Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza poetica beritica 2007 14-15-16 novembre 2007
UNO SGUARDO SU L’INVETTIVA, LA PARAFRASI, LA GNOSI E LA SOPHIA ...
Da cinque settimane siamo ad Alessandria nel corso del II secolo a.C. Perché siamo ospiti di questa affascinante città? Siamo ospiti in questa affascinante città della parte occidentale del delta del Nilo perché qui – lo abbiamo studiato –, dal III secolo a.C. al I secolo d.C., si è sviluppato il cosiddetto “ciclo ellenistico-alessandrino” del movimento della “sapienza poetica beritica”. Il “ciclo ellenistico-alessandrino” è l’ultima significativa fase del movimento della “sapienza poetica beritica” e (sappiamo che), a questa fase, la Storia del Pensiero Umano deve una formidabile impresa culturale, una straordinaria azione intellettuale: la traduzione in greco dei Libri della Bibbia.
Sappiamo che la traduzione in greco dei Libri della Bibbia non è stata (e dobbiamo dire per fortuna) un’iniziativa che è filata liscia senza imprevisti, infatti, nel corso del “ciclo ellenistico-alessandrino” del movimento della “sapienza poetica beritica” si sono formate e si sono fronteggiate (soprattutto durante il II secolo a.C.) due correnti di pensiero: una “filotraduzionista” e una “controtraduzionista”. Sappiamo che queste due correnti contrapposte hanno creato un clima di competizione che ha favorito la produzione di molte opere significative, alcune delle quali sono veramente considerate di grande importanza in funzione della didattica della lettura e della scrittura.
Poi noi sappiamo (perché lo abbiamo studiato la scorsa settimana) che l’apertura di credito nei confronti della “lingua” e della “cultura” greca da parte degli intellettuali “controtraduzionisti” trova – durante la fase ellenistico-alessandrina del movimento della “sapienza poetica beritica” – un suo sviluppo esplicito con i Libri di Ester (114-113 circa a.C.) nei quali emerge (oltre al personaggio leggendario di Ester) la figura mitica di Mardocheo, uno “scrivano” ebreo presso la corte persiana.
Sappiamo che gli studi filologici sui Libri di Ester hanno aperto la cosiddetta “questione del duplice Libro di Ester” che svela una straordinaria impresa culturale messa in atto dall’autore del Libro di Ester greco per creare dei canali attraverso i quali si possa sviluppare un dialogo tra le due correnti antagoniste in modo da poter garantire – pur nella pluralità delle idee – l’unità della comunità ebraica alessandrina condividendo dei valori tradizionali riconosciuti da tutti i membri. Dallo studio del testo del Libro di Ester greco abbiamo capito che ad Alessandria (verso la fine del II secolo a.C.) si sviluppa – dall’incontro di studiosi che possiamo chiamare “filotraduzionisti moderati” (attenti alla “cultura” e alla “lingua” greca ma impegnati a non disperdere il patrimonio della tradizione ebraica) e di studiosi che possiamo chiamare “controtraduzionisti riformatori” (attenti a non perdere il patrimonio della tradizione ebraica ma anche interessati alla “cultura” e alla “lingua” greca) – una corrente di mediazione che è stata chiamata: la “tendenza mardocheista” del “ciclo ellenistico-alessandrino del movimento della sapienza poetica beritica”. Percorrendo l’itinerario della scorsa settimana, moi abbiamo conosciuto (nel contesto dei Libri di Ester) la mitica figura di Mardocheo – simbolo di unione – e quindi non abbiamo difficoltà a richiamare alla memoria l’espressione: “tendenza mardocheista”.
La “tendenza mardocheista”, che si sviluppa ad Alessandria nel mondo intellettuale della diaspora ebraica (dalla fine del II secolo a.C.), vuole attenuare e rendere produttivo lo scontro in atto tra le correnti contrapposte del mondo culturale ebraico alessandrino e vuole formulare un concetto guida che si dimostrerà utile per lo studio e per la comprensione, nel suo insieme, del “movimento della sapienza poetica beritica” e, quindi, utile anche per il Percorso che dobbiamo affrontare noi (per questo motivo, lo abbiamo già detto, abbiamo cominciato dalla fine). Il concetto guida, espresso dagli studiosi ebrei che si riconoscono nella “tendenza mardocheista ellenistico-alessandrina”, è che la Letteratura dell’Antico Testamento non ha narrato e non narra la “storia” ma riflette e utilizza la “storia” per costruire un grande “racconto allegorico” che (in quanto avvenimento materiale) non è mai stato ma (come metafora spirituale) sarà sempre.
La scorsa settimana abbiamo appreso che l’autore del Libro di Ester greco ha costruito ad arte il testo del Libro di Ester ebraico come se fosse un antico documento su cui fondare le sue affermazioni, su cui avvalorare il testo della “lettera” (da lui composta) che istituisce la festa unitaria dei Purim: l’avvincente racconto mitico di impronta persiana serve da cornice per dare autorità alla “lettera”, per legittimare il testo dell’ordinanza (composto dall’autore) che deve favorire l’unione della comunità (della ekklesìa).
Abbiamo capito, poi, che l’autore del Libro di Ester greco è molto abile a dire le cose lasciandole in sospeso.
Nella storia della cultura il tema del “tradurre” è molto legato al tema del “falsificare” – molti testi della Letteratura alessandrina, soprattutto appartenenti al genere letterario delle “lettere”, sono oggetto di “falsificazione” –: a questo proposito adesso (lo abbiamo annunciato la scorsa settimana) – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – lasciamo (per poco tempo) Alessandria e facciamo un’incursione a Palermo: dobbiamo incontrare un abate (il quale ricorda l’autore del Libro di Ester greco e del Libro di Ester ebraico) protagonista di una singolare “impostura”. Naturalmente la nostra incursione palermitana è un pretesto – un pretesto mirato perché ci sono delle affinità di Percorso – per presentare un libro di cui si consiglia la lettura o la rilettura (non è escluso che qualcuna o qualcuno di voi lo abbia già letto); questo libro s’intitola Il Consiglio d’Egitto (le affinità di Percorso – visto che veniamo e torneremo subito ad Alessandria – non mancano) ed è stato scritto da un autore che non ha bisogno di presentazioni: Leonardo Sciascia.
Che cosa racconta questo libro molto interessante che trovate facilmente in biblioteca? Siamo nel dicembre del 1782 e l’ambasciatore del Marocco Abdallah Mohamed ben Olman si trova a Palermo perché una tempesta ha fatto naufragare la sua nave sulle coste siciliane. Viene incaricato di fargli da guida, per mostrare le bellezze di Palermo, soprattutto quelle lasciate dagli Arabi (che hanno governato la Sicilia nel IX secolo) il fracappellano Giuseppe Vella, un maltese che conosce un po’ la lingua araba. Questa circostanza fa nascere nella mente dell’abate un progetto molto audace: quello di far passare un manoscritto arabo – uno dei tanti manoscritti che raccontano la vita del Profeta Maometto conservati nelle biblioteche dell’isola – per un testo politico sconvolgente, Il Consiglio d’Egitto, che permetterebbe l’abolizione di tutti i privilegi feudali e potrebbe anche valere da scintilla per scatenare un complotto rivoluzionario. Così, con questo giuoco d’azzardo, Giuseppe Vella diventa il protagonista di quella che verrà chiamata “la grande impostura”.
Leonardo Sciascia (1921-1989) scrive questo apologo nel 1963 e Il Consiglio d’Egitto è il primo dei suoi romanzi metaforici in cui usa uno sfondo storico per parlare della Sicilia di sempre: questo romanzo è ancora di grande attualità e si pone sulla scia de I Viceré (1894) di Federico De Roberto, de I vecchi e i giovani (1913) di Luigi Pirandello e de Il Gattopardo (1958) di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, opere – incontrate sui sentieri orfici del Percorso dello scorso anno scolastico – che sono il prodotto di una delusione, di una disperazione storica per la caduta degli ideali che hanno animato il Risorgimento e il percorso di unificazione della nazione.
Leggiamo l’incipit de Il Consiglio d’Egitto:
LEGERE MULTUM….
