Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza poetica beritica 2007 5-6-7 dicembre 2007
DIVERSE VARIANTI DELL’ETEROGENEA CATEGORIA DEGLI SCRIVANI D’ISRAELE ...
A questo punto del nostro viaggio siamo diventati a pieno titolo cittadine e cittadini onorari di Alessandria. In questa importante città – importante soprattutto dal punto di vista culturale – abbiamo incontrato la scorsa settimana, tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., un autorevole personaggio: Filone Alessandrino.
Prima di proseguire credo sia doveroso fare una precisazione che riguarda il nome di questa persona perché qualcuno ha domandato: ma Filone era un “filone”? Facendo riferimento al sostantivo “filone” di derivazione francofona che significa “persona che con l’astuzia, la scaltrezza e il suo saper fare riesce sempre a raggiungere lo scopo prefissosi” (conosciamo probabilmente più di un “filone”). Il Filone di Alessandria che abbiamo incontrato su questo nostro Percorso ha un nome che deriva dal greco e che è formato da due parole: “filòs”, che significa “amico, amante”, e “ón óntos” che è il participio presente del verbo “essere” e corrisponde alla parola “ente” che, dal punto di vista filosofico (con la E maiuscola), serve a designare l’Essere supremo e, quindi in greco, il nome “Filone” significa “l’amante delle cose che sono l’espressione dell’Essere (delle cose divine)”. È doveroso dire questo – in funzione della didattica della lettura e della scrittura –perché c’è modo e modo di essere un “Filone”.
Per Filone Alessandrino – e noi lo sappiamo perché la scorsa settimana abbiamo preso contatto con due dalle sue opere, intitolate Spiegazione allegorica del Pentateuco e L’Erede delle cose divine – i segni della presenza dell’Essere supremo, i simboli delle cose divine, si trovano nei significativi “racconti allegorici” scritti nei Libri della Bibbia. I Libri della Bibbia (in particolare i Libri del Pentateuco) – afferma Filone Alessandrino – sono il frutto dell’attività “poetica” di varie generazioni di “scrivani ispirati” che danno vita, a partire dal VI secolo a.C. (da quella che chiamiamo l’Età assiale della storia), ad una serie di significative correnti di pensiero che confluiscono tutte in un grande movimento che, nel periodo dell’Ellenismo, prende il nome di movimento della “sapienza poetica beritica” (tutti, a questo punto, conosciamo il significato e l’evoluzione dei significati del termine ebraico “berit”, il “patto”). Per capire, quindi, l’espressione “sapienza poetica beritica” noi abbiamo dovuto percorrere, innanzitutto, una serie di itinerari (sette itinerari, questo è l’ottavo) che si riferiscono all’ultima fase di questo vasto movimento culturale nel corso del quale prendono forma i Libri della Bibbia.
Abbiamo anche capito perché il nostro viaggio ha preso le mosse dall’ultimo segmento: perché è in questa ultima fase – la fase ellenistico-alessandrina, dal II secolo a.C. – che matura la definizione di “sapienza poetica beritica”, una definizione che viene messa a punto proprio da Filone Alessandrino in veste del più autorevole esponente di quella che è stata chiamata la Scuola filosofica ebreo-alessandrina nella quale si sviluppa la “lettura allegorica” dei testi della Bibbia.
A questa Scuola di pensiero – dal punto di vista delle idee (della “lettura allegorica” dell’Antico Testamento) – deve molto il Cristianesimo nascente e, a questa Scuola di pensiero, deve qualcosa tanto il Neoplatonismo (che prenderà forma con la Scuola di Ammonio Sacca) quanto lo Gnosticismo (che prenderà forma con Basilide di Alessandria), due correnti filosofiche (sviluppatesi tra il II e III secolo d.C.) di grande spessore intellettuale. Con la Scuola filosofica ebreo-alessandrina, di cui Filone è l’esponente più autorevole, il termine “berit”, dopo un lungo viaggio sul filo delle interpretazioni (della traduzione in greco), si avvicina, alla fine del I secolo a.C., al concetto della “sapienza”, mutuato ed elaborato attraverso la cultura greca: nel patto (nella berit) stipulato con Abramo – secondo la Scuola filosofica ebreo-alessandrina – Dio promette il dono della “sapienza” in modo che gli esseri umani siano in grado di conoscere e di capire i termini del “patto” e, ispirati, lo sappiano tramandare (siano fedeli al “patto”) in eterno per il bene dell’Umanità.
Il ciclo ellenistico-alessandrino del movimento della “sapienza poetica beritica” – dopo una serie di opere significative che abbiamo studiato: la Lettera di Aristea, i due Libri dei Maccabei, i due Libri di Ester, le quattro versioni del Libro della Saggezza di Salomone, il Libro dei Proverbi – raggiunge il suo culmine con il Libro della Sapienza che diventa il manifesto della “Scuola filosofica ebreo-alessandrina” la quale – a stretto contatto con la cultura greca (i Dialoghi di Platone, in particolare) – dà un primo assetto formale al concetto di “sapienza poetica beritica”. Gli intellettuali della “Scuola filosofica ebreo-alessandrina” proclamano che la “sapienza poetica” si manifesta – come dono di Dio – nella figura dello “scrivano d’Israele”: saggio e ispirato. Naturalmente gli intellettuali della “Scuola filosofica ebreo-alessandrina” – di cui Filone è l’esponente più autorevole – intendono prima di tutto, con questa riflessione, valorizzare definitivamente il lavoro di traduzione in greco della Bibbia nella versione dei Settanta, considerati come continuatori, saggi e ispirati, della tradizione degli “scrivani d’Israele”: ed è questa l’ultima stoccata nello scontro tra “filotraduzionisti” e “controtraduzionisti” che noi in queste settimane – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – abbiamo seguito da vicino. Per gli intellettuali della “Scuola filosofica ebreo-alessandrina”, e in particolare per Filone, gli “scrivani d’Israele” per eccellenza (degni di questo nome) sono quelli che hanno operato nei cinquant’anni dell’esilio a Babilonia.
Contemporaneamente gli intellettuali della “Scuola filosofica ebreo-alessandrina” , e in particolare Filone, coltivano l’idea, per noi (come per tutte le studiose e gli studiosi) fondamentale, che gli “scrivani d’Israele in esilio a Babilonia” abbiano, nell’esercizio della “sapienza poetica”, fatto tesoro – si siano “ispirati” – alle culture con le quali, nei vari momenti della sua storia il popolo d’Israele è venuto a contatto, per cui la “sapienza poetica beritica” risulta essere uno straordinario crogiuolo nel quale si mescolano parole-chiave e idee-cardine di diversa provenienza ma tenute insieme da una “ispirazione” unitaria: difatti Filone Alessandrino tende a presentare la categoria degli scrivani come una classe omogenea mentre (lo confermano gli studi filologici moderni e contemporanei) emerge una varietà, una eterogeneità.
Filone Alessandrino – e lo abbiamo già messo in evidenza – porta una serie di argomenti interessanti per sostenere l’idea dell’omogeneità della classe degli scrivani sostenendo che “l’ispirazione” è un “dono divino” che si manifesta in una “capacità” e in una “competenza”. Sappiamo che per definire la parola “ispirazione” Filone Alessandrino utilizza due termini: crestotes (che significa “capacità”) erotiké (che significa “erotica”), quindi “l’ispirazione” si manifesta nella “capacità di alimentare l’Eros platonico”, vale a dire nell’attitudine di coltivare l’ardente desiderio di conoscere le cose divine, di contemplare l’Essere, di riflettere sul tema dell’Assoluto. “L’ispirazione” – afferma Filone Alessandrino – è la “competenza” che gli “scrivani d’Israele in esilio a Babilonia” hanno maturato nel far proprie le conoscenze raccolte e acquisite nel contatto con le diverse civiltà incontrate durante gli esodi (spesso forzati) a cui il popolo della Bibbia è stato sottoposto. Inoltre “l’ispirazione” – afferma Filone Alessandrino (tirando acqua al suo mulino) – è la “competenza” che gli “scrivani d’Israele in esilio a Babilonia” hanno coltivato e acquisito per esprimere le loro riflessioni – elaborate in forma poetica, composte in fattura metaforica, ordinate in struttura allegorica (Filone tira l’acqua al mulino della sua Spiegazione allegorica del Pentateuco) – consapevoli del fatto che l’essere umano non ha la possibilità di riportare direttamente la voce, il linguaggio, il suggerimento di Dio se non attraverso i simboli emblematici, le figure allegoriche, le immagini metaforiche. La situazione dell’esilio, la tragedia della sconfitta, di cui gli “scrivani d’Israele deportati a Babilonia” diventano testimoni, lascia un segno, mette in evidenza che “Yahweh è molto, ma molto arrabbiato” e la lettura dell’ira di Yahweh rimanda ad una scelta che è quella di “fare autocritica” e di riscrivere la storia riconoscendo le inadempienze nei confronti del “patto” e mettendo in evidenza quei personaggi, quasi sempre inascoltati, che hanno sostenuto l’esigenza di essere fedeli al “patto”, di rispettare le Leggi.
