Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza di Socrate Platone Aristotele 2008 8-9-10 ottobre 2008
IL PERCORSO NEL TERRITORIO DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, DI PLATONE
E DI ARISTOTELE PARTE DALLA VIA DEL RISPETTO DELLA LEGGE ...
Ben tornati e ben venuti a Scuola. Ben tornate e ben tornati a tutti coloro che sono in viaggio sui sentieri di questi itinerari culturali ormai da anni. E ben venute e ben venuti a coloro che per la prima volta si apprestano ad iniziare un itinerario di studio sulle rotte di un Percorso di Storia del Pensiero Umano in funzione della didattica della lettura e della scrittura.
Questo Percorso ha un titolo lungo e complesso, pronunciabile con difficoltà, ma tuttavia – da venticinque anni (dal 1° ottobre 1984) – continua ad essere sempre ben frequentato. Questa offerta formativa, nell’ambito della Scuola pubblica degli adulti, compie 25 anni: è quindi una serata “storica”, questa, che celebriamo con semplicità, che celebriamo con “temperanza” (una parola-chiave che incontreremo strada facendo e che oggi tende ad essere rimossa per far posto ad un’ignobile smoderatezza), noi dobbiamo celebrare questo anniversario con la consapevole sobrietà che da un quarto di secolo caratterizza questo lavoro intellettuale, questa attività culturale proposta sotto traccia. Proposta “sotto traccia” perché la parola cultura (ed è il primo concetto che studiamo, che ripassiamo questa sera) deriva dal verbo coltivare e l’azione del coltivare avviene e deve avvenire sotto traccia. Chi ha la fortuna di poter “fare l’orto” (magari anche sul terrazzo di una casa cittadina, o anche immaginandolo nella propria mente) deve umilmente piegarsi verso la terra e penetrare sotto traccia: solo così ci saranno frutti che svettano verso il cielo, ma, a non molta distanza dalla terra.
Compito della Scuola degli Adulti è quello di insegnare alle cittadine e ai cittadini a coltivare la propria facoltà di apprendimento: la capacità di apprendimento è data a tutte le persone (anche alle più menomate) per tutto l’arco della vita. Quando c’è un effettivo sviluppo dell’apprendimento c’è la coltura, c’è la cultura.
Oggi sono di moda i cosiddetti “grandi eventi culturali” che si curano poco (perché, per ragioni di tempo e di metodo, non possono materialmente farlo) di coltivare l’apprendimento delle persone. I cosiddetti “eventi culturali” hanno soprattutto a che fare con la parola “spettacolo”, con la parola “rappresentazione”, con la parola “trattenimento” e dispensano senza dubbio forti emozioni e particolari sensazioni ma l’obiettivo degli “eventi culturali” è, dichiaratamente, rivolto agli affari, alla pubblicità, alla propaganda, alla esibizione e non alla crescita intellettuale delle cittadine e dei cittadini.
La consapevolezza della propria crescita intellettuale produce un altro tipo di emozioni e di sensazioni, più profonde, meno epidermiche, meno superficiali ma più radicate nell’interiorità, più consone al ritmo dell’intelletto: per insegnare alla persona a coltivare il proprio apprendimento è necessaria la Scuola e lo sviluppo (la coltivazione) dell’apprendimento è legato al concetto della “lentezza”; di conseguenza venticinque anni non rappresentano un tempo particolarmente lungo (sono solo la centesima parte della nostra età mentale: l’età intellettuale di ciascuno di noi – come la maggior parte di voi sa – corrisponde a duemilacinquecento anni, non siamo così vecchie e così vecchi). E allora quando questa esperienza compirà i duemilacinquecento anni faremo una grande festa, adesso pensiamo al presente.
Quando le cittadine e i cittadini (italiani e stranieri) decidono di frequentare la Scuola pubblica, e scelgono di viaggiare su un Percorso di questo tipo? (E quasi mille persone hanno scelto di fare questa esperienza in questi anni, con circa seimila presenze). Fanno questa scelta quando si rendono conto che è importante dedicare un po’ del loro tempo (qualche ora – tre, quattro, cinque, sei ore alla settimana) – allo studio. O per meglio dire, usando il latino: allo studium et cura (la parola latina cura è sinonimo della parola latina studium) e l’uso della lingua latina è utile, molto spesso, per definire meglio un concetto: in latino il significato del termine studium risulta molto più efficace, e significa: prendersi cura della propria anima, del proprio corpo e della propria persona coltivando la propria facoltà di apprendimento. Lo “studio”, studium et cura, nella cultura dell’Umanesimo, è la forma più qualificata per occuparsi di se stessi, non tanto per fare carriera, per avere successo, per diventare ricchi e famosi ma soprattutto per progredire intellettualmente e spiritualmente: lo sviluppo materiale – pensano gli Umanisti medioevali – deve andare di pari passo con il progresso spirituale perché è il progresso spirituale che rende lo sviluppo materiale rispettoso dei valori umani e quindi un “bene”.
Lo “studio”, studium et cura, è un’attività che dovrebbe accompagnare tutte le cittadine e tutti i cittadini nel loro quotidiano viaggio esistenziale. Se lo “studio” fa riferimento alla metafora del “viaggio” – e se definiamo questa proposta scolastica con il termine “percorso”, strutturato in un insieme di (trenta) itinerari – significa che, questa sera, dobbiamo dedicarci brevemente ma puntualmente, come avviene da venticinque anni, al rituale della partenza.
Perché un viaggio ha sempre inizio con la partenza: sia che si tratti di un viaggio di andata (in greco, nel greco di Omero, il viaggio di andata di dice poreìa) sia che si tratti di un viaggio di ritorno (in greco, nel greco di Omero, il viaggio di ritorno si dice nostos). La lingua greca – sapete già che questa sera ci stiamo preparando per entrare nel vasto territorio della cultura greca, riprendiamo contatto con il movimento della “sapienza poetica orfica” – nella versione ionica, specifica con termini diversi (poreìa, nostos) la natura del viaggio e difatti, se riflettiamo, il vaggio di andata è cosa diversa dal viaggio di ritorno. Un viaggio, qualunque ne sia la natura, ha sempre inizio con la partenza, e la partenza (anche quando avviene in fretta, come quella di Ovidio per Tomi) è un rito.
La celebrazione del rituale della partenza è un atto dovuto: è infatti una circostanza necessaria utile a far riflettere tutti noi sulla natura e sugli obiettivi di questo Percorso di studio. Inoltre la celebrazione del rituale della partenza è un momento importante che serve per prendere il passo, e il passo, il ritmo, in un Percorso di didattica della lettura e della scrittura è scandito dagli elementi dell’affabulazione didattica.
L’affabulazione didattica è il metodo attraverso il quale questa offerta formativa si realizza e ricorderemo tra poco – molto brevemente – in che cosa consiste: non si può intraprendere un itinerario senza sapere con quale passo dobbiamo affrontare il cammino.
Questo Percorso di studio – che si realizza nel settore della Scuola pubblica dgli Adulti – rappresenta un’offerta formativa, rivolta alle cittadine e ai cittadini italiani e stranieri, che intende favorire (che ha come obiettivo specifico) lo sviluppo dell’esercizio della lettura e della scrittura: è quindi tecnicamente un Percorso di Alfabetizzazione funzionale secondo il Decreto che istituisce la Scuola pubblica degli Adulti nel nostro paese. L’esperienza della lettura intesa «come riflessione e analisi sul testo scritto» e della scrittura intesa «come rappresentazione sintetica del proprio pensiero» è praticamente assente dalla vita delle persone.
Sappiamo che in Italia «indipendentemente dal titolo di studio e dalle condizioni sociali le cittadine e i cittadini adulti che non leggono mai sono il 77% della popolazione e le cittadine e i cittadini adulti che non scrivono mai sono l’86% della popolazione», questo dipende dal fatto che circa 40 milioni di persone (in Italia!) soffrono a diversi livelli di semi-analfabetismo e, tra queste, circa 22 milioni sono da considerarsi sulla soglia dell’analfabetismo.
Le Carte (i Documenti ufficiali) di tutti gli Organismi internazionali (per esempio l’Unesco dichiarano che: «Senza alfabeto non ci può essere crescita intellettuale e di conseguenza non ci può essere sviluppo democratico… Senza alfabeto non c’è democrazia». Nel nostro paese – anche per quanto rigarda il basso livello delle competenze intellettuali – c’è un’emergenza democratica.