Leonardo Sciascia, Il Consiglio d’Egitto (1963)
Il benedettino passò un mazzetto di penne variopinte sul taglio del libro, dal faccione tondo soffiò come il dio dei venti delle carte nautiche a disperdere la nera polvere, lo aprì con un ribrezzo che nella circostanza apparve delicatezza, trepidazione. Per la luce che cadeva obliqua dall’alta finestra, sul foglio color sabbia i caratteri presero rilievo: un grottesco drappello di formiche nere spiaccicato, secco. Sua eccellenza Abdallah Mohamed ben Olman si chinò su quei segni, il suo occhio abitualmente languido, stracco, annoiato era diventato vivo ed acuto. Si rialzò un momento dopo, a frugarsi con la destra sotto la giamberga: tirò fuori una lente montata, oro e pietre verdi, a fingerla fiore o frutto su esile tralcio.
... continua la lettura ...
Naturalmente “la grande impostura” riguarda la “traduzione” o, per meglio dire, la “falsificazione” del documento che contiene il testo arabo di una della tante vite del Profeta Maometto: il fracappellano (non è ancora diventato abate) Giuseppe Vella trasforma il testo di questo racconto edificante nel testo di un editto che demolisce il potere feudale e le conseguenze che questa “operazione culturale (possiamo dire) di stampo alessandrino” crea a Palermo e nel Regno di Napoli sono inaspettate. Come si sviluppa e come va a finire questa storia? Seguite il consiglio della Scuola e leggete Il consiglio d’Egitto! Potete anche dire: «Ma che consiglio della Scuola d’Egitto dobbiamo seguire!» e così capite da dove deriva questo modo di dire con cui si vuole rifiutare qualcosa che si pensa non esista, che sia stato inventato. Ma questo romanzo esiste davvero e voi seguite il consiglio della Scuola e leggetene quattro pagine al giorno: è il ritmo che tiene il fracappellano Giuseppe Vella per “tradurre”, per “falsificare”, per “costruire” Il consiglio d’Egitto…
E ora torniamo in Egitto, torniamo ad Alessandria. Infatti, come abbiamo già anticipato la scorsa settimana, ad Alessandria dobbiamo occuparci di un’opera che s’intitola Saggezza di Salomone: che cos’è e di che cosa tratta quest’opera che porta il titolo: Saggezza di Salomone? Noi ci siamo chiesti: questo oggetto culturale intitolato Saggezza di Salomone appartiene ancora al genere della “letteratura epistolare”? Abbiamo formulato e formuliamo questa domanda consapevoli del fatto che il genere letterario delle “lettere” dà molti frutti nel periodo ellenistico-alessandrino.
Ma l’opera intitolata Saggezza di Salomone ci pone di fronte ad uno degli argomenti più interessanti (e più complessi) che caratterizzano il “ciclo ellenistico-alessandrino del movimento della sapienza poetica beritica”.
Per affrontare il tema che riguarda l’evoluzione del testo dell’opera intitolata Saggezza di Salomone bisogna indagare (e, a questo proposito, noi abbiamo già fatto esperienza indagando sulla “questione del doppio Libro di Ester”) in funzione della didattica della lettura e della scrittura. Diciamo subito che dell’opera intitolata Saggezza di Salomone ci sono diverse versioni perché quest’opera, nel corso del tempo, è stata riscritta più volte da autori diversi: ecco perché parliamo di libri, al plurale, quando parliamo della Saggezza di Salomone.
Esiste, quindi, – oltre alla “questione del doppio Libro di Ester” – anche la “questione delle quattro versioni del Libro della Saggezza di Salomone”. A questo punto del nostro viaggio di studio il pensiero della problematica da affrontare riguardante il tema della “questione delle quattro versioni del Libro della Saggezza di Salomone” potrebbe causare in noi anche uno stato di ansia ma l’argomento che dobbiamo esaminare risulta (o dovrebbe risultare) per noi di facile comprensione.
L’opera intitolata Saggezza di Salomone (prodotta successivamente in più versioni: le studiose e gli studiosi individuano “quattro versioni” principali) è molto significativa perché scandisce le varie fasi del pensiero che si sviluppa all’interno della corrente “controtraduzionista” del ciclo ellenistico-alessandrino del movimento della “sapienza poetica beritica”.
Sappiamo che (a cominciare dal II secolo a.C.) all’interno della corrente “controtraduzionista” si sviluppa, da prima, una fase integralista, di intransigente chiusura verso i “filotraduzionisti” e di conseguenza verso la lingua e la cultura greca, poi (nella seconda metà del II secolo a.C.) nelle opere di scuola “controtraduzionista” cominciamo a trovare – per esempio nel Secondo Libro dei Maccabei – degli accenni che determinano l’inizio di una fase di apertura verso i “filotraduzionisti” e verso la lingua e la cultura greca. In seguito (verso la fine del II secolo a.C.) con la nascita della cosiddetta “tendenza mardocheista ellenistico alessandrina” assistiamo a una fase in cui si sviluppano esperienze di collaborazione culturale, di cooperazione intellettuale (per esempio abbiamo affrontato l’argomento che riguarda la “questione del doppio Libro di Ester”).
Ebbene, il testo dell’opera intitolata Saggezza di Salomone si evolve contemporaneamente allo sviluppo di queste fasi: è un oggetto culturale che ci permette di conoscere e di capire meglio l’itinerario che viene percorso (da una situazione di intransigente chiusura fino ad esperienze di collaborazione) dagli intellettuali che animano con le loro ricerche, i loro studi, le loro traduzioni, le loro “falsificazioni”, le loro composizioni poetiche, la loro produzione letteraria, il “ciclo ellenistico-alessandrino del movimento della sapienza poetica beritica”.
Abbiamo capito che gli intellettuali della corrente “controtraduzionista” cominciano a scrivere le loro opere (nel II secolo a.C.) coltivando un pensiero integralista per contrastare, per combattere decisamente, l’operato della corrente “filotraduzionista” che si apre alla lingua e alla cultura greca favorendo l’integrazione tra i valori dell’Ebraismo (della Legge di Mosé) e quelli dell’Ellenismo (del pensiero orfico). Gli intellettuali della corrente “controtraduzionista” temono, in un primo momento, che questa contaminazione con la cultura alessandrina possa nuocere all’Ebraismo e possa allontanarlo, in modo irreversibile, dalla sua antica tradizione, dalle sue radici.
L’autore della prima versione dell’opera intitolata Saggezza di Salomone (pubblicata intorno al 140 a.C.) vuole contrastare le idee di apertura dei “filotraduzionisti” verso la cultura dell’Ellenismo propagandate dalla Lettera di Aristea che, come possiamo constatare dalla data di pubblicazione, è contemporanea a questo testo.
Questo primo testo della Saggezza di Salomone viene denominato la “versione dell’invettiva” e contiene un attacco durissimo contro le idee propagandate dall’autore della Lettera di Aristea e quindi contro tutti quegl’intellettuali ebrei “filotraduzionisti” che – come scrive, in modo sprezzante, l’autore della prima versione della Saggezza di Salomone – si considerano “liberi pensatori (filosofi greci)” e quindi “vivono una doppia vita” (violano il patto, la berit, con il Dio geloso del Pentateuco) e, rinnegando una tradizione millenaria, operano intellettualmente “dando più importanza alla lingua e alla cultura greca e dimenticando i valori dell’ebraismo”. Questi ebrei “liberi pensatori (che si atteggiano a fare i filosofi greci)” vengono etichettati – e si capisce perché questa versione sia chiamata “dell’invettiva” – come: “Figli di Caino che vogliono staccarsi dalla comunità per fornicare con i pagani”.
Ad Alessandria, durante l’Ellenismo, nella comunità ebraica, lo scontro è durissimo ma è molto proficuo dal punto di vista letterario, e lo sappiamo già, lo abbiamo già constatato (con la Lettera di Aristea, con i Libri dei Maccabei, con i Libri di Ester). Ci siamo anche già chiesti qualche settimana fa: chi vince in questo scontro culturale tra una corrente che si considera ortodossa (quella dei “controtraduzionisti”) i cui aderenti si riconoscono nel testo, nella prima versione (nell’invettiva), della Saggezza di Salomone e una corrente che appare come eterodossa (quella dei “filotraduzionisti”) i cui aderenti fanno riferimento a quel “manifesto” intitolato Lettera di Aristea che giustifica l’integrazione della tradizione ebraica con la cultura dell’Ellenismo? Ormai questa domanda non ce la facciamo più perché sappiamo già che l’integrazione culturale e intellettuale con il mondo greco, per merito della corrente filotraduzionista, sarà inarrestabile, e sappiamo anche che la conservazione integrale della biblioteca dell’Antico Testamento, per merito dei controtraduzionisti, avrà successo. E allora non è necessario chiedersi chi vince proprio perché entrambe le correnti contribuiscono a far sì che si affermi il “movimento della sapienza poetica beritica” nel suo insieme.
