Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza poetica beritica 2007 21-22-23 novembre 2007
“LUMINOSA È LA SAPIENZA E IL SUO SPLENDORE NON VIENE MENO” ...
Nell’itinerario della scorsa settimana – che si è svolto ancora ad Alessandria – abbiamo affrontato, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, la singolare “questione delle quattro versioni del Libro della Saggezza di Salomone. Sappiamo che il testo di questo Libro ha avuto, tra il 140 e il 57 a.C., quattro riscritture, le quali rappresentano l’esempio più emblematico del processo di evoluzione (dall’intransigenza, alla mediazione fino all’integrazione) del pensiero dell’ebraismo nei suoi rapporti con il mondo della cultura greca durante il cosiddetto ciclo ellenistico-alessandrino del movimento della “sapienza poetica beritica”, quel grande itinerario culturale al quale dobbiamo i Libri della Bibbia.
Sappiamo che intorno al 140 a.C. è stata redatta, da uno scrittore che è stato chiamato “il polemista”, la prima versione del Libro della Saggezza di Salomone, detta “dell’invettiva”. Sappiamo poi che a questa prima versione, tra il 140 e il 130 a.C., segue la seconda detta “della parafrasi filologica” curata da uno scrittore chiamato appunto: “il parafraste”. Sappiamo ancora che tra il 130 e il 57 a.C., sempre ad Alessandria, vengono scritti altri due testi, che danno forma alla terza e alla quarta versione, del Libro della Saggezza di Salomone.
La terza versione del Libro della Saggezza di Salomone è stata definita “della parafrasi gnostica”. L’autore (detto “lo gnostico”) esalta con enfasi la saggezza ebraica e sappiamo che, per definire il concetto della “saggezza”, utilizza la parola greca “gnosi” nel senso di “conoscenza profonda delle cose divine”. La parola greca “gnosi” inizia così il suo cammino nella Storia del Pensiero Umano: troveremo in auge questa parola tra qualche secolo, nel II e III secolo d.C. (molti di voi ricorderanno che abbiamo studiato, a suo tempo, in un Percorso sulla Letteratura dei Vangeli, i testi dei cosiddetti Vangeli gnostici). L’autore (detto “lo gnostico”, il profondo conoscitore delle cose divine) della terza versione del Libro della Saggezza di Salomone è tanto preso dall’entusiasmo che non si accorge neppure che questa esaltazione della “cultura ebraica” avviene con un uso sempre più intenso di “parole” e di “idee” che sono patrimonio della cultura e della filosofia greca. Il concetto più evidente, mutuato dalla filosofia greca, che l’autore della terza versione del Libro della Saggezza di Salomone sviluppa nella sua opera è quello dell’esaltazione della “ragione” umana. Il dono divino della “gnosi”, della “saggezza”, arricchisce le potenzialità della ragione umana e l’autore della terza versione detta “della parafrasi gnostica” del Libro della Saggezza di Salomone esalta il fatto di come con l’uso della ragione si possa combattere ogni tormento, ogni male del corpo e dare un significato all’inquietudine dello spirito.
Non ci vuole molto a capire – abbiamo detto – che questo è uno dei concetti fondamentali della filosofia di Epicuro, della Lettera a Meneceo: ma siamo ad Alessandria e sappiamo di trovarci in un grande laboratorio culturale nel quale operano con entusiasmo anche gli intellettuali della comunità della diaspora ebraica i quali – mentre esaltano la tradizione ebraica e cercano di tenerla “separata” dalla cultura greca – danno un contributo notevole allo sviluppo dell’Ellenismo perché ne utilizzano ad arte gli strumenti (le parole-chiave della lingua greca e le idee-cardine della filosofia greca).
Abbiamo detto che l’autore della terza versione del Libro della Saggezza di Salomone (“lo gnostico”) potrebbe essere – ed è un’ipotesi accreditata da parte dalle studiose e dagli studiosi – un esponente della comunità ebraica che appartiene alla “tendenza mardocheista ellenistico alessandrina” (ci viene in mente l’autore dei Libri di Ester): una corrente di pensiero (che prende il nome dalla mitica figura di Mardocheo il quale, nei Libri di Ester, rappresenta l’aspirazione all’unità della comunità ebraica, la tendenza a “fare ekklesìa”) che, come sappiamo, sa realisticamente conciliare la tradizione d’Israele (la Legge di Mosé) con la cultura dell’Ellenismo (la filosofia greca). È chiaro che se – come scrive l’autore (lo “gnostico”) della terza versione del Libro della Saggezza di Salomone – il dono divino della “gnosi”, della “saggezza intesa come conoscenza profonda delle cose divine”, arricchisce le potenzialità della ragione umana è altrettanto chiaro che viene a determinarsi anche un’apertura di credito nei confronti della “sapienza” che dalla ragione umana trae alimento.
Difatti, circa settant’anni dopo, l’autore della quarta versione del Libro della Saggezza di Salomone fa tesoro di questa riflessione scrivendo che Dio dona la “gnosi”, dona la “saggezza”, a coloro i quali (solo a loro) coltivano la “sapienza” preferendola ad altre cose attraenti, allettanti, come il denaro, il potere, il successo.
Sappiamo che in greco la “sapienza” è la “sophia” e difatti la quarta versione del Libro della Saggezza di Salomone è detta la “versione di Sofia”. L’autore (che viene chiamato il “filosofo, l’amante di Sofia”), realizza un’operazione di personificazione: la “sapienza”, la Sofia, si presenta come una donna bellissima da amare con l’Eros platonico cioè con l’impulso razionale (dialettico) che spinge l’essere umano verso la conoscenza delle cose divine. Allora noi capiamo che, a questo punto (siamo intorno al 57 a.C.), la filosofia greca e la cultura dell’ebraismo vanno, quasi, a braccetto.
L’autore (detto il “filosofo”) della quarta versione del Libro della Saggezza di Salomone si dimostra un conoscitore del pensiero di Platone: ha letto senz’altro il dialogo intitolato Tò simpòsion, Il convito (composto nel 384 a.C. circa) e ha letto probabilmente anche il dialogo intitolato Liside o Sull’amicizia. Nel famoso dialogo Il convito (la cena si svolge a casa di Agatone, celebre poeta e drammaturgo, ma questa è materia del prossimo Percorso) viene presentato il concetto dell’Eros come attività dialettica (razionale) che spinge la persona verso la conoscenza (la contemplazione) dell’Idea del Bene, e l’autore (detto il “filosofo”) della quarta versione del Libro della Saggezza di Salomone ha interiorizzato questo concetto e lo usa per definire, nell’ambito dell’ebraismo, il corretto rapporto tra la “saggezza, la gnosi” e la “sapienza, la Sofia”.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Quale di queste parole: dottrina, scienza, competenza, istruzione … metteresti, per prima, accanto alla parola “sapienza” (accanto alla Sofia.
Scrivi una parola…
Nel tuo piccolo, oggi, in che cosa ti consideri “sapiente”?… (L’essere modesta, l’essere modesto non significa trasformate la modestia in un ostacolo nei confronti della pratica autobiografica)… La “sapienza” non ha bisogno di tante parole: bastano quattro righe, scrivi…
Abbiamo già detto la scorsa settimana che molto del materiale della quarta versione del Libro della Saggezza di Salomone (la versione di Sofia, la versione del “filosofo”) confluisce, tra il 50 e il 30 a.C., in un testo di pregevole fattura che è l’ultimo Libro della Bibbia che è stato scritto: l’ultima impresa del “ciclo ellenistico-alessandrino del movimento della sapienza poetica beritica”. Naturalmente questo Libro s’intitola il Libro della Sapienza, ed è considerato un capolavoro, uno dei testi fondamentali della Storia del Pensiero Umano. Il Libro della Sapienza fa parte del blocco dei “ketubim”, gli Scritti sapienziali e poetici, ed è uno dei più affascinanti scritti filosofici e poetici della Storia della Letteratura. In verità (anche se gli indici delle Bibbie il titolo non lo riportano più per intero) questo Libro si chiama Libro della Sapienza di Salomone e noi conosciamo la ragione per cui il suo titolo completo è questo. La prima considerazione da fare in relazione al titolo di questo Libro è che si tratta di un segno tangibile dell’itinerario evolutivo (dall’intransigenza, alla mediazione fino all’integrazione) del pensiero dell’ebraismo nei suoi rapporti con il mondo della cultura greca durante il cosiddetto ciclo ellenistico-alessandrino del movimento della “sapienza poetica beritica” e questo tragitto, a grandi linee, lo abbiamo percorso in queste settimane. Abbiamo percorso (per circa un secolo: quando si studia, il “tempo” ha un valore diacronico) un itinerario durante il quale abbiamo visto il Libro della Saggezza di Salomone trasformarsi, attraverso le sue quattro versioni, nel Libro della Sapienza di Salomone e siamo in grado – a questo punto – di fare una distinzione tra il concetto della “saggezza (la gnosi)” e quello della “sapienza (Sofia)”. Siamo in grado anche di fare una distinzione di carattere formale: rispetto al Libro della Saggezza di Salomone che è stato scritto dai suoi autori con il genere letterario dell’epistolario, delle “lettere” che si sovrappongono, l’autore del Libro della Sapienza accantona il modello “della raccolta di lettere” per promuovere la forma del “poema sapienziale”.