Filone Alessandrino indica, nella sua opera, due diversi filoni di pensiero a cui gli “scrivani d’Israele in esilio a Babilonia” hanno attinto e che caratterizzano, alle sue origini, il movimento della “sapienza poetica beritica”.
Gli “scrivani d’Israele in esilio” hanno costruito il loro pensiero, hanno forgiato la loro poetica e hanno messo in cantiere i Libri del Pentateuco (in particolare il Libro della Genesi sul quale punteremo la nostra attenzione: noi non possiamo allargarci molto perché avete capito che il territorio che stiamo attraversando è immenso e per percorrerlo ci vuole non una vita di studio, ma ci vogliono mille vite di studio, per fortuna …) attingendo a due grandi depositi letterari quello della “cultura egizia” (le studiose e gli studiosi moderni e contemporanei parlano di “deposito menfitico-egiziano”) e quello della “cultura babilonese” (le studiose e gli studiosi moderni e contemporanei parlano di “deposito akkadico-babilonese”).
Le studiose e gli studiosi moderni e contemporanei aggiungono però che ci sono altri significativi depositi a cui, in origine, gli “scrivani d’Israele” hanno attinto; uno di questi depositi viene definito comunemente “iranico-persiano”: vedremo prossimamente di che cosa si tratta e quale influenza ha sull’opera degli “scrivani d’Israele in esilio a Babilonia”.
I Libri del Pentateuco (il Libro della Genesi in particolare) sono – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – una miniera di seduzioni, di attrattive, di richiami, di suggestioni intellettuali miscelate insieme con grande abilità dagli “scrivani d’Israele”, anonimi personaggi che – nel corso di diverse generazioni – non si sono mai resi conto della straordinaria operazione culturale che, nel suo insieme, hanno compiuto.
Il ragionamento che stiamo facendo ci fa riflettere sul fatto – e le studiose e gli studiosi moderni e contemporanei di filologia biblica hanno studiato questo tema – che la categoria degli “scrivani d’Israele” non è riconducibile solo agli scrittori del periodo dell’esilio, certamente questo è un momento topico, decisivo ma la categoria degli “scrivani d’Israele” è eterogenea e in essa si notano evidenti differenziazioni.
Abbiamo citato la “cultura babilonese” e, sulla scia delle indicazioni che ci fornisce Filone Alessandrino, dobbiamo subito chiarire che il momento chiave (la chiave di volta) per il movimento della “sapienza poetica beritica” corrisponde sicuramente all’evento – e in questo caso è necessario usare la parola “evento” – de “l’esilio babilonese”. Quando Filone Alessandrino, nella sua Spiegazione allegorica del Pentateuco, parla de “l’esilio babilonese” attua una distinzione di termini: cessa di usare la parola “avvenimento” cioè non usa più la parola greca “pràgma” che segnala un “fatto storico”, per utilizzare un termine che corrisponde alla parola “evento” cioè il termine greco “èpos” che contraddistingue un “racconto mitico”. Filone Alessandrino definisce il “periodo dell’esilio babilonese” un “èpos” non solo per ragioni cronologiche (tra lui e l’esilio babilonese sono passati circa cinquecento anni e sappiamo che col tempo i “fatti” tendono a stemperarsi e a diventare “miti”) ma soprattutto per ragioni culturali, per dare efficacia al suo pensiero (alla “spiegazione allegorica” del Pentateuco), per dare vigore alla sua riflessione intellettuale (alla “interpretazione metaforica” della Bibbia). A questo proposito, Filone cita il Libro di Amos e il Libro di Esdra (chi sono questi due personaggi? Li incontreremo a suo tempo) indicandoci – in funzione della didattica della lettura e della scrittura (secondo la natura del nostro Percorso) – un sentiero che anche noi dovremmo percorrere: ma andiamo con ordine…
Filone Alessandrino chiarifica che durante l’esilio a Babilonia – dal 587 al 539 a.C. –alcune generazioni (tre generazioni) di “scrivani d’Israele” – i cosiddetti “scrivani dell’esilio” – s’impegnano a raccogliere le tradizioni e a mettere per iscritto la “storia” di un popolo deportato (anche se i deportati sono solo una parte “privilegiata” della popolazione) che, contrariamente, avrebbe perso la memoria di se stesso. La memoria collettiva di questo popolo si è realizzata con l’accumulazione di tanti strati, posti uno dentro all’altro, formatisi attraverso il contatto con diverse civiltà (sumerica, iranica, egizia, ugaritica, babilonese) in ragione del fenomeno della migrazione continua. La memoria collettiva di quello che, ad un certo punto (dopo l’esilio), viene definito “il popolo d’Israele” è un crogiuolo di contaminazioni culturali e il periodo dell’esilio per gli scrivani d’Israele “deportati” diventa, dopo una rapida e profonda “autocritica”, – chiarifica Filone Alessandrino – il tempo di una presa d’atto intellettuale, diventa il periodo per una verifica culturale e, attraverso l’acquisizione di nuovi strumenti (di nuove forme e di nuovi contenuti letterari: quindi attraverso un’ulteriore contaminazione) si trasforma in uno straordinario momento creativo, di feconda “ispirazione”.
Il consistente materiale prodotto a Babilonia dagli “scrivani d’Israele deportati” (soprattutto dalla seconda generazione, quella dei figli) costituisce un poderoso blocco di Scrittura che non ha ancora una forma precisa ma possiede un filo conduttore: il valore aggiunto che ne caratterizza l’unità e l’identità.
Noi sappiamo – dal primo giorno di viaggio – che questo filo conduttore, questo valore aggiunto, è dato da una parola-chiave: la parola “berit”, il “patto con Dio”. Questo abbondante materiale scritto, questa prima stesura non ancora ben strutturata ma caratterizzata da un coerente andamento, costituisce il primo significativo e consistente frutto letterario del movimento della “sapienza poetica beritica”: questo prodotto già formato e impostato verrà ancora riordinato e in parte riscritto in un secondo momento, dopo l’esilio, e avremo i testi dei Libri del Pentateuco, dei Libri dei profeti anteriori e dei Libri della Letteratura dei profeti (cosiddetti “posteriori”) così come noi li possediamo.
Nel suo complesso questo avvenimento culturale (questa prima stesura a Babilonia) – chiarifica Filone Alessandrino – è il cosiddetto “filone dell’esilio” che rappresenta il primo grande momento di sintesi del movimento della “sapienza poetica beritica”. Filone Alessandrino nella sua Spiegazione allegorica del Pentateuco esalta questo momento: se vogliamo giocare con le parole possiamo dire che Filone (partecipa alla mitizzazione) esalta il “filone dell’esilio” paragonandolo all’esperienza della diaspora ebraica alessandrina di cui lui si sente erede “ispirato”. Il paragone che Filone fa tra l’esilio a Babilonia e la diaspora (alessandrina, in particolare) è, oltre che di natura religiosa, di natura culturale: così come gli scrivani in esilio a Babilonia hanno gettato le basi per la costruzione di quel grande “monumento alla sapienza” formato dai Libri del “Pentateuco e della Letteratura dei profeti (anteriori e posteriori)” presentandolo come il patrimonio di un popolo eletto, così gli intellettuali della diaspora ebraica ad Alessandria hanno messo questo grande “monumento alla sapienza” – traducendolo nella lingua della koiné – a disposizione di tutto l’Ecumene come patrimonio dell’Umanità e della Storia del Pensiero Umano.
Quindi – afferma Filone – il filone cultuale che prende forma, nel corso di circa tre secoli, nell’ambito della diaspora alessandrina (la traduzione in greco, la disputa articolata sull’opportunità della traduzione, il commento e la spiegazione allegorica dei Libri della Bibbia) completa il filone cultuale che ha preso forma durante i cinquant’anni dell’esilio babilonese. Per questo motivo Filone Alessandrino, insieme a tutti gli intellettuali della Scuola filosofica ebreo-alessandrina, mitizza il “tempo dell’esilio”: guarda al passato per condizionare il presente.
Ad Alessandria si completa un processo di mitizzazione che serve per far aumentare il valore religioso, sociale, politico e intellettuale dei Libri della Bibbia (del “Pentateuco”, della “Letteratura dei profeti”) e questo processo di mitizzazione che riguarda l’avvenimento de “l’esilio babilonese” consiste nel trasformare una tragedia, di per sé disonorevole, in un momento di “fondazione”, in un “fondamento edificante”.
Gli intellettuali ebrei, come Filone, coltivano il “mito dell’esilio” per attribuire completezza, compiutezza, iniziaticità, perfezione (in greco “téleios”) al “filone letterario dell’esilio” e per dare legittimità al lavoro “ispirato” degli “scrivani deportati a Babilonia” che Dio ha gratificato con il dono della “sapienza”. Gli intellettuali ebrei, come Filone, si sentono eredi degli “scrivani d’Israele in esilio a Babilonia” e vogliono avvalorare l’affinità tra il “tempo dell’esilio” e la “condizione della diaspora” in modo da rafforzare tutto il lavoro intellettuale e tutta la produzione culturale del ciclo ellenistico-alessandrino del movimento della “sapienza poetica beritica” (di cui conosciamo le opere).
