggendario e lo utilizza per introdurre una “conclusione” in cui viene decretata l’istituzione di una festa, chiamata delle “sorti”, dei “purim”, da celebrarsi all’inizio della primavera, per festeggiare il nuovo anno.
Quindi l’intento dell’autore del Libro di Ester greco è quello di trovare una ragione plausibile, una “legittimazione”, radicata nella tradizione dell’esilio – che è un avvenimento considerato importante da tutti gli ebrei della diaspora (“filotraduzionisti” e “controtraduzionisti”) – per istituire una festa universalmente condivisa da tutto il mondo ebraico e contemporanea ai festeggiamenti che, per “capodanno”, si svolgono su tutto il territorio dell’Ellenismo.
Dal punto di vista formale l’autore del Libro di Ester greco sa mantenere lungo tutto il racconto una significativa tensione narrativa senza punti morti e giocando con avvenimenti inattesi e con colpi di scena per attirare l’attenzione delle lettrici e dei lettori. Dal punto di vista formale ci sono quattro elementi significativi che legano le varie parti della narrazione mitica, di cui primi tre sono: gli editti, i banchetti e le preghiere.
Il testo degli “editti” (il primo elemento significativo) – tanto contro, quanto in favore degli Ebrei – è scritto nello stile ufficiale della tradizione persiana (l’autore si dimostra un abile antichista) e tende a dare un’autorevolezza legislativa al contenuto del Libro che può essere considerato, nel suo insieme, come un editto, come un’ordinanza alla quale ubbidire.
La descrizione dei “banchetti” (il secondo elemento significativo) – nel corso dei quali si prendono le decisioni più importanti – appare come una sintesi tra la fastosità dei lussuosi e lussuriosi “festini” babilonesi (che viene rievocata con arte) e la cultura greca del “convivio” (l’autore dimostra di essere ben inserito nella cultura greca) durante il quale si dibatte e si riflette su temi importanti e decisivi.
Le “preghiere” (il terzo elemento significativo) sono due brani scritti in poesia che si distinguono nella Letteratura ellenistico-alessandrina per la loro raffinatezza linguistica. Nel Libro di Ester greco troviamo due preghiere, la preghiera di Mardocheo e la preghiera di Ester, con le quali l’autore vuole esaltare la “perugìa”, la “separatezza” (nonostante debba far ammettere alla regina Ester, nella sua preghiera, che qualche compromesso con il “mondo non ebreo” è stata costretta a farlo). Con questi due brani poetici, con queste due “preghiere”, lo scrittore ebreo alessandrino vuole riassumere tutta la tradizione beritica, tutta la memoria del patto tra Dio e Abramo, di cui l’autore del Libro di Ester greco si sente “erede” e vorrebbe che di questo patto (della berit) si sentissero “eredi” anche tutti i membri della comunità della diaspora: c’è un invito a “fare comunità”, a superare le fratture ideologiche, rivolto specialmente agli intellettuali ebrei di Alessandria.
Leggiamo uno di questi due brani poetici, leggiamo la preghiera di Ester: dovremmo avere ora le “chiavi” per capire il linguaggio e il senso di questo testo che, riferendosi a un mitico passato glorioso (l’esilio babilonese del VI secolo a.C.), allude al presente (siamo ad Alessandria, intorno alla fine del II secolo a.C.), allude allo scontro tra “controtraduzionisti” e “filotraduzionisti”.
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Libro di Ester greco 4C, 12-30 La preghiera di Ester
La regina Ester coinvolta in questa lotta mortale, cercò aiuto presso il Signore. Si tolse i suoi abiti da regina e vestì a lutto. Al posto dei raffinati profumi cosparse sulla testa cenere e polvere. Maltrattò duramente il suo corpo e, invece di farsi bella, lasciò in disordine i suoi capelli. Poi pregò il Signore, Dio d’Israele:
«Mio Signore e nostro re, tu sei il solo Dio. Aiutami perché, da sola, sto mettendo in gioco la mia vita. Non ho altro aiuto all’infuori di te. Fin da bambina, nella casa paterna, sentivo parlare di te. Tu, o Signore, tra tutti i popoli, hai scelto Israele e l’hai fatto per sempre il tuo popolo. Nei tempi antichi hai scelto i nostri padri e hai fatto per loro tutto quello che avevi promesso. Ma noi abbiamo peccato contro di te, e tu ci hai messo nelle mani dei nostri nemici, perché abbiamo onorato i loro idoli. In tutto questo, Signore, sei stato giusto. Ma ora i nostri nemici non si accontentano più di tenerci sotto una dura schiavitù. Hanno fatto un patto con i loro idoli per contrastare la promessa che tu hai pronunziato e per distruggere questo popolo che ti appartiene. Vogliono tappare la bocca a quelli che ti lodano, vogliono eliminare noi, che ti onoriamo nel culto. Vogliono invece che si alzi la voce dei pagani per lodare i loro idoli e per onorare come eterno un re mortale. O Signore, non cedere il tuo potere a idoli che non valgono nulla. I nostri nemici non devono ridere sulla nostra rovina! Piuttosto fa’ cadere su di loro il male che hanno progettato contro di noi, e dà un castigo esemplare a quell’uomo (Aman) che ci vuole male.