Dobbiamo sapere – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – che il genere letterario del “poema sapienziale” ha le sue radici nelle cosiddette “raccolte di lettere”, un genere che non verrà meno perché continuerà a servire per commentare il testo dei “poemi sapienziali”. Quindi il “genere letterario della lettera” è stato utile prima per fornire materiale letterario al “poema sapienziale” e sarà utile dopo per commentare i testi dei “poemi sapienziali” stessi.
A proposito di “lettere”, prima di entrare in contatto con il Libro della Sapienza: dobbiamo finire di leggere una “lettera”. Sapete già di che “lettera” si tratta: è una “lettera”, scritta sotto forma di romanzo breve da Irène Némirovsky (una scrittrice che ormai tutti conosciamo). Questo racconto s’intitola La moglie di don Giovanni e ha la forma di una “lettera” (e di questo testo La Scuola consiglia la lettura: lo si trova facilmente in biblioteca) scritta alla signorina Monique dalla governante, Clémence, che l’ha cresciuta. Clémence è gravemente ammalata e – alludendo ad altre “lettere” in suo possesso che le “danno l’angoscia” – vuole comunicare alla signorina un’inquietante verità che riguarda la “Tragedia” di cui sono protagonisti i suoi Genitori: la Signora, la madre della signorina Monique (la moglie di don Giovanni) e il Signore, il padre della signorina Monique (a cui tutti attribuiscono doti da don Giovanni). La “lettera” di Clémence è anche un “testamento” che svela un “patto” e ne stipula un altro: non sono queste la prime parole-chiave del catalogo del movimento della “sapienza poetica beritica” che si va formando strada facendo? La Letteratura – come del resto la vita quotidiana di tutte le persone – non può fare a meno di queste parole. Questo breve romanzo potrebbe essere definito un “poemetto sapienziale”.
LEGERE MULTUM….
Irène Némirovsky, La moglie di don Giovanni (1938)
8 agosto
Oggi spero di finire questa lettera, Signorina, anche se le cose che mi restano da dire sono davvero le più difficili. Già un anno prima della Tragedia avevo cominciato ad accorgermi che la Signora stava cambiando. Si vestiva in maniera diversa, aveva il passo più sciolto e, nel viso e nelle parole, c’era come una nuova speranza. E proprio vero il proverbio: quel che donna vuole, il cielo lo vuole. E lei certamente voleva, come mai prima, essere bella, al punto che quasi lo era diventata. Fino a quel momento si era sempre vestita dignitosamente, severamente, con il terrore, si sarebbe detto, di dare nell’occhio. Ed ecco che, all’improvviso, spuntano bei vestiti e biancheria fine, e un giorno me la vedo con una nuova pettinatura. Pensavo che volesse riconquistare il marito e la aiutavo come meglio potevo. Una brava camerista, Signorina, può far molto per la bellezza di una Signora e già prima mi ero permessa qualche volta di darle dei consigli. Da ragazza ero stata a servizio presso una Mantenuta, quindi conoscevo molti segreti di bellezza e sapevo come si mettono in risalto la carnagione e la figura. La Signora aveva una pelle splendida. Ma quando le dicevo: «La Signora dovrebbe darmi retta, è ancora giovane, dovrebbe fare così o cosà», lei scuoteva tristemente il capo: «È tutto inutile, mia povera Clémence!». È stata una donna molto infelice. Per carattere non sapeva accettare le cose come sono, e per orgoglio non cercava di cambiarle. La stessa cosa capitava con i figli: pensava di consolarsi con i suoi bambini di non essere amata dagli Uomini, e sentendo che non era una consolazione sufficiente se la prendeva con quei piccoli innocenti. Non li trovava mai belli abbastanza, mai abbastanza bravi e in buona salute per compensarla di tutto quello che le mancava. Un giorno, Signorina Monique, c’era stata una scenata fra la Signora e il Signore. Poi lui era uscito e lei era rimasta sola nel salottino. Ma ecco che arriva il segretario del Signore, il signor Jean Pécaud. Entra nella stanza. Quel che è successo lì dentro quel giorno, come la Signorina può ben immaginare, nessuno me l’ha raccontato, e io non ho visto niente, ma è comunque un po’ strano che, entrato nel salottino alle tre, il signor Pécaud ne sia uscito alle cinque. Quando se n’è andato, la Signora ha suonato e mi ha dato ordine di mettere a posto la stanza. Sotto i cuscini della bergère ho trovato il fazzoletto della Signora bagnato di lacrime. Stava di sicuro piangendo quando è entrato il signor Pécaud. Quel che lui ha detto o fatto per consolarla non lo saprà mai nessuno, perché lei l’ha portata via la Morte e lui non credo che se ne vanterà, adesso che, a quanto mi hanno detto, è sposato e ricco. Con tutto questo non vorrei che la Signorina pensasse che la sua Mamma era da biasimare. Se si è lasciata incantare dal signor Pécaud è perché si sentiva tanto sola. Ma ha riposto male il suo affetto. Se la Signorina ha visto quel Signore da bambina, si ricorderà certo che era piccolo, smilzo, e che somigliava un po’ a una volpe, con quei capelli rossicci, le orecchie a punta e la faccia magra, rossa e vispa appunto come il muso di una volpe. Il capitale della Moglie fruttava al Signore considerevoli interessi e il signor Pécaud si occupava di tutto. Se ne occupava fin troppo, come la Signorina vedrà. Ormai, non appena il Signore voltava le spalle, ci ritrovavamo in casa il signor Pécaud. Ma non è durato a lungo. Era la Signora, poi, che era sempre fuori e tornava felice e contenta. Nessuno ha sospettato niente, perché sembrava davvero incredibile che una Signora come lei, sposata con un uomo così affascinante, un vero dongiovanni, gli preferisse un ragazzo insignificante e per niente bello. Le donne si sarebbero fatte tagliare a pezzi pur di passare un’ora con un amante come il Signore e avrebbero accettato qualsiasi villania, dicendogli anche grazie, in cambio di un’ora d’amore, mentre sua moglie … Si ha un bel dire, Signorina, le donne sono davvero strane. Va anche detto che la Signora non era affatto trascurata dal Signore, come hanno sostenuto al processo. Il Signore non ha mai dimenticato i doveri di un uomo verso colei che è sua moglie davanti a Dio. Quel che intendo dire, Signorina, è che il Signore aveva i suoi lati buoni. Ma era troppo bello, troppo interessante in confronto alla Signora. Tutti avevano occhi solo per lui, e di conseguenza niente di quello che faceva poteva restare nascosto. In casa era come un sole e gli altri era come se non esistessero. Ogni suo movimento veniva spifferato in giro, mentre quello che si tramava nell’ombra passava inosservato. Dei testimoni hanno dichiarato che la mattina del 2 novembre lui era nel parco con la Signora Baronessa. Credevano di essere soli, ma non è mancata gente pronta a riferire o inventare quello che si erano sussurrati all’orecchio, le loro parole d’amore e i loro sguardi, mentre di quello che faceva la Signora quella mattina non si è accorto nessuno perché non interessava a nessuno. La mattina del 2 novembre la Signora si è alzata più presto del solito. È andata alla finestra ed è stata lì un bel po’ a guardare fuori, di sicuro per vedere uscire il Signore. Poi si è vestita e mi ha detto: «Io esco, Clémence. Tornerò alle undici. Ho mal di testa». Tutti l’hanno vista andar via e nessuno ha trovato strano che, con quel tempo orribile che le ho detto, la Signora fosse andata tranquillamente a passeggio, mentre tutti avevano sorriso vedendo il Signore camminare avanti e indietro sulla terrazza malgrado la pioggia e affrettarsi di colpo alla vista del cappotto blu della sua Amica che guizzava tra gli alberi. Era sempre così. Il Signore diceva che non avrebbe pranzato a casa, e veniva spontaneo pensare: «Va a spassarsela». La Signora usciva alle due e non rientrava prima delle otto, e sembrava normale che fosse stata tanto tempo dal dentista. In fondo per lei era una fortuna. Dunque la Signora esce. Ma non va troppo lontano. L’avevo seguita più di una volta. Attraversa il parco, entra nel piccolo padiglione vicino alla serra dove i bambini mettevano i loro giocattoli. Se ne ricorda, la Signorina Monique? Non ci andava mai nessuno tranne i bambini, e naturalmente si sapeva che erano ammalati tutti e tre. La vedo entrare là dentro e dieci minuti dopo arriva il signor Pécaud. Sono sgusciata nella serra, da dove si sentiva tutto. Sto dicendo la verità, Signorina, come davanti a Dio. Il signor Pécaud ripeteva sconvolto: «Salvatemi, Nicole, salvatemi!». Non riporterò parola per parola quello che dicevano, perché sono passati dodici anni da quando ho sentito quella povera infelice, vittima della sua passione o del suo orgoglio, e quel malfattore. Mi ricordo il senso del discorso ma non le parole precise. Comunque ho capito perfettamente di cosa si trattava. Il signor Pécaud aveva commesso delle irregolarità nei conti del Signore per procurarsi del denaro: giocava in Borsa. La Signora aveva più volte coperto gli ammanchi. L’ultimo, però, era troppo grosso e lui non aveva osato confessarlo. Il Signore, che se n’era