Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza poetica beritica 2007 19-20-21 dicembre 2007
I LABORATORI DI SCRITTURA DELLO “STILE DEL PROCLAMA DI AMOS” ...
Sappiamo che la Letteratura biblica, veterotestamentaria propriamente detta, comincia a prendere forma, nel VI secolo a.C., per opera degli “scrivani d’Israele in esilio a Babilonia”. Abbiamo già preso atto che la dicitura, gli “scrivani d’Israele in esilio a Babilonia”, è troppo generica, perché l’esilio a Babilonia dura circa cinquant’anni (dal 587 al 539 a.C.) e, in mezzo secolo, si succedono tre generazioni scrivani: i padri, gli adulti che hanno subìto direttamente la deportazione; i figli, che sono o arrivati da bambini o nati e cresciuti in esilio e i nipoti che, senza dimenticare la loro origine ebraica, sono ormai diventati cittadini mesopotamici.
Nell’itinerario di questa sera ci occupiamo della seconda generazione di scrivani: quella dei figli, che sono o arrivati da bambini o nati e cresciuti in esilio e che assumono un atteggiamento molto critico nei confronti della prima generazione, quella dei padri, direttamente coinvolta e responsabile della sconfitta, della disfatta e della rovina d’Israele.
Sono proprio gli scrivani della seconda generazione (attivi dopo il 560 a.C.) che – per scrivere la memoria e per fare una vera autocritica a nome del “gruppo” deportato in Mesopotamia – utilizzano i contenuti delle “antiche narrazioni del X secolo a.C.” composte dagli “antichi scrivani di corte del re Salomone”.
Gli scrivani d’Israele della seconda generazione in esilio a Babilonia, per perseguire il loro obiettivo (produrre memoria e fare autocritica per prendere coscienza e rilanciare la speranza), riscrivono anche le “antiche narrazioni del X secolo a.C.” alla luce del “pensiero dei profeti”, un pensiero che contiene prima di tutto l’idea della “berit”, del “patto” che, nel contesto dell’esilio, diventa un elemento fondamentale per resistere alla tentazione di omologarsi con la civiltà babilonese e perdere così la propria identità culturale.
La prima generazione di scrivani (quella dei padri direttamente coinvolti nella deportazione e completamente assimilati alla classe dirigente ebraica che ha causato la rovina) ha cominciato subito a produrre materiali (di genere poetico-sapienziale) con uno “stile” detto della “Lamentazione”, senza però fare una reale autocritica, senza prendere davvero coscienza delle proprie responsabilità, cercando giustificazioni e cadendo nella disperazione e nel pessimismo senza prospettive.
Gli scrivani d’Israele della seconda generazione in esilio a Babilonia vogliono superare le Lamentazioni dei loro padri e mettono in nuova luce il “pensiero dei profeti”. Che cos’è il “pensiero dei profeti” alla luce del quale gli scrivani d’Israele della seconda generazione in esilio a Babilonia cominciano a scrivere la Letteratura veterotestamentaria propriamente detta? Chi sono i “profeti” intorno ai quali si sviluppa – a Babilonia, intorno al 560 a.C. – la cosiddetta Letteratura dei profeti posteriori? La cosiddetta Letteratura dei profeti posteriori (che comprende i testi di Isaia, Geremia, Ezechiele, Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abacuc, Sofonia, Zaccaria, Malachia) non va confusa – e lo sappiamo – con i Libri dei profeti anteriori (di Giosuè, dei Giudici, dei due Libri di Samuele, dei due Libri dei Re) di cui in questi ultimi itinerari ci siamo fatti un’idea in funzione della didattica della lettura e della scrittura.