Ricordati di noi, Signore, fatti avanti in questo momento di tribolazione.Dammi coraggio, o re degli dèi, tu che sei più forte di tutti i potenti. Mettimi sulle labbra parole persuasive quando sarò di fronte a quel leone (il re persiano).
Toccagli il cuore; spingi il re a reagire duramente contro quell’uomo che ci combatte e mandalo in rovina con tutti i suoi alleati. Strappaci dalla loro mano con la tua potenza. Aiutami, Signore. Sono sola e non ho altro aiuto all’infuori di te. Tu sai tutto: sai che io disprezzo gli onori di quelli che non conoscono la tua legge. Io non approvo il matrimonio con un non ebreo. Tu conosci la contraddizione in cui vivo. Sai che io non posso sopportare la corona che porto sulla testa quando devo apparire in pubblico. Essa è il segno della posizione che occupo, ma io in privato non la porto mai perché la disprezzo come uno straccio sporco. Non ho partecipato ai pranzi di Aman, ho perfino trascurato i banchetti del re e non ho bevuto il vino che egli offre agli dèi. Da quando la mia posizione è cambiata, non ho mai avuto altra gioia che quella di servite te, Signore Dio di Abramo. O Dio, tu che sei più forte di tutti, ascolta il grido dei disperati. Liberaci dalle mani dei nemici e fa’ che io riesca a vincere la mia paura».
Il quarto elemento formale che caratterizza il Libro di Ester greco è rappresentato dalle “lettere”. Le “lettere” – già lo sappiamo – costituiscono il genere letterario più significativo del “ciclo ellenistico-alessandrino del movimento della sapienza poetica beritica” e l’autore di questo Libro costruisce un’opera narrativa proprio come una cornice intorno al testo di alcune “lettere” che contengono il messaggio fondamentale – la chiave d’interpretazione – del Libro stesso.
Adesso si capisce perché – come personaggio da romanzo – una delle caratteristiche della figura di Ester è quella di “far circolare le lettere” e nel romanzo Il mio nome è rosso di Orhan Pamuk (di cui abbiamo letto un frammento) viene rispettata questa tradizione.
L’obiettivo che l’autore del Libro di Ester greco si propone (lo abbiamo già ricordato) è quello legittimare l’istituzione di “una festività” per celebrare il “capodanno” che, all’inizio della primavera, coinvolgeva tutti popoli dell’Ellenismo: ebbene – pensa l’autore del Libro di Ester greco – celebriamo pure il “capodanno” nel periodo in cui lo festeggiano gli altri popoli dell’Ellenismo, ma che sia – dal punto di vista della forma e del contenuto – una “festa ebraica”.
L’autore del Libro di Ester greco compone la sua opera, anche e soprattutto, con l’intento di istituire “una festività” in cui si possano riconoscere tutti gli Ebrei della diaspora (tanto i “controtraduzionisti” quanto i “filotraduzionisti”) e utilizza in modo assai lungimirante il mitico ricordo di una vittoria: la vittoria dei “purim”, narrata in una delle saghe leggendarie più famose del periodo dell’esodo.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Ricordi un episodio della tua vita in cui “hai tirato a sorte” o “sei stata, sei stato sorteggiato”? Scrivi quattro righe in proposito…
La “conclusione” del Libro di Ester greco è formata dai capitoli 9 e 10. Il capitolo 9 contiene il testo della “lettera” che decreta la celebrazione della “festa dei Purim”: questo testo è stato dettato e fatto spedire da Mardocheo a tutti gli Ebrei, vicini e lontani, del regno persiano. In realtà questa “lettera” – con tutta l’autorevolezza che hanno le “lettere”, con la rilevanza che ha, nella Letteratura ellenistico-alessandrina, il “genere letterario dell’epistolario” – è rivolta, in modo particolare, agli Ebrei di Alessandria e va ad arricchire il patrimonio intellettuale prodotto nel corso del veemente dibattito tra la corrente di pensiero “controtraduzionista” e quella “filotraduzionista” ma qui, nella cosiddetta “conclusione” del Libro di Ester greco, possiamo notare che l’autore non interpreta la discussione in corso – che ha come oggetto la polemica sulla traduzione del Pentateuco in greco – come uno “scontro” ma bensì come un “confronto”. In funzione della didattica della lettura e della scrittura non ci resta che leggere questa “lettera” prima di affrontare la faccenda più delicata che – dalle studiose e dagli studiosi – è stata chiamata: la “questione del doppio Libro di Ester”:
LEGERE MULTUM….
Libro di Ester greco 9, 20-31
Mardocheo fece scrivere il resoconto di questi avvenimenti e lo mandò a tutti gli Ebrei del regno di Artaserse, vicini e lontani.