Quando Filone Alessandrino parla dell’esilio si esprime con la parola ebraica “gôlāh” in modo da rendere più efficace (dialettico) il concetto che vuole esprimere. Leggiamo un frammento molto significativo dal testo dell’opera Spiegazione allegorica del Pentateuco in cui emergono chiaramente le intenzioni e la lucidità interpretativa di Filone Alessandrino.
LEGERE MULTUM….
Filone Alessandrino, Spiegazione allegorica del Pentateuco
L’esilio (gôlāh) vissuto in un clima di rassegnazione mista a speranza, non fu eterno. Leggiamo nel Libro di Geremia che dapprima gli esuli furono esortati ad inserirsi nel nuovo ambiente e ad affrontare con spirito positivo la nuova vita e a non illudersi che un atteggiamento più aperto dato dall’avvento del nuovo re Awil-Marduk potesse consentire la restituzione degli arredi sacri. Gli scrivani d’Israele hanno così cercato ispirazione (crestotes erotiké, capacità erotica) nei segni in cui si andava manifestando l’ira di Yahweh raccogliendo la memoria dell’antico patto (berit) per scrivere quello nuovo (diathéke). …
Se analizziamo queste poche righe facciamo anche delle scoperte interessanti: intanto possiamo constatare che il concetto dell’esilio è legato a due parole-chiave: “rassegnazione” e “speranza”, e questi due atteggiamenti, se vissuti in modo molto realistico, funzionano efficacemente da propulsori culturali (l’esilio, o la reclusione, come la diaspora, può diventare un momento di crescita intellettuale).
Poi gli scrivani, per salvare la “memoria”, per salvaguardare l’identità, devono cercare “ispirazione”, cioè devono “maturare una competenza intellettuale”, utilizzando gli strumenti culturali efficaci dati dalla civiltà con cui si trovano a contatto: qui è molto significativo il gioco che Filone fa con la parola “patto” usando le due lingue – l’ebraico (“berit”) e il greco (“diathéke”) – per dire che, se si vogliono salvare le antiche tradizioni, bisogna usare strumenti nuovi, nuove forme (la lingua greca) e nuovi contenuti (le idee dei Dialoghi di Platone).
Questo comportamento virtuoso da parte degli scrivani d’Israele – afferma Filone – è valso a Babilonia per comporre il Pentateuco e la Letteratura dei profeti, utilizzando forme e contenuti di quella cultura (molto evoluti), salvando il patrimonio della memoria e della tradizione, e questo comportamento vale tuttora – ribadisce Filone – nel tradurre in greco (in forma nuova) i Libri della Bibbia.
Infine, in questo frammento, vediamo che Filone cita un testo – il Libro di Geremia – della Letteratura dei profeti (lo incontreremo a febbraio 2008).
Il primo atto importante da parte degli scrivani d’Israele deportati a Babilonia (gli scrivani della seconda generazione) è stato quello di prendere coscienza del fatto che “qualcuno” lo aveva detto, da tempo, che sarebbe andata a finire così in tragedia.
Il primo atto da parte degli scrivani d’Israele deportati a Babilonia – abbiamo detto – è stato quello di invitare i loro padri (la prima generazione di deportati) a “fare autocritica” (“se siamo in esilio – sostengono – qualcuno avrà delle responsabilità da riconoscere”). Il “fare autocritica” non può tradursi in sterili lamentazioni (in cui si produce la prima generazione dei deportati, i maggiori responsabili della sconfitta) ma bensì in un’attività molto concreta: cioè nel cominciare a scrivere (utilizzando probabilmente anche materiali già scritti, ma soprattutto facendo funzionare la memoria) il pensiero dei profeti cosiddetti “posteriori” che avevano predicato la sciagura e che avevano in passato accusato di collusione con il potere la stessa categoria degli scrivani ufficiali che ora stava subendo la deportazione.
Nel movimento della “sapienza poetica beritica”, in origine, troviamo il “pensiero dei profeti” messo per iscritto dagli “scrivani dell’esilio”, eredi di altri scrivani che in passato avevano denigrato, perseguitato, emarginato i profeti, i quali probabilmente avevano ragione: ma andiamo con ordine e mettiamoci in movimento sull’itinerario di questa sera (finora abbiamo introdotto).
Per conoscere e per capire – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – la storia (vasta e complessa) che riguarda le origini del movimento della “sapienza poetica beritica” dobbiamo partire da lontano: da dove e da quando dobbiamo partire? Dobbiamo partire dal X secolo a.C. quando a Gerusalemme regnava il re Salomone: ancora con lui abbiamo a che fare? È il Libro della Sapienza – commentato, interpretato e spiegato nelle sue allegorie da Filone Alessandrino – che indica la direzione che il nostro Percorso deve prendere: vogliamo forse non dare retta alla “sapienza”? E allora spostiamoci nello spazio e nel tempo nella Gerusalemme del X secolo a.C. tenendo conto del fatto che l’itinerario di questa sera è irto di ostacoli che ci si presentano di fronte sotto forma di paesaggi intellettuali e attirano la nostra attenzione.
Sappiamo che per opera del re Salomone, nel X secolo a.C., Gerusalemme comincia ad assumere l’aspetto di una vera e propria capitale. Abbiamo già ricordato alcune settimane fa che Salomone quando, intorno al 961 a.C., diventa il re degli Ebrei si dedica ad ampliare e ad abbellire Gerusalemme e altre città della Palestina. Salomone a Gerusalemme fa costruire il Palazzo Reale e (probabilmente) il grandioso Tempio (il Tempio di Salomone, quello che viene considerato “il primo Tempio”) che diventa il santuario nazionale d’Israele. Con queste opere il re vuole dare lustro e dignità a un popolo di pastori nomadi che non ha mai avuto uno Stato vero e proprio.
Israele come entità autonoma compare sulla scena della storia tra il 1300 e il 1200 a.C. e nasce da una complessa trafila di avvenimenti legati alle migrazioni tribali di stampo pastorale: dapprima le tribù migrano dalla Mesopotamia, in particolare dalla Caldea, verso la terra di Canaan (Abramo e la sua famiglia rappresentano la metafora di questo periodo), poi dalla terra di Canaan le tribù si spostano (per motivi di sopravvivenza, in diverse riprese) in territorio egiziano e infine dall’Egitto con una lenta penetrazione entrano in Palestina (la terra dei Filistei) e lì si stabiliscono facendo degli accordi, dei patti, delle alleanze, delle berit, tra loro (di Stato, di Nazione se ne comincia a parlare dopo l’esilio).
Le tribù d’Israele si danno una organizzazione di tipo confederale (1200-1025 a.C. circa) con unità esclusivamente religiosa (è il periodo dei Giudici, che sono sacerdoti condottieri); in seguito inizia con Saul e si consolida con David, attorno al millennio a.C., l’unità politica in forma di monarchia, che raggiunge con Salomone (970-922 circa a.C.) il suo momento di splendore (è difficile tenere unite le tribù: l’unità della Nazione viene mitizzata dalla Scrittura dopo l’esilio).
Salomone potenzia l’esercito e fa nascere una “classe militare”: l’esercito di Salomone svolge anche un ruolo offensivo nei confronti delle popolazioni confinanti (per imporre tributi ai vicini più deboli) e poi l’esercito svolge un ruolo nel mantenimento dell’ordine pubblico: scoppiano spesso delle rivolte tanto a Gerusalemme che nelle altre città del regno che vengono represse con la violenza, ma soprattutto l’esercito serve a mantenere, con la forza, l’unità tra le tribù.
Poi Salomone dà sviluppo ai commerci e in questo contesto nasce il celebre racconto del mitico incontro con la regina di Saba (che siete state, siete stati invitati a leggere nel capitolo 10 del Primo Libro dei Re): un episodio preso in considerazione da molti artisti.
Non possiamo fare a meno (ve l’ho detto che questo itinerario è irto di ostacoli che ci si presentano di fronte sotto forma di paesaggi intellettuali e attirano la nostra attenzione) di aprire una parentesi a proposito dell’incontro tra il re Salomone e la regina di Saba anche perché noi abbiamo la possibilità di raggiungere in breve tempo la città di Arezzo dove si trova, come tutti sapete, nel coro della duecentesca chiesa di San Francesco, uno straordinario ciclo di affreschi: una delle massime testimonianze della pittura del Rinascimento. Questo ciclo di affreschi è stato eseguito tra il 1453 e il 1466 da Piero della Francesca e illustra la Leggenda della vera Croce. Le scene raffigurate si ispirano ad un’opera letteraria del XIII secolo che s’intitola Leggenda aurea di Jacopo da Varagine. Le immagini descritte nelle pagine della Leggenda aurea di Jacopo da Varagine vengono mirabilmente interpretate da Piero in senso rinascimentale e assumono una solenne dimensione umana che non manca nel testo di Jacopo da Varagine. Tra le scene affrescate da Piero possiamo ammirare La regina di Saba che adora la vera Croc” e L’incontro di Salomone con la Regina stessa.
