Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza poetica beritica 2007 12-13-14 dicembre 2007
IL COMPLESSO FENOMENO DEL PROFETISMO TRA ASSERVIMENTO E DISSIDENZA ...
Nell’itinerario della scorsa settimana ci siamo occupati della categoria degli “scrivani d’Israele” a cui Filone Alessandrino (un personaggio che conosciamo e che ci sta accompagnando in questo viaggio) vorrebbe dare la maggior omogeneità possibile. Abbiamo potuto constatare, invece, l’esistenza di tre varianti nella diversificata categoria degli “scrivani d’Israele”: quella degli “antichi scrivani della corte di Salomone del X secolo a.C.”, quella degli “scrivani dell’esilio a Babilonia del VI secolo a.C.” e quella degli “scrivani del codice P.” che operano dopo l’esilio, dal 539 a.C.. Del significativo lavoro intellettuale di questi tre diversi settori della categoria degli “scrivani d’Israele” (gli “antichi cortigiani”, gli “esiliati a Babilonia”, quelli del “codice P.”) – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – ce ne stiamo occupando strada facendo.
A questo proposito la scorsa settimana (per conoscere, per capire e per applicarci) ci siamo dedicati a quello che viene chiamato lo strato delle “antiche narrazioni di corte del X secolo a.C.” e abbiamo puntato la nostra attenzione sui due Libri di Samuele, che – come abbiamo potuto constatare (spero che vi siate dedicati a leggerli) – contengono una traccia rilevante dello strato delle “antiche narrazioni di corte del X secolo a.C.”.
Questa sera – come abbiamo preannunciato la scorsa settimana – dobbiamo ancora osservare un esempio di narrazione molto antica, trascritta dagli “antichi scrivani di corte del X secolo a.C.” e ripresa (ricordata a memoria perché è il testo di una canzone, di una ballata) dagli “scrivani dell’esilio” per esaltare ancora altri personaggi allegorici che hanno le doti dei liberatori e chi sta in esilio deve tener viva l’idea (la speranza) della liberazione.
L’esempio che dobbiamo osservare e leggere è un testo che viene considerato, dalle studiose e dagli studiosi di filologia veterotestamentaria, come il brano più antico di tutta la Letteratura biblica, e difatti la traduzione di questo brano presenta molte difficoltà. Questo brano s’intitola Il canto di Debora e la scorsa settimana, alla fine dell’itinerario, abbiamo annunciato che questa sera avremmo incontrato il personaggio di Debora e anche un secondo personaggio femminile. La storia e il canto della profetessa Debora si trova nel Libro dei Giudici che, nell’indice della Bibbia, precede i due Libri di Samuele e che appartiene alla sezione cosiddetta dei “profeti anteriori”.
Nel Libro dei Giudici gli “scrivani in esilio a Babilonia” raccontano il difficile periodo che segue all’insediamento degli Israeliti nella terra di Canaan. I protagonisti delle vicende narrate sono chiamati “giudici” e il loro compito è quello di governare, ma sono soprattutto presentati come persone scelte e preparate da Dio per liberare una o più tribù d’Israele da situazioni di pericolo o di oppressione.
Il libro è diviso in tre parti di diversa lunghezza: la prima parte fa da introduzione e offre un quadro generale della situazione delle tribù d’Israele dopo la morte di Giosuè (a cui è dedicato il primo Libro – il Libro di Giosuè – della sezione dei “profeti anteriori”) il grande condottiero, successore di Mosè, che guida le tribù d’Israele alla conquista della terra di Canaan, la terra promessa da Dio ad Abramo con la stipula del primo “patto”, della prima “berit”: naturalmente i fatti e i personaggi della conquista (che poi una vera e propria conquista non è mai avvenuta) della terra di Canaan, ricostruiti, secondo il “pensiero dei profeti”, dagli “scrivani deportati a Babilonia”, non corrispondono alla realtà storica che aveva camminato su binari sostanzialmente sconosciuti agli scrivani d’Israele in esilio.
La parte centrale del Libro dei Giudici riferisce le imprese di questi personaggi chiamati a governare e a liberare una o più tribù d’Israele da situazioni di pericolo o di oppressione. Di alcuni di questi “giudici” il Libro dà solo il nome e pochissime notizie, di altri, come ad esempio di Gedeone, di Iefte e di Sansone (che è quello più noto, per il taglio dei capelli in compagnia di Dalila), racconta ampiamente le imprese che rappresentano il contenuto di antiche narrazioni di corte del X secolo a.C. riscritte e ripresentate in forma nuova di racconto mitico.
L’ultima parte del Libro dei Giudici rievoca, come appendice, alcuni episodi che mettono in rilievo il disordine che regnava prima dell’instaurazione della monarchia.
Il Libro dei Giudici non è solo una pregevole opera narrativa di grande valore letterario, di cui si consiglia la lettura (sono una trentina di pagine), ma è anche il risultato di una matura riflessione sulla “storia” (la storia è maestra di vita) che fanno gli “scrivani d’Israele della seconda generazione in esilio a Babilonia”, i quali sviluppano il processo di autocritica – seguendo il “pensiero dei profeti” e formulano il concetto che la storia d’Israele dipende dal rapporto del popolo con Dio. La costruzione del testo – e questa è la chiave principale per affrontare la lettura di questi Libri cosiddetti dei “profeti anteriori”, in particolare il Libro dei Giudici – segue fondamentalmente uno schema distinto in quattro tempi: il peccato, il castigo, l’invocazione di aiuto, la liberazione. Naturalmente gli “scrivani d’Israele della seconda generazione in esilio a Babilonia”, componendo la loro opera, vogliono fare un “auspicio” e anche dare una direttiva: abbiamo sbagliato, siamo stati puniti, qualcuno lo diceva e non lo abbiamo ascoltato, pentiamoci, chiediamo aiuto con cuore sincero e speriamo nella liberazione.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Questa è la trafila narrativa del “genere letterario della fiaba”: riconosci qualche episodio della tua vita in questa sequenza: la raccomandazione, l’errore, la punizione, il pentimento, la richiesta d’aiuto?…
Scrivi quattro righe di autobiografia in proposito…
Quando le tribù d’Israele sono infedeli a Dio, vengono oppresse dai loro vicini; ma se tornano al Signore e invocano il suo aiuto, Dio le libera; gli “scrivani d’Israele in esilio a Babilonia” riscrivono il passato in funzione del presente: questo è l’obiettivo basilare del movimento delle “sapienza poetica beritica”.
Il Libro dei Giudici non ha lo scopo di glorificare gli antichi eroi delle varie tribù d’Israele: infatti la vittoria e la salvezza sono presentate come opera esclusiva di Dio. È lui che suscita i “giudici”, salvatori sempre nuovi e soltanto provvisori, e li anima con il suo spirito.
Tra questi personaggi, nel capitolo 4, incontriamo Debora e, con lei, anche un altro personaggio femminile, Giaele: leggiamo questo capitolo tenendo conto del fatto che è stato riscritto dagli “scrivani d’Israele in esilio a Babilonia” in una “prosa di carattere epico” prendendo spunto da un testo – sicuramente mandato a memoria (non era difficile da ricordare) – proveniente dalla raccolta delle “antiche narrazioni del X secolo a.C.”.
LEGERE MULTUM….
Libro dei Giudici 4
Dopo la morte di Eud il popolo d’Israele andò di nuovo contro la volontà del Signore. A causa della loro condotta il Signore abbandonò gli Israeliti in potere del re cananeo Iabin, che regnava ad Azor. Comandante del suo esercito era Sisara, che risiedeva ad Aroset-Goim.
Iabin aveva novecento carri da guerra di ferro e da venti anni opprimeva duramente Israele. Allora gli Israeliti invocarono l’aiuto del Signore.
In quel tempo, la profetessa Debora, moglie di Lappidot, era giudice, capo d’Israele. Il popolo andava da lei per aver giustizia. Essa accoglieva gli Israeliti in una località tra Rama e Betel, nel territorio collinare di Efraim seduta sotto una palma (Anche Debora come Elena ha il suo albero, siamo in pieno mito), che fu poi chiamata: la palma di Debora.