L’autore della Saggezza di Salomone nella prima versione, cosiddetta “dell’invettiva”, – per dare forza all’idea che vuole promuovere – pone al centro dell’attenzione delle lettrici e dei lettori (come ci dice il titolo) il personaggio di Salomone che, per tradizione, è in possesso, è depositario, della “saggezza”. Il personaggio storico del re Salomone (tutti lo abbiamo sentito nominare) appare – ai membri delle comunità della diaspora dell’Ellenismo – come una figura mitica avvolta nell’alone della leggenda. Diciamo subito che questo personaggio è quello che (se così si può dire) viene maggiormente “tirato per la giacchetta” – nel suo caso “tirato per il manto regale” – da tutti gli intellettuali ebrei di entrambe le correnti antagoniste con le dovute differenze: i “controtraduzionisti” si riferiscono a lui come il depositario della “saggezza” di Israele e i “filotraduzionisti” gli attribuiscono la “sapienza” come qualità universale. Teniamo a mente queste due parole, “saggezza” e “sapienza”, che tendono ad omologarsi tra loro, perché nell’itinerario di questa sera hanno la loro importanza in funzione della didattica della lettura e della scrittura.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Tu sai che il personaggio di Salomone ha un posto rilevante nella Letteratura dell’Antico Testamento e, per conoscerlo meglio, puoi leggere i primi 11 capitoli (sono 22 capitoli in tutto) del Primo Libro dei Re , in particolare è interessante leggere il capitolo terzo e il capitolo decimo di questo Libro: di che cosa trattano? Vai ad indagare …
Salomone diventa re degli Ebrei intorno al 961 a.C. ed è quindi storicamente molto lontano dall’Alessandria del II secolo a.C. ma questo personaggio trova una sua collocazione ideale durante il periodo dell’Ellenismo per il fatto di essere un governante illuminato che si è dedicato a incentivare la cultura, l’arte, la musica, la poesia e (secondo i gusti) l’esercizio della “saggezza” o della “sapienza”.
Salomone si dedica ad ampliare e ad abbellire Gerusalemme e altre città della Palestina: abbiamo detto che possiamo incontrare questo personaggio e l’opera che ha svolto leggendo la prima metà del Primo Libro dei Re, dove scopriamo che Salomone a Gerusalemme fa costruire il Palazzo Reale e il grandioso Tempio (il Tempio di Salomone) che diventa il santuario nazionale d’Israele. Con queste opere il re vuole dare lustro e dignità allo Stato di un popolo di pastori nomadi. Salomone potenzia anche l’esercito e nasce, in Israele, una “classe militare”. Dà sviluppo ai commerci (tutti ricordiamo il mitico incontro con la regina di Saba: possiamo leggere questo episodio leggendario nel Primo Libro dei Re al capitolo 10), e nasce in Israele una “classe di mercanti”, molto parsimoniosi e molto abili. Ma soprattutto, sotto il regno di Salomone, si sviluppa una “classe dirigente” che ha negli “scribi”, negli “scrivani” (c’è chi parla anche di “scrivane”), l’elemento più creativo.
Salomone – e questo contribuisce a potenziare il suo mito – muore due volte, nel 935 a.C o nel 922 a.C.: come mai? Ora non lo possiamo spiegare ma lo spigheremo prossimamente perché questo personaggio – che ha istituito la categoria degli “scribi”, degli “scrivani” – naturalmente lo incontreremo ancora, strada facendo, nel territorio della “sapienza poetica beritica”.
Le cose che abbiamo detto rendono comprensibile il fatto che l’autore della prima versione dell’opera intitolata Saggezza di Salomone utilizzi la figura mitica del re letterato e poeta per rafforzare il significato delle proprie affermazioni. Il testo della prima versione dell’opera intitolata Saggezza di Salomone è legato ad una questione molto curiosa che noi – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – dobbiamo mettere in risalto.
Per evidenziare il valore della “saggezza” – a scapito della “sapienza” – l’autore della prima versione, cosiddetta “dell’invettiva”, dell’opera intitolata Saggezza di Salomone utilizza (senza dire nulla, senza fare alcuna citazione, ma è probabile che non abbia ancora propriamente un Libro da citare) un brano del testo di un Libro della Bibbia che, molto probabilmente, ad Alessandria, in questo momento (intorno al 140 a.C.) è in formazione: questo Libro s’intitola il Libro dei Proverbi (un titolo che tutti abbiamo sentito nominare).
Il Libro dei Proverbi, che troviamo nella sezione dei ketubim, degli Scritti sapienziali e poetici della Bibbia, è una raccolta (in 31 capitoli) di precetti, di insegnamenti di vario genere provenienti non solo dalla cultura ebraica ma da diverse culture: per esempio ci sono, nel capitolo 22, una serie di proverbi (trenta proverbi) simili a quelli di un antico sapiente egiziano che si chiama Amenemope. Il modo di esprimersi del Libro dei Proverbi è tipico di chi vuole insegnare e, per facilitare la memoria e colpire la fantasia di chi legge, molta parte del testo è stata scritta in poesia con una struttura semplice e ritmica.
Il prologo del Libro dei Proverbi attribuisce tutta la raccolta a Salomone perché – come sappiamo, e come sapevano ad Alessandria, dal testo del Primo Libro dei Re – questo sovrano è considerato il “sapiente” o il “saggio” per eccellenza.
Molto materiale letterario che è entrato a far parte del Libro dei Proverbi è antichissimo e proviene, come abbiamo detto, dalla cultura egizia e dalla cultura mesopotamica (akkadico-sumero-babilonese) e corrisponde ad una serie di blocchi di scrittura (di codici) scritti in ebraico e genericamente chiamati “I proverbi” che condensano il risultato di secoli di riflessione di molti sapienti d’Israele che, a loro volta, hanno fatto tesoro degli insegnamenti di molti saggi dell’Antico Oriente. Altre parti del Libro invece (che legano i blocchi più antichi tra loro) sono state scritte in greco nel periodo ellenistico-alessandrino da un autore (o da più autori) che, alla fine del II secolo a.C., ha raccolto, ordinato e ricucito insieme questo abbondante materiale significativo redigendo la versione definitiva del testo: naturalmente tutta tradotta in greco.
Le studiose e gli studiosi si domandano se questa operazione di redazione finale del testo del Libro dei Proverbi era già stata ultimata quando, intorno al 140 a.C., è stata scritta la prima versione dell’opera intitolata Saggezza di Salomone. È difficile rispondere a questa domanda, ma sembra probabile che il Libro dei Proverbi, quando è stata scritta la prima versione dell’opera intitolata Saggezza di Salomone, non fosse stato ancora redatto nella sua forma completa così come noi la conosciamo.
L’autore della prima versione della Saggezza di Salomone deve conoscere bene il materiale (o, per lo meno, parte del materiale) che va a formare il testo del Libro dei Proverbi perché ne utilizza alcuni brani – modificando solo una parola che viene ripetuta più volte e adattandoli alle sue esigenze di polemista – in funzione della composizione del testo della sua opera. È però molto improbabile (anche se qualcuno tra gli esperti lo pensa) che l’autore della prima versione della Saggezza di Salomone possa essere lo stesso scrittore (o uno degli scrittori) che ha redatto in forma definitiva il testo del Libro dei Proverbi.
Il materiale (il ricco patrimonio di insegnamenti) che va a formare il testo del Libro dei Proverbi mette al centro sempre esplicitamente la parola-chiave “sapienza” in relazione alla figura di Salomone e usa poche volte il termine “saggezza”. L’autore della prima versione della Saggezza di Salomone quando decide – per scrivere la sua opera allo scopo di lanciare la sua “invettiva” contro i “filotraduzionisti” – di utilizzare alcuni brani dell’antico materiale contenuto nei codici de “I proverbi” (un materiale che diventa parte del primo e del secondo capitolo del Libro dei Proverbi) lo “modifica” o, se preferite, lo “falsifica” (in puro stile alessandrino) sostituendo il termine “sapienza” (che si ripete sistematicamente molte volte) con il termine “saggezza” (che compare poco). Qualcuno dirà: quale problema sarà mai l’aver modificato una parola! Ci accorgeremo che non è un problema da poco.