Ordinava di festeggiare sia il quattordici che il quindici del mese di Adar (febbraio-marzo). Quelli, infatti, erano i giorni in cui gli Ebrei avevano stroncato gli attacchi dei loro nemici. In quel mese, il mese di Adar, il loro dolore si era mutato in gioia. E così, quelli che dovevano essere giorni di lutto erano diventati giorni di letizia. Perciò tutto il mese doveva essere festeggiato con allegria come si festeggiano i giorni delle nozze, mandando regali agli amici e ai poveri. Gli Ebrei approvarono queste disposizioni. Mardocheo, infatti, nella sua lettera spiegava quello che era accaduto:
«Aman, figlio di Ammendata il Macedone, aveva combattuto gli Ebrei, aveva fatto un piano e tirato a sorte il giorno dello sterminio. Poi era andato dal re per fare impiccare Mardocheo, ma tutto il male che Aman voleva fare agli Ebrei è ricaduto invece su di lui. Infatti lui e i suoi figli sono finiti sulla forca. Quei giorni sono chiamati Purim (delle sorti), perché pur nella loro lingua (persiana) vuol dire “sorte”. Questa festa fu istituita in ricordo di quello che avevano sofferto gli Ebrei e di quello che era accaduto in seguito, come Mardocheo aveva riassunto nella sua lettera. Gli Ebrei accettarono la proposta di Mardocheo per sé, per i loro discendenti e per chiunque voglia diventare Ebreo. Essi non cambieranno mai questa tradizione: quei giorni sono un ricordo che viene celebrato in ogni generazione, in ogni città, in ogni regione, in ogni famiglia.
I giorni dei Purim si festeggeranno per sempre, il loro ricordo non dovrà mai cessare». Mardocheo e la regina Ester, figlia di Aminadab, scrissero tutto quello che avevano fatto e fissarono le norme che sono contenute nella lettera dei Purim. Mardocheo e la regina Ester presero queste decisioni con piena responsabilità e per il loro bene.
Ester istituì questa festa per sempre e fece scrivere la sua decisione perché fosse sempre ricordata. …
Nel conclusivo capitolo 10 del Libro di Ester greco l’autore esalta ulteriormente la figura di Mardocheo alludendo al personaggio di Giuseppe “il sognatore” – figlio di Giacobbe che, dopo essere stato venduto dai fratelli, diventa vice-faraone d’Egitto – la cui storia (un vero e proprio romanzo di cui parleremo a suo tempo) occupa la seconda parte del Libro della Genesi. Mardocheo viene stimato, amato, onorato come uomo d’unione, il quale, a sua volta, esalta il Dio d’Israele, come punto di riferimento per tutto il popolo.
Il Libro di Ester greco vuole richiamare gli Ebrei della diaspora all’unità, in particolare vuole richiamare gli Ebrei alessandrini delle due correnti di pensiero, “controtraduzionista” e “filotraduzionista”, a moderare lo scontro e a trovare punti di convergenza. Infatti, nella cosiddetta “conclusione”, formata dai capitoli 9 e 10, l’autore del Libro di Ester greco propone alcuni significativi punti di convergenza tra le due correnti contrapposte.
Questi punti di convergenza sono strettamente legati tra loro: cerchiamo quindi di illustrarli – senza enumerali – all’interno di una riflessione unitaria. L’esigenza che l’autore del Libro di Ester greco sente per costruire una convergenza di vedute tra le due correnti contrapposte dell’ebraismo alessandrino si concretizza nel modo in cui viene presentata la “figura di Mardocheo”. Il “personaggio mitico di Mardocheo” (il modo in cui viene descritto) fornisce – attraverso il suo ruolo – un’idea di sintesi su cui riflettere. Mardocheo viene presentato come uno “scrivano”: cioè viene investito del ruolo di cui si sentono investiti tutti gli intellettuali, di entrambi gli schieramenti, che partecipano al dibattito e, di conseguenza, tutti i contendenti si possono riconoscere in questa figura mitica. Lo “scrivano” – nella tradizione ebraica esiste questa coscienza – è colui che ha in mano il potere di scrivere la storia: qualche condottiero, qualche re, il popolo “fa la storia” ma quella storia esisterà nei termini in cui lo “scrivano” la scrive.
Mardocheo (con la supervisione della regina Ester, la quale qualche compromesso con il “mondo non ebreo” lo ha già fatto, e lo dice lei stessa, in poesia, nella “preghiera” che abbiamo letto) per istituire la “festa dei Purim” – che deve diventare lo strumento per affermare l’identità, per assicurare l’unità e per manifestare la “separatezza (la “perugìa”) degli Ebrei della diaspora – non esita ad utilizzare (non indugia a “prendersi la responsabilità” di utilizzare, insieme alla regina Ester) una terminologia, un nome “straniero” (e noi sappiamo quanto contino i “nomi” – le parole sono cose – nella Letteratura dell’Antico Testamento): «Quei giorni – scrive l’autore del Libro di Ester greco – sono chiamati Purim (delle sorti), perché pur nella loro lingua (persiana) vuol dire sorte».
Se si tratta di salvare i valori della cultura ebraica, se si tratta di salvaguardare i dettami della Legge di Mosè qualche compromesso di natura culturale lo si può (lo si deve) anche fare: l’autore del Libro di Ester greco rivela delle caratteristiche da mediatore, non è un “controtraduzionista integralista” ma può essere definito un “controtraduzionista riformista”.