accorto, aveva deciso di licenziarlo e denunciarlo. «Che cosa volete che faccia?» ha detto lei alla fine. E lui: «Avete mille prove della sua infedeltà. Offritegli il vostro silenzio in cambio del suo. Dovrà accettare». «E accetterà!» dice lei dopo un attimo di silenzio, e con un tono … Ah! se la giuria, gli avvocati, il presidente e il pubblico avessero potuto sentire quel tono quando parlavano dell’amore che la Signora nutriva per il Signore! Lei lo odiava, Signorina Monique! L’avevo già pensato, ma a quel punto ne ho avuto la certezza. Adesso la Signorina può capire come devono essere andate le cose nell’automobile. Hanno voluto tutti e due giocare d’astuzia, la Signora promettendogli il silenzio se non avesse rovinato il signor Pécaud, e il Signore intuendo che la teneva in pugno e che poteva imporle il divorzio alle sue condizioni. Perciò ha rifiutato, ed essendo per di più un tipo sempre pronto a burlarsi di tutti, al pensiero che la moglie, più vecchia di lui, brutta e disprezzata, avesse una storia del genere non è riuscito a trattenere una risata. Ma non avrebbe riso a lungo. Quella risata deve averla fatta uscire di senno, povera donna! Non posso che compatirla. Credo che a una donna si può fare di tutto: tradirla, picchiarla e abbandonarla, ma se un uomo può perdonare chi lo deride, una donna – mai! Naturalmente si può deridere una donna per la sua ignoranza o per il suo modo di vestirsi e per come vive, si può deriderla fin che si vuole per quello che fa, ma mai per il suo corpo, la sua faccia o il suo modo di baciare o di amare. Signorina, ho sempre pensato che lei sentisse una specie di derisione nel modo di trattarla del Signore. Forse anche prima del matrimonio. Forse quando erano ancora bambini tutti e due: lui così bello, viziato da tutti, aggraziato, brillante, e lei così insignificante e goffa. E quando si sono sposati! … Sono sicura che il Signore non ha mai riso di lei come può farlo un operaio o un contadino. Era un signore e aveva avuto una buona educazione, ma una donna sente anche quello che non le si dice, e ne soffre. Quando restavano soli la sera, cosa che succedeva di rado, il Signore la guardava con un’aria annoiata e un certo sorrisetto. E lei … Molte volte, Signorina, ho pensato che se i suoi occhi fossero stati pistole, il povero Signore sarebbe morto. Credo che un matrimonio fra cugini primi, come il loro, sia una cosa molto sbagliata. Non erano l’uno per l’altra un uomo e una donna, ma pensavano l’uno all’altra come quando erano bambini, la Signora con gelosia e il Signore con disprezzo. Come alla fine si fossero sposati, e perché, e cosa li aveva spinti a un passo così importante, che a volte fa una buona riuscita, come auguro alla Signorina Monique, ma per lo più è una disgrazia, non lo sapremo mai, né voi né io. Probabilmente per il Signore sono stati i soldi, e per la Signora la vanità davanti alle amiche, di essersi presa alla fine il bel cugino e di tenerselo per sé. Povera donna, se è stata colpevole, ha anche tanto sofferto. Signorina, quando è successa la disgrazia, ho capito subito che se non si veniva a sapere niente della Signora l’avrebbero assolta, ma una storia come quella che c’era stata davvero, se la scoprivano lei rischiava grosso. Tutte quelle signore che la compativano e dicevano che era una Martire l’avrebbero fatta a pezzi come tante cagne, perché è così che le donne sono spesso l’una per l’altra. Nell’armadio della Signora, sotto una pila di biancheria intima in crêpe de Chine rosa, c’era un pacchetto di lettere del signor Pécaud. Le prendo e le nascondo prima ancora di scendere a vedere il cadavere del Signore. …
Adesso – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – dobbiamo occuparci del Libro della Sapienza, che – redatto tra il 50 e il 30 a.C. ad Alessandria – è formato da 19 capitoli divisi in tre parti: la prima parte (i primi cinque capitoli) s’intitola “Il destino dei giusti e dei malvagi”, la seconda parte (dal sesto fino all’inizio dell’undicesimo capitolo) s’intitola “Elogio della Sapienza” e la terza parte (dall’inizio dell’undicesimo capitolo al diciannovesimo) s’intitola “Meditazioni sull’Esodo”. La prima cosa che dobbiamo fare – tutti abbiamo una Bibbia a disposizione – è quella di prendere atto della “forma” del Libro della Sapienza: basta sfogliare le pagine (sono 13 o 14) che ne contengono il testo.
I 19 capitoli del Libro della Sapienza contengono una serie di significative “riflessioni esistenziali” che attestano l’avvenuta integrazione della cultura dell’ebraismo con la cultura greca. Questo fatto, dal punto di vista intellettuale, è molto importante perché ha contribuito allo sviluppo e alla diffusione della Letteratura dell’Antico Testamento e alla divulgazione delle parole-chiave e delle idee-cardine del movimento della “sapienza poetica beritica” che – insieme alle parole-chiave e alle idee-cardine del movimento della “sapienza poetica orfica” – costituiscono il patrimonio della nostra identità culturale. Il momento principale e propulsivo del connubio tra parole e idee della sapienza poetica “orfica” e della sapienza poetica “beritica” è avvenuto proprio nel momento che – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – stiamo studiando.
L’autore del Libro della Sapienza è un intellettuale appartenente alla fiorente colonia ebraica di Alessandria che è perfettamente inserito nella cultura dell’Ellenismo, conosce la filosofia greca e conosce i contenuti e le forme (culturali, intellettuali e allegoriche) della “sapienza poetica orfica” di cui (attraverso i Dialoghi di Platone) utilizza alcuni concetti fondamentali come quello della “separazione dell’anima dal corpo” e quello “dell’immortalità dell’anima” che sono concezioni sconosciute nella cultura dell’Antico Testamento. Inoltre l’autore del Libro della Sapienza valorizza alcuni elementi della civiltà greca come ad esempio il concetto di “misura” con cui vuole dimostrare che Dio giudica e punisce “con grande moderazione”.
L’autore del Libro della Sapienza s’impegna perché il “Dio della Sapienza” perda i connotati del Dio (tribale) terribile, geloso e vendicativo, del Pentateuco e dei Libri dei Maccabei: un modello di divinità che probabilmente mette tutta la tradizione ebraica nella condizione di essere fortemente criticata.
Nella terza parte del Libro della Sapienza l’autore propone una singolare rilettura del Libro dell’Esodo (dei Libri del Pentateuco) tenendo conto della mentalità greca e presentando un tipo di divinità che agisce “con misura e grande moderazione” e anche con un po’ di ironia (si sente l’influsso dello stile di Platone e di Aristotele). Leggiamo un frammento dal capitolo 11 dove l’autore commenta il Libro dell’Esodo quando il Dio d’Israele interviene per liberare gli Ebrei dall’Egitto:
LEGERE MULTUM….
Libro della Sapienza 11, 15 -20
Nella loro mentalità sbagliata e corrotta (gli Egiziani) divennero insensati al punto da venerare rettili senza ragione e bestie disgustose, e tu giustamente hai mandato loro un’invasione di animali stupidi (rane, zanzare, tafani, cavallette) perché imparassero che colpa e castigo vanno insieme a braccetto.
Siccome Dio è onnipotente e ha messo in ordine una materia senza forma creando un mondo pieno di armonia (citazione dal Timeo di Platone) non aveva difficoltà a scegliere altri modi per punirli. Poteva mandar loro un branco di orsi o leoni affamati o creare mostri inferociti e mai visti fino allora, draghi che sputano fuoco, che appestano tutto con il loro fiato puzzolente e dagli occhi fanno uscire lampi terribili. E non c’era nemmeno bisogno della loro ferocia: per distruggere d’un colpo gli Egiziani bastava la loro vista terrificante. E neppure c’era bisogno di queste fiere; un solo (soffio) cenno di Dio bastava a farli cadere colpiti dalla sua giustizia e dispersi dal suo soffio potente. Ma tu, o Dio, agisci con misura e grande moderazione. …
La fiorente colonia ebraica di Alessandria – a cui appartiene l’autore del Libro della Sapienza – è la grande fucina nella quale, nel corso di circa tre secoli, prendono forma le opere del ciclo ellenistico-alessandrino, l’ultimo atto del movimento della “sapienza poetica beritica”. Le opere del ciclo ellenistico-alessandrino del movimento della “sapienza poetica beritica” (noi ne conosciamo un certo numero: la Lettera di Aristea, i due Libri dei Maccabei, i due Libri di Ester, il Libro dei Proverbi, le quattro versioni del Libro della Saggezza di Salomone) prendono forma attraverso un epocale scontro tra gli intellettuali di due correnti di pensiero che, inizialmente, da posizioni di intransigenza (“filotraduzionisti” da una parte e “controtraduzionisti” dall’altra), attraverso successive esperienze di mediazione (la “tendenza mardocheista ellenistico alessandrina”) giungono a produrre delle sintesi di grande efficacia sul piano della riflessione esistenziale (per quanto riguarda il contenuto) e della composizione poetica (per quanto riguarda la forma).