Questo Percorso rappresenta un modello didattico (uno dei tanti possibili) che vuole attivare dalla base – con la partecipazione attiva delle cittadine e dei cittadini – una campagna di alfabetizzazione culturale perché: “lettrici e lettori”, “scrivane e scrivani” non si nasce ma si diventa attraverso un itinerario di studio. Questo Percorso vuole rendere operante un modello didattico (uno dei tanti possibili) per condurre una campagna di alfabetizzazione culturale attraverso i Centri Territoriali Permanenti per l’istruzione in età adulta, vale a dire attraverso la Scuola pubblica che la Costituzione – all’art.34 – dichiara: «Aperta a tutti.».
Dopo averne chiarito la “natura” dobbiamo domandarci quali sono gli obiettivi specifici di questo Percorso di studio scandito dal ritmo degli elementi dell’affabulazione didattica. A questa domanda molti di voi sanno già rispondere (con dovizia di particolari) perché hanno subìto molte volte – ad ogni inizio di Percorso – il tradizionale rituale della partenza e i rituali sono necessari ma sono ripetitivi, bisogna avere pazienza.
Questo Percorso didattico propone alle/ai partecipanti il raggiungimento dei seguenti obiettivi specifici (che cosa ci proponiamo di imparare in questo Percorso di studio?):
(primo) È necessario acquisire l’abitudine a leggere, per dieci minuti al giorno, quattro pagine al giorno: la lettura è fondamentalmente una (buona) abitudine. Se si vuole legere multA, molti libri, (ancora una volta utilizziamo il latino, per definire il concetto della quantità), se si vuole leggere 1500-2000 pagine l’anno (da lettrici, da lettori forti) bisogna imparare a leggere poco (è un paradosso, ma: «si legge molto se si legge poco»), si legge molto (60 ore l’anno per 1500 pagine l’anno: questo è già un pacchetto da lettrici e lettori forti!) se si leggono, costantemente e con attenzione, quattro pagine al giorno per dieci minuti al giorno. È necessario, quindi, imparare a legere multum (questa volta utilizziamo il latino per definire il concetto dal punto di vista della qualità), che significa: leggere costantemente, poco e bene.
(secondo) È necessario imparare ad analizzare un repertorio (nel nostro caso i “repertori” sono soprattutto rappresentati da testi scritti): sa leggere chi conosce i significati (le forme e i contenuti) delle parole-chiave della Storia del Pensiero Umano, e sa leggere chi capisce le forme e i contenuti delle idee significative-cardine della Storia del Pensiero Umano.
(terzo) È necessario imparare a sviluppare una trama intellettuale, cioè imparare a costruire il catalogo dei pensieri (a mettere in ordine i pensieri) che nascono nella nostra mente (il pensiero è sempre in azione) quando riflettiamo sui significati delle parole-chiave e delle idee significative contenute nei repertori della Storia del Pensiero Umano.
(quarto) È necessario acquisire l’abitudine a sintetizzare un pensiero attraverso la scrittura: è importante scrivere quotidianamente uno dei pensieri che sono stati catalogati dalla mente che riflette, uno dei segmenti della trama intellettuale che la nostra mente ha tessuto: “Chi non tesse non ha roba” e questo proverbio vale anche per il corredo intellettuale. Per l’esercizio della scrittura valgono le stesse cose che abbiamo detto per la lettura: la scrittura è una buona abitudine ed è utile scrivere quattro righe al giorno, preferibilmente di carattere autobiografico esprimendosi nel modo più semplice tanto per quanto riguarda la forma che per quanto riguarda il contenuto. La “scrittura” è uno straordinario esercizio in funzione dello studio e con funzioni terapeutiche e ci permette di raccontare, di descrivere, di informare, di esprimere, di interpretare, di argomentare.
(quinto) È necessario imparare a riflettere sulla trafila dell’apprendimento e a imparare a potenziare le azioni attraverso le quali si realizza l’apprendimento (le cosiddette azioni cognitive), bisogna sapere che per imparare ad imparare è necessario mettere in atto sei azioni fondamentali: conoscere, capire, applicare, analizzare, sintetizzare, valutare.
Il Percorso in funzione della didattica della lettura e della scrittura sul quale ci stiamo incamminando si propone di potenziare l’apprendimento (l’apprendimento è un diritto-dovere delle cittadine e dei cittadini), e questo significa che dobbiamo imparare a conoscere (un catalogo di parole-chiave), a capire (un catalogo di idee significative), dobbiamo imparare ad applicarci (con la lettura e la scrittura su un repertorio culturale), dobbiamo imparare ad analizzare (a mettere in ordine la trama dei nostri pensieri), dobbiamo imparare a sintetizzare (a fissare, con la scrittura, il pensiero che ci seduce di più), e dobbiamo imparare a valutare (a misurare, a giudicare i risultati del nostro itinerario intellettuale), e tanto più – durante questa trafila – ci rendiamo conto di non-sapere e meglio è. «La cultura è un lungo viaggio all’interno della nostra ignoranza» (scrive Baruch Spinoza nella sua Etica interpretando Socrate tramandato da Platone). «La cultura non è una cosa – dicevano gli Scolastici medioevali a Parigi alla Facoltà delle Arti nel 1247 – ma è un modo di fare le cose». La Scuola serve non solo per imparare le cose (per rendere “la testa ben piena”) ma soprattutto per imparare “come” s’imparano le cose, per imparare un “modo di fare” (per rendere la “testa ben fatta”).
L’attività dei Percorsi di Storia del Pensiero Umano in funzione della didattica della lettura e della scrittura si sviluppa (abbiamo detto poco fa) attraverso l’applicazione del metodo dell’affabulazione didattica, che risulta efficace, nel settore dell’Educazione degli Adulti, per favorire il coinvolgimento della persona nel processo d’apprendimento e per rendere la persona capace di governare, attraverso le azioni cognitive, il proprio itinerario d’apprendimento in modo da imparare a investire in intelligenza.
Per chiarire che cosa significa imparare ad investire in intelligenza siamo soliti utilizzare una metafora poetica: “non sono le perle che fanno la collana, è il filo”, vale a dire che è l’acquisizione del metodo (della trafila dell’apprendimento) che permette di imparare a studiare (a curare, a coltivare se stesse e se stessi). La Scuola degli Adulti costruisce i suoi Percorsi didattici in modo che nella mente delle persone possano aprirsi le tre principali porte d’accesso alla conoscenza: la curiosità, la riflessione e l’immaginazione.
Per concludere il (ripetitivo e tradizionale ma necessario) rituale della partenza dobbiamo dire che ci avvaliamo anche di due strumenti funzionali al Percorso di didattica della lettura e della scrittura.
Il primo strumento è la rivista L’ANTIbagno che ha già compiuto dici anni. In realtà si tratta di un quaderno didattico interattivo costruito in modo che ciascuno lo possa leggere ma soprattutto possa utilizzare gli spazi, lasciati appositamente a disposizione, per scrivere (per disegnare, per illustrare, per colorare, per appiccicare immagini): spesso (anche perché lo spazio a disposizione non è molto) è sufficiente una “parola” per esprimere il proprio pensiero, spesso è sufficiente un “segno” per rappresentare una riflessione, ed è in questo senso che, scrivendoci e disegnandoci sopra, questo quaderno si trasforma in una rivista: è in questo modo che diventa la rivista propria di ciascuno, pronta per essere letta e per cominciare il suo tragitto nella biblioteca itinerante.
Il secondo strumento di cui questa esperienza scolastica si avvale è il sito governato dal Franco mastrodiposta. I Percorsi di Storia del Pensiero Umano in funzione della didattica della lettura e della scrittura sono in rete all’indirizzo: www.inantibagno.it. A questo sito se ne affianca uno di supporto governato da mastro Luigi all’indirizzo: www.tazzadorzo.net. I siti danno la possibilità – iscrivendosi all’area riservata – di avere a disposizione il testo integrale delle Lezioni di questo Percorso e permette (volendo) a gruppi di cittadini (in altri CTP italiani o all’estero) di seguire l’itinerario di studio a distanza: via FAD - Formazione a distanza e difatti qualcuno ne usufruisce.