E l’autore del Libro di Ester greco, a questo proposito – nell’intento di creare una mediazione – mette in gioco una parola-chiave molto significativa (che avrà un futuro negli anni e nei secoli a venire e appena la si sente pronunciare si capisce perché).
La “festa dei Purim” – la cui legittimazione è decretata dal testo del Libro di Ester greco (con l’utilizzazione delle figure mitiche di Ester e di Mardocheo) – stabilisce che «il quattordici e il quindici del mese di Adar saranno sempre giorni di assemblea per il popolo d’Israele»: la parola “assemblea” è resa in greco, dall’autore del Libro, con la parola “ekklesìa” (questa parola non lascia indifferenti).
L’autore del Libro di Ester greco, che appartiene certamente alla corrente “controtraduzionista” alessandrina, vuole mediare, vuole cercare punti di convergenza con la corrente “filotraduzionista”. La parola greca “ekklesìa” è stata utilizzata dai “filotraduzionisti” (dai traduttori della Bibbia in greco nella versione dei Settanta) per interpretare la parola ebraica “qahal” che corrisponde all’espressione: “l’assemblea del popolo”. La parola “qahal” la troviamo per la prima volta nel capitolo 19 del Libro dell’Esodo in un momento strategico del racconto quando “Yhwh , Yahvé” – questo è il nome con cui Dio si è presentato a Mosé e che significa “io sono (sarò) colui che (sono) sarò” – ha deciso di rinnovare un patto, un’alleanza con questo popolo che vaga (che è disperso) nel deserto: siamo alle pendici del monte Sinai e ci sarà la proclamazione dei “comandamenti”.
Mosé ordina al popolo di uscire dall’accampamento “riunito in assemblea”, e deve presentarsi davanti a Dio per pregarlo di “fare giustizia”. C’è bisogno di una parola forte per definire il concetto di “assemblea” e gli scrivani del Libro dell’Esodo utilizzano la parola “qahal”, che ha la sua radice nella parola sumera “qihl”: una parola potente che definisce “il popolo riunito in assemblea” nell’Epopea di Gilgamesh (un’opera della Letteratura sumera – di cui parleremo a suo tempo – di grande autorevolezza). Quando, nel III secolo a.C., il testo del Libro dell’Esodo viene tradotto in greco nella versione dei Settanta, il traduttore decide di adoperare la parola “ekklesìa”.
E ora leggiamo, per curiosità, il frammento del Libro dell’Esodo a cui fa riferimento, a cui allude l’autore del Libro di Ester greco: è un modo per creare un ponte tra l’antico spirito della tradizione ebraica e lo spirito nuovo dell’Ellenismo.
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Libro dell’Esodo 19, 14-20
Mosé ridiscese dal monte e ordinò agli Israeliti di purificarsi e di lavare le loro vesti. Poi disse al popolo: “Tenetevi pronti per dopodomani ed evitate i rapporti sessuali”. Ed ecco, al giorno fissato, sul far del mattino, sul monte ci furono tuoni, lampi e una nube fitta. Si udì anche un fortissimo suono di tromba. Nell’accampamento il popolo tremava di paura. Allora Mosé fece uscire il popolo dall’accampamento riunito in assemblea (qahal - ekklesìa) perché si avvicinasse a Dio. Essi si fermarono ai piedi del monte. Il Sinai era tutto fumante, perché su di esso era sceso il Signore come un fuoco. Il fumo saliva come quello di una fornace, e tutto il monte era scosso come da un terremoto. Il suono della tromba divenne sempre più forte. Quando Mosé gli parlava, Dio rispondeva con il tuono. Il Signore scese dunque sulla cima del monte Sinai. Richiamò Mosé sulla vetta, ed egli salì. …
Il traduttore della versione dei Settanta del Libro dell’Esodo avrebbe potuto anche scegliere altre parole più appropriate per tradurre in greco il termine “assemblea” – come, per esempio, la parola “bulèia” (che significa “assemblea” in senso più “istituzionale” rispetto alla parola “ekklesìa” che significa “assemblea” nel senso della “comunità”) – e così avrebbe potuto fare, a maggior ragione, per distinguersi dai “filotraduzionisti”, anche l’autore del Libro di Ester greco, invece c’è, da parte di questo scrittore “controtraduzionista”, un’apertura di credito nei confronti della corrente “filotraduzionista”: vuole gettare un ponte tra la tradizione ebraica e la cultura dell’Ellenismo.
Questa apertura di credito nei confronti della “cultura greca” la si coglie anche nel modo in cui l’autore del Libro di Ester greco utilizza la parola “Dio” e nel modo in cui presenta il concetto di Dio: ma lasciamo in sospeso questo argomento, ne parliamo più avanti…
Questa riflessione – che abbiamo fatto – di carattere filologico è in relazione con la faccenda più delicata (a cui abbiamo già accennato poco fa) che – dalle studiose e dagli studiosi – è stata chiamata: la “questione del duplice Libro di Ester”.