La più significativa di queste sintesi è rappresentata dal Libro della Sapienza. Nel testo del Libro della Sapienza le esplicite allusioni alla letteratura e alla cultura greca – abbiamo detto – sono numerose e se volessimo individuare tutti i punti di contatto (gli snodi filologici) che in questo Libro si possono trovare tra la “sapienza poetica beritica” e la “sapienza poetica orfica” (che abbiamo studiato lo scorso anno in compagnia di Erodoto) sarebbe necessario intraprendere un Percorso con molti itinerari solo su questo Libro.
I contatti che ricorrono più numerosi tra il Libro della Sapienza e la cultura greca riguardano soprattutto i “Poemi” di Omero (Iliade e Odissea), i “Dialoghi” di Platone, e soprattutto le “Opere” di protesta sociale di Esiodo (lo scorso anno siamo andati a trovarlo, questo poeta, in Beozia, insieme a Erodoto e al capitano Agenore di Tiro: ricordate? Ora, in proposito, siamo obbligati a rinfrescare la nostra memoria: lo abbiamo detto, durante il viaggio dello scorso anno, che avremmo di nuovo incontrato Esiodo in funzione della “sapienza poetica beritica”).
Lo scrittore ebreo alessandrino del Libro della Sapienza conosce bene le parole-chiave e le idee-cardine che caratterizzano le “Opere” di Esiodo. L’autore del Libro della Sapienza è capace di distinguere nel campo della cultura greca e di discernere nell’ambito della “sapienza poetica orfica” in modo da costruire un proprio pensiero che – sebbene ormai inserito completamente nella cultura ellenica – dia vigore alla tradizione e ai valori dell’Ebraismo. Si capisce bene infatti – ci dicono le studiose e gli studiosi di filologia – che l’autore del Libro della Sapienza, nella sua opera di distinzione e di discernimento, predilige il pensiero di Esiodo rispetto a quello di Omero.
L’autore del Libro della Sapienza (come aveva fatto anche Erodoto qualche secolo prima) riconosce ad Esiodo la fatica (è una parola-chiave del repertorio di Esiodo) che ha sostenuto per interrogarsi sulle “origini” del Cosmo (un tema forte del movimento della “sapienza poetica beritica”), mentre non ci sono tracce di questa riflessione nelle Opere di Omero: nei testi dell’Iliade e dell’Odissea non si fa nessun accenno al tema delle “origini”.
L’autore del Libro della Sapienza ha certamente riconosciuto nelle Opere di Esiodo – in particolare quando il poeta si dedica alla riflessione sul tema delle “origini” – un lento ma graduale processo di distacco dai miti che creano gl’idoli. I miti – e questa riflessione comincia a maturare nel mondo degli intellettuali ebraici alessandrini ai tempi dell’autore del Libro della Sapienza – sono utili, dal punto di vista culturale, quando chi li legge ha la consapevolezza che affondano le loro radici nella leggenda e diventano nocivi quando fanno da supporto alla creazione degl’idoli che diventano (continuano a diventare: dal periodo ionico di Esiodo a quello alessandrino dell’autore del Libro della Sapienza) poderosi strumenti ideologici a servizio dei governanti per la gestione del potere (questo tema, il tema degli “idola”, per dirlo in latino, è oggi un argomento di grande attualità).
Esiodo, nell’opera intitolata Teogonia – che l’autore del Libro della Sapienza conosce certamente molto bene – scrive un verso (che abbiamo già letto e sul quale abbiamo già riflettuto più volte) su cui hanno sempre puntato la loro attenzione tutte le studiose e gli studiosi di teologia, leggiamolo: «Solo alla fine, dopo che il Cosmo aveva più volte tremato per conto suo, Zeus spartì fra gli dèi gli onori». In questo verso molto significativo Esiodo proclama – in modo evidente sebbene misterioso – che il Cosmo (il Mondo) esiste ben prima degli dèi e che il Cosmo (il Mondo) trema (ha una sua vitalità) per conto proprio: Zeus e gli dèi vengono dopo la comparsa e la nascita del Cosmo (del Mondo) e sono il prodotto di un grande racconto mitico, leggendario (una straordinaria “rete di racconti”, la “mytosarchis”), che risulta essere il tentativo di dare una risposta al problema, misterioso e impenetrabile, delle “origini” del Mondo, della comparsa degli esseri umani.
L’autore del Libro della Sapienza che, nella terza parte della sua opera, intenta un processo contro l’idolatria, trova nel pensiero greco (orfico) di Esiodo la base per condurre la sua riflessione teologica in forma poetica. L’autore del Libro della Sapienza introduce nella cultura ellenistico-alessandrina, utilizzando come strumento l’opera di Esiodo, la teologia della Genesi: nel Libro della Genesi – che è parte integrante della cultura di rifermato dell’autore del Libro della Sapienza e che studieremo a suo tempo – il Dio unico aleggia su uno scenario cosmico già precostituito (“il Cosmo ha già tremato per conto suo”, è lì da sempre ed è difficile spiegare perché c’è) e l’atto della creazione, da parte di Dio, consiste nel mettere in ordine, nel sistemare al loro posto, il Cielo e la Terra che hanno già trovato la loro ragione di essere (che “hanno già tremato”, proprio come dice Esiodo) per conto proprio.
Per l’autore del Libro della Sapienza – che implicitamente commenta il Libro della Genesi utilizzando il verso di Esiodo che abbiamo letto – l’atto della creazione (della “messa in ordine”) è soprattutto un “gesto sapiente” che determina la sconfitta degli dèi (studieremo che nel Libro della Genesi c’è una bella lotta tra Dio e gli dèi).
Per l’autore del Libro della Sapienza (così come per Esiodo) è praticamente impossibile dare delle risposte sul come, il quando e il perché “il Cosmo abbia tremato per conto suo” mentre è più facile affermare (attraverso una riflessione sapienziale e poetica) che la creazione è soprattutto un “gesto sapiente” che determina la sconfitta degli dèi.
Per l’autore del Libro della Sapienza è logico affermare (attraverso una riflessione sapienziale e poetica che mette al centro la figura del Dio unico) che la creazione è soprattutto un “gesto sapiente” che determina la sconfitta degli dèi ma che tuttavia non ne provoca la cancellazione: l’autore del Libro della Sapienza, infatti, si domanda incessantemente perché se gli Idoli sono stati sconfitti continuino a riprodursi come forze attive e condizionanti. L’autore del Libro della Sapienza ha perfettamente interiorizzato il sistema dialettico greco (orfico) delle aporie, delle contraddizioni, dei contrasti, per cui una cosa, una parola, un’idea esiste perché è il suo contrario che la fa esistere. L’autore del Libro della Sapienza ha assimilato il sistema dialettico degli opposti e lo utilizza per costruire il suo pensiero: se la presenza salvifica della “sapienza” si identifica con l’esistenza del Dio d’Israele ordinatore del Cielo e della Terra questo significa che la presenza de “l’ignoranza” – l’opposto della “sapienza” – permette di negare i falsi Idoli, di rigettare i prodotti del culto della natura.
La filosofia greca permette all’autore del Libro della Sapienza di proclamare una verità di cui l’ebraismo alessandrino si fa portatore: gli Idoli non esistono ma vengono fatti apparire dai forti, dai malvagi, dai ricchi, dai potenti per schiacciare i deboli, gli onesti, i poveri, i giusti.
L’autore del Libro della Sapienza dà una risposta “politica” e si rivolge ad una comunità che vuole il suo spazio politico e desidera lanciare un messaggio di ordine sociale nel mondo in cui vive. Il Libro della Sapienza è quindi un documento di grande attualità per riflettere sulla crisi della “politica”.
L’autore del Libro della Sapienza si domanda di chi sia la colpa se la politica è in crisi e risponde affermando che la colpa è delle persone che rifiutano il dono della “sapienza” – che è dono di Dio e fa amare la “giustizia” – e preferiscono vivere ne “l’ignoranza”: sotto il potere degli Idoli che rappresentano “interessi di casta”.
Leggiamo che cosa scrive al capitolo 13 l’autore del Libro della Sapienza: è un invito, molto tollerante a riflettere sulla presenza salvifica della “sapienza” che s’identifica con l’esistenza del Dio unico d’Israele creatore della bellezza. C’è un ammonimento (di stampo platonico) a non idolatrare la bellezza in quanto tale ma a ragionare sul fatto che la bellezza deriva da una sorgente, da una fonte (da un’Idea) che la genera: a questa fonte, a questa sorgente bisogna risalire.