Un giorno essa mandò a chiamare Barak figlio di Abinoam, che stava a Kedes di Neftali, e gli disse:
- Questi sono gli ordini del Signore Dio d’Israele: Va’ e prendi con te diecimila uomini della tribù di Neftali e di Zabulon e portali con te sul monte Tabor. Il Signore attirerà Sisara il comandante di Iabin, al torrente Kison con i suoi carri e le sue truppe, e li farà cadere nelle vostre mani.
Barak le disse:
- Se vieni anche tu, ci vado; altrimenti no.
Essa rispose:
- Sì, verrò con te. Ma questo non ti farà onore, perché il Signore darà Sisara in mano a una donna!
Debora andò con Barak a Kedes, dove egli aveva convocato le tribù di Zabulon e di Neftali. Diecimila uomini si misero in marcia con lui. E Debora li accompagnava.
In quel tempo Eber il Kenita era andato ad accamparsi vicino a Kedes presso la quercia di Bezaannaim. Egli si era separato dagli altri Keniti, discendenti di Obab, suocero di Mosè.
Appena riferirono a Sisara che Barak, figlio di Abinoam, era salito sul monte Tabor, egli trasferì tutti i suoi novecento carri da guerra di ferro, e le sue truppe. Da Aroset-Goim andarono verso il torrente Kison. Allora Debora disse a Barak: «Su, coraggio! Il Signore combatte per te! Oggi stesso farà cadere Sisara nelle tue mani». Barak scese dal monte Tabor seguito dai suoi diecimila soldati.
Il Signore, alla testa dell’esercito di Barak, sbaragliò Sisara con tutti i suoi carri e le sue truppe. Sisara saltò giù dal carro e scappò a piedi. Barak inseguì il carro di Sisara e le sue truppe fino ad Aroset-Goim; tutti i soldati di Sisara furono uccisi e non se ne salvò nemmeno uno.
Intanto Sisara corse a piedi fino alla tenda di Giaele la moglie di Eber il Kenita, che era alleato di Iabin, re di Azor. Giaele andò incontro a Sisara e gli disse:
- Fermati! Fermati qui da me! Non aver paura.
Egli entrò nella sua tenda e lei lo coprì con un tappeto. Egli le disse:
- Ho sete. Dammi un po’ d’acqua da bere.
Essa prese del latte, gli diede da bere e lo coprì di nuovo.
Lui le disse ancora:
- Sta’ davanti alla tenda. Se ti domandano: «C’è qualcuno?», rispondi di no.
Sisara era molto stanco e si addormentò subito. Allora Giaele tolse un picchetto dalla tenda, prese in mano un martello e si avvicinò a Sisara senza far rumore. Gli conficcò nelle tempia il picchetto, ma così forte che rimase piantato anche in terra. Sisara passò dal sonno alla morte.
Barak continuava a inseguire Sisara. Giaele gli andò incontro e gli disse: «Vieni, ti farò vedere l’uomo che cerchi».
Egli entrò nella tenda: Sisara era steso a terra, morto, con il picchetto piantato nelle tempia.
Quel giorno il Signore stroncò davanti a Israele la prepotenza di Iabin, re di Canaan. Da allora, Israele non diede più tregua a Iabin, re di Canaan, finché lo eliminò….
Subito dopo questo racconto – al capitolo 5 – gli “scrivani d’Israele della seconda generazione in esilio a Babilonia” inseriscono “il canto di Debora”, che – secondo le studiose e gli studiosi –è il testo più antico della Letteratura dell’Antico Testamento, dandoci una straordinaria lezione di filologia. Il canto di Debora è una “antica narrazione” e racconta le stesse cose che abbiamo letto ora nel capitolo 4, perché il capitolo 4 è la riscrittura in “prosa epica” che viene fatta a Babilonia di questo antico canto.
Le “antiche narrazioni del X secolo a.C.” erano scritte con lo stile di questo canto: erano ballate, erano filastrocche da cantare a corte, nel palazzo reale: gli “antichi scrivani” a servizio del re Salomone erano anche degli aedi, dei giullari, dei menestrelli e con questo stile interpretavano, in modo mitico, in modo leggendario, la storia del Regno.
Gli “scrivani d’Israele della seconda generazione in esilio a Babilonia” inseriscono nel capitolo 5 del Libro dei Giudici Il canto di Debora dopo averlo riscritto nel capitolo 4, nel capitolo precedente sotto forma di racconto in prosa epica. Naturalmente gli “scrivani d’Israele della seconda generazione in esilio a Babilonia” intervengono sul testo del canto di Debora operando una serie di interpolazioni cioè aggiungendo ciò che nel testo originale mancava: cioè un continuo riferimento al Signore (al “patto”, alla “berit”), un costante richiamo al Dio d’Israele che – secondo il “pensiero dei profeti” a cui gli “scrivani in esilio” vogliono dar credito per fare autocritica – è il vero artefice della storia. Queste interpolazioni trasformano l’antica ballata in un testo biblico propriamente detto, in effettiva “sapienza poetica beritica”. Le interpolazioni degli “scrivani dell’esilio” – per facilitare la lettura e la comprensione di questo brano – sono scritte con il carattere normale e sono in prosa mentre il testo dell’antica ballata è scritto in corsivo ed è una filastrocca (purtroppo la traduzione dall’ebraico all’italiano non facilita la comprensione del testo dal punto di vista formale). Leggiamo:
LEGERE MULTUM….
Libro dei Giudici 5 Il canto di Debora
Quel giorno Debora e Barak, figlio di Abinoam, si misero a cantare:
«I capi d’Israele presero il comando, il popolo partì volontario! Lodate il Signore! Ascoltatemi, o re, uditemi, o principi: io voglio lodare il Signore, voglio cantare inni al Signore il Dio d’Israele. Quando muovevi dai monti di Seir, quando marciavi nella steppa di Edom, Signore, la terra tremò; il cielo si scosse, e le nubi si sciolsero in acqua. I monti si nascosero per paura del Signore, il Dio del Sinai, per paura del Signore, il Dio d’Israele.
Al tempo di Giaele, non vedevi più passar carovane;
ai giorni di Samgar, figlio di Anat, si viaggiava per sperdute strade.
Campagne abbandonate, non più contadini in Israele;
poi sei comparsa tu, o Debora, per far da madre.
La guerra era alle porte: il popolo sceglieva nuovi dèi e su quarantamila uomini
in Israele nessuno impugnava scudo o lancia.
Voi, comandanti d’Israele, voi, volontari del popolo, lodate il Signore! Voi, che cavalcate asine bianche, voi, che state seduti su tappeti (usanze babilonesi), e voi, che camminate lungo la via, udite: la gente radunata attorno ai pozzi sta raccontando le vittorie del Signore, i trionfi del Signore, campione d’Israele. Il popolo del Signore è sceso alle porte della città.
Su, Debora, su avanti, canta!
Su, Barak, figlio di Abinoam, avanti, raduna i tuoi prigionieri!
I superstiti si sono uniti ai nobili e, all’invito di Debora,
il popolo d’Israele è accorso pronto a combattere.
I tuoi uomini, Efraim, han sconfitto i soldati di Amatek;
e Beniamino ha combattuto insieme alla tua retroguardia.
Da Machir erano accorsi i comandanti e da Zabulon quelli che tengono lo scettro
del comando. I capi della tribù di Issacar si son mossi con Debora;
anche Barak è accorso e l’ha seguita nella pianura.
Ma la tribù di Ruben era incerta, e non si decideva a partire.
Ruben, perché sei restato negli ovili ad ascoltare il fischio dei pastori?
La tribù di Ruben era molto incerta, e non si decideva a partire.
La gente di Galaad è restata al di là del Giordano
e gli uomini di Dan, perché sono rimasti sulle navi?
Aser si è fermato sulla riva del mare e non ha lasciato i suoi porti.
Zabulon e Neftali invece sul campo di battaglia si sono esposti alla morte.
I re di Canaan sono venuti a combattere a Taanach, alle acque di Meghiddo;
han combattuto, senza fare bottino; e non han preso nemmeno un pezzo d’argento.
Anche le stelle han combattuto dall’alto del loro percorso nel cielo:
han combattuto contro Sisara. Il torrente Kison, quell’antico torrente,
li ha trascinati via. Coraggio, avanti con forza!