Il (ripetitivo e tradizionale ma necessario) rituale della partenza ci ha permesso di prendere il passo, e così questo viaggio, il viaggio di studio dell’anno scolastico 2008-2009 è incominciato. Il rituale della partenza ci ha messo al corrente del “perché” e del “come” dobbiamo intraprendere un viaggio di studio, ma: da dove parte il nostro Percorso? Come si configura (che forma ha) il punto, il luogo della nostra partenza?
Il punto di partenza del nostro viaggio si trova in prossimità dell’arrivo del Percorso dello scorso anno scolastico. Alla fine del mese di maggio – quattro mesi fa – molte e molti di noi, al termine di un lungo ed impervio percorso nel territorio della “sapienza poetica beritica” – si chiama “sapienza poetica beritica” quel millenario movimento culturale che ha prodotto i Libri della Bibbia, che ha dato vita alla Letteratura dell’Antico Testamento – siamo state chiamate e chiamati come è tradizione ad esprimere le nostre scelte mediante un questionario su un catalogo di parole-chiave e su una lista di Scuole di scrittura alle quali dobbiamo la produzione dei Libri della Bibbia. La compilazione del questionario conclusivo è un esercizio molto importante perché serve non solo per sondare delle preferenze (la Scuola degli Adulti non si affida al “sondaggismo”, ma fa delle scelte in funzione dei bisogni intellettuali reali delle persone). La compilazione del questionario finale è un esercizio significativo perché serve a dare una “forma” al territorio culturale che è stato attraversato e questa “forma ideale” non è tanto un punto di arrivo ma diventa soprattutto un nuovo punto di partenza per altri viaggi.
Lo scorso anno scolastico, studiando i processi intellettuali di formazione dei Libri della Bibbia, abbiamo scoperto e catalogato una serie di “parole” e di “idee” che vengono ritenute proprie del “movimento della sapienza poetica beritica”: queste “parole” e queste “idee” sono collocate – sul piano dell’Età assiale della storia – su di un ramo de “l’albero genealogico lessicale”. Che cos’è “l’albero genealogico lessicale”? (molte e molti di voi conoscono questo fondamentale strumento culturale).
“L’albero genealogico lessicale” è l’oggetto che contiene, che dà forma al catalogo delle “parole-chiave” che, dalle origini, costituiscono il patrimonio culturale che la Storia del Pensiero Umano ci ha lasciato in eredità. Come c’è un “albero genealogico famigliare” (tutte e tutti noi lo possediamo, se no non saremmo qui) che descrive il percorso della nostra vita biologica così c’è un “albero genealogico lessicale” (delle parole e delle idee) che descrive il percorso intellettuale della tribù dell’homo sapiens di cui tutte e tutti noi facciamo parte insieme a tutte e a tutti gli abitanti del Pianeta che ci ospita. Se vogliamo “alfabetizzarci” e se vogliamo cominciare a capire “chi siamo” (a capire in che cosa consiste la “cultura umana”) dobbiamo imparare a conoscere “l’albero genealogico lessicale” che comprende, a cominciare dai rami più bassi, le parole e le idee degli “albori” e le parole e le idee “dell’Età assiale della storia”.
Sulle parole degli “albori” (quattro coppie di parole-chiave: paura e bisogno, ritmo e ciclo, rete e rito, cerimonia e racconto) e sulle le parole e le idee “dell’Età assiale della storia” (tra le quali le più importanti sono: destino, ordine, sogno e ira) abbiamo puntato la nostra attenzione in questi ultimi anni in compagnia di Erodoto prima e poi, lo scorso anno, in compagnia degli scrivani d’Israele. La conoscenza e la comprensione de “l’albero genealogico lessicale” ci permette, quindi, di cominciare a chiarire la nostra identità: che è “l’identità umana”, dalla quale scaturiscono quelle che chiamiamo le “culture” che sono il terreno di coltura del nostro intelletto.
E ora andiamo ad osservare i risultati del questionario: forse siamo anche un po’ curiosi visto che gran parte di noi ha partecipato a questa consultazione.
Hanno compilato il questionario 238 persone quindi la “forma” che è stata data al territorio della “sapienza poetica beritica” è avvalorata da un consistente campione. Questa “forma”, abbiamo detto, non è solo un punto di arrivo ma soprattutto serve per configurare il punto di partenza del nuovo viaggio che – dopo aver preso il passo – stiamo per intraprendere. Il movimento della “sapienza poetica beritica” – ricordiamolo – è un complesso e stratificato fenomeno culturale che dura circa mille anni al quale dobbiamo i Libri della Bibbia, la cosiddetta Letteratura beritica. Il termine “beritico” – tanto per rinfrescarci la memoria e per mettere al corrente chi non lo sa – deriva dalla parola ebraica “berit” che significa “patto di solidarietà”, “accordo tra le parti”.
Strada facendo, durante il nostro viaggio (e anche quest’anno succederà così) è andato formandosi un catalogo di parole-chiave incontrate itinerario dopo itinerario. Il catalogo era molto più lungo (decine di parole) ma nell’elenco finale sono stati conservati solo i termini specifici (21 parole) della cultura beritica, della Letteratura biblica.
Andiamo ad osservare il primo riquadro intitolato parola per parola, dove la grandezza dei caratteri delle parole rappresenta la quantità di consensi che quella parola ha avuto.
parola per parola …
il patto la legge
il germoglio
il servo il ruggito il popolo
l’ispirazione la voce
l’accordo il profeta l’autobiografia il deserto
il pastore il testamento la traduzione
l’esilio il proclama
la lamentazione il tempio il resto
la falsificazione
La prima osservazione da fare, che salta all’occhio, è che c’è stata una forte attrazione per le due parole-chiave dominanti nel movimento della “sapienza poetica beritica”: la parola berit [il patto di solidarietà] e la parola toràh [la legge uguale per tutti]. Tra queste due parole c’è stato un vero e proprio testa a testa conclusosi sul filo di lana: 194 punti per il patto e 190 per la legge. Non ci si deve meravigliare di questo risultato perché queste due parole – come abbiamo imparato nel Percorso che si è concluso a giugno – sono il collante che tiene insieme i Libri di quella straordinaria biblioteca chiamata la Bibbia (uno dei «grandi codici» della tradizione intellettuale europea e mondiale), formata dai 49 libri della Letteratura del cosiddetto Antico Testamento e dai 27 libri della Letteratura dei Vangeli, in tutto 76 testi tenuti insieme proprio dalle parole patto e legge. Queste due parole contengono entrambe i due concetti portanti, le due idee cardine del pensiero del movimento della “sapienza poetica beritica”, queste due parole riassumono l’insegnamento contenuto nella Bibbia, un insegnamento (come abbiamo studiato) di natura civile e politica oltre che di natura morale e teologica e tutta la Letteratura biblica si riassume in una importante affermazione e le viaggiatrici e i viaggiatori del Percorso dello scorso anno scolastico, con questa scelta a grande maggioranza, è come se avessero voluto sottoscrivere questa affermazione: una società potrà ritenersi “salvata (Isaia)” quando ciascuno – con spirito di servizio – sarà capace di rispettare i patti stipulati (la berit) e quando ciascuno – con senso del dovere – sarà capace di rispettare la Legge uguale per tutti (la toràh).
Dopo queste due parole potenti, è sicuramente interessante constatare (come potete osservare nel riquadro intitolato parola per parola) che la terza parola più scelta è: il germoglio. Il concentrarsi di molti consensi su questa parola era meno prevedibile: penso sia stata una scelta molto oculata soprattutto come riferimento al punto di partenza, in fin dei conti un “germoglio” è già di per sé un punto di partenza. Ci fosse Aristotele (forse lo avete sentito nominare) direbbe: «il germoglio è atto di una realtà che sta in potenza», ma Aristotele lo incontreremo a suo tempo e forse ci spiegherà che cosa intende dire con questa affermazione.
E allora adesso, che siamo pronte e pronti per partire – indipendentemente dal significato che la parola “germoglio” assume nella cultura biblica o nella cultura greca – riflettiamo sull’idea del “germogliare”, un’idea alla quale abbiamo dato un ruolo importante.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Quando pensate ad un germoglio a che cosa pensate?… Pensate ad un fiore da raccogliere, ad un frutto da gustare, a una nuova nata o ad un nuovo nato da crescere, ad un’idea da elaborare, ad un lavoro da avviare, ad un principio da affermare, ad un’iniziativa da prendere, oppure a che cosa?…
Fate una scelta secondo la vostra esperienza e scrivete quattro righe in proposito, sono le prime righe di questo nuovo anno scolastico e penso sia di buon auspicio iniziare da un “germoglio”, anche se siamo all’inizio dell’autunno…
Poi nel riquadro intitolato parola per parola, troviamo, a scalare, le altre parole del catalogo: il servo, il ruggito, il popolo, l’ispirazione, la voce, l’accordo, il profeta, l’autobiografia, il deserto, il pastore, il testamento, la traduzione, l’esilio, il proclama, la lamentazione, il tempio, il resto e la falsificazione che è la parola scelta di meno, però nessuna parola è stata esclusa, tutte le parole sono entrate in gioco.