LEGERE MULTUM….
Libro della Sapienza 13, 1-9
Tutti quelli che non conoscono Dio, nella loro debolezza s’illudono.
Vedono le cose buone ma non sanno risalire alla loro fonte;
prendono in considerazione le opere ma non sanno riconoscere l’artista
che le ha fatte. Essi ritengono divinità messe a capo del mondo il soffio vitale,
l’aria leggera, le costellazioni e l’acqua impetuosa, il sole e la luna.
Ma, se affascinati dalla loro bellezza arrivano a considerarli dèi,
sappiano che il Signore di queste cose è ancora più grande:
colui che le ha messe in ordine è la sorgente stessa della bellezza.
Se sono presi da stupore per la loro potenza ed energia
imparino da loro quanto è più forte chi le ha fatte.
Perché a partire dalle creature grandi e belle, ci si può fare un’idea del loro autore
al quale assomigliano. Ma queste persone non si devono rimproverare troppo.
Infatti forse si sbagliano proprio mentre cercano Dio e vogliono trovarlo.
Tutti dediti alle sue opere, le indagano, e cedono alla loro bellezza,
perché sono belle le cose visibili. Però non si possono interamente scusare.
Se infatti sono riusciti a esplorare tutti i segreti del mondo,
come mai non sono stati i primi a scoprire il Signore del mondo? …
Come possiamo constatare (basta leggere un frammento) l’autore del Libro della Sapienza utilizza in grande quantità parole-chiave e idee-cardine della cultura greca con l’obiettivo di affermare i valori dell’Antico Testamento (è membro della comunità ebraica alessandrina) ma anche per riflettere sulla crisi della “politica” (è cittadino della polis di Alessandria).
Abbiamo detto che lo scrittore alessandrino del Libro della Sapienza conosce bene le parole-chiave e le idee-cardine che caratterizzano le “Opere” di Esiodo. Esiodo è, insieme ad Omero, il maggior poeta epico del periodo ionico. La figura di Esiodo non è, come quella di Omero, avvolta nella leggenda (e questo probabilmente è un ulteriore motivo per cui l’autore del Libro della Sapienza preferisce Esiodo): dalle sue opere – nelle quali troviamo importanti particolari biografici – capiamo che Esiodo è vissuto realmente.
Esiodo – lo abbiamo incontrato lo scorso anno quindi molti di voi sono al corrente, altri no) è nato nel VII secolo a.C. ad Ascra, un piccolo villaggio della Beozia posto ai piedi del monte Elicona, uno dei monti sacri alle Muse. Il padre di Esiodo ha vissuto per lungo tempo in Asia Minore (nella città di Cuma) per dedicarsi al commercio marittimo, ma gli affari non gli sono andati molto bene e quindi è tornato in Beozia a dedicarsi all’agricoltura e alla pastorizia (a fare il contadino e il pastore).
La leggenda dice che Esiodo da bambino “pascolò il gregge sul monte sacro alle Muse” e – come racconta nella Teogonia – “le Muse gli apparvero e gli insegnarono il bel canto”: questa è una metafora per dire che ha, molto probabilmente, frequentato una Scuola di “sapienza poetica orfica” simile alla Scuola di Samo di cui lo scorso anno abbiamo conosciuto il programma (o alla Scuola di Saffo, il Museo di Lesbo).
Esiodo ha avuto un fratello, Perse, il quale era uno scioperato, uno scialacquatore, un furbo, infatti Perse, alla morte del padre, cerca di far propria tutta l’eredità a scapito di Esiodo corrompendo anche i giudici. Esiodo, a questo proposito, scrive una serie di esortazioni morali rivolte al fratello che costituiscono il contenuto dell’opera intitolata Le Opere e i Giorni, poemetto (sapienziale e poetico) formato da 828 esametri e scritto in lingua ionica antica (la stessa lingua di Omero). Quest’opera – nel testo della quale troviamo alcune parole-chiave fondamentali del catalogo del movimento della “sapienza poetica orfica” – si può dividere in quattro parti: esortazioni al lavoro; precetti sull’agricoltura e sulla navigazione (che è considerata dagli esperti la parte più importante e più poetica); precetti morali; calendario dei giorni fasti e nefasti.
In questo poemetto c’è un filo conduttore, un motivo fondamentale (che certamente l’autore del Libro della Sapienza condivide): sulla terra, nel mondo, c’è il dolore (lúpe) e tutti gli esseri umani devono fare i conti con questa realtà. Secondo Esiodo gli esseri umani sono chiamati a misurarsi prima di tutto con il dolore (lúpe) piuttosto che con l’onore (timή-timé): gli esseri umani non sono eroi. Esiodo spiega questo concetto raccontando il mito delle età del mondo, dall’età dell’oro a quella del ferro in cui lo scrittore registra un’involuzione nella storia dell’Umanità dovuta ad un incidente di percorso: gli esseri umani sono decaduti dall’età dell’oro (un’età paradisiaca) all’età del ferro (un’età infernale) a causa di un avvenimento (non ben identificato ma che interessa molto all’autore del Libro della Sapienza): è il concetto del “peccato originale” che troviamo in quasi tutti i Racconti sulle origini, in particolare nel Libro della Genesi (avremo a che fare con questo argomento). Gli esseri umani – scrive Esiodo – possono vincere (o per lo meno attenuare) il dolore (lúpe) coltivando due elementi fondamentali: il lavoro (érgon) e la giustizia (díke).
Nel testo del poemetto Le Opere e i Giorni troviamo la “favola del nibbio e dell’usignolo” che è considerato il primo esempio di favola nella letteratura greca. In questa favola l’uccello rapace aggredisce e uccide l’usignolo perché è più forte e usa i suoi artigli per fare il proprio interesse senza tener conto del valore, della bella voce dell’usignolo che delizia disinteressatamente il mondo intero. Con questa favola lo scrittore vuole condannare la violenza e l’ingiustizia e vuole affermare che solo la virtù – ed è virtuoso chi si guadagna da vivere onestamente con il proprio lavoro (érgon) – può rendere felici.
L’autore del Libro della Sapienza, come esperto scrittore in lingua greca, utilizza i contenuti dell’opera di Esiodo riproponendoli, con una forte accentuazione esistenziale, nell’ottica del movimento della “sapienza poetica beritica”, e traduce le antiche forme ioniche di Esiodo in lingua ellenistico-alessandrina facendo uso di un vocabolario molto ricercato.
Le parole-chiave di Esiodo: il dolore (lúpe), il lavoro (érgon) e la giustizia sociale (díke) assumono, con la riflessione filosofica di stampo greco dell’autore del Libro della Sapienza, una valenza politica più ampia-
Una caratteristica significativa del Libro della Sapienza è data – abbiamo detto – dal grande interesse per il problema del “potere politico”. L’autore del Libro della Sapienza lancia un accorato messaggio a tutti i governanti perché si comportino con saggezza, giustizia e moderazione, e poi allude alle vittime del potere politico, allude alla negatività dei privilegi di casta e del culto della personalità coltivato verso i sovrani.
Il Libro della Sapienza inizia con una delle parole-chiave di Esiodo che non ha mai cessato di essere al centro dell’attenzione di tutte le persone che riflettono sul significato dell’esistenza umana: la parola “giustizia” (díke).
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Quante volte questa settimana hai pronunciato la frase: “Non c’è giustizia”?…
Leggiamo l’incipit del Libro della Sapienza:
LEGERE MULTUM….
Libro della Sapienza 1, 1-5
Amate la giustizia, voi che governate il mondo, dedicatevi al Signore
con grande amore e cercatelo con cuore sincero. Perché se non lo irritate
egli si lascia trovare; se avete fiducia in lui, egli vi viene incontro.
Se ragioni in modo ambiguo, ti allontani da Dio, e se vuoi mettere alla prova
la sua potenza, egli manda all’aria i tuoi progetti insensati.
La sapienza non può entrare in un cuore malizioso, non può abitare nella persona schiava del peccato.
La sapienza, spirito di Dio, educa la persona: fugge l’inganno,
sta lontana da chi fa progetti pazzi, si sente a disagio con chi agisce ingiustamente. …
Altro elemento significativo che caratterizza il testo del Libro della Sapienza riguarda un celebre personaggio mitologico della “sapienza poetica orfica”. L’autore del Libro della Sapienza utilizza le caratteristiche di questa famosa figura mitica facendo sempre riferimento alle opere di Esiodo, in particolare, alla Teogonia. Di quale personaggio si tratta?
Nel testo del Libro della Sapienza emerge, come in filigrana, la figura mitica di Prometeo. Uno degli argomenti più studiati – dalle esperte e dagli esperti di esegesi – nel testo del Libro della Sapienza prende il nome di “questione prometeica”.