Allora i cavalli a gran galoppo con i loro zoccoli martellavano il suolo.
Disse l’angelo del Signore: “Maledetta la città di Meroz e maledetti i suoi abitanti!
Non sono venuti in aiuto al Signore, e i suoi soldati
non sono accorsi a combattere per lui!”.
Ma sia benedetta fra le donne Giaele la moglie di Eber il Kenita,
benedetta fra le donne della tenda! Sisara le aveva chiesto acqua da bere
e lei gli diede del latte: glielo offrì in una coppa preziosa!
Ma con una mano prese un picchetto e con l’altra il martello;
con un colpo gli trapassò le tempia e gli spaccò la testa.
Sisara si contorse e cadde ai suoi piedi. Cadde lungo e disteso;
dove si contorse, lì cadde morto.
La madre di Sisara alla finestra e dietro all’inferriata gridava:
“Perché il suo carro tarda ad arrivare? Perché i suoi cavalli son così lenti a tornare?”.
La più saggia delle sue donne risponde e anche lei ripete:
“Si, certo, hanno fatto bottino e stan facendo le parti: una ragazza per ciascuno;
a Sisara toccano stoffe colorate, ricamate e pregiate,
tante pezze ricamate e anche tanti animali …”.
Così finiscano i tuoi nemici, o Signore. Ma i tuoi amici risplendano come il sole che sorge». Poi, gli Israeliti vissero in pace nella loro terra per quarant’anni…
I capitoli 4 e 5 del Libro dei Giudici, dal punto di vista della didattica della lettura e della scrittura, sono importantissimi perché ci fanno toccare con mano come si è formato il testo biblico e come hanno operato gli “scrivani d’Israele della seconda generazione in esilio a Babilonia”. In questo caso, in particolare, stiamo riflettendo su come si è formato il testo dei cosiddetti Libri dei profeti anteriori (di cui si consiglia la lettura) che hanno raccolto la maggior parte delle “antiche narrazioni del X secolo a.C.”, perché – a parte il testo del canto di Debora che ci fa capire come, con quale stile, erano scritte le “antiche narrazioni del X secolo a.C.” – la forma è cambiata.
Ed è un vero peccato aver perso le versioni originali, aver perduto i testi dei “poemetti epici” scritti dagli “antichi scrivani di corte”, di tutte le altre “antiche narrazioni” (l’incontro di Salomone con la regina di Saba, Davide e Golia, Davide e Betsabea, Sansone e Dalila, solo per citarne alcune) le quali erano delle ballate, dei canti, delle filastrocche; ed è anche per questo motivo che si sono tramandate meglio nella memoria degli “scrivani d’Israele in esilio a Babilonia”. Nel corso dei secoli su queste straordinarie narrazioni bibliche e sui personaggi che emergono in esse – composte con uno stile epico, in poesia, intorno al X secolo a.C. e riscritte con un altro stile, in prosa romanzesca, nel VI a.C. – si sono cimentate e cimentati una schiera di scrittrici e di scrittori che, soprattutto con il genere letterario del romanzo, hanno continuato a dar vita al movimento della “sapienza poetica beritica”.
Abbiamo citato il nome di Debora e questo nome ci fa inevitabilmente venire in mente – in funzione della lettura e della scrittura –il significativo personaggio di un famoso romanzo (che abbiamo già incontrato nell’anno 2001, ma che non guasta richiamarlo alla memoria: i libri si leggono e si rileggono periodicamente perché cambiano con noi).
Il nome di Debora richiama alla memoria il famoso romanzo di Joseph Roth, che si intitola Giobbe. Romanzo di un uomo semplice. Anche Giobbe è un famosissimo personaggio della Letteratura beritica, a lui è dedicato un Libro nella sezione dei Ketubim, gli Scritti sapienziali e poetici. L’autore di questo romanzo, Joseph Roth, è un grande scrittore mitteleuropeo, viennese, non perché sia nato a Vienna, è nato, nel 1894 in Galizia orientale, da madre russa e padre austriaco, ed è morto il 23 maggio 1939, in un caffè di Parigi. Joseph Roth non era lì per turismo, era in esilio, dopo l’annessione dell’Austria alla Germania nazista. Quel caffè parigino era pieno di profughi ebrei e antinazisti in fuga, e quel giorno Roth aveva ricevuto la tragica notizia del suicidio del suo amico più caro, il grande poeta viennese Ernst Toller, un suicidio di protesta contro le Leggi razziali.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Se vuoi conoscere più da vicino Ernst Toller puoi fare una piccola ricerca: con l’enciclopedia, in biblioteca o sulla rete…
In quel caffè, nel quartiere latino, Roth scrive, sulla tovaglia di carta di un tavolino, il suo ultimo testo: «Penso a volte che la natura sia benigna nello screditare talmente la vita da far apparire desiderabile la morte. Bruceranno i nostri libri, intendendo così bruciare noi, ma nessun tiranno riuscirà mai a fermare il volo del pensiero».
Se si prende in mano un libro, uno dei famosi romanzi di Roth, si trova anche la sua biografia, che è interessante da leggere come un romanzo. Bisogna dire che, di Roth, almeno sei romanzi, sono dei classici, che devono essere letti: metteteli nella vostra lista di lettrici e lettori: quali sono questi romanzi, come s’intitolano? La tela del ragno (1923), Fuga senza fine (1927), La cripta dei cappuccini (1938), La milleduesima notte (1939), e quando morì, Roth, nella tasca della giacca, aveva un quaderno, sul quale c’era scritto il testo della sua ultima opera: La leggenda del santo bevitore, che, pochi mesi dopo, nell’ottobre del 1939 fu pubblicata (e forse avrete visto anche il film).
Giobbe. Romanzo di un uomo semplice (scritto nel 1930) – su cui stiamo puntando l’attenzione questa sera – è considerato uno dei capolavori della scrittura ironica ed è un romanzo in cui l’autore continua a interpretare scene e personaggi della Letteratura beritica per riflettere sulla condizione umana, sul senso che ha la vita. Roth racconta la storia di un uomo “insignificante”, una persona che è destinata a non lasciare traccia di sé nella storia del mondo come non hanno lasciato traccia di sé gli scrivani d’Israele. È un ebreo che si chiama Mendel Singer, è un maestro talmudico, un insegnate di catechismo, “devoto e timorato di Dio”. Il tono del racconto è dimesso, è colloquiale, è semplicissimo, come la vita che quest’uomo trascorre, in un villaggio della Volinia russa. Mendel ha una moglie che di chiama Deborah (ed è appunto a lei che volevamo arrivare), a questo formidabile personaggio femminile che Roth tratteggia in modo straordinario: Deborah, al contrario del marito, – proprio come il personaggio del Libro dei Giudici – è volitiva, caparbia, risoluta, dura, decisa, materiale, concreta. Mendel e Deborah hanno tre figli e un quarto in arrivo, che avrà dei problemi seri, sarà disabile.
Su questa semplice e povera famiglia si abbattono, come un uragano, molti mali, ci sarebbe da disperarsi, da ribellarsi, da vendicarsi, ma Mendel, novello Giobbe, e Debora, novella profetessa, con una “saggezza” equilibrata, con un rispetto per Dio che equivale al rispetto per la vita, riescono a non perdere mai la fiducia e a mantenere una grande forza vitale. Mendel e Deborah utilizzano la memoria, utilizzano il ricordo degli affetti che hanno ricevuto, delle semplici gioie della vita quotidiana, delle abitudini infantili, dell’intimità goduta insieme, e allora il ricordo diventa un grande “midrash”, un grande racconto mitico, fiabesco, che li consola. Il tutto è tenuto insieme con una straordinaria ironia, c’è sempre del comico anche nella tragedia e, alla fine, Mendel Singer, solo e un po’ abbandonato a se stesso, conclude che nonostante tutto è valsa la pena “vivere”, nonostante tutto è valsa la pena emergere dal nulla eterno (avere una coscienza) per gustare – anche se a fatica e per breve tempo – l’essenza della vita.
Vale la pena anche leggere questo romanzo nel quale i due temi fondamentali dell’esilio, la “rassegnazione” e la “speranza”, s’intrecciano nel gioco ininterrotto della “sapienza poetica beritica”.