Voi sapete che nel 1999, dopo oltre un decennio di studi e lavori preparatori, ha avuto luogo il restauro del ciclo della Leggenda della vera Croce: gli affreschi si presentavano danneggiati da alcuni gravi e progressivi fenomeni di degrado che i precedenti restauri non erano riusciti a risolvere. Il più visibile e clamoroso di questi problemi era la cosiddetta “solfatazione”: il colore si presentava come offuscato da un’impalpabile polvere bianca. Alla “solfatazione” si aggiungevano altri fenomeni di degrado come le “sbollature”, le esfoliazioni, cioè i distacchi dalle pareti dell’intonaco dipinto. Le indagini preliminari hanno fornito nuove e importanti indicazioni sulle tecniche pittoriche usate da Piero il quale non solo ha dipinto a “buon fresco” ma ha usato contestualmente varie tecniche “a secco”, impiegando sull’intonaco asciutto tempere grasse, biacche, lacche: metodi che allora venivano comunemente impiegati per i dipinti su tavola. Naturalmente questa scoperta ha consentito alle studiose e agli studiosi di arricchire le loro conoscenze e di approfondire le loro ricerche sul Rinascimento.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
È probabile che sulla rete – se a qualcuno interessa – si possano trovare maggiori informazioni su questo importante lavoro di restauro…
Visto che siamo ad Arezzo (e considerato che, a volte, certe cose sfuggono anche se, o proprio se, sono vicine, e poi ve l’ho detto che l’itinerario di questa sera ci mette di fronte a diversi paesaggi intellettuali che attirano la nostra attenzione) dobbiamo prendere in considerazione il fatto che in questa bella città – e se consultate una guida della Toscana potete orientarvi meglio – c’è anche un interessante “Museo di Arte medioevale e moderna” che si trova nel “palazzo Bruni-Ciocchi”, situato tra la piaggia di Murello e via San Lorentino; ebbene, in questo museo, dopo aver attraversato le sale 6 e 7 che contengono una pregevole collezione di maioliche e porcellane (dal XIV al XVIII secolo), si entra nella “galleria” e tutta la lunga parete di questa sala (la numero 8) è occupata (quasi per intero) da un affresco dipinto nel 1548 da Giorgio Vasari (Arezzo è la città natale di questo poliedrico personaggio rinascimentale) intitolato Convito per le nozze di Ester e Assuero: il titolo di quest’opera vasariana non ci dovrebbe lasciare indifferenti.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Noi che conosciamo i Libri di Ester e la storia della loro composizione non possiamo non nutrire una certa curiosità nei confronti di questo affresco…
Questo affresco sarà anche riportato su qualche catalogo che raccoglie le opere del Vasari pittore? …
Sarà anche conservato in qualche sito della rete dedicato al Vasari?…
Mettiti alla ricerca anche se la cosa migliore, forse, è prendere il treno e fare una visita ad Arezzo: vale il viaggio…
E ora dovremmo tornare sul nostro sentiero ma come si fa? Ve l’ho detto che l’itinerario di questa sera ci mette di fronte a diversi paesaggi intellettuali che attirano la nostra attenzione...
Come si fa – in un percorso che si occupa di didattica della lettura e della scrittura – a citare la Leggenda aurea di Jacopo da Varagine e a non dire nulla? Non si può! Anche perché non dobbiamo rinunciare a sfogliare, almeno una volta, le pagine di un’opera che tutti i più grandi artisti hanno sfogliato (poi magari possiamo anche leggerne qualche pagina): toccare i volumi della Leggenda aurea di Jacopo da Varagine significa stabilire un contatto intellettuale con personaggi importanti della storia della cultura che hanno qualcosa da insegnarci, a cominciare da Piero della Francesca che ha letto tutto con attenzione il testo della Leggenda aurea.
Chi è Jacopo da Varagine (1228 circa-1298)? Varagine sta per Varazze, ridente cittadina della riviera savonese: e Jacopo non mi è simpatico solo perché è un mio compaesano ma soprattutto perché spesso mi ha fatto divertire e commuovere leggendo la sua opera.
Jacopo da Varagine nel 1244 è entrato nell’ordine domenicano e nel 1292, dopo aver rinunciato due volte, è stato eletto per acclamazione popolare vescovo di Genova. Jacopo da Varagine ha scritto anche una Storia di Genova e molti Sermoni: è un predicatore (lo spirito dei profeti – e abbiamo cominciato ad occuparci della Letteratura dei profeti – aleggia dentro di lui).
Per secoli attraverso la Leggenda aurea (1255) intere popolazioni hanno conosciuto le virtù dei confessori e delle vergini, le gloriose vittorie dei martiri, così come dalle canzoni di gesta dei trovatori hanno conosciuto le imprese profane degli eroi. Il termine “leggenda” non ha, né per Jacopo né per i suoi contemporanei, il significato che noi le attribuiamo di realtà trasformata attraverso il mito. “Leggenda”, nel medioevo, significa semplicemente “storia da leggersi per la festa della santa o del santo”: cosicché invece di “Leggenda dei santi” potremmo dire “Storia dei santi”. Infatti con la coscienziosità di uno storico, naturalmente con le capacità critiche del suo tempo, Jacopo da Varagine consulta tutti i documenti agiografici (sulle vite delle sante e dei santi) e le Storie che ha a disposizione, avendo sempre cura di avvertire le lettrici e i lettori se si tratta di storie apocrife (inventate, fantastiche). Spesso cita le fonti da cui attinge: la Storia ecclesiastica, la Storia tripartita, la Vita dei santi padri, i Dialoghi di S. Gregario e, quando non lo fa, si può essere certi che non aggiunge niente alla sua opera che sia un prodotto della sua fantasia.
La narrazione di Jacopo da Varagine (ed è un vero peccato non poterla leggere direttamente in latino, in lingua originale, ma anche tradotta ha la sua piacevolezza) procede con un tono suggestivo, inconfondibile, perché non si tratta solo di un’opera di un coscienzioso compilatore, ma è il frutto di una grande creatività, è un’opera d’arte (è come un grande affresco, un ciclo di affreschi sotto forma di scrittura) che conserva sempre in ogni sua parte l’impronta dell’autore ed è per questo motivo che la Leggenda aurea ha ispirato nei secoli il lavoro di tante e di tanti artisti (pittori, scultori, poeti).
Jacopo da Varagine è un dotto, un sapiente, un intellettuale che, attraverso lo studio serio e approfondito dei testi religiosi, scrive le storie delle sante e dei santi, ma è anche un grande artista medioevale proiettato verso il Rinascimento. L’anima della sua arte è la fede, ed è attraverso la fede (sinceramente vissuta) che l’opera di Jacopo diventa poesia (diventa “sapienza poetica”), perché – secondo il pensiero della Scolastica – nella fede come nella poesia si annulla ogni limite fra il possibile e l’impossibile, tra il reale e l’irreale, e una immobile eternità si sostituisce alle vicende del tempo. Jacopo da Varagine per questo motivo è un artista inconsapevole a cui (come Francesco d’Assisi) niente altro sta a cuore se non la gloria di Dio e l’insegnamento da impartire ai fedeli perché possano pervenire alla visione di tale gloria: ed è questo “essere poeta senza saperlo” il massimo pregio di Jacopo.
Il suo racconto è “spontaneo” e diventa “sapienza poetica” comprensibile a tutti e il suo scopo è quello di interessare il popolo che è condannato a stare fuori dai circuiti della cultura.
Jacopo da Varagine con la Leggenda aurea vuole proporre ai laici una riflessione sulla vita degli eroi della Chiesa, e riesce nel suo intento in un modo diverso da quello che lui pensava, ci riesce con la suggestione di un’arte di cui non sospetta neppure l’esistenza: cioè con l’arte di saper stimolare l’immaginario e di saper invogliare ad usare la propria creatività e quindi a privilegiare la poesia piuttosto che la fede. Forse è proprio questo uno dei motivi per cui la Controriforma (il Concilio di Trento, nel 1564) ha condannato al silenzio la Leggenda aurea.
Il beato Jacopo narra le vite delle sante e dei santi e le inserisce nel grande quadro dell’anno liturgico (se ne può leggere una pagina al giorno) e si sofferma a considerare ogni festività, cercando di renderne accessibile a tutti il significato: processioni, cerimonie religiose, consacrazioni, vengono ampiamente spiegate con un modo che dimostra insieme la sapienza e la serietà di intenti dell’autore. La Leggenda aurea è una complessa opera di pietà e di sapienza che fiorisce (nel 1255) nella piena rinascita della cultura e dell’arte e che dà un importante contributo a tale rinascita, e ne accentua, specialmente per quanto riguarda le arti figurative e la pittura in particolare, il carattere straordinario.