Per poter fare una riflessione su questo argomento di studio (la “questione prometeica nel Libro della Sapienza”) è necessario fare la conoscenza con la seconda opera importante di Esiodo che s’intitola Teogonia ed è un poemetto in 1022 esametri. Teogonia è un trattato mitologico: il più importante trattato di mitologia antica che ci sia rimasto (è evidente che tutti gli intellettuali alessandrini lo conoscono e lo studiano), e quest’opera è soprattutto un “dizionario di nomi” sul quale gli studiosi, nel corso dei secoli, hanno potuto estendere le loro ricerche sulla cultura orfica. Particolarmente significativo nella Teogonia è il racconto della “Titanomachìa”, cioè della lotta di Zeus contro i Titani, e il fatto importante è che uno dei Titani si chiama Prometeo e questo personaggio tutti lo abbiamo sentito nominare.
Esiodo è lo scrittore che mette in scena la figura di Prometeo, probabilmente il personaggio tra i più universali del mytos greco, della tragedia: un modello che continuerà, e che continua a riprodursi nella Storia della Letteratura. Il mito che racconta la lotta tra Zeus e Prometeo rappresenta lo scontro tra “l’ignoranza” e “la sapienza”, tra l’idolatria alienante e la capacità di acquisire la consapevolezza. Il tema del mito che racconta la lotta tra Zeus e Prometeo (tra “ignoranza idolatrica” e “sapienza divina”) trova ampio riscontro nel testo del Libro della Sapienza.
Chi è Prometeo nella descrizione che ne fa Esiodo, che poi è la stessa sulla quale riflette l’autore del Libro della Sapienza? Prima di tutto Prometeo è il personaggio (il repertorio culturale) che riesce a rappresentare meglio la figura di Orfeo. Sappiamo già – ne abbiamo parlato a lungo lo scorso anno – che sotto traccia, alla base della sapienza poetica greca, c’è la figura di Orfeo. Prometeo non è un dìo e neppure un uomo, è un Titano e la definizione moderna di questo termine l’abbiamo trovata nel Percorso sul Romanticismo titanico (2004): il termine “titanico” è sinonimo di enorme, di colossale, di grandioso, di immenso. Sappiamo che la parola “titano” diventa una parola-chiave della cultura “romantica” dell’800. Se volessimo definire il “titano Prometeo” con gli schemi della cultura dell’Antico Testamento (questo vale anche per il personaggio di “Orfeo”) dovremmo dire che questa figura è una via di mezzo tra un arcangelo, come Gabriele, che rappresenta lo strumento della potenza divina ma che potrà però anche diventare un ribelle come Lucifero, e come Adamo, il primo uomo, punito per aver voluto avvicinarsi troppo all’albero della conoscenza e della scienza, e come Lilith, la prima donna, che non vuole “stare sotto”. Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) nelle pagine della Storia naturale cita Prometeo come il simbolo dell’essere umano che vuol conoscere per imparare, e vuole imparare per continuare a conoscere.
Il personaggio di Prometeo è il protagonista, nelle opere di Esiodo, del primo racconto complesso e articolato sulle “origini”. Esiodo usa la cultura orfica per riflettere sul tema delle “origini”. Che cosa narra il primo “racconto sulle origini” che ci tramanda la “sapienza poetica orfica” e che attira l’attenzione degli intellettuali alessandrini del movimento della “sapienza poetica beritica” come l’autore del Libro della Sapienza?
Prometeo – scrive Esiodo nella Teogonia – è il creatore del genere umano: è il figlio di Giapeto e di Climene (o di Giapeto e Temi secondo Eschilo) il quale d’accordo con Zeus crea l’uomo formandolo con l’argilla. Prometeo è il “demiurgo”, è il vasaio, è l’artigiano primordiale e questo racconto ricorre spesso nelle narrazioni che hanno per tema la “creazione” (lo troviamo nell’Epopea di Gilgamesh, in uno dei codici del Libro della Genesi). Ma Zeus – racconta Esiodo – vorrebbe la razza umana del tutto sottomessa, schiava, priva di genio inventivo, e allora il titano Prometeo, disobbedendo al dìo, dona agli esseri umani il “fuoco” (dona lo spirito, dona l’anima), cioè il germe, la scintilla della conoscenza. Prometeo – racconta Esiodo – ruba la scintilla del “fuoco della conoscenza” dal carro del Sole e la porta in terra. Allora Zeus, per riassoggettare gli uomini, – racconta Esiodo – crea Pandora, la prima donna, bella, avvenente, seducente ma maligna e traditrice (povere donne, non c’è cultura che non le veda e non le senta così, povere prime donne!). Pandora – racconta Esiodo – possiede il vaso contenente tutti i mali che devono servire per contaminare la terra e indebolire gli uomini e Prometeo diffida di lei, diffida di quel modello (questo modello di donna “seduttrice”, per lui, non è la “donna”), e non si lascia convincere: sarà suo fratello – il bonaccione Epimeteo – a farsi subito conquistare da Pandora e a cadere in tentazione aprendo il famoso vaso fatale di Pandora. Al genere umano – racconta Esiodo – resta la “speranza” (élpis) che stava nel vaso insieme a tutti i mali. Per trionfare sul ribelle Prometeo, Zeus deve usare la violenza e, per punirlo, lo fa incatenare ad una roccia sul Caucaso, dove quotidianamente un avvoltoio gli rode il fegato. Ma anche da prigioniero – racconta Esiodo – Prometeo non si piega: Zeus lo teme perché sa che lui conosce un segreto, è a conoscenza di un vaticinio che riguarda il destino del dio supremo.
Prometeo è un “sapiente” e sa – racconta Esiodo – che Zeus è minacciato dalla nascita di un figlio futuro e Zeus (che è un “ignorante”) vorrebbe sapere il quando, il come e il perché di questa faccenda che insidia la sua esistenza, e quindi gli promette, in mille modi, la liberazione, in cambio della rivelazione di tutti i particolari di questo vaticinio delle Parche che insidia l’esistenza di Zeus. Ma Prometeo – racconta Esiodo – non vuole tanto la salvezza, la liberazione per sé, la vuole e la chiede per l’Umanità; chiede, per il Genere umano, la liberazione dall’ignoranza, che è il male peggiore: se Zeus domina il mondo sarà l’ignoranza a dominare il mondo. Quindi Prometeo chiede a Zeus, in nome del Genere umano, il dono della “sapienza” pur sapendo che Zeus, in quanto idolo, non è in grado di concederlo- Prometeo – racconta Esiodo – rivela a Zeus il segreto che lui non conosce e qui s’impone una riflessione: ma come, Zeus, il re degli dèi non conosce neppure le cose che lo riguardano da vicino? Zeus è un “idolo” e in quanto tale non è né onnisciente, né onnipotente, né ha potere sulla “sapienza”. Zeus – conosciuto il misterioso vaticinio – riconoscente, libera Prometeo (lo fa liberare da Ercole) cambiando la catena, la corona del castigo, con una retribuzione: la corona del premio (stephanos).
Però Zeus – racconta Esiodo – non mantiene la promessa di liberare l’Umanità dall’ignoranza, e lo scontro continuerà e continua...
Uno che riprende in mano le fila dello scontro è l’autore del Libro della Sapienza.
Ma Zeus – e qui s’impone un’altra riflessione importante che sicuramente è stata fatta dall’autore del Libro della Sapienza – aveva le possibilità di liberare l’Umanità dall’ignoranza, visto che il primo ad essere ignorante è proprio lui? Zeus – allude l’autore del Libro della Sapienza (che cita genericamente gli dèi) –, in quanto idolo, non ha potere sulla “sapienza”- Il mito di Prometeo – raccontato da Esiodo nella Teogonia – è e sarà sempre complesso, affascinante e di misteriosa vastità. Prometeo è il protettore degli esseri umani, è colui che rappresenta il loro genio inventivo e le capacità dell’ingegno umano. Prometeo è più sapiente di Zeus – incarna il potere della “sapienza poetica” – tanto da potergli annunciare la sua fine. L’opera di Esiodo fa l’inventario degli dèi per metterli in soffitta, per archiviarli.
L’autore del Libro della Sapienza – sulla scia dell’opera di Esiodo – intenta, nella terza parte della sua opera, un processo agl’Idoli. La figura di Prometeo rappresenta il fatto che l’essere umano può trasformare il mondo con la conoscenza, simboleggiata dal “fuoco”, e questo indipendentemente dal volere di Zeus, il quale pretende che nulla cambi per mantenere il suo potere: l’ignoranza nel mondo. I malvagi – allude l’autore del Libro della Sapienza – riproducono gl’Idoli perché nulla cambi. L’ignoranza è forza e Zeus – idolo supremo – non ha nessuna voglia di studiare e d’imparare: non conta sulla “sapienza” ma sulla prestanza e sulla furbizia. Prometeo è l’espressione universale del pensiero umano che non è mai pago della meta raggiunta e si agita e lotta contro i limiti imposti dal Fato, dal Destino. Prometeo è il simbolo dell’essere umano che s’innalza al di sopra delle cose materiali che lo soddisfano solo parzialmente, e che supera il contingente ma non riesce mai a conquistare l’Assoluto, perché vive la contraddizione di essere a metà strada tra il cielo e la terra: questo è il destino dell’essere umano.