LEGERE MULTUM….
Joseph Roth, Giobbe. Romanzo di un uomo semplice (1930)
Molti anni fa viveva a Zuchnow un uomo che si chiamava Mendel Singer. Era devoto, timorato di Dio e simile agli altri, un comunissimo ebreo. Esercitava la semplice professione del maestro. Nella sua casa, che consisteva tutta in un’ampia cucina, faceva conoscere la bibbia ai bambini. Insegnava con onesto zelo e senza vistosi successi. Migliaia e migliaia prima di lui avevano vissuto e insegnato nello stesso modo.
Insignificante come la sua esistenza era il suo viso pallido. Una grande barba di un nero simile a quello degli altri lo incorniciava tutto. La bocca era coperta dalla barba. Gli occhi erano grandi, neri, seriosi e mezzo nascosti da palpebre pesanti. Sulla sua testa stava un berretto nero di reps di seta, una stoffa con la quale si fanno talvolta cravatte fuori moda e a buon mercato. Il corpo era infilato nell’usuale caffettano ebraico di media lunghezza, le cui falde svolazzavano quando Mendel Singer andava svelto per la via e battevano con un colpo d’ala secco e regolare sui gambali degli stivaloni di cuoio.
Singer sembrava avere poco tempo e tutte mete urgenti. Certamente la sua vita era una perpetua fatica e alle volte perfino un tormento. Doveva vestire e sfamare una moglie e tre bambini. Un quarto era in arrivo. Dio aveva concesso fertilità ai suoi lombi, equanimità al suo cuore e povertà alle sue mani. Non avevano oro da pesare, né banconote da contare. Eppure la sua vita continuava a scorrere alla meglio, come un povero piccolo ruscello fra magre sponde. Ogni mattina Mendel ringraziava Dio per il sonno, per il risveglio e il giorno nascente. Quando il sole tramontava, pregava un’altra volta. Quando spuntavano le prime stelle, pregava per la terza volta. E prima di mettersi a dormire, bisbigliava una frettolosa preghiera con labbra stanche ma fervide. Il suo sonno era senza sogni. La sua coscienza era pura. La sua anima era casta. Non aveva da pentirsi di nulla e nulla c’era ch’egli bramasse. Amava sua moglie e provava piacere vicino alla sua carne. Con un sano appetito consumava in fretta i pasti. I suoi due bambini, Jonas e Schemarjah, li picchiava se disobbedivano. Ma la più piccola, Mirjam, l’accarezzava spesso. Aveva i suoi capelli neri e i suoi occhi neri, seriosi e dolci. Le sue membra erano delicate, le giunture fragili. Una giovane gazzella.
A dodici scolari di sei anni egli insegnava a leggere e a imparare a memoria la bibbia. Ciascuno dei dodici gli portava ogni venerdì venti copechi. Erano le uniche entrate di Mendel Singer. Aveva solo trent’anni, ma le sue prospettive di guadagnare di più erano minime, forse addirittura inesistenti. Come gli scolari crescevano, andavano da altri maestri più sapienti. La vita rincarava di anno in anno. I raccolti diventavano sempre più scarsi. Le carote rimpicciolivano, le uova erano vuote, le patate gelate, le minestre acqua, le carpe striminzite e i lucci piccoli, le anatre magre, le oche dure e i polli un niente.
Così suonavano le lagnanze di Deborah, la moglie di Mendel Singer. Era una donna e qualche volta aveva il diavolo addosso. Occhieggiava le proprietà dei benestanti e invidiava i guadagni della gente di commercio. Era troppo tapino Mendel Singer ai suoi occhi. Gli rimproverava i bambini, la gravidanza, il carovita, i bassi onorari e spesso perfino il brutto tempo. Il venerdì lavava il pavimento finché diventava giallo come zafferano. Le sue larghe spalle ballavano su e giù ritmicamente, le forti mani strofinavano le assi in lungo e in largo, una per una, e le unghie passavano lungo i correntini e negli interstizi raschiando via il sudicio che le ondate del mastello annientavano definitivamente. Come una grossa montagna, mobile e poderosa, andava carponi per la stanza vuota tinta in azzurro. Fuori, davanti alla porta, i mobili prendevano aria, il letto di legno marrone, i pagliericci, un tavolo piallato, due panche lunghe e strette, semplici assi orizzontali inchiodate ciascuna su due verticali. Non appena il primo crepuscolo alitava alla finestra, Deborah accendeva le candele nei candelieri di alpaca, si copriva il viso con le mani e pregava. Suo marito arrivava nel suo abito nero di seta, il pavimento gli splendeva incontro, giallo come sole fuso, il suo viso riluceva più bianco del solito, più nera che nei giorni feriali s’abbuiava anche la barba. Si sedeva, intonava un canto, poi genitori e figli sorseggiavano la minestra calda, sorridevano ai piatti e non dicevano una parola. Il calore saliva nella stanza. Si levava dalle pentole, le scodelle, i corpi. Le candele da pochi soldi nei candelieri di alpaca non resistevano, cominciavano a piegarsi. Sulla tovaglia rosso mattone a quadri azzurri gocciolava stearina e in un attimo si rapprendeva. Veniva spalancata la finestra, le candele si rinfrancavano e ardevano tranquille incontro alla loro fine. I bambini si stendevano sui pagliericci vicino alla stufa, i genitori restavano ancora a sedere e fissavano con preoccupata solennità le ultime fiammelle azzurre che guizzavano dalle cavità dei candelieri e ricadevano mollemente ondulate, un gioco d’acqua fatto col fuoco. La stearina bruciava lentamente, esili fili di fumo azzurro salivano dai residui carbonizzati degli stoppini verso il soffitto. “Ah!” sospirava. “Non sospirare!” le ricordava Mendel Singer. Tacevano. “Dormiamo. Deborah!” raccomandava. E cominciavano a mormorare una preghiera serale.
Così alla fine di ogni settimana iniziava il sabbat, con silenzio, candele e canto. Ventiquattr’ore più tardi sprofondava nella notte che guidava il grigio corteo dei giorni feriali, una ridda di affanni. Un giorno caldo nel colmo dell’estate, verso le quattro del pomeriggio, Deborah partorì. Le sue prime grida investirono la cantilena dei dodici scolaretti. Andarono tutti a casa. Cominciarono sette giorni di vacanza. Mendel ebbe un altro bambino, il quarto, un maschio. Otto giorni dopo fu circonciso e chiamato Menuchim.
Menuchim non ebbe una culla. Penzolava in un cesto di vimini nel mezzo della stanza, fissato con quattro canapi a un gancio nel soffitto, come un lampadario. Mendel Singer di quando in quando toccava con un dito leggero, non indifferente, il cesto sospeso, che subito cominciava a dondolare. Questo movimento a volte placava il neonato. Talora però non serviva affatto contro la sua voglia di piagnucolare e strillare. Il gracidìo della sua voce sormontava le voci dei dodici scolaretti, suoni profani e sgraziati che si sovrapponevano ai sacri versetti della bibbia. Deborah saliva su uno sgabello e tirava su il neonato. Bianchi, turgidi e colossali erompevano i suoi seni dalla blusa aperta e attiravano prepotentemente gli sguardi dei ragazzi. Sembrava che Deborah allattasse tutti i presenti. I suoi stessi tre figli maggiori le stavano intorno, gelosi e avidi. Scendeva il silenzio. Si sentiva il neonato succhiare.
I giorni si allungarono in settimane, le settimane diventarono mesi, dodici mesi fecero un anno e …
Potete continuare a leggere per conto vostro: noi adesso torniamo sul nostro sentiero con delle conoscenze in più sul movimento della “sapienza poetica beritica”.
Sappiamo che la Letteratura biblica, veterotestamentaria propriamente detta, comincia a prendere forma, nel VI secolo a.C., per opera degli “scrivani d’Israele in esilio a Babilonia (tre generazioni)” i quali – per scrivere la memoria e fare l’autocritica a nome del popolo deportato in Mesopotamia – utilizzano i contenuti delle “antiche narrazioni del X secolo a.C.” composte dagli “antichi scrivani di corte del re Salomone”. Gli “scrivani d’Israele della seconda generazione in esilio a Babilonia” per perseguire il loro obiettivo – produrre memoria e fare autocritica – riscrivono le “antiche narrazioni del X secolo a.C.” alla luce del “pensiero dei profeti”, un pensiero che contiene prima di tutto l’idea della “berit”, del “patto” che, nel contesto dell’esilio, diventa un elemento fondamentale per resistere alla tentazione di omologarsi con la civiltà babilonese e per non perdere la propria identità culturale.