Adesso, però, analizziamo l’elemento più interessante che è presente nel catalogo di parole su cui abbiamo fatto le nostre scelte. Se osserviamo il riquadro intitolato la chiave interpretativa, possiamo notare che nel catalogo esistono due gruppi di parole: un gruppo intorno alla parola “patto” e un gruppo intorno alla parola “legge”. E allora dobbiamo sapere che nel catalogo delle parole-chiave su cui abbiamo fatto le nostre scelte – che è formato da 21 parole – c’è una chiave interpretativa che ci è stata suggerita dalle studiose e degli studiosi di filologia biblica. Tra queste 21 parole, intanto, c’è n’è una che viene definita “non assimilabile” ed è la parola “lamentazione” che difatti compare a dividere, esternamente, i due gruppi. La parola “lamentazione” viene definita “non assimilabile”: “non assimilabile” in rapporto a che cosa?
la chiave interpretativa …
il patto l’ispirazione l’accordo il profeta il testamento
la traduzione il pastore l’esilio il proclama la falsificazione
la lamentazione
la legge il germoglio il servo
il ruggito il popolo la voce l’autobiografia il deserto il tempio il resto
La parola “lamentazione” è definita “non assimilabile” in rapporto alle due parole più potenti – il “patto” e la “legge”.
Perché le studiose e gli studiosi di filologia biblica considerano “non assimilabile” questa parola al programma di carattere politico, morale e teologico che porta alla composizione dei Libri della Bibbia? Le studentesse e gli studenti, che hanno partecipato al Percorso dell’anno scorso, sanno che gli scrivani della prima generazione in esilio a Babilonia utilizzano il genere letterario della “lamentazione” per rimuovere il fatto (per cercare delle giustificazioni senza assumersi le loro responsabilità) di non avere rispettato, in quanto classe dirigente del Regno ebraico, i patti stipulati con le classi subalterne e di non aver considerato la legge uguale per tutti: per questo motivo i loro figli, gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia, li considerano responsabili delle sconfitte inflitte prima al Regno d’Israele e poi al Regno di Giuda da parte degli Assiri e dei Babilonesi e li contestano radicalmente.
Le altre 20 parole sono invece assimilabili al programma e sono infatti legate a una delle due parole più potenti. Alla parola “patto” sono legate le parole: ispirazione, accordo, profeta, testamento traduzione, pastore, esilio, proclama, falsificazione; e alla parola “legge” sono legate le parole: germoglio, servo, ruggito, popolo, voce, autobiografia, deserto, tempio, resto.
E allora se analizziamo le scelte fatte in funzione di questa chiave interpretativa: che cosa possiamo constatare? Possiamo constatare che l’area di influenza della parola “legge” è maggiore perché le parole che appartengono alla sfera della “legge” (germoglio, servo, ruggito, popolo, voce, autobiografia, deserto, tempio, resto) sono state scelte di più.
E ora per concludere la nostra indagine sul questionario finale osserviamo il riquadro intitolato idea per idea, che riporta i dati della seconda questione su cui abbiamo scelto. La domanda era questa: per quale Scuola di scrittura avresti voluto lavorare come scrivana o come scrivano? Il risultato che emerge è molto interessante perché rivela un “alto tasso di coerenza” da parte dei gruppi di studio che hanno frequentato la Scuola. Da che cosa si riscontra questo “alto tasso di coerenza”?
Nella scelta del catalogo sulle parole-chiave si è delineata una maggiore influenza delle parole che gravitano intorno al concetto della “legge” e, contemporaneamente (se osservate il riquadro intitolato idea per idea), la Scuola di costruzione del testo che ha ricevuto i maggiori consensi è quella degli “scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia detti dello stile del proclama di Amos” i quali – come sappiamo – sono stati determinanti nel comporre la Legge (la toràh), nel dare la struttura di base al Deuteronomio.
idea per idea …
Gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia detti dello stile del proclama di Amos
Gli scrivani dissidenti soprannominati pastori-profeti
Gli scrivani del Codice Priester dello stile di Isaia
Gli scrivani filotraduzionalisti del ciclo ellenistico alessandrino
Gli scrivani del Codice Priester dello stile di Geremia
Gli antichi scrivani di corte del tempo di Salomone
Gli scrivani controtraduzionisti del ciclo ellenistico alessandrino
Gli scrivani della prima generazione in esilio a Babilonia detti delle Lamentazioni
Seguono poi – con un buon numero di consensi – “gli scrivani dissidenti soprannominati pastori-profeti” ai quali viene attribuita la creazione dell’idea del “patto” come strumento costitutivo di una società più giusta. Troviamo poi, in ordine decrescente di scelta, gli “scrivani della Scuola di Isaia”, i “filotraduzionisti alessandrini”, gli “scrivani della Scuola di Geremia”, poi, con meno consensi gli “antichi scrivani di corte del tempo di Salomone”, gli “scrivani controtraduzionisti alessandrini” e infine – come se si volesse ribadire l’idea della “non assimilabilità” della parola – troviamo gli “scrivani della prima generazione in esilio a Babilonia detti delle Lamentazioni”. Quindi le scelte operate nel catalogo delle Scuole di costruzione del testo trovano una corrispondenza con le scelte operate sul catalogo delle parole-chiave.
E ora torniamo al dunque: i risultati del questionario hanno messo in evidenza una “forma” e questa “forma” costituisce per noi anche l’immagine del punto di partenza del viaggio che stiamo per intraprendere. Da quale porta, attraverso quale varco rientriamo nel vastissimo territorio della “sapienza poetica orfica”?
Sappiamo che il termine “orfico” deriva dal nome di un mitico e straordinario personaggio che si chiama Orfeo e che, inevitabilmente, rincontreremo ancora sul nostro cammino. Sappiamo poi che il movimento della “sapienza poetica orfica” ha dato origine a quella che chiamiamo la “cultura greca” e un’ampia parte di questo territorio, contenente molti modelli significativi della cultura greca, lo abbiamo esplorato, negli anni precedenti (dall’autunno del 2005 alla primavera del 2007), in compagnia di Erodoto, e una serie di esperienze di apprendimento che abbiamo fatto, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, durante queste esplorazioni le richiameremo alla nostra memoria (e le riproporremo per chi non era ancora in viaggio con noi) perché ci saranno utili sugli itinerari di questo nuovo Percorso.
Naturalmente, dopo Erodoto (che si sta riposando a Turi sotto l’albero genealogico lessicale continuando a rimaneggiare la sua opera intitolata Le Storie), il movimento della “sapienza poetica orfica” ha continuato a svilupparsi (ancora per un millennio, circa) creando un patrimonio di oggetti intellettuali di straordinario valore per la Storia del Pensiero Umano e quindi per la storia di ciascuna e di ciascuno di noi: siamo noi – cittadine e cittadini di questo tempo – gli eredi di questo patrimonio ed è nostro diritto e nostro dovere acquisire questa eredità, non per vivere di rendita ma per continuare a produrre cultura investendo in intelligenza.
E allora, attraverso quale via entriamo nel vastissimo territorio della “sapienza poetica orfica, della cultura greca”? Entriamo in questo territorio attraverso una strada alla quale possiamo dare il nome di “via della legge” perché il concetto della “legge uguale per tutti” è quello che, nel complesso, ha attirato maggiormente l’attenzione delle persone che hanno viaggiato nel territorio della “sapienza poetica beritica” e questo concetto ha dato forma al punto di arrivo del Percorso precedente e indica, quindi, il punto di partenza del nostro nuovo Percorso.