Inoltre, l’autore della prima versione della Saggezza di Salomone decide di affermare che il materiale di cui si avvale – proveniente dagli antichi codici chiamati genericamente “I proverbi”, che lui non cita – fa parte di un “epistolario” che Salomone avrebbe scritto (e qui ci troviamo di fronte ad una “falsificazione formale” in puro stile alessandrino) per invitare i suoi sudditi a coltivare la “saggezza (il timore di Dio)” prima della “sapienza (la filosofia)”. Naturalmente l’autore della prima versione della Saggezza di Salomone presenta la sua opera sotto forma di “lettera”, ancora una volta in perfetto stile ellenistico-alessandrino.
La prima versione del “Libro della Saggezza di Salomone” ha la forma di una “lettera” (autentica) scritta da un saggio ebreo “controtraduzionista” che presenta alcune “lettere” (formalmente “falsificate”) composte – a detta dell’autore – dalla persona saggia per eccellenza, il re Salomone, il quale avrebbe scritto (dalla notte dei tempi) per raccomandare agli Ebrei di conservare e di coltivare la “saggezza d’Israele” e questa raccomandazione, nell’intenzione dell’autore controtraduzionista, suona (deve suonare) come un’allusione a non fidarsi della “sapienza (la filosofia) ellenistico-alessandrina” e, chi ha orecchie per intendere, quindi, intenda contro chi si rivolge la voce della “Saggezza di Salomone”.
Le due “lettere” (che costituiscono una “falsificazione formale”), che l’autore della prima versione del “Libro della Saggezza di Salomone” attribuisce al grande re d’Israele, servono per dare risalto alla sua “invettiva” contro i “filotraduzionisti” e la loro presunta “sapienza (conoscenza filosofica)”.
Il testo delle “lettere” di Salomone, contenute nella prima versione del Libro della Saggezza di Salomone, corrisponde, nel Libro dei Proverbi, a due brani del primo e del secondo capitolo. L’autore della prima versione del “Libro della Saggezza di Salomone” – come abbiamo già detto – ha lasciato intatto il testo dell’antico materiale con cui ha costruito le due “lettere” che lui attribuisce al saggio re: ha solo sistematicamente (e anche un po’ ingenuamente dal punto di vista formale) sostituito la parola “sapienza” con la parola “saggezza”.
Il testo del Libro dei Proverbi ai capitoli 1 e 2 corrisponde perfettamente al testo delle due “lettere” contenute nella prima versione del Libro della Saggezza di Salomone, ma l’autore del Libro dei Proverbi (Libro che, probabilmente, è stato composto successivamente) rimette le cose a posto: riporta la parola “sapienza” (che compare spesso) e la parola “saggezza” (che compare raramente) nell’ordine in cui sono scritte negli antichi codici chiamati genericamente “I proverbi” (Perché modificare il pensiero degli antichi saggi? Meglio cercare di interpretarlo per adeguarlo ai tempi).
I due autori (del Libro dei Proverbi e della prima versione del Libro della Saggezza di Salomone) – i quali sono contemporanei e sicuramente appartengono alla stessa corrente, “controtraduzionista”, – sono in disaccordo e questo fatto è indice dell’evoluzione in atto (da una posizione di intransigenza alla “tendenza mardocheista”) nel pensiero del ciclo ellenistico-alessandrino del movimento della sapienza poetica beritica.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Molti di voi si staranno chiedendo: perché ci siamo imbarcati in un tema di questo genere? A che cosa serve affrontare l’argomento della “questione della quattro versioni (e siamo appena alla prima!) del Libro della Saggezza di Salomone? Serve per imparare ad investire in intelligenza, serve per imparare ad aguzzare il nostro ingegno di lettrici e di lettori e – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – è importante imparare ad aguzzare l’ingegno perché si acquisiscono le competenze che stimolano l’azione dell’apprendimento: il conoscere, il capire, l’applicarsi, l’analizzare, il sintetizzare, il valutare…
A questo proposito è un esercizio interessante quello di confrontare il testo delle “lettere” attribuite a Salomone contenute nella prima versione del Libro della Saggezza di Salomone che troviamo nel LEGERE MULTUM, con il testo dei primi due capitoli del Libro dei Proverbi: tutti possediamo una Bibbia quindi mettiamoci in ricerca, indaghiamo, che, mentre s’indaga si legge e si riflette…
Sappiamo che la prima versione del Libro della Saggezza di Salomone è chiamata la versione “dell’invettiva”, siccome nelle successive versioni le cose cambiano non perdere tempo e lanciala ora “un’invettiva”: utilizza, per quanto riguarda la forma, le parole appropriate (il linguaggio biblico, i versi di Dante, l’autobiografia del Cellini…), bastano quattro righe in proposito…
E ora leggiamo il testo delle (presunte) “lettere” di Salomone, contenute nella prima versione, cosiddetta “dell’invettiva”, del Libro della Saggezza di Salomone:
LEGERE MULTUM….
Libro della Saggezza di Salomone, Versione dell’invettiva (140 circa a.C.)
Così scrive Salomone, figlio di Davide e re d’Israele:
«Figlio mio, non lasciarti corrompere dalle cattive compagnie. Potrebbero dirti “Vieni con noi, cerchiamo di uccidere qualcuno, e, per divertirci, attacchiamo l’innocente. Inghiottiamolo vivo come fa il mondo dei morti, tutt’intero, come chi scende nella fossa. Troveremo ogni specie di tesori, riempiremo con il bottino le nostre case. Vieni con noi, e divideremo tra noi tutto quello che ruberemo”. Figlio mio sta lontano da quella gente, non andare con loro. I loro piedi corrono verso il male, le loro mani sempre pronte ad uccidere. È inutile tendere una rete se gli uccelli la vedono. Ma quella gente tende a se stessa una trappola, mette in pericolo la sua stessa vita. Così va a finire ogni ladro; la violenza fa morire chi la commette. Per le strade e sulle piazze la Saggezza (Sapienza, nella versione del Libro dei Proverbi) lancia i suoi appelli; dall’alto delle mura e alla porta della città essa chiama e proclama: “O popolo di stolti! Fino a quando amerete l’ignoranza? O gente arrogante! Fino a quando sarete scettici? O schiera di sciocchi! Fino a quando non vorrete imparare? Ascoltate quel che v’insegno: vi darò buoni e saggi consigli, vi farò diventare Saggi (Sapienti, nella versione del Libro dei Proverbi). Vi ho chiamato e avete rifiutato l’invito, vi sono venuta incontro, ma nessuno m’ha guardata, avete ignorato tutti i miei consigli, non avete accolto i miei insegnamenti. Anch’io riderò delle vostre sventure, mi farò beffe della vostra paura quando il terrore vi piomberà addosso come una tempesta, quando la disgrazia vi travolgerà come un uragano, quando sarete in preda all’angoscia e alla miseria. Allora mi chiamerete, ma non risponderò, mi cercherete ma non mi troverete. Voi avete sempre odiato la Saggezza (Sapienza, nella versione del Libro dei Proverbi), avete sempre rifiutato di ubbidire al Signore. Voi non avete mai accettato i miei consigli, avete disprezzato le mie esortazioni. Ebbene ora raccoglierete il frutto della vostra condotta, vi sazierete dei vostri progetti malvagi. Gli inesperti moriranno per la loro stupidità, gli sciocchi saranno rovinati dalla loro stoltezza. Ma chi ascolta me, vivrà in pace, sarà sicuro e non avrà nulla da temere».