Abbiamo continuato a ripetere questo concetto ma ora dobbiamo conoscerlo e capirlo meglio: che cos’è il “pensiero dei profeti”? Chi sono i “profeti” intorno ai quali si sviluppa – sempre a Babilonia – la cosiddetta Letteratura dei profeti posteriori?
La cosiddetta Letteratura dei profeti posteriori non va confusa con i Libri dei profeti anteriori di cui in questi due ultimi itinerari ci siamo fatti un’idea in funzione della didattica della lettura e della scrittura. Per procedere in questa direzione dobbiamo ritornare a Salomone in uno dei momenti critici per eccellenza della sua vita: il momento della sua morte, o meglio, delle sue morti.
Alla morte del re Salomone sorgono gravi problemi che conducono ad una serie di avvenimenti tragici. Salomone muore o nel 935 a.C. o nel 922 a.C. (che è la data più accreditata) e noi ci siamo già domandati come mai sia morto due volte. Ci sono due correnti di pensiero in proposito che si affrontano, e noi lasciamo fare, anche perché quei 13 anni di differenza contano poco dal punto di vista culturale, contano per la “cabala”, per la “mistica dei numeri” del calendario ebraico perchè un grande personaggio mitico come Salomone non può morire a caso: deve morire secondo la “mistica dei numeri” (confesso di essere impreparato sull’argomento – vedete voi se riuscite a trovare dei dati in proposito – e non saprei dire perché il 935 dovrebbe essere meglio del 922 o viceversa (ci vorrebbe l’abate Giuseppe Vella che faceva il “numerista” a Palermo: ve lo ricordate? Avete letto Il Consiglio d’Egitto?); si può dire che ci sia un riferimento alla cultura del tempo dei Faraoni egizi per cui anche i numeri giocano un ruolo nell’aprire la strada per “l’Altro Mondo”, per la “vita eterna”.
Il fatto che conta, è che – come abbiamo appena detto – alla morte di Salomone, indipendentemente dall’anno (a prescindere dai numeri), la lotta per il potere porta alla divisione del regno degli Ebrei, in due Stati (e su questo numero non ci piove). La divisione, la rottura dell’unità politica, molto spesso (quasi sempre) indebolisce una Nazione: e così avviene per la nazione ebraica che già propriamente una Nazione non era. Con il rompersi dell’unità politica del regno di Salomone, comincia anche quel processo di migrazione e di dispersione che chiamiamo: la “diaspora”. Vedete che – come ci ha ricordato Filone Alessandrino – il fenomeno della “dispersione” degli Ebrei nel mondo è cominciato da lontano ed è cominciato a causa delle sconfitte militari. Come tutti gli Stati, formatisi in questo periodo storico, detto “periodo antico”, anche quello degli Ebrei è uno Stato tribale all’interno del quale si manifesta una conflittualità permanente e nella Letteratura dell’Antico Testamento troviamo il racconto e la descrizione delle famose “dodici tribù d’Israele”, dodici come i figli di Giacobbe: ancora una volta ci troviamo di fronte alla potenza mitica dei numeri, il numero dodici (come il numero sette) è “mitico” ma non basta il potere dei numeri per portare la pace nella società!
Alla morte di Salomone, le dieci tribù del nord del paese, sotto la guida di Geroboamo, si ribellano a Gerusalemme, non riconoscono più la classe dirigente della capitale, si rivoltano contro il nuovo re, figlio di Salomone, Roboamo. Le dieci tribù del nord fanno la secessione e fondano quello che si chiama il Regno d’Israele, con capitale la città di Sichem e poi la città di Samaria. Le due tribù del sud (di Giuda e di Beniamino) danno vita al Regno di Giuda, intorno a Gerusalemme e a Bersabea: è un territorio più piccolo, ma questo staterello è più organizzato e più forte militarmente rispetto al regno del nord e avrà una vita un po’ più lunga.
Perché si crea questa situazione di ribellione, questa frattura? Perché, nonostante i grandi attestati di stima di cui gode, Salomone – figlio di Davide e Betsabea (abbiamo letto come la sua nascita avvenga in un contesto molto ambiguo) – non ha condotto una vita esemplare. Il suo regno è certamente florido: a Gerusalemme arrivano grandi ricchezze sia sotto forma di tributi da parte dei popoli vicini più deboli, sia grazie all’estesa rete commerciale che il re e i suoi mercanti ha saputo creare. In politica estera Salomone è molto abile: è infatti alleato con l’Egitto, pericoloso concorrente (ha sposato le figlie dei Faraoni), e poi, per ragioni commerciali, è alleato con Hiram, il re di Tiro e quindi realizza traffici marittimi insieme ai Fenici (che sono i più abili navigatori dell’epoca), facendo arrivare le sue navi fino in India, in Africa orientale e in Arabia. La leggendaria regina di Saba è la sovrana dell’Etiopia o più probabilmente dell’Arabia meridionale (oggi è lo Yemen) e la comparsa di questo personaggio è direttamente collegata al redditizio commercio dell’incenso (il più grande deodorante dell’antichità).
Nonostante tutta questa floridezza la popolazione però non partecipa al benessere della corte: il popolo continua a vivere nell’indigenza e rimprovera al re di condurre un’esistenza simile a quella dei sovrani pagani, sposando principesse straniere e soprattutto facendo entrare divinità contrarie alle credenze di Israele. Quindi Salomone regna con il pugno di ferro e alla sua morte scoppia la ribellione con la divisione del suo regno.
Sappiamo – già da precedenti percorsi – che i due regni (d’Israele e di Giuda) hanno avuto una vita molto agitata. Il regno d’Israele, che riunisce le dieci tribù del nord, in duecento anni vede succedere al trono ben diciannove re di dieci diverse dinastie che rimangono sul trono talvolta appena qualche mese: più della metà di questi sovrani muore di morte violenta a causa dei continui complotti. La politica estera di questo regno risulta essere molto incostante: i re passano da un’alleanza all’altra senza un preciso disegno, senza una strategia. Geroboamo crea due nuovi Santuari per togliere importanza al Tempio di Gerusalemme: una mossa che finisce per indebolire il regno. Un altro errore è stato quello di rompere l’alleanza con la Siria che inizia una politica espansionista e conquista gran parte del regno d’Israele minacciando la stessa capitale Samaria, e solo una provvidenziale avanzata degli Assiri su Damasco, capitale dello stato siriano, salva provvisoriamente il regno d’Israele.
Ma nel 746 a.C. gli Assiri – che ormai la fanno da padroni in questa area geografica – impongono un tributo al regno d’Israele e, successivamente, il re assiro Salmanassar V conquista la Samaria e nel 722 a.C. suo figlio Sargon II riduce il regno d’Israele a provincia assira deportando la maggior parte degli abitanti e sostituendoli (come si usava fare) con coloni provenienti da altre parti del suo vasto impero. La classe dirigente del regno d’Israele, ancora prima della sconfitta, aveva già iniziato una migrazione verso nord, verso la Siria e la Cilicia abbandonando la popolazione al suo destino.
La stessa sorte tocca, 130 anni dopo, al più piccolo e orgoglioso regno di Giuda. Il regno del sud viene sconfitto (per due volte nell’arco di un decennio) dai Babilonesi (che hanno spodestato anche gli Assiri): la seconda volta corre l’anno 587 a.C. e il re babilonese che conquista Gerusalemme si chiama Nabucodonosor, personaggio che conosciamo soprattutto nell’abbreviazione melodrammatica di Nabucco; nel Nabucco di Giuseppe Verdi, in musica, gli Ebrei deportati a Babilonia piangono per la “patria perduta”: tutti conosciamo quel «Va pensiero sull’ali dorate, va e ti posi sui clivi e sui colli».