E ora – dopo aver messo in evidenza le “chiavi” – leggiamo, finalmente, il testo del capitolo 10 del Libro di Ester greco dove l’autore getta le basi (con l’utilizzo, in senso ellenistico, della parola “Dio” e della parola “assemblea”) per creare un canale di comunicazione tra la cultura dell’Ebraismo e la cultura dell’Ellenismo.
LEGERE MULTUM….
Libro di Ester greco 10, 3 10F, 1-10
… Mardocheo continuò ad essere un collaboratore del re Artaserse. Venne considerato un grande personaggio nel regno e godette una grande stima presso gli Ebrei. Fu amato da tutti e, con la sua vita, fu di esempio a tutto il suo popolo.
Allora Mardocheo disse: «Tutto questo viene da Dio. Ora mi ricordo del sogno che ho fatto (Il Libro di Ester greco inizia con “il sogno di Mardocheo” e con questo episodio l’autore vuole avvicinare il personaggio di Mardocheo a quello di Giuseppe, il famoso figlio di Giacobbe, protagonista della seconda parte del Libro della Genesi). Si è avverata ogni cosa. Vi era la piccola sorgente che diventò un grande fiume, un’enorme quantità d’acqua, poi la luce e il sole. Il fiume rappresentava Ester, sposata dal re e nominata regina. I due draghi rappresentavano Aman e me. I popoli erano coloro che si erano riuniti per distruggere completamente gli Ebrei. Quelli che gridarono a Dio e furono salvati erano il mio popolo, il popolo d’Israele. Il Signore infatti ha salvato il suo popolo. Il Signore ci ha liberati da tutti quei malvagi. Dio ha compiuto cose grandi e meravigliose che gli altri popoli non avevano mai visto. Egli ha stabilito due sorti diverse: una per il popolo di Dio e una per tutti gli altri popoli. Queste due sorti opposte si sono realizzate nello stesso giorno e nella stessa ora, quando Dio ha giudicato tutti i popoli. Dio si è ricordato del suo popolo e ha fatto giustizia a coloro che gli appartengono. Perciò questi giorni del mese di Adar, il quattordici e il quindici, per il popolo d’Israele saranno sempre giorni di assemblea (ekklesìa), di gioia e di festa, a lode di Dio per tutte le generazioni». …
L’autore del Libro di Ester greco pensa si debba dibattere, anche con veemenza, nelle strutture deputate al confronto, nelle “istituzioni”, ma ritiene indispensabile che si trovi un momento tangibile di unità da celebrarsi “in assemblea, in “ekklesìa” con gioia e spirito di festa. L’autore del Libro di Ester greco – eccellente mediatore –, dopo aver fatto riferimento alla tradizione del Libro dell’Esodo, evoca la traduzione della Bibbia in greco nella versione dei Settanta utilizzando la parola “ekklesìa” (la quale rimanda al concetto di “comunità” più che di “istituzione”) costruendo un canale per poter aprire il dialogo con i “filotraduzionisti” meno intransigenti.
L’autore del Libro di Ester greco auspica che nelle sinagoghe, nelle biblioteche, nelle associazioni (nella “bulèia”: questo termine definisce anche le “istituzioni culturali”) continui a svilupparsi una discussione (animata) sul tema del rapporto tra “l’integrazione” e la “separatezza” dove si manifesti con fervore la pluralità di pensiero ma è convinto altresì della necessità che tutta la comunità si ritrovi unita nei suoi valori comuni dettati dalla Legge di Mosé: riunita “in assemblea”, in ekklesìa.
Ma l’autore del Libro di Ester greco, a questo proposito, – c’informano le studiose e gli studiosi di filologia – per dare maggior forza alla sua idea (avendo la possibilità di agire: è certamente uno scrivano autorevole che ha accesso ai codici) è fortemente sospettato di aver modificato il finale del Secondo Libro dei Maccabei che è l’opera “controtraduzionista” per eccellenza e che è stata scritta più di un decennio prima. Il Secondo Libro dei Maccabei termina con la vittoria di Giuda Maccabeo su Nicànore – governatore della Giudea e comandante delle truppe (“con elefanti” dice il testo) del re Demetrio (è una storia romanzesca che la Scuola consiglia di leggere) – il quale Nicànore vuole commettere l’azione empia di attaccare il Tempio. Giuda Maccabeo con il suo esercito sconfigge Nicànore che muore in combattimento e gli fa tagliare la testa e un braccio: il braccio lo fa appendere davanti al Tempio e la testa in cima alla fortezza di Acra. Il Secondo Libro dei Maccabei termina con le parole dei versetti 35 e 37 del capitolo 15:
LEGERE MULTUM….
Secondo Libro dei Maccabei 15, 35 37
35 Poi Giuda fece appendere la testa di Nicànore in cima alla fortezza di Acra. Voleva farla vedere a tutti, come segno chiaro ed eloquente che Dio li aveva aiutati”.