Per delineare il concetto e i caratteri del profetismo la scorsa settimana – ve ne ricordate certamente – abbiamo viaggiato sul sentiero di Zaratustra. La riflessione esistenziale di Zaratustra – ed è per questo motivo che ci siamo avvicinati a questo personaggio – delinea per la prima volta, durante l’Età assiale della storia, il concetto e i caratteri di quel movimento culturale che è stato definito col nome di “profetismo”. La tradizione secondo la quale “tutti i profeti sono stati pastori” – che è condizione necessaria per entrare nel contesto profetico (quindi se qualcuno ha fatto “esperienze pastorali”: rifletta) – ha le sue radici più profonde nell’insegnamento di Zaratustra. E il “profeta” Zaratustra l’essenza di pastore – non di pecore, in questo caso, ma di cammelli – ce l’ha proprio nel nome: Zaratustra, in lingua iraniana significa “colui che ha cura dei cammelli: pastore di cammelli”.
Il termine “pastore” – che è anche un termine tipicamente natalizio (quindi cominciamo a celebrare anche “culturalmente” questa festa) – solletica la mente e di fronte alla parola-chiave “pastore” si è subito imposto nella mia memoria, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, l’incipit di un racconto. Sono emerse nel mio pensiero (in modo indeterminato) le prime righe di un testo che altre volte abbiamo incontrato nei nostri Percorsi ma di cui la Scuola continua a consigliare la lettura (è possibile che non tutte le persone che frequentano la Scuola lo abbiano letto) o la rilettura (periodicamente i libri vanno riletti per scoprire se e quanto siamo cambiati).
Il racconto di cui stiamo parlando (sono sessanta pagine) dà il nome ad un libro che contiene altri dodici racconti e che s’intitola Gente in Aspromonte scritto nel 1930 da Corrado Alvaro (1895-1956), lo scrittore calabrese che rinnova una significativa tradizione letteraria, quella della narrativa meridionale, un fenomeno culturale che lo scorso anno abbiamo avuto modo – nelle nostre incursioni, in compagnia di Erodoto e di Agenore di Tiro nella Mega Hellas, nella Magna Grecia – di conoscere abbastanza ampiamente: la tradizione di Giovanni Verga, di Luigi Capuana, di Federico De Roberto, e poi di Luigi Pirandello e poi ancora di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Notizie utili su Corrado Alvaro e sulle sue opere le trovi con facilità sull’enciclopedia (tutti ne abbiamo una in casa, come la Bibbia), i suoi libri li trovi in biblioteca, e sulla rete trovi molti siti che si occupano di questo scrittore: con questi strumenti puoi metterti in ricerca…
Come dicevo, a proposito della parola-chiave “pastore, pastori”, ho sentito l’esigenza (la mia memoria mi indirizzava) di andare a rileggere l’incipit, l’inizio di Gente in Aspromonte, e così ho fatto, mentre preparavo questa lezione (qualche mese fa).
LEGERE MULTUM….
Corrado Alvaro, Gente in Aspromonte (1930)
Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte, d’inverno, quando i torbidi torrenti corrono al mare, e la terra sembra navigare sulle acque. I pastori stanno nelle case costruite di frasche e di fango, e dormono con gli animali. Vanno in giro coi lunghi cappucci attaccati ad una mantelletta triangolare che protegge le spalle, come si vede talvolta raffigurato qualche dio greco pellegrino e invernale...
... continua la lettura ...
Quante volte – mi sono chiesto – ho letto questo racconto? Tante volte! Ma il fatto che lo stavo collocando in un contesto – in una zona del paesaggio intellettuale del movimento della “sapienza poetica beritica” – ha fatto sì che mi sembrasse un testo del tutto nuovo: un testo conosciuto ma completamente rinnovato e non sono riuscito ad impormi (stavo lavorando a questa Lezione e non mi potevo dilungare), dopo una decina di pagine, di smettere la lettura e sono andato avanti condizionato dal fatto che sentivo emergere tra le righe (e non me n’ero mai accorto prima) le idee-cardine del fenomeno del “profetismo”. Ho capito che, quando si parla di “pastori”, il contesto profetico, fa sempre da sfondo. Si consiglia quindi di leggere l’incipit, le prime righe di Gente in Aspromonte. Se poi andate avanti nella lettura potrete incontrare il protagonista di questo racconto che è ancora un ragazzetto, un pastorello, che si chiama Antonello Argirò il quale si farà brigante a causa di un sopruso che subisce suo padre. Il personaggio di Antonello Argirò porta con sé – più che dei briganti – tutte le caratteristiche tipiche dei “profeti”, e queste caratteristiche si traducono in quattro parole-chiave che Corrado Alvaro fa spesso emergere nel testo del suo racconto: “il pastore” che vorrebbe liberarsi dall’asservimento, “la memoria” che emerge per dare consolazione, “la sapienza” che rimanda ad antiche tradizioni solidali e “la giustizia” come unica speranza di riscatto. E con la parola “giustizia” – scritta con la “G” maiuscola (proprio perché di Giustizia umana si tratta – termina il racconto: appropriarsi di questo testo non è difficile, basta leggerlo o rileggerlo.