In questa seconda occasione, la classe dirigente ebrea e la manodopera specializzata vengono “deportati” in Mesopotamia, a Babilonia, per fare la corvèe: vengono trasferiti quelli che sanno lavorare e che stanno meglio dal punto di vista economico. I poveri, che sono i contadini, i pastori, i pescatori vengono lasciati lì, in Canaan, su una terra senza risorse che i Babilonesi abbandonano a se stessa: lì la loro amministrazione non arriva perché non c’è nessuna risorsa da sfruttare. Questa povera gente viene identificata con la parola “ebionim”, che troviamo nel testo del Libro di Isaia: gli “ebionim” sono i poveri, sono i diseredati.
Abbiamo citato il Libro di Isaia e tutti sappiamo che Isaia è un “profeta”, uno (qualcuno dice il più importante anche se Geremia ne contende il primato) dei “profeti posteriori”.
Nel periodo che va dal 922 al 587 a.C. (sono più di trecento anni), mentre si consuma la “divisione” del regno di Salomone, emerge, come risposta alle varie tappe di questa tragedia, la cosiddetta “predicazione dei profeti d’Israele”, i cosiddetti “profeti posteriori”. E questo avvenimento corrisponde all’incubazione della Letteratura dei profeti, del “midrash nebiyim”: in ebraico il termine “profeta” si dice “nābî”, e “nebiyim” è il plurale di questa parola e significa “i profeti”. La “predicazione dei profeti d’Israele” è un fatto di notevole importanza dal punto di vista culturale anche se può sembrare un po’ fuori luogo fare un’affermazione di questo genere proprio nel bel mezzo di una serie di tragedie dovute soprattutto alla discordia tribale e alla guerra.
Di che cosa parliamo quando parliamo dei “profeti d’Israele” e della loro “predicazione”? È un tema assai complesso sul quale molti studi sono stati fatti e molti se ne fanno: le problematiche che emergono dalla Letteratura dei profeti sono molte e sono oggetto di vivace dibattito culturale. Noi – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – ci atteniamo alle opinioni condivise dalle studiose e dagli studiosi di filologia biblica.
La prima linea di pensiero che emerge riguarda la natura di questo importante fenomeno culturale: il “profetismo ebraico” è, in origine, il prodotto di un “dissenso ideologico, politico, sociale, intellettuale”, ma non è solo questo: infatti si tratta di un fenomeno molto più complesso. Abbiamo detto che sotto il regno di Salomone si sviluppa (è lui che la istituisce) una “classe dirigente” e sappiamo che l’elemento più creativo di questa classe intellettuale è dato dalla categoria degli “scrivani” di cui abbiamo fatto una prima analisi, nell’itinerario della scorsa settimana, per poter continuare il nostro viaggio con una maggiore consapevolezza. Gli “scrivani” – e questa, dall’invenzione della scrittura, è una costante che riguarda gli apparati amministrativi di tutti gli Stati dell’era antica – hanno il compito istituzionale di tenere la “cronaca” degli avvenimenti che caratterizzano la vita di un regno: hanno quindi la facoltà di “creare la verità”, “in principio è la Parola”. È chiaro che, in un regime di monarchia assoluta, gli “scrivani” sono degli impiegati cui viene chiesto (di essere complici) di essere funzionali al potere: anche Salomone chiede questo ai suoi “scrivani di corte”.
Naturalmente non tutti gli “scrivani” si assoggettano a questa regola dell’essere succubi del regime e questo comporta delle conseguenze: gli “scrivani dissidenti” vengono allontanati, perseguitati, si fa loro divieto di scrivere e di parlare. Gli “scrivani dissidenti d’Israele” cacciati dalla corte trovano tuttavia degli spazi sul terreno sociale nei quali esprimersi e quindi assumono un nuovo ruolo che è già stato codificato nella Storia del Pensiero Umano: il ruolo del “profeta”. Il “profeta” rappresenta un modello di intellettuale – e sta nel significato del termine stesso (“nābî” in ebraico è il “proclamatore”, “colui che proclama”) – che parla a nome di un’autorità superiore a quella terrena che s’incarna nella figura del re il quale non sempre agisce con saggezza, con giustizia, con spirito di umanità.
In origine i profeti – come gli aedi greci – comunicano “oralmente” il loro pensiero e attirano l’attenzione di vasti strati della popolazione creando un vero e proprio linguaggio, uno stile di comunicazione che si concretizza nel genere letterario della “predica”, del “richiamo”, de “l’ammonimento”.
Contro il fenomeno del “profetismo ribelle e oppositore” la repressione messa in atto dai regimi assoluti non dà buoni frutti, anzi, ne potenzia l’efficacia perché il “profeta” si fa portavoce di problemi reali, dà voce alle esigenze del popolo oppresso. Ed è così che (ecco perché abbiamo detto che è un tema complesso), per combattere il fenomeno del “profetismo critico”, i monarchi – e Salomone è tra i primi – istituiscono il “profetismo di regime”: i “profeti ortodossi” devono trasformare gli ordini del re in annunci di natura divina in modo da contrastare le ardenti e violente dichiarazioni dei “profeti dissidenti” considerati “eterodossi”. Alla morte di Salomone nel suo regno esistono quindi diverse categorie di profeti: i “profeti cortigiani” fedeli al regime e i “profeti autonomi” dissenzienti nei confronti del potere istituzionale.
I “profeti autonomi”, che di solito ci vengono presentati come personaggi solitari e isolati (il profeta corrisponde all’immagine di un pastore che vive ai margini della società in compagnia del suo gregge), fondano delle vere e proprie “scuole di profetismo” che si caratterizzano per un proprio linguaggio e per un proprio stile che, poi, in un secondo momento, confluirà nella scrittura e nei Libri.
Abbiamo detto che inizialmente il “profetismo autonomo” è un fenomeno legato alla “oralità”: sono i “profeti cortigiani” del regno di Salomone i primi a scrivere ma quelli non li ascolta nessuno e le loro opere sono andate perdute, ne rimangono solo delle tracce.
Grande successo popolare ottiene invece la predicazione dei “profeti autonomi” e la “Letteratura dei profeti” che possediamo è formata soprattutto dalla loro voce: 19 Libri della Bibbia sono scritti in “stile profetico” e, inoltre, in tutti i 49 Libri dell’Antico Testamento e in quasi tutti i 27 Libri del Nuovo Testamento si citano i “profeti”. Secondo la Spiegazione allegorica del Pentateuco di Filone Alessandrino il primo importante ciclo del movimento della “sapienza poetica beritica” è il midrash nebiyim: la “predicazione dei profeti”.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Non possiamo fare a meno di riflettere in modo autobiografico sulla parola “predica”…
C’è una “predica” che ricordi in modo particolare? Chi te l’ha fatta, quando, dove, perché?
E tu a chi hai fatto la predica e perché?…
Scrivi quattro righe in proposito…
I profeti “predicano sciagure”, predicano contro il malgoverno dello Stato unitario ma anche contro la divisione dello Stato che viene pensata in funzione di interessi particolari. Prima il malgoverno dello Stato unitario di Salomone e poi le gesta pessime dei governanti dei due Stati nati dalla scissione hanno fatto aumentare – questo denunciano, con la predicazione, i “profeti” – il tasso di corruzione e il degrado morale e, di conseguenza, si sono ingigantiti i guai. La divisione (che era nell’aria da tempo, scongiurata da Salomone con la violenza militare) porterà – predicano i “profeti autonomi” – la sconfitta definitiva, la continua sottomissione, la dispersione (la diaspora) perpetua del popolo d’Israele. Ma – aggiungono i profeti – la sconfitta, la sottomissione, la dispersione (la diaspora) porteranno anche ad una “presa di coscienza” che favorirà il ritorno alle antiche tradizioni religiose e agli antichi costumi morali (la Legge) dettati dal patto (dalla “berit”) tra un unico Dio (Onnipotente e Altissimo) e il popolo d’Israele.