La rappresentazione dei santi fatta dagli artisti dell’Umanesimo e del Rinascimento, con le loro storie che necessitano di movimento, di azione, di rappresentazione di paesaggio e di motivi architettonici, trova spunto nei racconti della Leggenda aurea. Liberati dall’estasi orientale (delle raffigurazioni bizantine, piatte e aleatorie) le sante e i santi presentati da Jacopo devono vivere pienamente dinanzi agli occhi dei fedeli le vicende della loro vita per indurli a una pia imitazione. Ebbene, nessun libro come la Leggenda aurea di Jacopo da Varagine, scritto per i laici e scritto in latino invece che in volgare perché potesse avere una diffusione più universale, è stato una fonte di ispirazione così intensa: le vetrate dipinte di cattedrali gotiche, i bassorilievi, i quadri e le predelle, gli affreschi, si popolano dei fatti narrati dal beato Jacopo e in pieno quattrocento troviamo un altro frate dell’ordine dei predicatori, di profonda fede come Jacopo, che del confratello rivive il mondo poetico e lo trasforma in figura e colore: il beato Angelico (da quanto tempo non entrate nel museo di San Marco?). Le storie delle sante e dei santi di Giovanni Angelico sono una fedele trascrizione in pittura della prosa di Jacopo da Varagine e non solo nella lettera ma soprattutto nello spirito.
Ma il testo della Leggenda aurea accende l’ingegno anche di tanti altri pittori: da quelli della scuola giottesca e della scuola senese fino a Vittore Carpaccio che raffigura, dopo averle lette sulla Leggenda aurea, le storie del martirio di S. Orsola.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Il pittore veneziano Vittore Carpaccio (1465 circa-1526) merita di essere conosciuto: puoi fare una ricerca su di lui e sulle sue opere utilizzando la rete, la biblioteca e anche l’enciclopedia che tutti abbiamo in casa…
E poi, naturalmente, (è qui che torniamo) il testo della Leggenda aurea ha messo in moto l’ingegno di Piero della Francesca con gli affreschi del ritrovamento e dell’esaltazione della croce in San Francesco ad Arezzo. Si può dire che anche oggi noi seguitiamo a vedere le sante e i santi negli atteggiamenti fissati da Jacopo da Varagine e divenuti arte figurativa attraverso l’opera di un gran numero di artisti, ed è una gioia tutta particolare ritornare, con la lettura della Leggenda aurea, alle fonti poetiche di una ispirazione a cui tanto deve la nostra civiltà.
Ma leggiamo un frammento dalla Leggenda aurea, un frammento che c’interessa più da vicino e che serve anche per tornare sul nostro sentiero:
LEGERE MULTUM….
Jacopo da Varagine, Leggenda aurea (1255)
L’invenzione della Croce
Si dice che in questo giorno la santa croce sia stata ritrovata duecento anni e più dopo la resurrezione di nostro Signore. Si legge nel Vangelo di Nicodemo che un giorno che Adamo era malato, il figlio Seth si recò fino alle porte del Paradiso a chiedere l’olio del legno della misericordia con cui ungere il corpo del padre e restituirgli la salute. Gli apparve l’arcangelo Michele e gli disse: «Non piangere per ottenere l’olio del legno della misericordia perché in nessun modo potrai averlo fino a che non saranno compiuti cinquemila anni»; cioè, all’incirca, il tempo che intercorre da Adamo alla passione di Cristo.
Si legge altrove che l’arcangelo dette a Seth un ramoscello da piantare sul monte Libano. In un’altra storia pure apocrifa leggiamo che questo ramoscello era dell’albero che aveva fatto peccare Adamo e che l’arcangelo disse a Seth: «Tuo padre guarirà quando questo ramo farà i suoi frutti». Quando Seth tornò a casa trovò il padre morto e piantò il ramoscello sulla sua tomba: ben presto il ramo divenne un albero che viveva ancora ai tempi di Salomone. Si lascia al giudizio di ogni lettore decidere se queste vicende siano vere o false dal momento che non si trovano in alcuna storia autentica. Salomone, colpito dalla bellezza di questo albero, comandò di abbatterlo e di trovargli un posto nella costruzione del tempio.
Ci narra Giovanni Beleth che per quest’albero non si poteva, in alcun modo, trovare un posto adatto ed ora pareva troppo lungo ed ora troppo corto: infatti se gli operai ne tagliavano un pezzo per dargli la giusta misura ecco che diveniva troppo corto; alla fine gli operai persero la pazienza e lo gettarono su di un lago perché servisse da ponte.
Quando la regina di Saba si recò ad ascoltare le sapienti parole di Salomone ebbe ad attraversare il detto lago: ed ecco che vide in ispirito come su quel legno dovesse essere sospeso il Salvatore del mondo onde non volle passarvi sopra ma devotamente si prostrò ad adorarlo.
Si legge invece nella storia scolastica che la regina di Saba vide nel tempio il predetto legno e che, tornata nella sua dimora, scrisse a Salomone che sul quel legno doveva essere sospeso uno per la cui morte avrebbe avuto fine il regno dei giudei. Allora Salomone fece togliere quel legno dal luogo in cui si trovava e ordinò che fosse seppellito nelle viscere della terra: più tardi là dove l’albero era stato sotterrato, venne costruita la piscina probatica (con cinque portici); onde non era solo la discesa dell’angelo, ma la virtù del prezioso legno, a turbar l’acqua e a guarire gli infermi.
Si dice che all’avvicinarsi della passione di Cristo il legno emerse dalle profondità della terra: i giudei che lo videro ne fecero una croce per nostro Signore. Afferma la tradizione che la croce di Cristo sia stata composta con quattro specie di legno. La palma, il cipresso, l’olivo e il cedro formarono le quattro parti di cui la croce è costituita, ossia il tronco orizzontale, il tronco verticale, la tavoletta posta sulla sommità della croce, il tronco di base; o, secondo Gregorio di Tours, la tavoletta posta sotto i piedi di Cristo.
Questo prezioso legno della croce per duecento anni e più rimase sepolto sotto terra e, nel modo che ora diremo, fu ritrovato da Elena madre dell’imperatore Costantino. In quel tempo si era radunata sul Danubio una immensa moltitudine di barbari che avevano l’intenzione di oltrepassarlo e di sottomettere al loro potere tutte le regioni fino all’occidente. Quando Costantino ebbe tale notizia mosse gli accampamenti e si schierò col suo esercito sulle rive opposte del Danubio: ma il numero dei barbari cresceva sempre più e già cominciavano ad attraversare il fiume cosicché Costantino era atterrito al pensiero di dovere, il giorno dopo, attaccare battaglia. Durante la notte fu svegliato da un angelo che lo esortò a guardare in alto. Costantino alzò gli occhi al cielo e vide il segno della croce tutto di splendida luce e al di sopra queste parole: «In questo segno vincerai». …
Con il famoso “sogno di Costantino” – che Piero della Francesca trasforma nel primo “notturno” della storia della pittura – chiudiamo questa ampia parentesi: potete continuare la lettura della Leggenda aurea per conto vostro in biblioteca.
E allora torniamo, finalmente, sul nostro sentiero principale senza tralasciare di dire che l’apertura di questa parentesi serve per farci capire come gli artisti del Medioevo e del Rinascimento abbiano utilizzato i testi biblici per costruire le loro opere così come gli “scrivani d’Israele”, in particolare gli “scrivani d’Israele in esilio a Babilonia”, hanno utilizzato la memoria di antiche narrazioni per comporre i testi biblici.
E ora riprendiamo ad occuparci di Salomone come monarca di Israele il quale – stavamo dicendo – dà sviluppo ai commerci, ai traffici, e nasce così a Gerusalemme una “classe di mercanti”, molto parsimoniosi e molto abili negli affari e anche disposti a fare molti compromessi pur di comprare e di vendere a buon prezzo. Ma soprattutto sappiamo che sotto il regno di Salomone si sviluppa una “classe dirigente” che ha negli “scribi”, negli “scrivani di corte”, l’elemento più creativo. La tradizione leggendaria parla anche di “scrivane di corte” e ne parla in relazione alle mogli del re Salomone: narra la leggenda che Salomone ha avuto settecento mogli, molte delle quali si sarebbero dedicate alla scrittura (se non sapevano scrivere e leggere non le voleva). Il numero 700 è mitico e quindi si tratta di un’esagerazione ma Salomone ha contratto davvero molti matrimoni a fini politici: per suggellare alleanze, soprattutto con i Faraoni egiziani (Salomone ha sempre usato molta cautela – e in questo è stato molto saggio – con la superpotenza egiziana).
Filone Alessandrino – indicandoci la via da percorrere – ci ha già informati che è per merito degli “scrivani d’Israele” (lui, Filone, di “scrivane” non ne parla) che noi possediamo quel grande patrimonio culturale che è la Letteratura dei Libri dell’Antico Testamento. Però, nell’intento di dare unitarietà alla “figura dello scrivano” e la priorità agli “scrivani del tempo dell’esilio”, Filone Alessandrino non cura – come faranno le studiose e gli studiosi moderni e contemporanei – la diversificazione che esiste nella categoria degli scrivani: Filone tende a trattare la “categoria degli scrivani” come una classe omogenea piuttosto che eterogenea come se questa sua scelta potesse garantire una maggiore unità anche al movimento della “sapienza poetica beritica”.