Il modello culturale del “profeta pastore”, l’idea che “tutti i profeti sono stati pastori”, attraverso il pensiero di Zaratustra, entra così nella Letteratura dell’Antico Testamento (elaborato dalla seconda generazione degli scrivani in esilio a Babilonia) e si trasmetterà anche alla Letteratura dei Vangeli (che abbiamo studiato, attraverso due lunghi Percorsi, nel secolo scorso) – Gesù di Nazareth è “il buon pastore” e questa affermazione (questa parabola) lo collega direttamente ai “profeti” –. Questa idea entrerà anche nella tradizione islamica che afferma nei suoi scritti, nei suoi hadit, che anche Muhammad, il Profeta dell’islam – qualche anno fa (nel 2001-2002) abbiamo studiato questo argomento – è stato, da bambino, e non poteva non essere, un pastorello, una breve esperienza (durante le vacanze estive), ma senza questa patente tradizionale non avrebbe potuto essere considerato un profeta: senza essere stati “pastori” non si può essere “profeti”.
Se qualcuna/qualcuno di voi ha avuto a che fare con le pecore – o con altri animali da far pascolare – si rallegri: ha un posto, di diritto, nel movimento della “sapienza poetica beritica” e poi, non è mai troppo tardi, siamo sempre in tempo per fare nuove esperienze. Intanto portiamo a pascolare – se si può usare questa metafora – la Letteratura dei profeti e puntiamo la nostra attenzione sul fenomeno del “profetismo ebraico” per capire meglio la prima fase del movimento della “sapienza poetica beritica”.
Qual è il Libro della Letteratura dei profeti da cui bisogna partire per conoscere questo fenomeno? Questa domanda ce la siamo fatta – in chiusura – la scorsa settimana. Qual è il Libro della Letteratura dei profeti su cui è necessario puntare l’attenzione per capire il primo elemento fondamentale di questo fenomeno: l’identità tra “l’essere profeta” e “l’essere pastore”?
Questo concetto, legato alla contiguità delle parole “pastore” e “profeta”, mette ancora una volta – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – in fibrillazione la nostra mente e, quindi, prima di rispondere a questa domanda, dobbiamo lasciare un po’ di spazio ai pensieri che affiorano dentro di noi.
La figura del “pastore”, o della “pastora” (al femminile si tende quasi sempre ad usare il diminutivo “pastorella”), utilizzata in senso allegorico (Dio stesso è pastore, Abele è un pastore, Abramo è un pastore, il re è un pastore, un profeta non può essere tale senza essere stato un pastore, tanto per citare alcuni esempi) è un classico nella Storia del Pensiero Umano, nella Storia della Letteratura, nella Storia dell’Arte: gli oggetti culturali in proposito sono moltissimi ed è difficile fare una scelta tra le tante possibilità che si presentano nella memoria!
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Probabilmente sono molti gli oggetti culturali (libri, quadri, statue, musiche, rappresentazioni teatrali, cinematografiche, esperienze personali) che ti vengono in mente in questo momento in cui emerge la figura del “pastore” utilizzata in senso metaforico…
Scrivi quattro righe in proposito, ma basta, con un minimo enunciato, fare una citazione…
Perché s’impone Giacomo Leopardi con il suo Canto di un pastore errante dell’Asia (una “poesia” che tutte e tutti noi – per lo meno – abbiamo sentito nominare)? C’è una ragione didattica in funzione di una migliore comprensione del complicato argomento che (da non specialiste e da non specialisti di filologia biblica) stiamo affrontando: il fenomeno del “profetismo”.