Prometeo è il simbolo del ribelle, di colui che coltiva una ribellione che non potrà mai essere vinta perché è l’espressione della libertà dello Spirito umano, ma Prometeo il ribelle, contemporaneamente, non sarà mai vincitore perché non è possibile modificare e infrangere l’ordine delle cose, e questo è il Prometeo “romantico”.
Il mito di Prometeo – che troviamo in origine nell’opera di Esiodo – porta anche a comprendere che la condizione umana è intessuta di contraddizioni (di aporìe): l’essere umano deve imparare a vivere nelle contraddizioni perché la vita non è un segmento lineare, ma è una trafila di continue linee spezzate e questo è il Prometeo “esistenzialista” che interessa all’autore del Libro della Sapienza.
Esiodo è il poeta contadino e pastore che dà voce alla condizione degli oppressi, dei subalterni e questa eco la ritroviamo in tutto il testo del Libro della Sapienza. Per Esiodo il mondo degli Eroi è già morto, e i veri eroi sono i contadini e i pastori che vivono di onesto lavoro, non gli aristocratici “divoratori di doni”, né i perdigiorno, come suo fratello Perse, che dilapidano il frutto delle fatiche altrui. Che cosa resta infatti agli esseri umani che vivono del proprio sudore – scrive Esiodo – se non la speranza (élpis)? Esiodo non coltiva una speranza in un aldilà, ma guarda alla speranza che rende tollerabile la fatica in vista dei suoi frutti e che, in un mondo di sopraffazioni, si affida alla giustizia (díke) che, non tanto gli dèi, ma le Istituzioni umane dovrebbero garantire.
L’autore del Libro della Sapienza riconosce come propri questi valori espressi da Esiodo nella sua opera: la laboriosità (έrgon-érgon), la speranza (élpis), la giustizia (díke). L’autore del Libro della Sapienza dà un senso al pessimismo assoluto che Esiodo esprime perché può porre come fondamento ai valori che condivide, non un idolo depositario dell’ignoranza come Zeus, ma il Dio d’Israele che si presenta come depositario della “sapienza”.
L’autore del Libro della Sapienza – rispetto al pensiero pessimista di Esiodo incentrato su Zeus, un idolo depositario dell’ignoranza – può proclamare che Dio (il Dio d’Israele garante della “sapienza”) è schierato contro l’ignoranza dalla parte degli onesti, dei giusti, dei deboli, dei poveri.
Leggiamo due frammenti:
LEGERE MULTUM….
Libro della Sapienza 2, 10-24 5, 15-23
I malvagi vaneggiano dicendo: “Comportiamoci da padroni con il povero
che vive onestamente, non vi sia riguardo per la vedova, e neppure per i vecchi
e per i loro capelli bianchi. La nostra forza sia la norma suprema del diritto,
perché i poveri non valgono niente. Tendiamo trappole alla persona onesta
perché ci mette in imbarazzo: si oppone alle nostre scelte, ci rimprovera
di non rispettare la legge e ci accusa d’incoerenza con l’educazione ricevuta.
Egli pretende di conoscere Dio e si dice servo del Signore.
Per noi e per i nostri progetti , egli è un severo rimprovero. È insopportabile solo a vederlo;
la vita del giusto non è come quella degli altri, il suo modo di fare è del tutto diverso.
Ci considera ambigui e falsi, schiva le nostre abitudini come cosa sporca.
Dice che solo i giusti alla fine saranno felici e si vanta di avere Dio come padre.
Ma sono proprio vere le sue parole? Proviamo a vedere come va a finire.
Se il giusto è figlio di Dio, Dio l’aiuterà, lo libererà dalle grinfie dei suoi nemici.
Mettiamolo alla prova con torture e insulti, e vediamo fino a che punto sopporta il male.
Condanniamolo ad una morte infame. Se è vero quel che dice,
Dio interverrà in suo favore”. Ebbene i malvagi pensano così ma si sbagliano, la loro cattiveria li rende ciechi,
non conoscono i progetti segreti di Dio e non immaginano che egli ricompensa
chi lo ama, e disprezzano l’onore riservato a chi è onesto.
Dio ha creato la persona umana perché fosse immortale, e l’ha fatta a immagine
del suo essere divino. Solo per invidia dei malvagi la morte è entrata nel mondo,
e i malvagi stanno dalla parte della morte e ne fanno già esperienza.
Le anime dei giusti sono al sicuro nelle mani di Dio, e nessun tormento li colpirà.
La persona onesta vive per sempre sa che il Signore si prende cura di lei
e le garantisce una ricompensa sicura. Presso il Signore riceverà un manto regale,
troverà una corona splendida, perché il Signore la protegge con la sua mano
e gli fa scudo con il suo braccio. Per lei è come un guerriero: per schiacciare
i disonesti si serve di tutto il creato; armatura è la sua virtù, corazza la sua giustizia,
elmo il suo giudizio inappellabile, scudo la sua santità invincibile.
Usa la sua collera inflessibile come una spada affilata. Anche le forze dalla natura
si alleano con il Signore contro la gente furba; su di loro si scagliano infallibili
le frecce come scoccate da un arco tra le nubi; su di loro cadono chicchi di grandine
come lanciati da un tiratore infuriato; contro di loro si scatenano le acque del mare
e i fiumi li sommergono senza pietà; e contro di loro si alza un vento terribile
e un uragano tutti li distrugge. Perché la disonestà devasta tutta la terra
e la pratica del male sbalza dai troni uomini potenti.
Naturalmente l’autore del Libro della Sapienza ha a disposizione il personaggio giusto della cultura ebraica, della “sapienza beritica” a cui attribuire le caratteristiche del titano greco Prometeo: questo personaggio è il re Salomone. Il nome di Salomone compare nel titolo originale di quest’opera, il Libro della Sapienza di Salomone, e i capitoli 7, 8 e 9 sono dedicati a Salomone come se fosse l’autore del Libro. Lo scrittore del Libro della Sapienza si identifica volentieri (nei capitoli 7, 8 e 9 del Libro della Sapienza possiamo leggere una specie di “autobiografia intellettuale”) con la figura di Salomone e riversa la sua esperienza di studioso ebreo-alessandrino nella costruzione del personaggio del “sapiente re d’Israele”, protagonista del Primo Libro dei Re, come se il grande e saggio sovrano Salomone fosse l’anticipatore dell’Ellenismo. Difatti la figura del re Salomone perde i suoi connotati originari (dati dal Primo Libro dei Re) di monarca di una piccola nazione mediorientale, vissuto nel X secolo a.C., per diventare il mitico sovrano internazionale del grande territorio della “sapienza” che, dal III secolo a.C. corrisponde a quello dell’Ellenismo. Questo merito va attribuito allo scrittore del Libro della Sapienza.
Leggiamo un frammento dove Salomone dichiara di essersi innamorato della “sapienza” (di Sofia): ci sono delle venature erotiche in questo brano (come in tutto il testo):
LEGERE MULTUM….
Libro della Sapienza 8, 2-21
Fin da giovane l’ho amata e cercata perché la volevo come compagna della mia vita. Mi sono lasciato sedurre dalla sua bellezza. La sapienza manifesta la sua nobile origine perché condivide la vita di Dio ed è la prediletta del Signore del mondo; partecipa alla conoscenza stessa di Dio e alle sue decisioni.
Se nella vita la ricchezza è desiderabile, c’è forse ricchezza più grande della sapienza da cui ogni cosa deriva? Se una persona vuol fare un lavoro in modo intelligente, niente è meglio della sapienza che è artefice di tutto. Se una persona vuol essere onesta sappia che la sapienza genera virtù, perché insegna autocontrollo e saggezza, giustizia e coraggio e queste sono le cose più importanti nella vita di una persona.
Se una persona vuole approfondire le sue esperienze sappia che la sapienza conosce
il passato e prevede il futuro, conosce le sottigliezze dei discorsi e le soluzioni
degli enigmi, prevede fenomeni strani e prodigiosi, la successione delle epoche
e dei tempi. Perciò ho deciso di sposare la sapienza e di stare con lei; sapevo che mi poteva consigliare bene, confortarmi nei momenti di tristezza e di preoccupazione. Grazie a lei, in mezzo alla gente, potrò farmi un nome, anche se sono giovane sarò onorato tra gli anziani. Diranno che giudico con acutezza e susciterò l’ammirazione
di altri sovrani. Se tacerò, essi aspetteranno, se prenderò la parola staranno attenti
e se parlerò a lungo mi ascolteranno ammirati. La sapienza mi darà una gloria (una vita) immortale e potrò lasciare ai miei successori un ricordo duraturo. …
Mi riposerò accanto a lei perché la sua compagnia non procura amarezze e l’intimità con lei non provoca tristezza ma solo piacere e felicità. Ho ripensato tutte queste cose e ho capito che vivere unito alla sapienza mi assicura l’immortalità; che nella sua tenerezza c’è un godimento sincero e nelle sue mani una ricchezza inesauribile.