Dobbiamo però – come abbiamo detto prima – fare una riflessione sulla figura dello “scrivano” perché abbiamo già cominciato a capire che la “categoria degli scrivani d’Israele” è eterogenea: ci sono varietà diverse di scrivani.
Gli “scrivani d’Israele” assunti da Salomone (i cosiddetti “antichi scrivani di corte” del X secolo a.C.) sono organici al potere e il loro compito è quello di scrivere le “Cronache del Regno”, devono comporre i Libri dei Re.
Con il titolo di Libri delle Cronache e di Libri dei Re noi troviamo moltissime opere redatte in tutte le civiltà antiche da oriente a occidente. Tutti i monarchi di questo mondo, nell’età antica, hanno assunto degli scrivani (oggi li chiamiamo biografe e biografi) con l’intento di lasciare un’impronta perché la scrittura si conserva nel tempo, la scrittura si trasmette a distanza, la scrittura è un codice che dà alle cose maggiore completezza (è “téleios”, compiuta) per dirla in greco). Anche nella Letteratura dell’Antico Testamento troviamo due Libri dei Re (il Primo Libro dei Re lo abbiamo già citato qualche volta in funzione di ciò che dovevamo osservare sul nostro cammino).
Di fronte a questo fatto – cioè all’assunzione di “scrivani di corte” da parte del re Salomone – il primo pensiero che si affaccia nella nostra mente è questo: allora i Libri della Bibbia cominciano a comporli questi “scrivani”?
Le studiose e gli studiosi di filologia biblica ci suggeriscono che il problema è più complesso. Gli “antichi scrivani di corte del X secolo a.C.” assunti da Salomone sono funzionari pubblici che tengono il diario delle attività dello Stato e sono chiamati a scrivere, in modo apologetico, la storia della formazione del Regno esaltando particolarmente il monarca in carica e la sua discendenza. Questi “antichi scrivani di corte del X secolo a.C.” sono autori di diverse narrazioni e nessuna di queste narrazioni esiste più in versione originale perché col tempo sono state riscritte, hanno cambiato forma, tuttavia il contenuto di queste significative narrazioni si è tramandato. Ma si capisce perfettamente – ci dicono le studiose e gli studiosi di filologia biblica – che in questi epici racconti mancava un elemento fondamentale: era assente il marchio necessario a qualificare un testo come Libro biblico. In queste narrazioni, in queste “Cronache di corte del X secolo a.C.”, non compariva il concetto del “patto tra Dio e il suo popolo”, non c’era il filo conduttore che unisce tutti i Libri della Bibbia e che qualifica il movimento della “sapienza poetica beritica”. L’idea della “berit” (del “patto”) si configura, per iscritto, più di trecento anni dopo i testi delle “Cronache” redatti dagli “scrivani della corte di Salomone” ed è alla luce di questa idea che, successivamente, queste “narrazioni di corte” verranno riscritte e utilizzate nella composizione dei testi biblici propriamente detti.
Nel movimento della “sapienza poetica beritica” questo fenomeno letterario delle “antiche narrazioni di corte del X secolo a.C.” ha una grande rilevanza perché le trame di questa vasta gamma di straordinari racconti mitici sono state conservate. Queste antiche narrazioni forniscono l’intreccio romanzesco ai cosiddetti Libri storici della Bibbia, che poi storici non sono: verranno etichettati così dal canone cristiano (dal Concilio di Trento, nel 1563) ma oggi questa dicitura è caduta in disuso.
Questi Libri in cui troviamo molte trame delle “antiche narrazioni di corte del X secolo a.C.” (molto conosciute e presenti nella nostra mente anche se noi non abbiamo letto questi Libri, conosciute soprattutto con la complicità della Storia dell’Arte) sono il Libro di Giosué, il Libro dei Giudici, il Primo e il Secondo Libro di Samuele e il Primo e il Secondo Libro dei Re. Potete andare ad individuarli sull’indice della Bibbia di cui fate uso e potete anche fare un esercizio di rinvenimento e di schedatura delle vostre conoscenze: vale a dire che se sfogliate le pagine di questi testi e leggete i titoli delle varie parti in cui questi Libri sono divisi trovate molti avvenimenti e molti personaggi di cui avete sentito parlare (o anche visti al cinema).
Anche i testi di questi sei Libri – come i testi della Letteratura dei profeti e i testi del Pentateuco – hanno avuto una prima stesura durante l’esilio a Babilonia e gli scrivani d’Israele deportati in Mesopotamia – i cosiddetti “scrivani dell’esilio”: ed ecco un’altra differenziazione nella categoria degli “scrivani” – non denominano questi Libri, che stanno componendo, come “Libri storici” ma bensì li chiamano Libri dei profeti anteriori per dire che, loro, le “antiche narrazioni di corte del X secolo a.C.” (di cui hanno memoria attraverso gli archivi del regno di Giuda) le hanno completamente rielaborate alla luce del “pensiero dei profeti” nel quale si trova – anche se non ancora ben strutturato (questo è un tema importante che chiariremo a suo tempo) – il concetto della “berit” (del “patto”), che è la nozione e l’immagine necessaria (come ci suggerisce Filone Alessandrino) per dare a un testo la qualifica di “ispirato”.
I cosiddetti “profeti anteriori” (che danno il nome ai Libri della seconda sezione della Bibbia dopo il Pentateuco) sono straordinari personaggi allegorici (formidabili strumenti letterari) che hanno la funzione di trasformare le “antiche narrazioni di corte del X secolo a.C.” in Letteratura biblica, veterotestamentaria, propriamente detta. Se citiamo il nome di alcuni di questi profeti ci accorgiamo che sono personaggi conosciuti (sentiti nominare): Natan, Elia, Eliseo, Debora (non possono mancare le donne).
Sappiamo che poi, dopo l’esilio (dopo il 539 a.C.), tutto questo materiale (il grande blocco della prima stesura della Letteratura dell’Antico Testamento, la “stesura dell’esilio”) verrà ulteriormente rielaborato e ulteriormente diviso in Libri secondo un nuovo canone dagli “scrivani del codice P.” di cui parleremo a suo tempo: ed ecco un’altra differenziazione nella categoria degli “scrivani”!
Se facciano il punto della situazione sulla categoria degli “scrivani d’Israele” a cui Filone Alessandrino (come abbiamo detto all’inizio) vorrebbe dare la maggior omogeneità possibile, possiamo constatare l’esistenza di tre varianti nella diversificata categoria degli “scrivani d’Israele”: gli “antichi scrivani della corte di Salomone del X secolo a.C.”, gli “scrivani dell’esilio a Babilonia del VI secolo a.C.” e gli “scrivani del codice P.” che operano dopo l’esilio, dal 539 a.C.. Del significativo lavoro intellettuale di questi tre diversi settori della categoria degli “scrivani d’Israele” (gli “antichi cortigiani”, gli “esiliati a Babilonia”, quelli del “codice P.”) – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – continueremo ad occuparcene strada facendo.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Si scrive per informare (il giornale), per descrivere (la carta geografica), per raccontare (il teatro), per esprimere (la poesia), per argomentare (il dibattito)… metti in ordine di importanza – a tuo piacimento – queste ragioni per cui si scrive…
A questo proposito: che cosa possiamo dire (che cosa possiamo conoscere, capire e come possiamo applicarci) su quello che viene chiamato lo strato delle “antiche narrazioni di corte del X secolo a.C.”? Ci dicono le studiose e gli studiosi che dobbiamo puntare la nostra attenzione sui due Libri di Samuele, che contengono una traccia rilevante dello strato delle “antiche narrazioni di corte del X secolo a.C.”. I due Libri di Samuele derivano da un’unica cronaca, da un’unica raccolta di antiche storie mitiche composta al tempo di Salomone dagli “antichi scrivani di corte del X secolo a.C.”. Gli scrivani in esilio a Babilonia, circa trecentocinquanta anni dopo, hanno completamente riscritto il testo di questa avvincente narrazione ispirandosi (come abbiamo detto) al “pensiero dei profeti”.
Il Primo Libro di Samuele parla di una grande svolta nella storia del popolo d’Israele: il passaggio dall’epoca dei Giudici (della confederazione tra tribù) alla monarchia (allo Stato unitario, all’aspirazione per lo Stato unitario). Il personaggio di Samuele è (uno strumento letterario) un’allegoria creata dagli “scrivani dell’esilio della seconda generazione” e rappresenta il modello ideale del Giudice: i Giudici sono dei liberatori (“Ce ne vorrebbe uno simile in questo momento” pensano gli scrivani d’Israele in esilio a Babilonia) che emergono in determinati momenti di crisi, di difficoltà, di pericolo per salvare l’identità del popolo. Samuele è l’ultimo dei Giudici e diventa un’importante guida politica e religiosa del popolo d’Israele perché: «il Signore – così raccontano gli “scrivani dell’esilio della seconda generazione” – lo chiama da fanciullo mentre lui dorme nel santuario dove è custodita l’arca che contiene le tavole della Legge», come dire che il Signore rinnova il “patto”, la “berit”, con Samuele. Quando Samuele è vecchio gli Israeliti gli chiedono di cercare e di consacrare (di ungere) un re.