Giacomo Leopardi, nel “deserto di Recanati”, s’immedesima nella figura del pastore errante che – per le domande che si pone e le argomentazioni di carattere esistenziale che sviluppa – manifesta la sua attitudine profetica. Di questo Canto noi leggiamo due frammenti: l’inizio e la fine.
LEGERE MULTUM….
Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (1831)
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.
Sorge in sul primo albore;
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?
Nei versi successivi – che ora, qui, non abbiamo il tempo di leggere e commentare insieme – Giacomo Leopardi, con una serie di argomentazioni e di interrogativi, arriva a darsi, nei versi finali, una risposta esistenziale che suona, comunque, come un’ipotesi perché è incorniciata da tre “forse” retti dal congiuntivo (quando si usava ancora il congiuntivo, che è il tempo dell’incertezza e della riflessione esistenziale): leggiamo il finale del Canto.
LEGERE MULTUM….
Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (1831)
… Se tu parlar sapessi, io chiederei:
dimmi, perché giacendo
a bell’agio, ozioso,
s’appaga ogni animale;
me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?
Forse s’avess’io l’ale
da volar su le nubi
e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo,
più felice sarei, dolce mia greggia,
più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dì natale.
Quest’ultimo verso in cui Giacomo Leopardi – cogliendo un sentimento comune – si domanda (e tutte e tutti noi ce lo siamo domandato più di una volta) se sia valsa la pena nascere, ebbene, quest’ultimo verso è il manifesto di un movimento di pensiero che è stato chiamato del “pessimismo cosmico”.
Che cosa ha a che fare questa considerazione con l’argomento che stiamo affrontando: il fenomeno del “profetismo”? Intanto, prima di dare una risposta, dobbiamo dire che tra il frammento iniziale e il frammento finale di questa breve tragedia c’è un testo (un centinaio di versi), ricco di interrogativi e di riflessioni, che potete cercare (o nella biblioteca casalinga, o nella biblioteca pubblica o sulla rete) e leggere per conto vostro. Molte e molti di noi hanno sicuramente già letto e studiato questo famoso Canto leopardiano: per capirlo appieno bisogna fare appello alle note, e l’utilizzo delle note che corredano un testo è un esercizio utile da fare in funzione della didattica della lettura e della scrittura, ci vuole un po’ di pazienza, ma sappiamo che la “pazienza” (secondo lo Statuto della Facoltà delle Arti di Parigi, dal 1247) è considerata una delle doti indispensabili che le studentesse e gli studenti, le lettrici e i lettori, le scrivane e gli scrivani, devono possedere. Questa sera è sufficiente avvalersi della lettura di questi due frammenti leopardiani per stimolare una riflessione e anche – abbiamo detto – come supporto intellettuale al tema che stiamo trattando: il fenomeno del “profetismo”.
E allora: perché Giacomo Leopardi compare – una breve ma significativa apparizione – sul sentiero del nostro itinerario? Innanzi tutto dobbiamo ricordare che Giacomo Leopardi oggi ha fama di filosofo oltre che di poeta quindi incontriamo con lui una personalità dotata di “sapienza poetica” (nel senso più profondo del termine) e, potremmo aggiungere: una personalità attrezzata di “sapienza poetica” tanto di carattere “orfico” quanto di carattere “beritico”, e questo è il primo motivo per cui questo personaggio compare, questa sera, sul nostro itinerario.
È utile ricordare anche che Giacomo Leopardi è contemporaneo di Hegel. Molte e molti di noi sono freschi di studi hegeliani, molte e molti di noi conoscono a memoria l’indice (che raccoglie le parole-chiave fondamentali) della Fenomenologia dello Spirito che ha fama di essere l’opera più illeggibile della Storia del Pensiero Umano. Questa citazione di Hegel non è solo commemorativa: infatti, gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia (nel contestare i padri) faranno emergere le parole-chiave “coscienza”, “autocoscienza” e “ragione” che sono i primi tre termini dell’indice della Fenomenologia dello Spirito.