La “Letteratura dei profeti” – con la mediazione degli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia – c’insegna che sono stati proprio loro, i profeti di Israele, i primi a parlare del “patto”, della “berit” tra un unico Dio (Onnipotente e Altissimo) e il popolo d’Israele e ad annunciare che dal “patto”, dalla “berit”, deriva la Legge, la “toràh” (la Legge uguale per tutti). Nei Libri dei profeti – scritti, in prima versione, dagli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia – noi leggiamo che essi predicano un “nuovo patto” alludendo al fatto che ce ne sia uno precedente: un “antico patto”, formulato e riformulato in momenti diversi, però non ben identificato dai profeti stessi.
A questo punto – prima di entrare nei particolari strada facendo – chiariamo subito (confortati dalla ricerca delle studiose e degli studiosi di filologia biblica) che gli “scrivani d’Israele della seconda generazione in esilio a Babilonia” (che abbiamo imparato a conoscere come elemento-chiave del movimento della “sapienza poetica beritica”) si sentono in dovere, dopo aver riflettuto (fatto autocritica e preso coscienza) sulla predicazione dei profeti, di colmare un vuoto con una grande narrazione che mette in scena “l’antico patto nelle sue varie fasi” di cui i profeti danno solo l’annuncio (come se fosse un’intuizione loro) senza però saperne nulla.
Per costruire questa grande narrazione che mette in scena “l’antico patto nelle sue varie fasi” – che diventerà il testo dei Libri della Genesi e dell’Esodo – gli “scrivani d’Israele della seconda generazione in esilio a Babilonia” devono fare appello soprattutto alla cultura egizia e alla cultura babilonese e di questa grande operazione culturale ne parleremo a suo tempo…
Ora mettiamo a fuoco un concetto che dobbiamo avere chiaro nella mente: gli “scrivani d’Israele della seconda generazione in esilio a Babilonia” prima si dedicano a scrivere la Letteratura dei profeti posteriori (l’autocritica, la presa di coscienza, la formulazione dell’idea del “patto”, della “berit”), poi si dedicano a scrivere i Libri dei profeti anteriori (l’applicazione dell’idea del “patto”, della “berit” alla storia d’Israele) e dopo scrivono i Libri del Pentateuco (la Legge, il Deuteronomio – che significa la “Seconda Legge”, – l’Esodo e infine la Genesi). Dopo questa chiarificazione sui tempi e sulla trafila di composizione, a Babilonia, della prima grande stesura della Letteratura dell’Antico Testamento, torniamo sul sentiero del profetismo facendo ancora alcune puntualizzazioni.
In quello che, dalle studiose e dagli studiosi di filologia biblica, viene chiamato “il primo strato” della Letteratura dei profeti (già Filone Alessandrino parla di “proto epifaneia”, di “superficie più antica”) – che è anche il primo materiale scritto, il primo nucleo organizzato di Scrittura intorno al quale viene formandosi la Letteratura dell’Antico Testamento – si parla di un “nuovo patto” senza fare nessun riferimento ad un “antico e non meglio identificato patto”. Il personaggio di Abramo (che, come sappiamo, nel Libro della Genesi stipula il “patto”, la “berit”) non compare nel nucleo più antico dei Libri dei profeti posteriori perché il Libro della Genesi non è ancora stato scritto, verrà scritto dopo, per ultimo. Il nome di Abramo compare in modo esplicito solo nel capitolo 41 del Libro di Isaia, cioè nel Deutero Isaia, nel Secondo Isaia scritto dopo l’esilio: il Libro di Isaia si divide in tre parti – Proto, Deutero e Trito – scritte in periodi diversi da autori diversi. Il nome di Abramo compare in modo esplicito solo nel capitolo 41 del Libro di Isaia, nel Deutero Isaia, nel Secondo Isaia scritto dopo il Libro della Genesi quando la figura letteraria di Abramo e degli altri patriarchi (Giacobbe innanzi tutto) è stata creata. Quindi i Libri della Genesi e dell’Esodo, che il canone mette per primi, sono stati scritti successivamente rispetto al “primo strato”, alla “proto epifaneia”, alla “superficie più antica” della Letteratura dei profeti posteriori, e sono stati scritti per fare da cornice alla Legge e per “colmare un vuoto” narrativo con una superficie, con un secondo strato (una “deutero epifaneia”) che potesse inquadrare le parole-chiave e le idee-cardine che il “profetismo” aveva messo in circolo e che erano rimaste nella memoria collettiva. Ci rendiamo conto che il processo di composizione della Letteratura dei profeti e della Letteratura dell’Antico Testamento e l’andamento del movimento della “sapienza poetica beritica” è un argomento assai complesso e quindi dobbiamo (per quanto siamo all’altezza di poterlo fare) procedere con ordine.
Intanto dobbiamo dire che il fenomeno del “profetismo ebraico” – che è il primo stadio del movimento della “sapienza poetica beritica” – costituisce un importante momento dell’Età assiale della storia su cui dobbiamo riflettere. Il fenomeno del “profetismo” non nasce direttamente con i profeti dissidenti d’Israele, c’è un precedente, per quanto riguarda il “profetismo”, nella Storia del Pensiero Umano che dobbiamo, ancora una volta, prendere in considerazione proprio perché, come abbiamo già affermato, la “sapienza poetica beritica” ha attinto, si è “ispirata” come nessun altra cultura, a diverse civiltà (sumerica, iranica, egizia, ugaritica, babilonese) con cui è venuta a contatto, per cui la “sapienza poetica beritica” è uno straordinario crogiuolo nel quale si mescolano parole-chiave e idee-cardine di diversa provenienza ma tenute insieme da una “ispirazione” unitaria che la “proto epifaneia”, la “superficie più antica” della Letteratura dei profeti, – per mano degli “scrivani d’Israele della seconda generazione in esilio a Babilonia” – sa dare.
Il significativo fenomeno culturale dei “profeti dissidenti d’Israele” attinge alla civiltà iranica: dell’altopiano iraniano: lì si forma la tradizione culturale secondo la quale tutti i profeti sono stati “pastori”. La Letteratura dell’Antico Testamento mutua il concetto del “profeta pastore” e anche il concetto di “messia” dalla cultura di un grande personaggio della Storia del Pensiero Umano che – come tutti i grandi saggi dell’Età assiale della Storia –periodicamente incontriamo e che si chiama Zaratustra. Chi è Zaratustra? Ne abbiamo parlato già molte volte ma è possibile che qualche studentessa o qualche studente non conosca le linee del “pensiero zaratustriano” e poi tutti, periodicamente, dobbiamo ripassare. Zaratustra è, prima di tutto, un pastore, vissuto nel VI secolo a.C. in una regione dell’altopiano iraniano, che oggi si chiama Afghanistan. Zaratustra è un “pastore afgano”, ma è soprattutto un pensatore molto importante, perché ha intrapreso una grande rivoluzione spirituale, in quell’area di passaggio. Questa “rivoluzione spirituale” – le cui idee hanno influenzato la comparsa dei profeti d’Israele e quindi la nascita del movimento della “sapienza poetica beritica” – è stata esportata da prima con il genere della predicazione “orale” che, successivamente, si è tradotta, per opera degli scrivani deportati a Babilonia, in forma scritta di midrash.
Quali sono le idee principali del pensiero di Zaratustra? Gli abitanti di quel territorio che definiamo con il nome di Afghanistan, nel VI secolo a.C. vivono di pastorizia, un po’ di agricoltura e si sono organizzati in tribù: è lo stesso modello di vita delle tribù cananee e delle tribù arabe. Ogni tribù dell’altopiano iraniano – ci dicono le studiose e gli studiosi di antropologia – ha una struttura gerarchica che comprende tre classi sociali: pastori, sacerdoti e guerrieri. L’economia di queste tribù è molto povera e questo territorio è esposto alle frequenti scorrerie di gruppi nomadi che depredano greggi e coltivazioni. Queste condizioni sociali hanno un riflesso sulla visione ideologica e religiosa di questa gente: lì si è cominciato a pensare che le sorti del mondo siano in mano a due princìpi nei quali si è sdoppiato il dio supremo Ahura Mazda. Si pensa che nel cuore del dio supremo siano presenti i princìpi del male e del bene in eterna e drammatica lotta tra loro. La sorte degli esseri umani, il destino delle persone è esposto all’andamento di queste battaglie cruente che avvengono nel cuore del dio-diviso tra il male e il bene.