Molti dei racconti contenuti nei due Libri di Samuele sono assai famosi e noi li conosciamo anche se non abbiamo letto questi testi.
Il Primo Libro di Samuele racconta la storia di Samuele stesso e poi la storia di Saul, il primo re, e poi la tormentata storia del rapporto tragico tra Saul e Davide: in questo Libro troviamo anche il celebre episodio di Davide e Golia che ci fa pensare a quanta importanza abbiano avuto questi testi per la Storia dell’Arte e della Cultura in generale.
Il Secondo Libro di Samuele racconta la storia di Davide e anche la nascita – in una situazione di grande ambiguità – di Salomone (che ci sta facendo da guida).
La Scuola invita a leggere i due Libri di Samuele (sono meno di una settantina di pagine) tenendo conto del fatto che dal capitolo 16 del Primo Libro di Samuele al capitolo 5 del Secondo Libro di Samuele – come ci suggeriscono le studiose e gli studiosi di filologia biblica che analizzano il testo originale scritto in ebraico – si riconosce uno strato più antico risalente alle narrazioni degli “antichi scrivani di corte del X secolo a.C.”. Quindi la prima parte del Primo Libro di Samuele, i primi 15 capitoli, è stata scritta ex novo dagli “scrivani dell’esilio” a Babilonia per introdurre la storia dei Re – Saul e Davide – nella dimensione della “berit”, nel contesto del “patto” tramandato dal pensiero dei profeti: il personaggio letterario di Samuele rappresenta la metafora del “patto”, del filo conduttore del movimento della “sapienza poetica beritica”. Nel Secondo Libro di Samuele, come abbiamo detto, i primi cinque capitoli sono una riscrittura di uno strato più antico e raccontano l’ascesa di Davide al potere, dal sesto capitolo fino alla fine (al ventiquattresimo) sono gli “scrivani dell’esilio” a Babilonia che completano l’opera introducendo la figura di Davide nell’ambito della “berit”, del “patto”: si racconta infatti di Davide che porta l’arca dell’Alleanza a Gerusalemme e poi il Signore, attraverso il profeta Natan (uno dei più autorevoli dei profeti anteriori) promette a Davide una continua discendenza (l’allusione ad Abramo e alla “berit” è evidente, ma il personaggio di Abramo compare dopo).
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Con queste indicazioni – che funzionano da chiave di lettura – può risultare più interessante avvicinarsi al testo dei due Libri di Samuele e leggerli…
Noi adesso leggiamo due capitoli, l’11 e il 12, del Secondo Libro di Samuele che, con la loro narrazione, conducono alla sintetica descrizione della nascita – in una situazione romanzesca di grande ambiguità – di Salomone. In questi Libri chiamati dei “profeti anteriori” s’intrecciano le trame di straordinari racconti che gli scrittori (e le eventuali scrittrici) del movimento della “sapienza poetica beritica” ci hanno lasciato in eredita: canovacci, bozze, schemi per veri e propri romanzi che, in seguito, in età moderna e contemporanea, verranno anche scritti.
LEGERE MULTUM….
Secondo Libro di Samuele 11- 12
L’anno dopo, nella stagione primaverile, quando i re iniziano le azioni di guerra, Davide mandò le sue guardie e tutti i soldati, al comando di Ioab, a devastare il territorio degli Ammoniti. Essi cominciarono l’assedio della città di Rabba, mentre Davide rimase a Gerusalemme.
Un pomeriggio, dopo aver riposato, Davide andò a passeggiare sul terrazzo della reggia. Di lassù vide una donna che faceva il bagno. Era bellissima. Davide mandò a chiedere chi fosse e seppe che era Betsabea figlia di Eliam, moglie di Uria l’Ittita. Davide la mandò a prendere, ebbe rapporti con lei e poi Betsabea tornò a casa sua. Essa aveva appena terminato i suoi riti di purificazione.
Quando si accorse di essere incinta, lo mandò a dire a Davide. Allora Davide mandò a Ioab l’ordine di far venire da lui, a Gerusalemme, Uria l’Ittita. Ioab ubbidì e Uria venne. Davide gli chiese se Ioab e l’esercito stavano bene e come andava la battaglia. Poi aggiunse: «Ora va’ a casa tua e goditi un po’ di riposo».
Uria uscì dalla reggia e Davide gli fece portare un regalo (il pranzo preparato a corte). Ma Uria si fermò a dormire davanti alla porta della reggia, accanto agli uomini della guardia, e non andò a casa sua. Davide ne fu informato e chiese a Uria:
- Hai fatto un lungo viaggio: perché non vai a casa tua?
- In questi giorni, - rispose Uria a Davide, - gli uomini d’Israele e di Giuda e il mio comandante Ioab dormono sotto la tenda; le truppe della tua guardia e anche l’arca stanno in aperta campagna. Come potrei andare a casa mia, pranzare e dormire con mia moglie? Per la tua vita ti giuro che non farò mai una cosa simile.
- Bene, - rispose Davide; - per oggi rimani a Gerusalemme, domani ti rimanderò al campo.
Uria rimase a Gerusalemme. Il giorno dopo Davide lo invitò a pranzo, lo fece bere e ubriacare. La sera. Uria andò a dormire sul suo giaciglio, accanto agli uomini della guardia; non entrò in casa sua. La mattina dopo Davide scrisse una lettera per Ioab e la consegnò a Uria. Nella lettera c’era quest’ordine: «Mettete Uria in prima linea, dove la mischia e più violenta. Poi lasciatelo solo in modo che sia colpito a morte».
Ioab stava assediando la città di Rabba. Allora mandò Uria in un punto dove sapeva che i nemici erano molto forti. Infatti uscirono dalla città alcuni uomini per un attacco contro le truppe di Ioab: alcuni soldati e ufficiali di Davide furono colpiti a morte e tra questi anche Uria l’Ittita. Ioab mandò a Davide un messaggero con il rapporto sulla battaglia e lo avvisò: «Tu racconterai al re com’è andata la battaglia. Può darsi che il re vada in collera e si metta a dire: “Perché vi siete avvicinati fin sotto le mura per combattere? Non sapevate che gli assediati colpiscono dall’alto delle mura? Non vi ricordate come, a Tebez, morì Abimelech figlio di Ierub-Baal, perché una donna gli tirò addosso una pietra da mulino dall’alto delle mura? Perché siete andati fin sotto le mura?”. Se ti dirà cose simili, tu aggiungi: “È morto anche un tuo ufficiale, Uria l'Ittita”».
Il messaggero riferì a Davide ogni cosa come gli aveva suggerito Ioab e gli spiegò: «I nemici erano molto più forti di noi e ci avevano spinti in aperta campagna, ma poi siamo riusciti a farli indietreggiare fino alla porta della città. In quel momento gli arcieri cominciarono a tirare frecce dall’alto delle mura e colpirono alcuni uomini della tua guardia. Anche Uria l’Ittita morì».
Davide raccomandò al messaggero di far coraggio a Ioab: «Gli dirai che in guerra la morte colpisce ora gli uni ora gli altri. Non si scoraggi per quel che è successo. Ora attacchi la città con forza fino a distruggerla».
La moglie di Uria seppe che suo marito era morto e si mise in lutto per lui. Terminato il periodo di lutto, Davide la fece venire in casa sua, la prese in moglie ed essa diede alla luce un bambino. Ma il Signore non approvò quel che Davide aveva fatto.
Il Signore mandò il profeta Natan da Davide. Natan andò e gli disse:
- In una città vivevano due uomini, uno ricco e l’altro povero. Il ricco aveva pecore e buoi in quantità. Il povero aveva soltanto una pecorella che aveva comprato e allevato con cura. La pecorella era cresciuta in casa insieme con lui e con i suoi figli. Egli le dava bocconi del suo pane, la faceva bere alla sua tazza, la teneva a dormire accanto a sé. Per lui era come una figlia. Un giorno, un ospite di passaggio giunse in casa dell’uomo ricco. Per preparargli il pranzo egli si guardò bene dal prendere una delle sue pecore o dei suoi buoi. Portò via la pecorella dal povero e la cucinò per l’ospite. Davide andò su tutte le furie contro quell’uomo:
- Giuro per il Signore, - disse a Natan, - che quell’uomo meriterebbe la morte. Ha agito senza alcuna pietà: pagherà quattro volte tanto la pecora che ha rubato.
- Quell’uomo sei tu, - gli disse Natan. E aggiunse:
- Ascolta quel che ti dice il Signore Dio d’Israele: «Io ti ho consacrato re d’Israele e ti ho liberato dagli attacchi di Saul. Anzi, ho sottomesso a te la sua famiglia; ho messo nelle tue braccia le sue donne. Ti ho fatto diventare capo del popolo d’Israele e di Giuda. Se ciò non ti bastasse potrei darti altro ancora. Perché hai disprezzato il Signore e hai fatto il male? Tu hai fatto morire in battaglia Uria l’Ittita. Per prenderti in moglie la sua sposa, hai agito in modo che Uria fosse ucciso dagli Ammoniti. Poiché tu mi hai disprezzato e hai preso in moglie la sposa di Uria l’Ittita, la tua famiglia sarà per sempre colpita da morti violente».