Così scrive Salomone, figlio di Davide e re d’Israele:
«Figlio mio, ascolta quel che ti dico, non dimenticare i miei insegnamenti. Ascolta quel che insegna la Saggezza (Sapienza, nella versione del Libro dei Proverbi), cerca di capire le lezioni dei saggi. Ricerca la conoscenza e desidera la saggezza, come si desidera l’argento o si va in cerca di tesori. Se farai così capirai che cosa vuol dire temere il Signore e imparerai a conoscere Dio. È il Signore che dà la Saggezza (Sapienza, nella versione del Libro dei Proverbi), da lui provengono scienza e intelligenza. Egli protegge i giusti, difende gli onesti. Il Signore protegge chi agisce con giustizia, custodisce il cammino dei suoi amici. Se mi ascolti capirai ciò che è buono e giusto, saprai quel che devi fare. Allora diventerai saggio (sapiente, nella versione del Libro dei Proverbi) e la tua conoscenza ti renderà felice».
Per continuare la nostra riflessione adesso noi dobbiamo entrare nel campo della filologia e dobbiamo puntare la nostra attenzione sulle due parole-chiave – “saggezza” e “sapienza” – che emergono dal testo della prima versione del Libro della Saggezza di Salomone: ricordiamoci che il testo di quest’opera fortemente radicata nella cultura ebraica integralista è scritta in greco e, quindi, – in funzione della didattica della lettura e della scrittura –emergono (più che i problemi legati alla “falsificazione”) i temi legati alla scelta delle parole greche che l’autore fa…
L’autore di quest’opera – come abbiamo potuto constatare – esalta la “saggezza” a scapito della “sapienza”; con questa scelta vuole dare una legittimazione ideologica alla sua “invettiva” contro i “filotraduzionisti” ma tralascia di imbastire una riflessione sulle parole greche che lui ha utilizzato: e pensare che questo autore ha operato una scelta che si rivela (anche se lui sembra non badarci) particolarmente significativa per la futura storia della cultura e che va oltre il “movimento della sapienza poetica beritica”.
Nel testo epistolare – scritto in greco – della prima versione del Libro della Saggezza di Salomone (che è una “lettera” inviata alla comunità della diaspora che contiene altre due “lettere salomoniche”) si allude polemicamente alla bontà della “saggezza” e alla inopportunità della “sapienza” senza però fornire una precisa spiegazione dei termini, senza presentare un’adeguata distinzione sul significato delle parole. Il fatto di porre l’accento più sull’invettiva che sulla riflessione filologica se da una parte soddisfa gli animi più intransigenti, dall’altra espone il testo di quest’opera a severe critiche (l’operazione di “falsificazione” appare subito evidente e andava motivata intellettualmente) che la rendono persino controproducente.
Per questi motivi nel decennio successivo (tra il 140 e il 130 a.C.) uno scrittore, della corrente “controtraduzionista”, decide di fornire una seconda versione del Libro della Saggezza di Salomone. Anche il testo di questa seconda versione è scritto sotto forma di “lettera” (una “lettera” che commenta una “lettera” che contiene due “lettere”: bisogna prendere atto – e questo lo abbiamo imparato – che il genere letterario dell’epistolario domina nella cultura ellenistico-alessandrina). La seconda versione del Libro della Saggezza di Salomone è stata denominata la “versione della parafrasi filologica”. In greco il termine “parafrasi” definisce un esercizio letterario che prevede tanto la riscrittura (la riformulazione) in termini più chiari di un testo, quanto il commento per rendere più comprensibile il testo in questione [la maggior parte di voi ricorda, a memoria, la Parafrasi del Vangelo Secondo Giovanni di Nonno di Panopoli; a memoria, intendo dire, si ricorda la parola-chiave che, quest’opera veicola: “oistros”, il “tafano fremente”, una metafora che definisce il rapporto tra Cristo e Dioniso, ecco che ricordate!].
Se la seconda versione del Libro della Saggezza di Salomone è stata denominata la “versione della parafrasi filologica” è perché l’autore vuole riformulare e commentare il testo della prima versione di quest’opera troppo esposto alle critiche. L’autore della seconda versione del Libro della Saggezza di Salomone comincia a scrivere la sua “lettera” con un prologo in cui fa la distinzione (ciò che non aveva fatto l’autore della prima versione) tra il concetto di “sapienza” e quello di “saggezza”. L’autore della seconda versione del Libro della Saggezza di Salomone inizia il suo ragionamento puntualizzando il fatto che, nella tradizione dell’ebraismo, tra questi due concetti – di “sapienza” e di “saggezza” – non c’è separazione: questi due elementi sono entrambi attributi di Dio e trovano in Dio la loro unità. La persona – scrive l’autore della seconda versione del Libro della Saggezza di Salomone – possiede la “sapienza”, cioè un sapere profondo unito a doti morali e spirituali, solo se riceve in dono da Dio la “saggezza” cioè la virtù che permette di coltivare il “timore di Dio”, di “temere il Signore”: questa espressione, “temere il Signore”, – spiega l’autore della seconda versione del Libro della Saggezza di Salomone – nella lingua greca ha una sfumatura negativa ed esprime un’idea di paura mentre nella tradizione ebraica questa espressione è ricca di significati positivi e significa “rispettare il Signore”, “ascoltare il Signore”, “ubbidire al Signore”, “amare il Signore”. Salomone ha conquistato la “sapienza” perché ha chiesto in dono a Dio la “saggezza” e – scrive l’autore della seconda versione del Libro della Saggezza di Salomone – se la “sapienza” è il un sapere profondo delle cose, la “saggezza” è la conoscenza profonda di Dio.
Con questa distinzione l’autore della seconda versione del Libro della Saggezza di Salomone, che è stata denominata la “versione della parafrasi filologica”, vuole che la polemica contro i “filotraduzionisti” vada oltre l’invettiva (e vada oltre la “falsificazione”) e si trasferisca sul piano culturale e intellettuale (sul piano de “l’interpretazione”). I “filotraduzionisti” – scrive l’autore della seconda versione della Saggezza di Salomone– sono quegli intellettuali che si considerano prima “sapienti” (vengono etichettati come cultori di “saccenteria”) che “saggi” e quindi “danno più importanza alla lingua e alla cultura greca che non all’ebraismo” con forti conseguenze negative sulla comunità. I “controtraduzionisti”, invece – scrive l’autore della seconda versione della Saggezza di Salomone – sono quegli intellettuali che si considerano “saggi” (è “saggio” chi “teme il Signore che è geloso del suo popolo”) e “danno importanza assoluta alla lingua e alla cultura ebraica” che sono i veri strumenti di “edificazione della comunità”. I “filotraduzionisti” – scrive l’autore della seconda versione della Saggezza di Salomone – hanno fiducia nella cultura dell’Ellenismo e coltivano la “sapienza (la filosofia)” che li allontana dalla tradizione e dalla Legge di Mosé. I “controtraduzionisti”, invece – secondo l’autore della seconda versione della Saggezza di Salomone – chiedono in dono la “saggezza” e vivono nel “timore del Dio d’Israele” che è l’atteggiamento giusto per acquisire anche la “sapienza”.
E allora veniamo al dunque: abbiamo detto che dobbiamo entrare nel campo della filologia e stiamo, appunto, commentando – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – la “versione della parafrasi filologica” del Libro della Saggezza di Salomone. Per costruire la sua “parafrasi” – per sviluppare il suo commento alla prima versione del “Libro della Saggezza di Salomone” in modo da motivare intellettualmente l’invettiva contro i “filotraduzionisti” e per controbattere alle loro critiche – l’autore (il “parafraste della Saggezza di Salomone”, così viene chiamato) utilizza come strumento la parola greca fondamentale che proprio l’autore della prima versione aveva scelto per definire la “saggezza”.
L’autore della seconda versione del Libro della Saggezza di Salomone, proprio contando sul valore (sul significato) di questa parola-chiave, può scrivere la sua riflessione in cui proclama l’autonomia e anche la superiorità della cultura ebraica, la quale privilegia e mette al primo posto la “saggezza” come dono di Dio, nei confronti della cultura ellenistico-alessandrina che tende a dare più valore alla “sapienza” come conquista dell’attività umana.