E dove si trova la “via della legge” dalla quale – dopo avere preso il passo – daremo inizio al nostro viaggio? La “via della legge” – che per noi si configura come punto di partenza (le partenze per i “viaggi intellettuali” sono sempre macchinose, molto più macchinose che le partenze per i viaggi reali!) – ci porta in una città, una città importante che stiamo per raggiungere con i nostri potenti mezzi: con i mezzi che lo studio (“studium et cura”) in funzione della didattica della lettura e della scrittura può mettere a nostra disposizione. Bisogna precisare che la “via della legge” – che si configura come punto di partenza del nostro Percorso – non è solo un concetto virtuale, ma è anche un oggetto reale sul quale, volendo, sarebbe possibile posare i piedi camminando (con delicatezza) per circa 250 metri: una distanza più che sufficiente per prendere il via.
Il territorio che abbiamo attraversato lo scorso anno (molte e molti di voi dovrebbero ricordare) aveva la forma di un grande triangolo ai vertici del quale c’erano tre grandi città che ci hanno ospitato (dal VI al II secolo a.C.): Babilonia, Gerusalemme e Alessandria d’Egitto. Dal porto di Alessandria (una città che conosciamo bene), adesso, c’imbarchiamo e – con la nostra nave dell’immaginario (che si chiama Sidonia ed è pilotata dal capitano Agenore di Tiro, ecco i nostri potenti mezzi!) – raggiungiamo in un battibaleno la città che contiene il punto di partenza di questo nuovo viaggio: questa città si chiama Atene e non c’è nessuno di noi che non l’abbia sentita nominare.
Dove si trova precisamente, nella città di Atene, la “via della legge”: il ritrovo della partenza? Il porto di Atene, nel quale stiamo per approdare, si chiama Pireo (chissà quante e quanti di voi sono sbarcate o si sono imbarcati in questo famoso porto!). L’ultima volta che siamo sbarcati ad Atene lo abbiamo fatto, alla metà del V secolo a.C., in compagnia di Erodoto (484-424 a.C.). Noi sappiamo che dal Pireo al centro della città ci sono otto chilometri da percorrere o a cavallo, o più spesso a piedi. Uno dei poteri che viene attribuito allo studio e alla didattica della lettura e della scrittura è quello di andare oltre il tempo sincronico, è quello di trasportare le persone nel tempo diacronico (in particolare nel passato, in modo da poterlo rievocare): qual è il nostro tempo diacronico questa sera, in quale epoca, in quale anno ci siamo spostati con il pensiero? Questa sera siamo nell’anno 399 a.C., perché, come mai? Si potrebbe anche rispondere con una battuta e questa sera avremo solo il tempo di rispondere a questa domanda con una enunciazione.
Prima di spiegare perché ci siamo spostati nell’anno 399 a.C. è più utile domandarci: per come? Che cosa significa? Dobbiamo riflettere con attenzione sul concetto di “tempo diacronico” (quello che non è contemporaneo a noi), anzi (mentre stiamo prendendo il passo nello spazio e nel tempo) dobbiamo riflettere su questa idea perché se noi siamo qui questa sera è perché la nostra famiglia è passata anche attraverso quel periodo: chissà dove abitavano e chi erano i nostri antenati di quell’epoca, e chissà che cosa abbiamo ereditato anche da loro?
La Scuola deve favorire le riflessioni autobiografiche: l’autobiografia (orale e soprattutto scritta) è un esercizio intellettuale molto utile perché serve a dare sincronia al tempo diacronico, a cominciare dal periodo più recente, dal vissuto, di cui abbiamo memoria personale, per allenare la mente a dilatare il tempo in funzione dello studio perché lo studio allarga la vita. Frequentare un Percorso di studio (e, a questo proposito, stiamo prendendo il passo) significa vivere in modo più intenso la propria vita dal punto di vista qualitativo.
Questa sera siamo nell’anno 399 a.C. e ci troviamo ad Atene, e Atene è una metropoli internazionale, forse continua ad essere ancora (come è stata nei due secoli precedenti) la più importante città del mondo. Atene è una piccola città, ma è una polis di centomila abitanti, quindi è una città ad altissima densità, costruita in modo caotico in uno spazio ristretto. Com’è l’Atene tra il V e IV secolo a.C.? Ora che ci siamo arrivati (con i nostri potenti mezzi diacronici e diatopici, dilatando il tempo e lo spazio) guardiamoci intorno, si fa abbastanza presto a visitarla: ci sono tre luoghi fondamentali che emergono, che si distinguono e che ne definiscono la natura. Il primo di questi luoghi è il centro dei culti religiosi: l’Acropoli, la Rocca della città, e chi non conosce l’Acropoli di Atene? Il secondo, ai piedi dell’Acropoli, è la sede degli incontri, dei comizi, del commercio, della politica e della vita sociale: l’Agorà, la piazza principale, dove, dal mattino alla sera, la gente vi si riunisce, parla, discute, tratta, manifesta. L’Agorà è sempre affollata e piena di vita – è contigua al mercato – e tutte le cittadine e i cittadini, anche gli stranieri (i meteci) che vivono in città, la frequentano assiduamente. Molte e molti di voi saranno certamente salite e saliti sull’Acropoli e avranno di sicuro passeggiato tra gli imponenti resti dell’Agorà.
E adesso continuiamo la passeggiata per avvicinarci al punto di partenza del nostro viaggio: credo che anche in questo luogo molte e molti di voi avranno sicuramente messo piede. Tra l’Agorà e l’Acropoli si erge una piccola collina rocciosa, alta 115 metri, dedicata al dio Ares che prende il nome di Areopago (la “collina dedicata al dio Ares”, Ares è il dio della guerra che i Romani chiamano Marte). L’Areopago costituisce – con l’Acropoli e l’Agorà – il terzo luogo fondamentale dell’antica Atene: qui troviamo gli elementi culturali che condizionano (in modo positivo) l’atto (assai macchinoso, come potete constatare) della nostra partenza. Intanto sull’Areopago c’è il Bouleutérion, il tribunale supremo: l’Areopago è il luogo, è l’istituzione dove si celebra (o si dovrebbe celebrare), in nome del popolo, il rito della giustizia. Su questo luogo, oggi, nella parte più alta, rimangono tracce di un’esedra (l’esedra è un porticato semicircolare all’interno del quale ci si può sedere per riposare e conversare) e rimangono tracce del presunto altare di Athena Aréia (questo nome significa: “Atena che si sovrappone ad Ares”, vale a dire: “in questa città le opere che favoriscono la pace devono essere privilegiate rispetto a quelle che portano alla guerra).
Il culto di Atena, ufficialmente, si sovrappone a quello di Ares nel 566 a.C. con l’istituzione delle Panatenee, le grandi feste durante le quali i duelli in nome di Ares (spesso cruenti per determinare una gerarchia tra gli aristoi, tra i nobili) vengono aboliti e sostituiti dalle più pacifiche gare atletiche (il pentatlon, il decatlon) sul modello delle Olimpiadi (ricordiamo che la prima Olimpiade è del 776 a.C. ed è stata celebrata in Olimpia nei pressi del Santuario di Zeus).
In Atene, quindi, dal 566 a.C., la dèa Atena, figlia di Zeus, assume il ruolo di massima divinità (continua ad essere vestita con l’armatura ma ha in mano un ramo d’ulivo, il suo dono più prezioso alla città) e, tra le tante prerogative, Atena è soprattutto la dèa che sovrintende alla giustizia (non c’è pace senza giustizia e non c’è giustizia se non si rispetta la legge uguale per tutti): Atena è la dèa che vigila sui tribunali e sulle assemblee popolari, è quindi evidente la sua presenza sull’Areopago dove c’è il supremo tribunale davanti al quale si celebra la giustizia.
Inoltre sotto lo sperone di nord-est della collina dell’Areopago – e ne rimane la struttura – era collocato il santuario delle Semnài, o delle Erinni (le mitiche dee della vendetta che, secondo la leggenda, avevano perseguitato Oreste colpevole di aver ucciso la madre Clitennestra), e qui si trova anche una traccia della presunta tomba del mitico personaggio di Edipo: questi sono tutti segnali (la presenza di Oreste, di Edipo) che caratterizzano il primo elemento culturale che riguarda il rapporto che c’è, nella cultura orfica, tra il teatro e il tribunale, tra la rappresentazione della tragedia e la celebrazione della giustizia e su questo complesso tema dovremo, a breve, riflettere proprio per poterci orientare sul cammino che dobbiamo intraprendere.