Natan disse ancora:
Così dice il Signore: «Dalla tua stessa famiglia ti procurerò sventure; sotto i tuoi occhi prenderò le tue mogli e le darò a un tuo parente che si unirà a loro alla luce del sole. Tu hai agito di nascosto, io invece agirò alla luce del sole, davanti a tutti gli Israeliti». Dopo queste parole Davide disse a Natan:
- Ho peccato contro il Signore!
- Il Signore sarà indulgente con il tuo peccato, - rispose Natan. - Tu non morirai; tuttavia, poiché hai offeso gravemente il Signore, il bambino che ti è nato morirà.
Dopo che Natan se ne fu andato, il Signore colpì con una grave malattia il bambino che la moglie di Uria aveva generato a Davide. Davide pregò per la vita del bambino: non mangiava nulla, e quando la sera si ritirava, si coricava per terra. I suoi servi più autorevoli lo pregavano di alzarsi da terra, ma egli rifiutava e non voleva neppure prendere un po’ di cibo con loro. Dopo una settimana il bambino morì. I servi non sapevano come dargli la notizia. Dicevano tra loro: «Non ascoltava i nostri consigli quando il bambino era in vita, se ora gli diciamo che è morto, potrebbe fare un gesto disperato». Davide si accorse che si consultavano tra loro e capì che il bambino era morto.
- È morto? - domandò.
- Sì, - gli risposero.
Allora Davide si alzò da terra, si lavò, si profumò e si cambiò gli abiti. Andò nel santuario del Signore a pregare, poi tornò a casa, ordinò il pranzo e mangiò. I servi gli domandarono:
- Come mai, quando il bambino era vivo digiunavi e piangevi e ora che è morto ti sei risollevato e mangi? Non riusciamo a comprendere questo tuo modo di agire.
- Fin che il bambino era in vita, - rispose Davide, - digiunavo e piangevo pensando: «Chi sa! forse il Signore avrà pietà e lo farà guarire». Ora che è morto non ha più senso il mio digiuno: non potrò certo farlo tornare in vita. Sarò io che andrò un giorno da lui, non lui da me.
Davide confortò sua moglie Betsabea. Si unì a lei ed ebbe un altro figlio che chiamò Salomone. Il Signore amò il bambino e lo fece sapere a Davide per mezzo del profeta Natan. Per questo al bambino fu dato anche il nome di Iedidia (Caro al Signore). …
In questo brano ci sono tutte le componenti che gli “scrivani dell’esilio, della seconda generazione” vogliono mettere in evidenza: per prima cosa vogliono evidenziare, con le tre righe finali che abbiamo letto, in cui si racconta sinteticamente la nascita di Salomone, che le colpe dei padri non devono, non dovrebbero, ricadere sui figli e chi scrive appartiene, appunto, alla seconda generazione degli esiliati, chi scrive è nato in esilio e si domanda implicitamente per quale ragione deve subire una punizione per colpe non sue. Quindi gli “scrivani dell’esilio, della seconda generazione” vogliono evidenziare che il degrado morale, il quale ha portato alla disfatta prima del regno d’Israele (722 a.C.) e poi del regno di Giuda con la caduta di Gerusalemme (587 a.C.), parte da lontano. Gli “scrivani dell’esilio, della seconda generazione (i figli)” vogliono evidenziare che la crisi dei regni di Israele e di Giuda ha radici antiche e citano Davide con una significativa ripetizione: “Ti ho consacrato re d’Israele … Ti ho fatto diventare capo del popolo d’Israele e di Giuda”, come se fosse già responsabile, qualche secolo prima, della divisione dei due regni. Poi, naturalmente, gli “scrivani dell’esilio, della seconda generazione” mettono in evidenza il ruolo dei profeti come depositari e garanti del “patto”, della “berit”.
Qui compare il profeta Natan, un profeta anteriore, e sappiamo che i Libri di cui stiamo parlando sono stati chiamati proprio i Libri dei profeti anteriori. Le figure dei profeti anteriori (che vivono a diretto contatto con il potere, che sono funzionali al re) servono agli “scrivani dell’esilio, della seconda generazione” per introdurre la Letteratura dei profeti cosiddetti posteriori (stiamo preparando il terreno per parlarne prossimamente) che non sono organici al potere, che non sono asserviti alla monarchia.
Infine gli “scrivani dell’esilio, della seconda generazione” – nel comporre i Libri dei profeti anteriori – vogliono alludere al fatto che l’itinerario della salvezza non è nelle mani dei grandi della storia, i quali, spesso e volentieri, le combinano grosse, ma il percorso della salvezza, indicato dai profeti, è nella mani degli “scrivani”. Il “patto”, la “berit”, le “promesse di Dio” vengono rese note all’Umanità non attraverso i personaggi “storici” (Saul, Davide, Salomone) che risultano sempre propensi all’infedeltà ma bensì attraverso i personaggi allegorici (Samuele, Natan, Abramo) creati dall’ispirazione degli scrivani che sono – come ci ha insegnato Filone Alessandrino – i veri artefici del movimento della “sapienza poetica beritica”.
Avete notato che terminiamo questo (tormentato) itinerario con la voce di un nostro illustre concittadino (anche lui in esilio, come nella migliore tradizione degli “scrivani d’Israele”): Dante Alighieri, il quale nella cantica del Paradiso allude all’importanza che hanno gli scrivani “ispirati, capaci di dare alimento” alla Fede scrivendo di Mosè, dei Profeti e i Salmi. Nel XXIV canto del Paradiso Beatrice prega San Pietro di interrogare Dante sulla Fede, la prima delle tre virtù teologali (nei canti successivi verrà interrogato da San Jacopo sulla Speranza e poi da San Giovanni sulla Carità) e alle domande che gli vengono rivolte Dante risponde ottenendo la massima approvazione di San Pietro che gliela esprime con parole di lode, benedicendolo, cantando, e, girandogli tre volte intorno, gli cinge la fronte e Dante è assai soddisfatto: si sente come uno “scrivano” che ha contribuito allo sviluppo della “sapienza poetica beritica”.
San Pietro interroga Dante e Dante risponde:
LEGERE MULTUM….
Dante Alighieri, Paradiso Canto XXIV 130 154
E io rispondo (a San Pietro): «Io credo in uno Iddio
solo ed etterno, che tutto ’l ciel move,
non moto, con amore e con disio.
E a tal creder non ho io pur (solo) prove
fisice e metafisice, ma dàlmi (m’induce a credere)
anche la verità che quinci piove
per Moisè, per Profeti e per Salmi,
per l’Evangelio e per Voi che scriveste
poi che l’ardente Spirto vi fé almi (nutritori, capaci di alimentare la Fede);
e credo in tre persone etterne; e queste
credo una essenza sì una e sì trina,
che soffera congiunto sono ed este (comporta l’essenza delle cose).
De la profonda condizion divina,
ch’io tocco mo (ora), la mente mi sigilla (mi dà la certezza)
più volte l’evangelica dottrina.
Quest’è ’l principio: quest’è la favilla
che si dilata in fiamma poi vivace,
e come stella in cielo in me scintilla».
Come ’l signor ch’ascolta quel che i piace,
da indi abbraccia il servo, gratulando
per la novella, tosto ch’el si tace;
così, benedicendomi cantando,
tre volte cinse me, sì com’io tacqui,
l’appostolico lume al cui comando
io avea detto: sì nel dir gli piacqui!
A San Pietro è molto piaciuta la risposta che Dante ha dato alle sue domande: senza la pretesa di piacere altrettanto (basta un po’) la Scuola prosegue nel suo viaggio.
Nell’itinerario della prossima settimana dobbiamo ancora osservare un esempio di narrazione molto antica, trascritta dagli “antichi scrivani di corte del X secolo a.C.” e ripresa (ricordata a memoria perché è il testo di una canzone, di una ballata) dagli “scrivani dell’esilio”, anzi, il brano di cui stiamo parlando viene considerato, dalle studiose e dagli studiosi di filologia veterotestamentaria, come il più antico di tutta la Letteratura biblica.
Protagoniste di questa composizione poetica sono due donne: una di loro si chiama Debora, è una profetessa anteriore e ci aspetta al varco, la seconda è meglio non nominarla ancora, è capace di gesti molto energici e va avvicinata con circospezione.
Vorreste forse rinunciare ad incontrare queste due straordinarie figure letterarie? Non rinunciate, date retta a Dante:
anche la verità che quinci piove
per Moisè, per Profeti e per Salmi,
per l’Evangelio e per Voi che scriveste
poi che l’ardente Spirto vi fé almi …
Fatevi “alme” e “almi” anche voi (nutritrici e nutritori di Cultura): la Scuola è qui, correte a Scuola...