37 Così dunque andarono i fatti riguardo a Nicànore. E siccome da allora gli Ebrei rimasero padroni della città, ho deciso di concludere a questo punto il mio lavoro. …
Qualcuno però – e si vede chiaramente l’interpolazione – ha scompaginato il finale, facendo un’aggiunta nel quindicesimo e ultimo capitolo del Secondo Libro dei Maccabei: con i versetti 36, 38 e 39. Ora leggiamo il versetto 36 che è quello che c’interessa di più:
LEGERE MULTUM….
Secondo Libro dei Maccabei 15, 36
36 E infine riuniti in assemblea (ekklesìa), decisero con voto unanime, di non dimenticare quella data, ma di celebrarla in futuro come giorno di festa. Era il 13 del dodicesimo mese che è detto in lingua siriaca mese di Adar, la vigilia cioè della festa di Mardocheo (dei Purim).
Tutte le studiose e gli studiosi di filologia sono convinti che questa interpolazione sia opera dell’autore del Libro di Ester greco che vuole potenziare la sua iniziativa per poter aprire il dialogo con i “filotraduzionisti” e nel versetto 36 ci ha lasciato la firma con la parola “ekklesìa” e con l’espressione “festa di Mardocheo (dei Purim)”, tanto da meritarsi, nell’ambiente delle specialiste e degli specialisti di studi biblici, il nome di “falsificatore alessandrino”. Nei versetti 38 e 39, con uno stile che non è quello dello scrittore del Secondo Libro dei Maccabei, l’interpolatore scrive – a nome dell’autore – che quest’opera è “rimasta imperfetta e soltanto mediocre” come se volesse attenuarne l’impatto ideologico, addolcirne lo spirito intransigente “controtraduzionista” per ridurre le ragioni dello scontro e poi aggiunge (come vogliamo chiamarla?) un similitudine in cui afferma che è un bene avere in tavola tanto l’acqua quanto il vino e quindi poter bere l’una e l’altro e con questo allude al fatto che è un bene poter mescolare le culture.
Intanto bisogna dire che non è affatto vero che, dal punto di vista letterario, il Secondo Libro dei Maccabei sia un’opera “rimasta imperfetta e soltanto mediocre” e poi c’è da pensare che l’autore del Libro andasse orgoglioso dello stile epico della sua opera “controtraduzionista” e non avrebbe mai fatto affermazioni e allusioni di questo genere.
E allora leggiamo i versetti 38 e 39:
LEGERE MULTUM….
Secondo Libro dei Maccabei 15, 38 39
38 Era mia intenzione fornire un’esposizione ordinata e ben fatta degli avvenimenti. Se è rimasta imperfetta e soltanto mediocre, vuol dire che non ero in grado di fare meglio.
39 Infatti, come non è gradevole bere o solo vino o solo acqua, e invece piace mescolare vino e acqua, così è solo l’arte che permette di scrivere un racconto che, per la sua varietà, possa piacere ai lettori. Qui finisce la mia opera.
E ora – a proposito del “falsificatore alessandrino” – veniamo al dunque: che cos’è questa faccenda che, dalle studiose e dagli studiosi, è stata chiamata: la “questione del duplice Libro di Ester”? Sappiamo già che, se sfogliamo l’indice della Bibbia, troviamo un secondo Libro che porta il nome di Ester: è il Libro di Ester ebraico ed è collocato nella sezione dei “ketubim”, degli Scritti sapienziali e poetici. A questo punto potete individuare i due Libri (se avete una Bibbia aggiornata, in lingua corrente) e potete confrontare i testi dei due Libri di Ester. Lì per lì, senza studiare la situazione – senza riflettere in funzione della didattica della lettura e della scrittura – si può pensare che il testo del Libro di Ester ebraico sia più antico, sia precedente al testo del Libro di Ester greco. Ma le esperte e gli esperti di filologia, dopo aver condotto la loro analisi (per giunta non molto difficile da fare), c’informano che il testo del Libro di Ester ebraico è stato scritto traducendo il testo del Libro di Ester greco in ebraico: contrariamente a quello che si può pensare visto che il fenomeno traduzionista segue, di solito, la direzione che va dall’antico ebraico verso il greco della koiné. Questo significa che, molto probabilmente, l’autore del Libro di Ester greco (ci sono buoni motivi per ritenere che sia lo stesso autore) ha tradotto in ebraico il Libro che aveva precedentemente composto in lingua greca, naturalmente apportando delle modifiche per dare l’impressione di aver tradotto in greco un autorevole testo ebraico più antico: l’autore, infatti, opera (con grande perizia contenutistica e formale) in modo che sembri modificato il testo greco, come se fosse stato tradotto dall’ebraico proprio il testo greco.
E allora: dobbiamo pensare che questo autore – che si dimostra un abile scrittore e un valido studioso – sia un impostore? Più che un impostore, è (come abbiamo già capito) un intellettuale preoccupato di dover dare vitalità – di iniettare l’energia della tradizione – ad un significativo progetto culturale in atto. Non può essere considerato un impostore (anche se è un abile falsificatore) perché vuole rendere “manifesto” quello che sta facendo. La “questione del duplice Libro di Ester” è, prima di tutto, il manifesto di una significativa iniziativa intellettuale che si svolge nell’ambito del “ciclo ellenistico-alessandrino del movimento della sapienza poetica beritica”. La “questione del duplice Libro di Ester” ci mette di fronte all’evoluzione (dal II secolo a.C.) del percorso culturale, del tragitto intellettuale, che compiono gli studiosi delle due correnti, “controtraduzionista” e “filotraduzionista” del “ciclo ellenistico-alessandrino del movimento della sapienza poetica beritica”.