E poi sulla collina dell’Areopago, sul lato che guarda verso l’Acropoli, troviamo oggi una grande lapide con la trascrizione di un passo degli Atti degli Apostoli (dal capitolo 17 di questo libro) che ricorda quando, nell’anno 51, l’apostolo Paolo di Tarso, proprio sull’Areopago, tiene una conferenza nel corso della quale annuncia la resurrezione dai morti di Gesù di Nazareth. La seconda parte del capitolo 17 degli Atti degli Apostoli contiene un brano molto famoso e molto significativo e non si può fare a meno (mentre prendiamo il passo) di leggerlo e di fare alcune interessanti considerazioni, è necessario anche tradurlo perché, naturalmente, sulla grande lapide la citazione da questo brano è scritta in greco, è scritta nella sua lingua originale: lo so che quasi tutte e tutti – avendo frequentato assiduamente Erodoto – conoscete il greco antico a menadito, ma forse qualcuno (io per esempio) è in difficoltà.
Questa sosta davanti alla grande lapide per rimanda agli Atti degli Apostoli costituisce una riflessione sul secondo elemento culturale su cui, all’atto della partenza, dobbiamo riflettere per dare un indirizzo al cammino che dobbiamo intraprendere. Gli Atti degli Apostoli è un libro che incontriamo spesso (s’incontra frequentemente, infatti, negli itinerari culturali) e voi sapete già che quest’opera non è un testo di storia ma bensì è un “catechismo”, è un testo allegorico: non vuole fare la storia del Cristianesimo (di cui si sapeva ben poco) ma vuole insegnarne i principi.
Gli Atti degli Apostoli è il proto-catechismo cristiano e contiene il pensiero, le regole, la disciplina del Cristianesimo delle origini e poi crea, dal punto di vista letterario (per avvalorare la catechesi), due grandi personaggi esemplari, Pietro e Paolo, dando loro un alone leggendario in funzione non della storia ma dell’apologia e della pedagogia. Gli Atti degli Apostoli fanno diventare Pietro e Paolo complementari (come gli scrivani d’Israele hanno fatto diventare complementari i due re Ezechia e Giosia, ve li ricordate? Ebbene, il procedimento letterario è simile), ma in realtà Pietro e Paolo si sono incontrati una solo due volte e gli incontri (uno a Gerusalemme e uno ad Antiochia) sono stati drammatici e sono terminati con un scontro insanabile (come scrive Paolo nella Lettera ai Galati), inoltre Pietro non è mai andato più in là di Antiochia e quindi non è mai stato a Roma, e il testo degli Atti degli Apostoli conferma, inequivocabilmente, questo fatto e chi ha scritto questo libro lo sa.
Il libro degli Atti degli Apostoli è stato composto a Roma, tra il 95 e il 100, da papa Clemente Romano (un personaggio noto a molte e a molti di voi: anche l’anno scorso lo abbiamo incontrato in partenza). Clemente Romano è il primo papa (regge la comunità di Roma dal 92 al 101, secondo Eusebio di Cesarea) che possa essere considerato una figura storica ed è sulla tomba di Clemente – come ha dichiarato la liturgia del Giubileo dell’anno 2000 – che sorge la prima struttura della Chiesa di Roma (i papi, storicamente, sono i successori di Clemente). Clemente Romano è il primo dei cosiddetti Padri Apostolici (insieme a Ignazio di Antiochia e a Policarpo di Smirne) che hanno dato una prima forma istituzionale alla Chiesa.
Clemente Romano è autore di una serie di opere che complessivamente formano quella che viene chiamata la Letteratura Clementina (il primo atto costitutivo, documentato, della Chiesa di Roma). Clemente Romano riordina e completa le Lettere di Paolo di Tarso e scrive un certo numero di Lettere sul modello di quelle di Paolo (difatti spesso ci sono delle sovrapposizioni per cui è difficile distinguere tra i due autori), scrive gli Atti degli Apostoli (che, come abbiamo detto, è il primo catechismo cristiano), scrive i primi due capitoli del Vangelo secondo Luca (il cosiddetto “testo proto-lucano” che fa da introduzione alla Letteratura dei Vangeli dove si chiarisce il ruolo della figura di Giovanni il Battezzatore – che veniva considerato il Messia in molte comunità – e nel quale troviamo la ricostruzione allegorica della nascita e dell’infanzia di Gesù e la prima definizione del Dio cristiano: “il nostro Dio è bontà e misericordia”).
La Letteratura Clementina è il frutto di una significativa operazione intellettuale che determina e orienta in modo decisivo la linea dottrinale del Cristianesimo (tema che abbiamo studiato nell’anno scolastico 2000-2001).
Se le caratteristiche degli Atti degli Apostoli sono quelle che abbiamo detto ciò significa che il racconto della conferenza di Paolo ad Atene sull’Areopago non ha propriamente un carattere storico: Paolo ha certamente fatto tappa ad Atene nei suoi viaggi (da Atene scrive alcune Lettere importanti, certamente una verso Tessalonica) ma nelle sue Lettere non fa nessun accenno all’episodio dell’Areopago e neppure invia Lettere verso Atene, di conseguenza si presume che lì non conosca nessuno e, sembra di capire, che presso la Sinagoga di Atene non trova interlocutori se non critici.
Quali indicazioni ci dà il brano che stiamo per leggere e che troviamo inciso sull’Areopago? Lo abbiamo detto: costituisce un secondo elemento culturale su cui, all’atto della partenza, dobbiamo riflettere per dare un indirizzo al cammino che dobbiamo intraprendere. Leggiamo e commentiamo questo brano:
LEGERE MULTUM….
Atti degli Apostoli 17, 16-34
Mentre Paolo aspettava Sila e Timoteo ad Atene, fremeva dentro di sé nel vedere quella città piena di idoli. Nella sinagoga invece discuteva con gli Ebrei e con i Greci credenti in Dio. E ogni giorno, in piazza, discuteva con quelli che incontrava. Anche alcuni filosofi, epicurei e stoici, si misero a discutere con Paolo (in queste righe c’è un dato autobiografico che riguarda l’autore del testo e si può riconoscere l’esperienza di papa Clemente, il quale proviene dalla Sinagoga di Roma, è un ebreo che deve discutere tanto con gli Ebrei quanto con i filosofi romani: nel I secolo, a Roma, le Scuole epicuree e stoiche vanno per la maggiore e uno dei temi predominanti è quello dell’immortalità dell’anima che il Cristianesimo comincia a recepire attraverso la cultura greca). Alcuni dicevano: «Che cosa pretende di insegnarci questo ciarlatano?». Altri invece sentendo che annunziava Gesù e la risurrezione (qui si riscontra l’ironia tipica dello stile di Clemente: a Roma c’è sicuramente – nella Sinagoga, nella comunità cristiana, nelle Scuole filosofiche epicuree e stoiche – una discussione molto accesa sul tema del rapporto tra l’anima e il corpo, sul tema che vede contrapposti i concetti dell’immortalità dell’anima e della risurrezione del corpo … qui nella lingua originale l’autore crea un significativo gioco di parole perché il termine “risurrezione” in greco corrisponde alla parola “anastasis” e quindi suona come se fosse il nome di una divinità femminile, l’Anastasia, da mettere accanto a Gesù, come dire: «annunziava Gesù e l’Anastasia», questo è un modo con cui Clemente Romano vuole ironizzare e vuole ribadire l’incapacità di comprendere che hanno i suoi interlocutori) osservavano: «A quanto pare è venuto a parlarci di divinità straniere».
Per questo lo presero (predicare, fare propaganda, senza avere il permesso delle autorità, senza rispettare le regole, non si poteva fare: ma questo succede più nella Roma imperiale che ad Atene cinquant’anni prima) e lo portarono al tribunale dell’Areopago. Poi gli dissero: «Possiamo sapere cos’è questa nuova dottrina che vai predicando? Tu ci hai fatto ascoltare cose piuttosto strane: vorremmo dunque sapere di che cosa si tratta».
Infatti per tutti i cittadini di Atene e per gli stranieri che vi abitavano il passatempo più gradito era questo: ascoltare o raccontare le ultime notizie.