Qual è questa parola greca che gli autori della prima e della seconda versione del Libro della Saggezza di Salomone utilizzano per definire il concetto della “saggezza”? Gli autori (il polemista e il parafraste) della prima e della seconda versione del Libro della Saggezza di Salomone, per definire il concetto della “saggezza”, utilizzano la parola “gnosi”, che di qui (da Alessandria nel II secolo a.C.) – nel bel mezzo della disputa, all’interno della comunità ebraica, tra “filotraduzionisti” e “controtraduzionisti” – comincia il suo cammino nella Storia del Pensiero Umano. Il termine “gnosi” viene utilizzato dagli autori della prima e della seconda versione del Libro della Saggezza di Salomone per definire il concetto della “saggezza” nel senso della conoscenza (difatti questa parola significa soprattutto “conoscenza”) perfetta, compiuta (téleios, nella sapienza poetica orfica) e superiore: la “gnosi” è un dono di Dio che permette la conoscenza dell’essenza di Dio...
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Quale di queste parole: senno, criterio, giudizio, prudenza, equilibrio, buonsenso, raziocinio … preferisci mettere per prima, oggi, accanto alla parola “saggezza”?
Scrivi una parola …
Hai conosciuto una persona “saggia”?
Scrivi quattro righe in proposito: “scrivere” è sempre un gesto di saggezza…
Tra il 130 e il 57 a.C., ad Alessandria, vengono scritti altri due testi (la terza e la quarta versione) che si intitolano Saggezza di Salomone. La terza versione del Libro della Saggezza di Salomone è stata definita “della parafrasi gnostica”. L’autore – ancora una volta con il genere letterario della “lettera” – esalta con enfasi, la saggezza (la “gnosi”) ebraica, ed è tanto preso dall’entusiasmo che non si accorge neppure che questa esaltazione della “cultura ebraica” avviene con un uso sempre più intenso di “parole” e di “idee” che sono patrimonio della cultura e della filosofia greca. Il concetto più evidente, mutuato dalla filosofia greca, che l’autore della terza versione del Libro della Saggezza di Salomone sviluppa nella sua opera è quello dell’esaltazione della “ragione” umana. Il dono divino della “gnosi”, della “saggezza”, arricchisce le potenzialità della ragione umana e l’autore della terza versione, detta “della parafrasi gnostica”, del Libro della Saggezza di Salomone esalta il fatto di come con l’uso della ragione si possa combattere ogni tormento, ogni male del corpo. Non ci vuole molto a capire che questo è uno dei concetti fondamentali della filosofia di Epicuro, della Lettera a Meneceo (ancora una “lettera”): ma siamo ad Alessandria, siamo in un grande laboratorio culturale! L’autore della terza versione del Libro della Saggezza di Salomone potrebbe essere – ed è un’ipotesi accreditata da parte dalle studiose e dagli studiosi – un esponente della comunità ebraica che appartiene alla “tendenza mardocheista ellenistico alessandrina” (l’autore dei Libri di Ester?): una corrente di pensiero che, come sappiamo, sa conciliare la tradizione d’Israele con la cultura dell’Ellenismo. È chiaro che se il dono divino della “gnosi”, della “saggezza”, arricchisce le potenzialità della ragione umana è altrettanto chiaro che c’è anche un’apertura di credito nei confronti della “sapienza” che dalla ragione umana trae alimento.
Difatti, circa settant’anni dopo, l’autore della quarta versione del Libro della Saggezza di Salomone farà tesoro di questa riflessione scrivendo – sempre con il genere letterario della “lettera” – che Dio dona la “gnosi”, dona la “saggezza”, a coloro i quali (solo a loro) coltivano la “sapienza” preferendola ad altre cose attraenti come il denaro, il potere, il successo. Sapete che in greco la “sapienza” è la “sophia” e difatti la quarta versione del Libro della Saggezza di Salomone è detta la “versione di Sofia”. Viene fatta, da parte dell’autore, una operazione di personificazione: la “sapienza”, la Sofia, si presenta come una donna bellissima da amare con l’Eros platonico, e allora noi capiamo che a questo punto (siamo intorno al 57 a.C.) la filosofia greca e la cultura dell’ebraismo vanno quasi a braccetto.
Interrompiamo temporaneamente il nostro itinerario sulla “questione delle quattro versioni – dell’invettiva (del polemista), della parafrasi filologica (del parafraste), della parafrasi gnostica (dello gnostico) e di Sofia (del filosofo) – del Libro della Saggezza di Salomone perché la prossima settimana riprenderemo l’argomento nella sua fase finale. Molto del materiale della quarta versione (la versione di Sofia, la versione del filosofo) del Libro della Saggezza di Salomone confluisce, tra il 50 e il 30 a.C., in un testo di pregevole fattura che è l’ultimo Libro della Bibbia che viene scritto: l’ultima impresa del “ciclo ellenistico-alessandrino del movimento della sapienza poetica beritica”: rimandiamo la riflessione al prossimo itinerario!
Adesso, per concludere, visto che non abbiamo fatto altro che parlare di testi scritti sotto forma di “lettera” torniamo ad occuparci di una “lettera”, scritta sotto forma di romanzo, di cui abbiamo cominciato la lettura. Il romanzo breve di cui stiamo parlando, di cui abbiamo cominciato la lettura, (non lo avete certamente dimenticato) è stato scritto da Irène Némirovsky (una scrittrice che tutti conosciamo) e s’intitola La moglie di don Giovanni. Questo romanzo breve è una “lettera” scritta alla signorina Monique (che adesso è una signora) dalla governante che l’ha cresciuta, la quale è gravemente ammalata e – alludendo ad altre “lettere” in suo possesso che le “danno l’angoscia” – vuole comunicare alla signorina una inquietante verità che riguarda la “Tragedia” di cui sono protagonisti i suoi Genitori. In questo racconto – oltre ai temi, che emergono dal nostro Percorso, delle “lettere”, della “saga famigliare” e della “falsificazione” – appaiono anche, in chiara evidenza, le prime parole-chiave del catalogo che, itinerario dopo itinerario, si sta cominciando a formare su questo Percorso: le parole “testamento”, “eredità”, “patto”.
LEGERE MULTUM….
Irène Némirovsky, La moglie di don Giovanni (1938)
6 agosto
Signorina Monique, quel 2 novembre di dodici anni fa non me lo scorderò mai. C’era proprio un tempo da giorno dei Morti. Non si può dire che piovesse, ma veniva giù un’acquerugiola fastidiosa. È un tempo che non mi piace; mette tristezza, e da quel giorno non posso più sopportarlo. Come ogni anno, da settembre eravamo in campagna, dai Genitori della Signora, per la stagione della caccia. Grandi falò ovunque. Era la fine, gli invitati se ne stavano andando. Dovevamo rientrare a Parigi quindici giorni dopo. Ma la Signora Baronessa, naturalmente, era ancora lì. È cominciato tutto al mattino. Il Signore e la sua amica si erano incontrati nel parco, in un punto dove non andava mai nessuno. Dato che dopo quei fatti la casa è stata venduta, penso che la Signorina e i suoi fratelli non ricordino quasi nulla. Avevano tutti e tre la varicella e stavano a letto, separati dagli altri, e in fondo è stata una fortuna perché così non hanno saputo subito quello che era successo. Glielo si è potuto dire un po’ alla volta, con cautela, e del resto era dovere di tutti aver pietà di quegli innocenti, poveri piccoli! Una Tragedia simile è triste quando ci sono dei bambini. Insomma, in quella parte deserta del parco il secondo giardiniere mi dice di aver visto passare il Signore e la Signora Baronessa. Camminavano vicini e parlavano sottovoce. Non erano discorsi da innamorati, avevano un’aria troppo seria. Dovevano di certo parlare del divorzio e dei soldi. La Signora Baronessa non aveva niente di suo. Al contrario di quel che succedeva da noi – la Ricchezza era tutta nelle mani del Marito. Eppure era pronta a seguire il Signore, il che fa capire che era proprio pazza di lui. In effetti, per una Donna dell’Alta Società, quello era un gran bel sacrificio. Viene l’ora di pranzo. Subito dopo mangiato la Signora segue il Signore e gli dice – c’era solo il maggiordomo che sparecchiava, è da lui che ho saputo tutto: «Devo parlarvi, Henry». «Adesso non ho