Ho capito anche che stare con lei ti fa diventare intelligente, parlare con lei
ti rende una persona importante. Perciò mi sono affannato per prenderla e farla mia.
Ero un giovane bello e avevo ricevuto in sorte un animo buono, ero entrato in un corpo senza difetti. Sapevo che non potevo avere la sapienza (sophia) se Dio non
me la regalava ed è già un segno di saggezza (gnosis) sapere da chi viene un dono.
Perciò mi sono rivolto al Signore e l’ho pregato di tutto cuore …
Allo scrittore del Libro della Sapienza va attribuito il merito di aver dato completezza, tra il 50 e il 30 a.C., ad un filone sapienziale e poetico che ha cominciato a prendere forma, con il genere letterario dell’epistolario, della “raccolta di lettere”, intorno al 140 a.C., con la prima versione del Libro della Saggezza di Salomone.
Nell’ultima pagina del breve romanzo intitola La moglie di don Giovanni scritto sotto forma di “lettera” da Irène Némirovsky di cui la Scuola consiglia la lettura perché questo breve romanzo potrebbe essere definito un “poemetto sapienziale” in cui le parole “testamento” e “patto” – che sono le prime parole-chiave del catalogo del movimento della “sapienza poetica beritica” – trovano posto.
Ebbene, nell’ultima pagina di questo breve romanzo la “saggia” Clémence dice che: “Nella vita ci sono tante cose che è meglio ignorare, che è meglio far finta di non sapere”.
LEGERE MULTUM….
Irène Némirovsky, La moglie di don Giovanni (1938)
Nell’armadio della Signora, sotto una pila di biancheria intima in crêpe de Chine rosa, c’era un pacchetto di lettere del signor Pécaud. Le prendo e le nascondo prima ancora di scendere a vedere il cadavere del Signore. Pensavo di chiedere subito alla Signora cosa bisognava farne, ma i medici, la polizia, la famiglia mi impedivano di avvicinarmi a lei. Così ho deciso di conservarle fino a dopo il processo. Da quelle lettere veniva fuori tutto, la storia d’amore e la faccenda dei soldi – le ho nascoste in un baule, bene in fondo. La sera del processo e dell’assoluzione pensavo che la Signora sarebbe tornata a casa e che un giorno o l’altro, quando si fosse un po’ ripresa, avrei potuto vederla. E invece lei si ammala e la Signora Contessa la porta in Svizzera, dov’è rimasta tre anni prima di morire. Quanto al signor Pécaud, quasi subito si è sposato. Non ha mai avuto fortuna la povera Signora. Che potevo fare. Signorina? Aspettavo. Dopo tutto le lettere erano al sicuro da me. Speravo di restituirgliele quando guariva, ma si è spenta laggiù, in sanatorio, sola e abbandonata da tutti, tranne che dalla Signora Contessa che è stata sempre con lei fino all’ultimo, com’era suo dovere fare, anche se dubito che questo sia stato di conforto alla povera Signora. Quando ho saputo della sua morte, mi sono trovata in grande imbarazzo. Il mio primo istinto è stato di strapparle, ma poi non ne ho avuto il coraggio. Dopo tutto, non è roba mia. Un conto è agire come ho fatto per fare un favore e un altro prendersi una simile responsabilità. «Se un giorno» pensavo «uno dei figli avrà bisogno di denaro – tutto può succedere nella vita –, là dentro c’è la prova che la Signora ha dato quasi centomila franchi a quel signor Pécaud che adesso è così ricco … È una faccenda molto delicata». Mi sarei fatta ammazzare piuttosto che portar via anche un solo centesimo a quei bambini, io che li amavo e che non ho mai portato via un centesimo a nessuno. Dio mi è testimone. La Signorina abitava a Strasburgo, altrimenti sarei venuta da lei. Ma la Signorina Monique deve capire: quando non c’è nessuno che pensa a te e sei costretta a guadagnarti il pane con la fatica, devi per forza stare un po’ attenta alle spese. Mi ero quasi decisa a partire l’estate scorsa, ma i treni sono ancora rincarati. Non so dove andremo a finire. All’improvviso mi sono ammalata. Mi hanno portata all’ospedale e adesso sono qui che aspetto. Le lettere sono in un baule, con le mie cose personali, da una nipote che è sposata a Nizza. In un primo momento avevo pensato di scriverle e di farmi mandare tutto qui, ma la conosco, mia nipote. È gelosissima dell’altro mio nipote, che invece abita a Belfort, e non lascerebbe di certo portar via il baule. Penserebbe che dentro ci sono gioielli o documenti di valore e che io voglio favorire mio nipote. Ci resteranno con un palmo di naso alla mia morte, perché ho speso tutto quello che avevo per farmi la casa a Soupresse dove pensavo di finire i miei giorni, e non si metteranno mai d’accordo per venderla. Ma chi se ne importa! Nelle mie condizioni i soldi non contano più molto. Loro hanno la vita davanti, la mia è finita. Signorina Monique, unisco a questa lettera la chiave del baule. Non potevo permettere a mia nipote di frugarci dentro: avrebbe letto tutto. È meglio che la Signorina vada a Nizza. Adesso che sa come sono andate le cose, penso che deciderà di fare questo viaggio. Dica che la mando io. L’indirizzo è: Signora Garnier, 30 rue de la République. Si faccia dare il baule e lo apra. Nell’angolo a sinistra, sotto degli indumenti di lana, troverà tutte le lettere che appartenevano alla sua povera Mamma, ben sistemate in un cofanetto di battesimo del mio pronipote, che contiene anche un rosario benedetto a Lourdes. La Signorina mi farebbe un grande favore se mi mandasse il rosario. Vorrei averlo con me alla mia morte. Le lettere sono della Signorina, ne farà quel che vorrà, ma se permette alla sua vecchia domestica di darle un consiglio, non le legga. Nella vita ci sono tante cose che è meglio ignorare. Quelli che le hanno scritte sono morti o moriranno un giorno. Che sia Dio a giudicarli, non spetta a noi. Addio, Signorina Monique. Spero che i suoi bambini le daranno tante soddisfazioni. Vogliate gradire, Signorina, gli ossequi della vostra devotissima
Clémence Labouheyre
Quello che noi non possiamo ignorare è che, ad Alessandria, il Libro della Sapienza fa da manifesto alla cosiddetta “Scuola filosofica ebreo-alessandrina”. Abbiamo detto che l’autore del Libro della Sapienza propone, nella terza parte della sua opera, una specie di rilettura dei testi biblici anteriori (del Pentateuco, del Libro dell’Esodo in particolare) tenendo conto del pensiero filosofico greco e chi legge è invitato a riflettere e farsi delle domande, quali domande?
La Scrittura, il testo biblico, è il “resoconto storico” dell’intervento di Dio nella vita di un popolo eletto (come vorrebbero affermare i testi dei Libri dei Maccabei e dei Libri di Ester) o è il “racconto allegorico” del rapporto che Dio ha avuto con l’Umanità intera (come si legge nel Libro della Sapienza)?
Dio è sceso davvero nell’agone della storia manifestando la sua potenza a favore del suo popolo oppure ha parlato sommessamente donando la “sapienza” a delle persone “sagge” le quali, in modo allegorico, attraverso la “forma poetica”, hanno rivelato il suo pensiero con la Scrittura al genere umano?
Il personaggio che incontreremo la prossima settimana, e che è vissuto ad Alessandria tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., è l’esponente più autorevole della “Scuola filosofica ebreo-alessandrina”. A questo personaggio dobbiamo la prima formulazione del concetto di “sapienza poetica beritica”: la Scrittura, il testo biblico, è il racconto allegorico del rapporto che Dio ha avuto con l’Umanità e (questa straordinaria allegoria) questo racconto è stato prodotto, in un lungo periodo di tempo, da un movimento poetico-sapienziale che va studiato e interpretato.
Questo personaggio sta contemporaneamente alla fine e all’inizio del nostro Percorso: alla fine perché con lui si conclude il “ciclo ellenistico-alessandrino della sapienza poetica beritica” e all’inizio perché con le sue opere cominciano gli studi e le interpretazioni sul movimento “sapienziale e poetico” che ha prodotto i Libri della Bibbia.
Questo personaggio – che ci darà delle preziose indicazioni – si chiama Filone Alessandrino e con lui abbiamo appuntamento la prossima settimana: egli comincia la sua riflessione intellettuale proprio dal testo del Libro della Sapienza:
LEGERE MULTUM….
Quando una persona ama la sapienza, è lei che si fa conoscere per prima.
Chi si alza presto per cercarla non dovrà faticare,
la troverà seduta alla porta di casa sua.
La Scuola ci dà appuntamento per la prossima settimana, ad Alessandria, davanti alla porta di casa di Filone Alessandrino, è facile riconoscerla: sui gradini c’è seduta Sofia...
Accorrete che
Luminosa è la sapienza e il suo splendore non viene meno …
Coltivate la sapienza!
Un modo è anche quello di correre a Scuola, la Scuola è qui …