L’autore dei Libri di Ester – della versione greca ed ebraica – è (come abbiamo già capito) uno studioso “controtraduzionista” che si batte per conservare, secondo la tradizione, i valori specifici della Legge di Mosè scritta in ebraico, ma che tuttavia ha compreso perfettamente che ormai il mondo intellettuale dell’ebraismo, nel suo insieme, non può fare a meno della “cultura” e della “lingua” greca, come gli Ebrei in esilio a Babilonia non hanno potuto fare a meno della “cultura sumèra” e della “lingua akkadica” per scrivere i codici del Pentateuco.
Questo modo di pensare crea delle aperture nelle due correnti antagoniste e questi varchi portano a smussare le contrapposizioni. Nasce così – dall’incontro di studiosi che possiamo chiamare “filotraduzionisti moderati” (attenti alla “cultura” e alla “lingua” greca ma impegnati a non disperdere il patrimonio della tradizione ebraica) e di studiosi che possiamo chiamare “controtraduzionisti riformatori” (attenti a non perdere il patrimonio della tradizione ebraica ma anche interessati alla “cultura” e alla “lingua” greca) – una corrente di mediazione che è stata chiamata: la “tendenza mardocheista” del ciclo ellenistico-alessandrino del movimento della sapienza poetica beritica.
Avendo conosciuto nell’itinerario di questa sera – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – il personaggio di Mardocheo (nel contesto dei Libri di Ester) – una figura mitica, simbolo di unione – non abbiamo difficoltà a capire l’espressione: “tendenza mardocheista”. La “tendenza mardocheista”, che si sviluppa ad Alessandria nel mondo intellettuale della diaspora ebraica (dalla fine del II secolo a.C.), vuole attenuare e rendere produttivo lo scontro in atto tra le correnti contrapposte del mondo culturale ebraico alessandrino e vuole formulare un concetto guida che si dimostrerà utile per lo studio e per la comprensione, nel suo insieme, del “movimento della sapienza poetica beritica” e, quindi, utile anche per il Percorso che dobbiamo affrontare noi.
Il concetto guida, espresso dagli studiosi ebrei che si riconoscono nella “tendenza mardocheista ellenistico-alessandrina”, è che la Letteratura dell’Antico Testamento non ha narrato e non narra la “storia” ma riflette e utilizza la “storia” per costruire un grande “racconto allegorico” (che non è mai stato ma sarà sempre). La “questione del duplice Libro di Ester” è l’esempio emblematico di questa straordinaria impresa culturale. L’invito è ancora una volta (se avete una Bibbia aggiornata, in lingua corrente) a confrontare i testi dei due Libri di Ester.
Tre elementi sono importanti e si possono facilmente individuare nel fare il confronto tra questi due testi.
Il primo elemento ci fa capire che l’autore dei Libri di Ester non vuole (e non può) scrivere la “storia” ma intende comporre un “racconto allegorico” (applica il concetto guida della “tendenza mardocheista”) perché duri in eterno. Nelle due versioni dei Libri di Ester, infatti, mentre i nomi dei tre personaggi mitici (che sono importanti per sostenere la narrazione allegorica) – Ester (la prima donna), Aman (il cattivo) e Mardocheo (l’eroe buono) – non variano, i nomi dei personaggi storici, invece, – i nomi dei re persiani – cambiano da un testo all’altro: nel testo ebraico di Ester la storia avviene sotto il regno di Assuero (che corrisponde a Serse I) e nel testo greco di Ester la storia avviene sotto il regno di Artaserse il Grande (questi personaggi hanno effettivamente regnato uno dopo l’altro) e la variazione (la sovrapposizione dei nomi: se non era al tempo di un re era al tempo di un altro) ha tutto il carattere di un depistaggio per evitare sgradevoli riscontri storici che possono nuocere alla credibilità del “racconto allegorico” che si vuole narrare.
Il secondo elemento riguarda il concetto di Dio (completiamo il ragionamento che abbiamo lasciato prima in sospeso) ed è legato al fatto che nel “testo ebraico di Ester” non si parla di Dio (un Libro della Bibbia dove non viene mai citato il nome di Dio si presenta come un caso assai curioso!): l’autore del Libro di Ester greco, che traduce il testo della sua opera in ebraico (la lingua in cui ha parlato il Dio del Pentateuco) con l’intento di compiere una “falsificazione” non se la sente (sebbene abbia una motivazione, una giustificazione culturale valida), da buon ebreo, di coinvolgere “il nome di Dio” in questa operazione ambigua. E poi – c’informano le studiose e gli studiosi di filologia – nel “testo greco di Ester” (nel testo originale) il nome di Dio viene proprio usato “alla greca” (è un Dio che assomiglia più al “Logos” del pensiero greco che a “l’Onnipotente Altissimo” della tradizione dell’Antico Testamento), quindi di difficile traduzione in lingua ebraica.