tempo, Nicole,» dice il Signore «mi dispiace». «Ma è molto importante» dice la Signora, cercando di trattenerlo. Alla fine, sempre fissando la porta dalla quale la Signora Baronessa e gli altri invitati erano appena usciti, lui risponde: «Questa sera, Nicole, questa sera senz’altro». La Signora insiste, il Signore dice che ha già fatto preparare l’automobile e deve affrettarsi perché ha una commissione da sbrigare a Le Blanc, a diciotto chilometri dal Castello. «Verrò con voi» dice la Signora. Sale in camera, e tutti vedono che è sconvolta. Secondo il maggiordomo la Signora doveva aver visto il marito passeggiare nel parco con la Baronessa, ed era questo a tormentarla. Io, dal canto mio, non dico niente. La Signora torna dunque di sopra, suona per farsi dare il cappotto e io le porto un bel cappotto caldo di vigogna. Continuava a piovere e il cielo era molto scuro. L’aiuto a vestirsi, lei si calca in testa un cappellino viola. Mi pare ancora di vederla: tremava così tanto, davanti allo specchio, che non riusciva neanche a sistemarsi il cappello. Prende qualcosa dal cassetto della toeletta. Esce. Mi viene in mente una cosa: vado a vedere se la rivoltella, che al Castello stava sempre nella scrivania del Signore, era ancora lì. No! Ho provato come un tuffo al cuore. Scendo nell’office. Stavamo giusto per metterci a tavola. Eravamo sedici, il personale al completo, compresi i domestici degli invitati. Mi dicono che sono pallida come una morta. Non rispondo niente e mi sforzo di mangiare. Quanti rimproveri mi sono fatta, dopo! La macchina non era ancora partita. Eravamo in tempo per avvertire il Signore, ma non sapevo che fare. Se ci fossero stati solo i domestici del Castello, avrei raccontato quello che credevo di aver visto e mi sarei consigliata con loro, ma a tavola c’era anche la cameriera della Signora Baronessa e quattro autisti che non erano dei nostri. Le cose di Famiglia sono sacre. È in gioco l’onore della Famiglia e prima di parlarne bisogna pensarci due volte. Insomma, se ho agito male o da stupida non è stato con cattiva intenzione, m’è testimone Iddio che legge nei cuori, soprattutto arrivata come sono, ahimè, ai miei ultimi giorni. Faccio dunque finta di mangiare. Auguste, l’autista, porta fuori la macchina, e il Signore e la Signora partono. Tutto quello che è successo dopo, lo so dall’autista. Che Tragedia! Se n’è parlato e riparlato tante volte. Ma non appena l’automobile si è allontanata, ho cominciato a tremare, come se sentissi la disgrazia nell’aria. Quando sei stata in tante Famiglie e in tante Case, ognuna con le sue vicende, i suoi dolori, i suoi segreti, posso garantire alla Signorina Monique che capisci subito se una casa è felice o disgraziata. Conoscevo un maggiordomo – beveva, forse per questo era così sensibile, ma se entrava in un posto e sentiva quell’aria di disgrazia – ah, no, qui non ci resto! E per almeno due volte, che io sappia, ha visto giusto. Una volta un fallimento, un’altra una rapina, tutte cose molto spiacevoli per il personale.
7 agosto
Com’ero preoccupata, Signorina, prova ne sia che sono salita a vedere come stava. Forse la Signorina se ne ricorda … Aveva già dodici anni. Non avevo niente da fare in camera sua a quell’ora, non era compito mio, ma sentivo tanta pena in cuore per quei bambini che volevo vederli, soprattutto la Signorina Monique che è sempre stata la mia prediletta. Preferisco le bambine. Sono più graziose. La Signorina era seduta sul letto con un libro, delle figure da ritagliare e un lavoro a maglia, come una donnina. Era così brava a lavorare ai ferri, così precisa! Ero stata io a insegnarle i primi punti e la Signorina stava facendo un coprifasce per la mia nipotina, ha sempre avuto buon cuore la Signorina Monique. Ero lì da cinque minuti quando si sente l’automobile tornare, poi delle porte che sbattono, poi più niente! Penso: «Vergine Santa! È fatta!». E avevo ragione, ahimè. Era tutto finito. Ecco quel che è successo, a detta di Auguste: era uscito dal parco e filava verso Le Blanc. Sull’inizio della conversazione non ha potuto dirmi niente. A un tratto nell’auto si sono messi a parlare più forte e lui sente la Signora che dice: «Ve ne supplico, ve ne supplico». «No,» dice il Signore, e si mette a ridere, ma piano, racconta Auguste, fra sé e sé, come se qualcosa lo divertisse. E proprio quel riso deve aver fatto perdere la testa a sua moglie. Ha lanciato un grido acuto e quasi subito dopo Auguste ha sentito lo sparo. Sulle prime non riusciva a crederci. In definitiva una rivoltella fa solo un misero schiocco. E uno si chiede che cosa ha sentito, pensa che magari è scoppiata una gomma, ma guardando nello specchietto Auguste ha visto il Signore che ricadeva all’indietro e perdeva sangue. Povero Signore! Aveva riso per l’ultima volta. Subito Auguste si ferma, apre la portiera, prende il Signore fra le braccia, lo adagia sul ciglio della strada, ma lui già non respirava più. Allora Auguste torna dalla Signora. Lei non si era neanche mossa: teneva sempre in mano la rivoltella, ci stava aggrappata, anzi, e gliela si è dovuta strappare con la forza. Non diceva niente e il povero Auguste non sapeva che pesci pigliare. Ha aspettato altri cinque minuti nella speranza di veder passare qualcuno della Famiglia, ma non arrivava nessuno e pioveva. Quanto al Signore, era chiaro che era morto. Alla fine Auguste ha ripreso il corpo, l’ha messo in macchina vicino alla Signora ed è tornato al Castello. Per tutto il tragitto la Signora non ha degnato il Signore di uno sguardo, ha detto Auguste. In una curva il corpo si è inclinato da una parte come fosse vivo ed è scivolato per terra sul tappetino, ma la Signora non ha mosso un dito per tirarlo su. Quando la macchina si è fermata davanti alla scalinata, il Signore era finito quasi lungo disteso con la faccia sul pavimento, e il sangue che colava pian piano – un sottile rivolo di sangue che gli usciva dalla bocca – stava impiastricciando tutto. Auguste era sconvolto da quello spettacolo, e invece la Signora niente, gli occhi fissi e la testa alta. Ecco qua. Signorina Monique, quello che tutti sanno e che tutti i giornali dell’epoca hanno scritto sull’orribile Tragedia che ha reso orfani, si può ben dirlo, tre bambini: senza il papà, portato via dalla morte, e senza la mamma, strappata poco dopo ai suoi figli dalla prigione, il processo e tutto il resto, e poi anche lei, poverina, dalla morte, a trentotto anni. Naturalmente a quelli che chiedevano: «Che cosa le faranno?» si rispondeva: «L’assolveranno, è un delitto passionale, non c’è ombra di dubbio, con i Soldi e le Conoscenze che hanno l’assolveranno di certo». E se c’è un delitto che può avere un’attenuante, così a prima vista direi che era proprio quello. Una donna che era stata moglie perfetta e madre irreprensibile, una donna che il marito tradiva e che in silenzio aveva sopportato tutto per i suoi figli, che aveva sofferto per tredici anni finché un giorno un’altra donna non si era accontentata di rubarle l’affetto del Marito, ma voleva anche togliere un padre ai suoi bambini … Ah! Signorina Monique, povera piccola Signorina Monique, mai si era parlato tanto di voi tre! C’erano le vostre fotografie su tutti i giornali, e quella della Signora che vi stringeva tra le braccia, e la Signora che, in prigione, piangeva sui «suoi poveri bambini», e alla fine il giorno del processo l’avvocato ha dimostrato in maniera lampante che la Signora aveva perso la testa all’idea che il Marito non amava più la sua Famiglia e voleva abbandonarla, e che dopo aver sopportato di tutto quest’ultimo affronto non poteva tollerarlo! Quello era un principe del Foro. La Famiglia non aveva badato a spese. Si è fatto pagare bene, mi hanno detto, ma quel denaro se l’è guadagnato. Durante il processo tutti piangevano, e persino le donne che avevano fatto il diavolo a quattro per rubare il marito alla Signora si scioglievano in lacrime e dicevano di lei che era una Martire. Adesso che ripenso a tutto questo, mi tornano alla mente tante cose che credevo di aver dimenticato, e non posso evitare che