Paolo allora si alzò in mezzo all’Areopago e disse (questo discorso, rivolto agli Ateniesi ma che vale anche per i Romani, è una “sentenza”, cioè è un modello di predicazione perché i Cristiani della comunità di Roma imparino – Clemente costruisce una catechesi – a sostenere il principio su cui si fonda la Chiesa): «Cittadini ateniesi, io vedo che voi siete gente molto religiosa da tutti i punti di vista. Ho percorso la vostra città e ho osservato i vostri monumenti sacri; ho trovato anche un altare con questa dedica: al dio sconosciuto. Ebbene, io vengo ad annunziarvi quel Dio che voi adorate ma non conoscete. Egli è colui che ha fatto il mondo e tutto quello che esso contiene. Egli è il Signore del cielo e della terra, e non abita in templi costruiti dagli uomini. Non si fa servire dagli uomini come se avesse bisogno di qualche cosa: anzi è lui che dà a tutti la vita, il respiro e tutto il resto. Da una sola persona (da Adamo: e qui il discorso si rivolge in modo particolare agli Ebrei della Sinagoga) Dio ha fatto discendere tutti i popoli, e li ha fatti abitare su tutta la terra. Ha stabilito per loro i periodi delle stagioni e i confini dei territori da loro abitati. Dio ha fatto tutto questo perché gli esseri umani lo cerchino e si sforzino di trovarlo, anche a tentoni, per poterlo incontrare. In realtà Dio non è lontano da ciascuno di noi. In lui infatti noi viviamo, ci muoviamo ed esistiamo. Anche alcuni vostri poeti l’hanno detto: “Noi siamo figli di Dio” (Clemente si rifà liberamente a due citazioni rivolte alle Scuole epicuree e stoiche: una del poeta Epimenide e l’altra del poeta Arato). Se dunque noi veniamo da Dio non possiamo pensare che Dio sia simile a statue d’oro, d’argento o di pietra scolpite dall’arte e create dalla fantasia degli uomini. Ebbene: Dio, ora, non tiene più conto del tempo passato, quando gli uomini vivevano nell’ignoranza. Ora, egli rivolge un ordine agli uomini: che tutti dappertutto devono cambiare stile di vita. Dio infatti ha fissato un giorno nel quale giudicherà il mondo con giustizia. E lo farà per mezzo di una persona, che egli ha stabilito e ha approvato davanti a tutti, facendolo risorgere dai morti».
Appena sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni dei presenti cominciarono a ridere. Altri invece gli dissero: «Su questo punto ti sentiremo un’altra volta».
Così Paolo si allontanò da loro. Alcuni però lo seguirono e lo presero sul serio. Fra questi vi era anche un certo Dionigi, uno del consiglio dell’Areopago, una donna di nome Dàmaris e alcuni altri (il finale di questo brano è molto significativo in relazione all’atto della partenza per il viaggio che vogliamo intraprendere: i due nomi che abbiamo letto sono allegorici, infatti con il nome “Dionigi” si vuole – secondo l’intento di Clemente Romano il quale sa quanta importanza abbia la cultura – creare, sulla parola di Paolo, un avvicinamento allusivo alla figura di Dioniso e quindi alla cultura orfica. Infatti Clemente Romano e i Padri Apostolici capiscono che la figura di Cristo potrà imporsi se si sovrapporrà, soprattutto nelle campagne, alla figura di Dioniso … Se il Cristianesimo vuole diffondersi deve darsi una solida base culturale e quindi deve tenere conto soprattutto del concetto orfico-dionisiaco dell’immortalità dell’anima oltre che basarsi sulla notizia della resurrezione del corpo di Gesù… La cultura greca – radicata nel personaggio di Dioniso – può costituire, e difatti costituirà, una poderosa piattaforma ideologica per la dottrina del Cristianesimo, ecco perché ad Atene Paolo viene preso sul serio da un certo Dionigi, da un certo Dioniso. Il nome Dàmaris, poi, deriva dal verbo greco damazo che significa “seguire una nuova via, intraprendere una nuova strada”, quindi “colei che segue una nuova via”, la Chiesa deve incamminarsi sulla via di Dioniso). …
E allora, a questo punto anche noi siamo arrivati nei pressi della “via” che costituisce il nostro punto di partenza. Naturalmente l’Areopago era collegato all’Agorà e all’Acropoli con una strada che prende il nome di “via dell’Areopago” o odòs timès nòmou” cioè “via del rispetto della legge”. Il tratto originale di questa antica strada, larga da quattro a sei metri, è stato messo in luce dagli archeologi per circa duecentocinquanta metri.
Ed ecco che, finalmente, ci troviamo sul luogo, sul tòpos che rappresenta il posto di partenza, e il punto di partenza, come possiamo constatare, oltre ad essere un concetto intellettuale è anche un oggetto reale su cui possiamo camminare per prendere il passo.
Che cosa c’è da osservare lungo la “via del rispetto della legge”? Lungo il tratto che rimane di questa via si trovano le fondamenta di un piccolo tempio dedicato all’eroe ateniese Àminos che è stato l’aiutante di Asclepio o Esculapio. Il personaggio di Asclepio o Esculapio costituisce un terzo elemento culturale su cui, all’atto della partenza, dobbiamo riflettere per dare un indirizzo al cammino che dobbiamo intraprendere.
Asclepio o Esculapio (come lo chiamano i Romani) è il dio greco della medicina: è figlio di Apollo e Coronide, e viene istruito nell’arte medica dal centauro Chirone. Omero ed Esiodo citano Asclepio nelle loro opere non come un dio ma come un eroe esperto nell’arte medica che fu fulminato da Zeus per aver guarito gli esseri umani e averne anche resuscitati alcuni, minacciando così l’ordine della natura e mettendo in discussione la superiorità degli dei: Asclepio appare, nel mito, come un personaggio affine a Prometeo, a Dioniso e a Gesù Cristo. Molti sono i santuari di Asclepio che si possono visitare per mantenersi in buona salute: i più famosi sono quello di Trìkala in Tessaglia, quello di Epidauro nel Peloponneso, quello sull’isola di Kos, una delle dodici isole del Dodecaneso che si trova proprio di fronte a Budrum (alla costa turca) che è l’antica Alicarnasso dove è nato Erodoto, inoltre c’è un famoso santuario di Asclepio anche a Pergamo in Asia Minore (oggi in Turchia a nord di Izmir). Nei santuari di Asclepio i sacerdoti praticavano la medicina e il simbolo che caratterizza questo personaggio lo conosciamo tutti, ci è noto e viene usato ancora oggi per indicare l’arte medica: è un’asta con un serpente attorcigliato.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Con una guida della Grecia – se non la possedete la trovate facilmente in biblioteca – oppure utilizzando la rete di internet, potete fare una visita ai santuari di Asclepio che abbiamo nominato: la consultazione di una Guida è un utile e anche un divertente esercizio di lettura che serve per compiere un itinerario virtuale e per preparare il viaggio reale…
La comparsa dei santuari di Asclepio sul territorio dell’Ellade nel IV secolo a.C. ha un significato ben preciso e, di solito, questa informazione le guide non la riportano: la fondazione dei santuari di Asclepio determina un momento di passaggio nella cultura dell’orfismo (nella cultura greca) da un periodo più arcaico caratterizzato dalla fondazione dei santuari (di Apollo, di Zeus) in cui si esalta la superstizione (deisidaimonìa) e in cui si sfruttano le credenze irrazionali, ad un periodo più moderno, più scientifico (se già si potesse utilizzare questo termine), in cui nei santuari di Asclepio si esercita la medicina (ìatria) e si sviluppa una razionalità mediante la quale s’insegna a praticare uno stile di vita più salutare: negli antichi santuari orfici si andava da ammalati per guarire dalla malattia, nei nuovi santuari orfici – secondo il pensiero di Asclepio – si va da sani per imparare a non ammalarsi perché la vita è già, in quanto tale, una specie di malattia per cui più che le infermità è utile curare il proprio modo di vivere intervenendo sul corpo ma soprattutto sull’anima.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Qual è il disturbo (o i disturbi) per cui vi state curando in questo momento?… È un argomento di cui si parla in modo così diffuso che non sarà difficile scrivere quattro righe in proposito, solo quattro righe: non diamo troppo spazio ai malanni…
Siamo sulla “via del rispetto della legge” (una malattia largamente diffusa è la disaffezione nei confronti della legge)che conduce all’Areopago e siamo pronti per partire, siamo nella primavera dell’anno 399 a.C.. Nella primavera del 399 a.C., nel tribunale dell’Areopago, si sta svolgendo uno dei più importanti processi della storia: il processo a Socrate, e nessuna e nessuno di noi ignora questo fatto.