Ma torniamo a Leopardi che incontreremo ancora, suo tempo, sugli itinerari del vasto paesaggio intellettuale del XIX secolo che, di anno in anno, continuiamo a percorrere. Questa sera c’è anche un motivo più specifico – legato al fenomeno del “profetismo” – che ci fa incontrare Giacomo Leopardi. Tutti sappiamo che Giacomo Leopardi è nato a Recanati nel 1798 e che è morto a Napoli nel 1837 ospite di Antonio Ranieri, dopo aver soggiornato (quando riesce a “evadere da Recanati”) a Roma, a Milano e a Firenze. Sappiamo che Leopardi, a Recanati, ha passato la giovinezza soffrendo a causa delle ristrettezze di un ambiente provinciale.
Io immagino che molte e molti di voi siano stati a Recanati a visitare i “luoghi leopardiani”: il palazzo Leopardi con la biblioteca, la piazza, la torre antica, la chiesa con la sua campana, il punto da dove si scorge l’Infinito: oggi i Recanatesi non vedono più in Giacomo Leopardi un “tipo un po’ strano”, ma una risorsa!
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Se volete rifare o preparare una visita a Recanati è opportuno utilizzare una guida delle Marche (la trovate in biblioteca o sulla rete): la lettura permette di viaggiare virtualmente sulla carta e di predisporsi al viaggio reale sul territorio…
Sappiamo che Giacomo, fin da bambino, si è dedicato agli studi nella ricca biblioteca paterna, costruendosi in anni di “studio matto e disperatissimo” una cultura in ambito filologico, letterario e filosofico assolutamente fuori dall’ordinario. Tra le letture che Giacomo Leopardi – fin da bambino – predilige ci sono i Libri della Letteratura dei profeti che lui legge e traduce dal latino, dalla versione cosiddetta della Vulgata di Gerolamo (sappiamo di che cosa si tratta). Il fatto che i Libri della Letteratura dei profeti contribuiscano alla formazione di Giacomo Leopardi si percepisce in tutta la sua opera. Per essere più precisi in Leopardi emerge soprattutto quello che viene chiamato il “primo stadio”, riscontrabile nel pensiero di tutti i “profeti”, vale a dire di tutti gli scrivani che, in esilio a Babilonia, hanno partecipato alla composizione di questi Libri.
Il “primo stadio” del pensiero dei profeti è caratterizzato dal “pessimismo cosmico”: c’è una persona che, in profonda crisi esistenziale, si ribella, entra in conflitto con le istituzioni di potere a cui appartiene e, per sfuggire alla persecuzione, si allontana dalla città, dalla corte, e ricostruisce la propria identità nel mondo pastorale dove – come il “pastore errante dell’Asia” – comincia a riflettere e, la prima conclusione che trae dalle proprie riflessioni (il primo stadio del “pensiero dei profeti”) è che la vita non ha un senso.
Nel “pensiero dei profeti” c’è poi un secondo stadio che emerge da una presa di coscienza per cui il “senso della vita” non è dato ma va cercato con impegno: bisogna fare un “patto (una berit) con l’esistenza”.
Fare un “patto (una berit) con l’esistenza” (decidere di “cambiare stile di vita”) corrisponde al terzo stadio del “pensiero dei profeti” che presuppone la richiesta a Dio del dono fondamentale: la sapienza.
Anche in Leopardi, sebbene prevalga il primo stadio (il “pessimismo cosmico”), tuttavia emergono anche gli altri due stadi che caratterizzano il “pensiero dei profeti”. Nel suo canto conclusivo, intitolato La ginestra o il fiore del deserto, Giacomo Leopardi polemizza contro l’ingenua fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive” ma associa anche a questa polemica un profondo sentimento di pietà e fratellanza verso “l’umana compagnia”.