anche la Signorina Monique le ricordi. Bisogna tener vivi anche i ricordi tristi, se si può. Quando si è vecchi o malati come sono io e non si può più lavorare, pensare al futuro è troppo triste. E allora che cosa faremmo, Vergine Santa, se non avessimo niente da ricordare? Mi succede anzi una cosa molto strana: i ricordi che credevo divertenti, come i giochi con le compagne di scuola o l’arancia che mi regalava a Capodanno la mia povera mamma, mi fanno piangere, e invece altre cose che allora erano così importanti – un ragazzo che mi corteggiava quando avevo vent’anni e che si è sposato con un’altra – mi fanno sorridere se penso a quanto ho sofferto allora, come se ci fosse un solo uomo al mondo per il quale vale la pena di versar lacrime. Così, quello che scrivo, anche se adesso può rattristare la Signorina, un giorno le sarà più leggero. Dia retta alla sua vecchia domestica! È stato una settimana dopo la Tragedia. La varicella era passata, ma la Signorina si sentiva ancora molto debole, la mettevano a letto alle sette e le portavano la cena su un vassoio. Una sera passo davanti alla stanza dei bambini e mi sembra di sentir piangere. Apro piano piano la porta. La Signorina non mi aveva visto arrivare. Era sdraiata sul fianco, con la faccia contro il muro, come un povero uccellino infreddolito! Piangeva e, oh Signorina, aveva paura di farsi sentire. Cercava con tutte le sue forze di trattenere i singhiozzi, ma un bambino non può piangere in silenzio. Si impara più tardi. Entro e dico con molta delicatezza: «Perché piangete, Signorina Monique?». Di quel che era successo i bambini non sapevano niente. Gli si era nascosto tutto, anche la morte del Signore. Non uscivano ancora e non aveva importanza se non erano vestiti a lutto. C’era sempre tempo. Gli avevano detto che il Signore e la Signora erano in viaggio, ed era stato facile dal momento che la Signora, naturalmente, era in prigione e il corpo del Signore lo avevano riportato a Parigi e seppellito due giorni prima. Sono sicurissima che niente, neanche una parola, poteva filtrare in quella parte della casa dove tutti e tre i bambini vivevano con la nurse, che per essere un’inglese era molto gentile, le loro piccole cose e i loro giocattoli. Eppure quella sera ho capito che avevano intuito tutto. La Signorina continuava a non rispondere e faceva uno sforzo terribile per smettere di piangere, ma invano. Mi avvicino di più, pian pianino: «Vi sentite male, Signorina Monique? Volete una tisana di tiglio ben zuccherata?». La Signorina mi guardava con tanta tristezza e faceva «no, no» con la testa. Le Chiedo ancora: «Che cos’avete, Signorina Monique? Ditelo alla vostra vecchia Clémence che vi vuole tanto bene». E la Signorina, sempre così gentilmente, così educatamente: «No, ti assicuro, non ho niente, mia buona Clémence». Allora le rimbocco le coperte, poi mi metto a riordinare un po’ per non lasciarla sola. La Signorina mi seguiva con lo sguardo, ma aveva troppo amor proprio per chiedermi qualcosa. Dico: «Volete che resti con voi finché non torna su la Miss?» (era andata a cena). La Signorina mi guarda ancora una volta senza sorridere, ma con la faccia come illuminata, e sottovoce: «Oh sì, grazie, sei gentile, tu …». Allora le prendo la mano e resto così, seduta su una seggiolina, vicino al letto. Cerco di dire qualche sciocchezza, tanto per far ridere la Signorina. Ma non aveva voglia di ridere, povera piccola! Mi dice: «Raccontami quello che facevi quando eri piccola. Parlami del tuo papa e della tua mamma». Comincio a raccontare per divertire la Signorina, ma a poco a poco viene voglia di piangere anche a me. Eravamo tutti molto nervosi dopo la Tragedia, e poi nessuno si interessa mai ai domestici, nessuno si chiede se sono stati felici o infelici, e neppure da dove vengono, com’era la loro casa, e i loro Genitori, come se uno, il giorno in cui entra a servizio in casa d’altri, non avesse più un passato. Intanto la Signorina si era calmata. Sento salire la Miss e faccio per andarmene. Sono già sulla porta e: «Tu non andrai mai via, vero, Clémence?». A quel punto ho capito che la Signorina aveva intuito tutto e si aggrappava, povera piccola, a quel che restava della sua infanzia. «Certo! Non me ne andrò mai». Me ne sono andata due mesi dopo. Quattro mesi prima del processo. Non volevo lasciare la casa per via dei bambini, ma sopportare la Signora Contessa, che adesso comandava tutti a bacchetta – e avevo idea che al ritorno della Signora le cose sarebbero andate ancor peggio – era al di sopra delle mie forze. Con la Signora Contessa mi toccava servire in tavola! La Signorina sa benissimo che non è il mio lavoro! Io sono camerista-cucitrice. Mi offrivano un posto in rue du Bac, quindi l’occasione per cambiare zona e avvicinarmi a un’amica, che era cuoca in quel quartiere: uscivamo insieme ogni domenica. La cosa mi faceva molto comodo, mi evitava di spendere per incontrarla. Il posto era di tutto riposo. L’ho accettato; ci sono rimasta cinque anni e con piena soddisfazione. Ma lasciare la Signorina mi strappava il cuore. Alla fine, però, l’ho fatto. Arriva il giorno del processo. Ero molto agitata e la Signorina saprà subito perché. Mi chiamano a testimoniare, anche se non ho granché da dire. Vogliono farmi dichiarare che la Signora viveva solo per i suoi figli. Capisco che l’avvocato cerca di commuovere la giuria, e dico: «La Signora era una bravissima madre. Non sono più al suo servizio, ma spero che la restituiranno presto ai suoi poveri bambini e alla sua casa che ha bisogno di lei, anche se ho messo tutto in ordine prima di andar via. La sua camera, e anche i suoi cassetti. La Signora può stare tranquilla». Sapevo che avrebbero riso di me. Oh Dio, ridessero pure quelli che non capivano, e fortunatamente nessuno poteva capire, tranne la Signora. E ha capito subito, lei! Si è alzata, ancora più pallida di com’era prima, ed è caduta lanciando un grido. In fondo quel grido, seguito da un lungo svenimento, è stato la sua salvezza. Ha fatto un’ottima impressione sulla giuria. Tra il pubblico sussurravano: «Povera donna. Come deve aver sofferto!». Non starò qui a ripetere quello che ha detto l’avvocato né quello che la Signorina, se ne ha la curiosità, può leggere su tutti i giornali dell’epoca. Quante ne hanno dette sul Signore! Tutte le sue donne, le amiche della Signora, le cameriere, le donnacce e il resto! C’era senz’altro molto di vero, ma anche tante bugie, credo. L’avvocato, però, aveva ragione: il Signore era morto, e ormai non gli faceva più né caldo né freddo, senza contare che un uomo può avere tutte le donne che vuole senza vedersi disonorato per questo. Anzi! L’avvocato perciò aveva ragione a voler salvare dal disonore e dalla condanna solo quella che restava. E poi, insomma, lo pagavano per questo. Ognuno deve fare il suo mestiere. E lui lo ha fatto con coscienza. Risultato: assoluzione, come tutti pensavano. …
La lettera non è ancora terminata perché le sorprese non sono finite e avete capito che le parole pronunciate in tribunale da Clémence, “camerista-cucitrice”, contengono un messaggio per la Signora: ma bisogna leggerla fino alla fine.
Abbiamo detto che molto del materiale della quarta versione (la versione di Sofia) del Libro della Saggezza di Salomone confluisce, tra il 50 e il 30 a.C., in un testo di pregevole fattura che è l’ultimo Libro della Bibbia che viene scritto: l’ultima impresa del “ciclo ellenistico-alessandrino del movimento della sapienza poetica beritica”.
Che libro è, e che cosa rappresenta? S’intitola Libro della Sapienza e sulla scia di questo straordinario poema il viaggio continua: la Scuola non garantisce che si possa trovare la “sapienza”.
Luminosa è la sapienza e il suo splendore non viene meno;
si lascia trovare facilmente da chi le vuol bene e la cerca con ardente desiderio …
La Scuola s’impegna perché, la prossima settimana si possa incontrare il Libro della Sapienza e chissà che il desiderio di mettersi alla ricerca – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – non possa aumentare?
Voi accorrete: la Scuola è qui...