I processi, nell’Atene del IV secolo a.C., sono avvenimenti molto seguiti dall’opinione pubblica perché sono delle vere e proprie straordinarie rappresentazioni teatrali, e questo è, abbiamo detto, il primo elemento che incontriamo in partenza: l’identità tra il teatro e il tribunale, tra la tragedia e il processo.
Ecco che, in questo momento, sulla “via del rispetto della legge” sta passando Socrate per recarsi ad una delle udienze del processo che lo vede imputato: Socrate, d’aspetto, assomiglia a Sileno e sotto le sembianze di Sileno viene rappresentato nella raffigurazione più importante che lo ritrae della quale ci occuperemo quest’anno. Chi è Sileno? Sileno è un mitico personaggio: è un satiro, è figlio di Pan o di Ermes, ed è stato l’educatore di Dioniso. Sileno come tutti i satiri aveva i piedi, le orecchie, la coda e la barba di capra, aveva il naso schiacciato e scalcagnato, suonava il flauto e cavalcava un asino. Sileno e i Satiri in genere erano molto brutti ma avevano un loro fascino particolare perché sapevano con gli strumenti – il flauto di Pan in particolare – evocare “immagini divine e mirabili”, così si legge nel Dialogo di Platone intitolato Simposio sul quale, strada facendo, ci soffermeremo più di una volta. Il processo e la morte di Socrate è un episodio che tutte e tutti abbiamo in mente e contiene una forte carica dionisiaca e asclepica: infatti le ultime parole di Socrate nel dialogo di Platone intitolato Fedone sono un invito rivolto all’amico Critone perché “doni un gallo ad Asclepio” e si donava un gallo ad Asclepio per ringraziarlo di essere guariti, di non essersi ammalati, come dire che è un bene liberarsi da questa malattia che è la vita per aspirare ad una salute qualitativamente migliore liberando l’anima dal corpo.
L’episodio del processo e della morte di Socrate contiene una forte carica dionisiaca e asclepica e rimanda al processo e alla morte di Gesù (che contiene questi stessi elementi propulsivi) e questo fatto non è passato inosservato né a Paolo di Tarso nel 51 né a Clemente Romano nel 95, né a papa Giulio II nel 1508. Ma che cosa c’entra papa Giulio II con la nostra partenza da Atene, nell’anno 399 a.C., per un viaggio nel territorio della sapienza poetica orfica?
Nella figura di Socrate i personaggi di Dioniso (che è il protagonista della cultura orfica) e di Gesù Cristo (che è il protagonista della cultura dei Vangeli) sembrano intrecciarsi e questo rappresenta, abbiamo detto, il secondo e il terzo elemento che incontriamo in partenza: la nostra cultura di riferimento – di cui spesso ignoriamo la consistenza – è una straordinaria combinazione, è una singolare amalgama tra la cultura orfico-dionisiaca e la cultura beritico-cristiana, e se non studiamo, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, questo tema fondamentale sarà difficile per noi capire il senso della nostra identità, della nostra identità umana.
Il territorio della sapienza poetica orfica che stiamo per attraversare si configura anche con un’opera, con uno straordinario oggetto culturale che papa Giulio II (ecco che cosa c’entra!) ha commissionato e ha fatto eseguire, e noi non possiamo non approfittare di questa occasione e quindi il nostro Percorso, che ha preso le mosse dalla “via del rispetto della legge”, procederà su due corsie: una corsia che attraversa lo spazio di un affresco rinascimentale e una corsia che passa per il territorio dell’Ellade. Per questo motivo (utilizzando i nostri potenti mezzi diacronici e diatopici) la prossima settimana ci ritroviamo a Roma (abbiamo fatto una capatina a Roma anche questa sera ospiti di Clemente Romano), ci troviamo, per la precisione, nei Palazzi vaticani, nella Stanza della Segnatura: per partire bene dobbiamo collaudare entrambe le corsie sulle quali viaggeremo.
Sulla “via del rispetto della legge”, sulla quale abbiamo preso il passo per affrontare il nostro nuovo viaggio, s’incontrano questioni molto significative, di carattere esistenziale: il rapporto tra il corpo e l’anima, tra la malattia e la salute, tra l’apparire e l’esistere, tra l’avere e l’essere. Sulla scia di questi temi, in conclusione di questo primo itinerario su un Percorso di didattica della lettura e della scrittura, non si può fare a meno di sentire un irresistibile richiamo nei confronti di un testo che tutti dovremmo leggere e rileggere periodicamente.
Abbiamo parlato più volte dell’importanza che ha l’esercizio della “rilettura” di un libro perché il significato di un testo cambia nella misura in cui cambiamo noi: per età, per cultura, per sensibilità, per forma intellettuale. Questo libro, pubblicato nel 1951, s’intitola Memorie di Adriano della scrittrice Marguerite Yourcenar (1903-1987) e tutti, certamente, lo avete sentito nominare: so che molte e molti di voi lo hanno letto, anche perché abbiamo incontrato questo testo significativo altre volte nei nostri Percorsi. Questo libro consiste in un’immaginaria autobiografia che l’imperatore romano Adriano (76-138 d.C.) scrive nell’anno 136 per il suo giovane parente Marco Vero, che sarà poi l’imperatore Marco Aurelio che regnerà dal 161 al 180. Quest’opera è composta da sei capitoli (ogni capitolo ha un titolo in latino) in cui l’io narrante di Adriano attraversa le varie tappe della sua vita: la giovinezza, la carriera politica, l’attività di imperatore, l’amore per Antinoo, la guerra in Giudea e la malattia.
Per scrivere questo libro Marguerite Yourcenar ha studiato un’imponente documentazione e ha condotto ricerche che sono durate un trentennio. Questo libro è al tempo stesso un romanzo, un saggio storico e un’opera di poesia e merita di essere letto o riletto (quattro pagine al giorno) con cautela e con attenzione. Ciascuna e ciascuno di noi finisce – come è successo all’autrice – per identificarsi con il personaggio di Adriano il quale è consapevole che tutto (anche lo straordinario potere di Roma o di Atene, che sono due punti di riferimento nel nostro viaggio) è destinato a tramontare. Adriano porta su di sé i problemi delle persone di ogni tempo, alla ricerca di un accordo tra la felicità e la regola, tra l’intelligenza e la volontà, e di queste caratteristiche tutte le persone che studiano si devono appropriare.
Il brano che leggiamo è estratto dal capitolo intitolato “Patientia” e la pazienza è una virtù necessaria. Adriano è malato ed è sofferente e decide di morire per non subire lo sfacelo della malattia e, secondo l’uso antico, cerca di farsi uccidere da qualche sottoposto, ma è costretto ad apprendere (non si finisce mai d’imparare) che, anche la propria morte, non meno dell’intera esistenza, comporta una serie di complessi legami con gli altri di cui bisogna tenere conto.
LEGERE MULTUM….
Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano
Volevo morire: non volevo soffocare; la malattia disgusta della morte; si vuol guarire, che è una maniera di voler vivere. Ma la debolezza, la sofferenza, mille miserie corporali dissuadono ben presto il malato dal provarsi a risalire la china: non si vuol saperne di tregue che sono tranelli, di forze vacillanti, di ardori incompleti, di questa perpetua attesa della prossima crisi. … Durante le cene di Tivoli, esitavo a usare la scortesia d’un subitaneo congedo dai miei convitati: avevo paura di morire nel bagno, o tra giovani braccia. Funzioni che un giorno m’erano facili, e persino gradevoli, mi diventavano umilianti da quando s’eran fatte malagevoli: ci si stanca d’offrire ogni mattina il vaso d’argento all’esame del medico. Il male principale s’accompagna a una lunga serie di mali secondari; il mio udito ha perduto l’acutezza d’un tempo; ancora ieri sono stato costretto a pregare Flègone di ripetere una frase intera: ne ho provato vergogna più che per un delitto.
... continua la lettura ...
Questo brano fa pensare a Socrate e anche a Giulio II. Che cosa accomuna questi due personaggi? Penso che nella vostra mente una risposta già ci sia.
I rituali della partenza sono sempre complicati ma, prendendo il passo, la matassa dei fili comincerà a sbrogliarsi e la prossima settimana ci ritroviamo a Roma, per la precisione, nei Palazzi vaticani, nella Stanza della Segnatura, questo significa che – nonostante il macchinoso, ma necessario, rituale della partenza – questo viaggio è cominciato: percorretelo, buon viaggio.
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