Ma ora dobbiamo lasciare la compagnia di Giacomo Leopardi per ritornare alla domanda che, questa sera, abbiamo formulato in partenza: qual è il Libro della Letteratura dei profeti su cui è necessario puntare l’attenzione per capire gli elementi fondamentali di questo fenomeno?
Il primo elemento tipico che caratterizza la Letteratura dei profeti è legato al concetto dell’identità tra “l’essere pastore” e “l’essere profeta”. Da questo concetto (che ha le sue radici nella cultura di Zaratustra e che matura con il profetismo ebraico) scaturiscono le parole-chiave su cui si basa il cosiddetto “pensiero dei profeti” che costituisce la piattaforma su cui si sviluppano – dapprima, durante l’esilio a Babilonia, in modo disarticolato – le opere del movimento della “sapienza poetica beritica” che, con il “riordino canonico” avvenuto dopo l’esilio, daranno corpo alla Letteratura veterotestamentaria, alla Letteratura biblica, propriamente detta.
Le studiose e gli studiosi di filologia biblica ci fanno sapere – ce lo aveva già rammentato Filone Alessandrino – che il primo punto di riferimento culturale da prendere in considerazione, per capire l’identità tra “l’essere pastore” e “l’essere profeta” e per conoscere il ruolo determinante che hanno le parole-chiave su cui si basa il “pensiero dei profeti”, è il Libro di Amos. Il Libro di Amos è quindi – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – il testo con cui dobbiamo prendere contatto: chi è Amos?
Prima di tutto dobbiamo osservare che è difficile – come per quasi tutti i personaggi biblici – ricondurre la figura di Amos ad un personaggio reale: Amos, come tutti i profeti, è una figura allegorica (un personaggio letterario) che rappresenta, però, un fenomeno reale e gli scrivani in esilio a Babilonia appartenenti alla seconda generazione operano decisamente per dare consistenza letteraria al “pensiero dei profeti” senza curarsi minimamente del fatto che il personaggio di Amos (e questo vale per tutte le figure dei profeti, anteriori e posteriori), tramandato nelle mitiche saghe orali, sia esistito davvero, si preoccupano piuttosto di descrivere una serie di avvenimenti che avevano caratterizzato la storia della divisione del Regno degli Ebrei e che – in quanto scandalosi, anche per la categoria degli “scrivani di corte” – erano stai rimossi.
La figura di Amos ha delle caratteristiche che lo avvicinano al personaggio di Zaratustra e non può essere diversamente perché il “profetiamo ebraico” è un fenomeno – come abbiamo studiato – che si sviluppa sulla scia della cultura che ha preso forma attraverso la predicazione di Zaratustra: ricordiamoci che la predicazione di Zaratustra ha un retroterra e il “messaggio di Zaratustra” è l’ultimo atto di un movimento che si sviluppa da prima del X secolo a.C. sull’altopiano iraniano contemporaneamente alla nascita del dissenso tra gli “scrivani” alla corte di Salomone.
La cultura di Zaratustra (come abbiamo studiato) raccoglie e codifica un disagio esistenziale che si coagula nella zona centro-orientale dell’Asia: il Libro di Amos raccoglierà e codificherà l’eco tanto di questo disagio quanto di una crisi di coscienza che investe il Medio Oriente spostando gradualmente il baricentro della riflessione verso occidente. Anche il mitico personaggio di Amos, come Zaratustra, è un allevatore di bestiame: non può che essere un “pastore” e questa caratteristica trova una corrispondenza nel fatto che il mondo pastorale è stato realmente, effettivamente, il rifugio, il terreno di coltura, di quello che – in termini letterari – viene chiamato il “profetismo posteriore”.