Il terzo elemento interessante da prendere in considerazione è la “nota finale” con cui termina il Libro di Ester greco. Questa “nota finale” è stata aggiunta dall’autore quando, molto probabilmente, ha pensato che qualcuno gli avrebbe domandato: «Ma tu come hai fatto a conoscere la “lettera” di Mardocheo che istituisce la “festa dei Purim” se Mardocheo l’ha scritta al tempo di Artaserse I, tra il 464 e il 424 a.C., e l’ha spedita a tutti gli Ebrei, vicini e lontani, dell’impero persiano? Come e quando c’è arrivata questa lettera in Egitto? Chi ce l’ha portata? Te la sei forse inventata tu, questa lettera?». In ragione di queste domande provocatorie – che presume gli vengano fatte – nella mente del nostro autore deve essere nata l’idea di comporre il Libro di Ester ebraico. Deve essere nata nella sua mente l’idea di costruire il presunto “Libro originale”, la cui esistenza avrebbe tacitato tutti, e deve avere trovato il modo di far comparire questo falso Libro nella Biblioteca di Alessandria per cui ha potuto affermare di averlo rinvenuto durante le sue ricerche, di averne valutato l’importanza (come decreto, come ordinanza da rispettare da parte di tutti gli Ebrei) e, quindi, di essersi sentito in dovere di tradurlo in greco – con delle necessarie modifiche – per metterlo a disposizione della comunità ebraica della diaspora.
A questo punto voi capite che la “questione del duplice Libro di Ester” diventa un giallo: si potrebbe scrivere un romanzo (di quelli che vanno per la maggiore…) o una sceneggiatura per girare un film o per allestire una rappresentazione teatrale! Vorrei preannunciare che, prossimamente, sul nostro Percorso, incontreremo un romanzo che narra di “un’impostura” di questo tipo, ma ora non c’è tempo per dire altro a questo proposito…
Il nostro autore dei Libri di Ester dice di aver trovato anche una “nota introduttiva” che spiega come è arrivato in Egitto il Libro di Ester ebraico che contiene la “lettera istitutiva” di Mardocheo. Questa presunta “nota introduttiva” compare come “nota finale” con cui termina il Libro di Ester greco.
In conclusione non ci resta che leggere questa “nota finale” per constatare che l’intento dell’autore non è quello di fare chiarezza dal punto di vista“storico” ma è quello di confondere le acque per imporre un “racconto allegorico” che possa tenere unita (nell’ekklesìa) la cultura dell’ebraismo ad Alessandria e nel grande territorio dell’Ellenismo, e questo è l’obiettivo della cosiddetta “tendenza mardocheista ellenistico alessandrina” che, questa sera, abbiamo scoperto sul nostro Percorso, sulla scia del “movimento della sapienza poetica beritica”.
LEGERE MULTUM….
Libro di Ester greco 10F, 11 Nota finale
Nel quarto anno del regno di Tolomeo e Cleopatra (Sono due i Tolomei che hanno una moglie che si chiama Cleopatra: Tolomeo VII che ha cominciato a regnare nel 114-113 a.C. e Tolomeo XII che ha cominciato a regnare dal 48-47 a.C., quindi è possibile ci si riferisca al primo e questo indizio serve anche per datare il Libro dei Ester greco), Dositeo, che si è presentato come sacerdote e levita, e suo figlio Tolomeo, portarono in Egitto la lettera riportata più sopra riguardante i Purim. Essi dichiararono che la lettera corrispondeva all’originale (persiano?) ed era stata tradotta (in ebraico?) da Lisimaco, figlio di Tolomeo, abitante a Gerusalemme.
L’autore del Libro di Ester greco è molto abile a dire le cose lasciandole in sospeso. Il tema del “tradurre” è molto legato – nella storia della cultura – al tema del “falsificare” e, a questo proposito, la prossima settimana – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – da Alessandria faremo un’incursione a Palermo: dobbiamo incontrare un fra cappellano che aspira a diventare abate.
Poi (come abbiamo già anticipato prima della pausa di riflessione dei Santi e dei Morti) – sulla scia del processo intellettuale che porta allo sviluppo della “tendenza mardocheista ellenistico alessandrina” – dobbiamo anche occuparci del Libro (delle “quattro versioni”) della Saggezza di Salomone. Di che cosa tratta (che cos’è) il Libro della Saggezza di Salomone? È ancora un’opera di letteratura epistolare? Forse, ma bisogna indagare in funzione della didattica della lettura e della scrittura.
Nel frattempo non lasciamo che siano solo Ester, Mardocheo e Salomone a fare uso della saggezza: usiamone un po’ anche noi. Una scelta saggia è anche quella di correre a Scuola a fare degli “assaggi” (come dice il signor Montaigne) sui sentieri della Storia del Pensiero Umano.
Siate sagge e siate saggi, correte a Scuola: la Scuola è qui …