Zaratustra si oppone a questo fatalismo rozzo e superstizioso. Secondo il suo pensiero il conflitto tra i due princìpi, del bene e del male, è interno alla persona umana. Quindi, compito della persona umana è quello di affrontare la vita con responsabilità e con impegno: contro il male è necessario – secondo Zaratustra – combattere, sostenere una lotta, una “guerra santa” del bene contro il male che deve essere combattuta nel “cuore dell’Uomo”. Nel pensiero di Zaratustra emerge con forza il primato del dio del bene Ahura Mazda, il quale – alla fine – riuscirà a prevalere sul principio della malvagità, a condizione però che le persone si assumano la responsabilità di schierarsi dalla parte del bene, dalla parte di Ahura Mazda cioè dalla parte di quei princìpi che sono presenti nell’etimologia del nome del dio di Zaratustra: nelle parole iraniane “ahùr” e “mazdà” ritroviamo i significati di “giustizia”, “sapienza” e “memoria”, i princìpi con i quali l’Umanità – secondo Zaratustra –deve e può combattere contro il male. Il dio di Zaratustra chiama gli esseri umani a fare una scelta in favore della “giustizia”, della “sapienza” e della “memoria”. Non contano i culti, non contano i riti – non hanno senso – quel che conta, quel che dà senso alla vita è una responsabile scelta per favorire una maggiore “giustizia”, per far crescere il livello della “sapienza” e per non perdere la “memoria”.
Queste tre parole-chiave, che formano il nome del dio di Zaratustra, “giustizia, sapienza, memoria”, sono anche i tre valori ideali intorno a cui si forma la figura del “profeta pastore”. Queste tre parole – assimilate dai profeti d’Israele – accompagnano tutto il movimento della “sapienza poetica beritica”.
Con Zaratustra – per la prima volta nella Storia del Pensiero Umano – il destino dell’Umanità viene visto come una crescita verso un fine positivo. All’origine di questa storia, della storia dell’Umanità – secondo Zaratustra – c’è la decisione di un Dio “buono, misericordioso, clemente” che sprona, incalza, sollecita la persona umana a perfezionare la creazione, a migliorare il mondo creato. Il futuro, il domani, l’avvenire dipende dalla scelta dell’individuo: se la persona sceglie il bene, la giustizia, la sapienza, la memoria, potrà contribuire a quella che Zaratustra chiama la “risurrezione cosmica finale”, quando “vinto il principio di morte”, ci potrà essere “un mondo totalmente rinnovato”.
E la storia dell’Umanità – dice Zaratustra – è segnata dalla presenza di “personaggi luminosi”, i profeti: il profeta è una guida, è un pastore che indica alle persone la strada del bene e della salvezza.
Le idee di Zaratustra sono molto significative e sono arrivate fino a noi perché, dopo la sua morte, un discepolo (uno “scrivano persiano”) ha trascritto le sue parole in 17 componimenti poetici detti Gatha (gli Inni) che sono entrati a far parte dell’Avesta, il libro sacro dei Persiani. Leggiamone un frammento, per renderci conto del linguaggio e dello stile di questa letteratura:
LEGERE MULTUM….
Gatha (Gli Inni di Zaratustra)
Colui che Ahura-Mazda preferisce è il buon lavoratore della terra degli uomini.
Io voglio essere una persona che parla con la bocca e la parola di un dio.
Voglio creare delle opere che fin dall’alba lavorino per la crescita del giorno,
delle opere che rallegrino lo sguardo di un dio alla luce del sole. Quale artista
ha creato la luce e le tenebre? Chi ha fatto l’aurora, il mezzogiorno e la notte?
Alla nascita del mondo, chi ha fatto le acque e le piante? Chi ha messo in moto
le nuvole e i venti? Chi ha messo l’amore nel cuore di un padre quando gli nasce
un figlio? O Ahura-Mazda, tu che fai progredire il mondo, accordaci i beni
del mondo: l’eredità umana dei nostri avi e ciò che nasce dalle nostre azioni di oggi,
dacci la forza, che è la tua, di creare la gioia futura degli uomini.
O dio della luce, donaci la gioia di compiere le tue opere di giustizia e di sapienza!
Fino all’ultima rivoluzione del mondo, fino alla sua risurrezione,
il Male non ce la farà a far morire il mondo un’altra volta.
Tu donerai la potenza ai giusti, alla fine dei tempi.
Il pensiero di Zaratustra – ed è per questo motivo che ci siamo avvicinati a lui –delinea, per primo, il concetto e i caratteri del profetiamo. La tradizione secondo la quale tutti i profeti sono stati pastori, ha le sue radici più profonde nella cultura di Zaratustra. E il “profeta” Zaratustra, l’essenza di pastore – non di pecore, in questo caso, ma di cammelli – ce l’ha proprio nel nome: Zaratustra, in lingua iraniana significa “colui che ha cura dei cammelli”.
Il modello culturale del “profeta pastore”, l’idea che tutti i profeti sono stati pastori, entra nella Letteratura dell’Antico Testamento, entrerà anche nella Letteratura dei Vangeli – Gesù di Nazareth è “il buon pastore” – ed entrerà anche nella tradizione islamica che afferma nei suoi scritti, nei suoi hadit, che anche Muhammad, il Profeta dell’islam (abbiamo studiato, qualche anno fa, questo argomento), è stato e non poteva non essere, da bambino, un pastorello: senza questa patente non si può essere profeti.
Quindi dobbiamo puntare la nostra attenzione sul fenomeno del “profetismo ebraico” per capire meglio la prima fase del movimento della “sapienza poetica beritica”. Qual è il Libro della Letteratura dei profeti da cui bisogna partire per conoscere questo fenomeno? Qual è il Libro della Letteratura dei profeti da cui bisogna partire per capire il primo elemento fondamentale di questo fenomeno: l’identità tra l’essere profeta e l’essere pastore? Le studiose e gli studiosi di filologia biblica ci fanno sapere – ce lo aveva già rammentato Filone Alessandrino – che il punto di riferimento culturale per capire l’identità tra l’essere profeta e l’essere pastore è il Libro di Amos, che è quindi il testo con cui dobbiamo prendere contatto. Naturalmente Amos è un “pastore” e il testo del Libro di Amos comincia proprio così: “Queste sono le parole di Amos, che era un pastore del villaggio di Tekoa”. Da questo momento: “l’essere pastore” diventa una prerogativa essenziale per essere anche profeta.
Che cosa racconta il Libro di Amos, nei suoi nove capitoletti? Chissà se anche Amos predica ai suoi agnelli come fa il “pastore” di Trilussa?
LEGERE MULTUM….
Trilussa, Er Pastore e l’Agnelli (1915-1917)
Appena j’ebbe fatto l’iniezzioni pe’ fa’ venì l’istinto sanguinario
er Pastore disse: – È necessario che l’Agnelli diventino Leoni
per esse forti e dichiarà la guerra contro tutti li Lupi de la terra. –
Er motivo era giusto, e lo dimostra che l’Agnelli risposero a l’invito;
ogni belato diventò un ruggito: – Morte a li Lupi! Via da casa nostra! –
Pe’ falla corta, in quella stessa notte, li Lupi se n’agnedero a fa’ fotte.
Vinta che fu la guerra er Pastorello, doppo d’avé sonato la zampogna,
strillò co’ tutta l’anima: – Bisogna ch’ogni Leone ridiventi Agnello
e ritorni tranquillo a casa mia ne l’interesse de la fattoria. –
Ma quelli j’arisposero: – Stai grasso! Oramai, caro mio, se semo accorti
d’esse animali coraggiosi e forti e no bestiole da portasse a spasso!
Dunque sta’ attent’a te, ché d’ora in poi li padroni der campo semo noi!
Chissà se anche Amos predica ai suoi agnelli come fa il “pastore” di Trilussa? Che cosa racconta il Libro di Amos, nei suoi nove capitoletti? Lo scopriremo la prossima settimana nell’ultimo itinerario dell’anno 2007: è doveroso non mancare anche perché, dopo nove itinerari, potete ben dire: “Dunque sta’ attent’a te, ché d’ora in poi li padroni der campo semo noi!”.
Dunque se “li padroni der campo siete voi!”: accorrete, la Scuola è vostra, è qui…