Tra gli “antichi scrivani di corte” (lo abbiamo già detto) c’è chi entra in conflitto (va in crisi di coscienza) con il proprio ruolo di asservimento al potere e, di conseguenza, si allontana dalla città, esce fuori dalla civiltà urbana, corrotta e corruttrice: anche per sfuggire alla persecuzione, lo scrivano dissidente si rifugia tra i pastori e lancia una sfida al regime che vuole strumentalizzare la religione rimuovendo gli attributi (giustizia, memoria, sapienza) dell’unico Dio dell’universo il quale non vuole far sentire la sua voce nello spazio ricco, comodo, protetto e assordante della corte, popolata di Idoli. Il Dio unico dell’universo si esprime fuori da questo contesto, che si auto-etichetta come “civile”, e parla al cuore della persona negli spazi deserti, negli spazi della transumanza, dove regnano il silenzio e la solitudine.
Il primo “patto”, la prima “berit”, viene stipulata tra il mondo della cultura dissidente che si è allontanato dalla corte e il mondo della cultura pastorale: che cosa significa?
La prima parola-chiave – abbiamo già posto attenzione su questo concetto e ora lo completiamo ulteriormente alla luce degli elementi che abbiamo acquisito itinerario dopo itinerario (questo Percorso è complicato) – del “pensiero dei profeti”, che diventa il filo conduttore di tutta la Letteratura biblica (e questo ormai lo abbiamo acquisito), è la parola “berit”, il “patto”, che, prima di tutto, è lo strumento fondamentale per costruire la convivenza umana e poi è anche il dispositivo essenziale con cui l’essere umano può contribuire a dare completezza alla creazione di Dio, facendo degli accordi con Lui.
Come nasce l’idea del “patto”, il concetto della “berit”? Le studiose e gli studiosi di filologia biblica ci informano che, in origine, la parola “berit” è uno di quei termini che definisce gli accordi, i patti, sulla compra-vendita delle pecore, delle capre, degli agnelli e poi sulla compra-vendita della terra e dei pozzi.
Il significato della parola “patto”, della parola “berit”, si modica gradualmente, passando da termine prettamente materiale a concetto intellettuale, quando – dal X secolo a.C. – comincia a stabilirsi (come abbiamo detto) un rapporto tra il mondo della cultura del dissenso e il mondo della cultura pastorale. Non è un rapporto facile quello che, in modo forzoso, si stabilisce tra i “pastori” che vivono ai margini della società civile e gli “scrivani dissidenti” che provengono dalla corte, da quello che dovrebbe essere il centro della civiltà. Nel momento in cui gli scrivani (quelli che entrano in crisi di coscienza), in rotta con il regime al quale sono funzionali, escono dalla corte e fuggono dalla città, devono entrare in contatto con il mondo extra-urbano, con il mondo dei deserti, dei villaggi, delle migrazioni, del silenzio, della solitudine. In questo mondo, gli scrivani dissidenti, abituati a vivere nelle comodità e nell’ipocrisia della corte, sperimentano sulla loro pelle la vita dura: da questa esperienza (di diaspora, di esilio) – che tuttavia risulta molto stimolante per la loro mente e la loro intelligenza – sanno trarre le parole-chiave che daranno voce ad una riflessione intellettuale tra le più profonde della Storia del Pensiero Umano.
Questo fenomeno reale della diaspora, dell’esilio degli scrivani dissidenti verso gli spazi deserti della transumanza – che investe le corti dei due Regni in cui, alla morte di Salomone, si è diviso lo Stato degli Ebrei, tra l’VIII e il VII secolo a.C. – si coniuga con la tradizione “profetica” derivante dalla predicazione di Zaratustra e presente nella cultura pastorale: il grande merito che hanno gli “scrivani in esilio a Babilonia della seconda generazione” è quello di aver colto questo intreccio intellettuale – il concetto dell’identità tra “l’essere pastore” e “l’essere profeta” – e di averlo tradotto in Letteratura sapienziale e poetica.
Infatti il testo del Libro di Amos comincia proprio facendo questa affermazione: “Queste sono le parole di Amos, che era un pastore del villaggio di Tekoa”. Con l’incipit del Libro di Amos – come se fosse un proemio, un’introduzione a tutta la Letteratura dei profeti (c’è chi sostiene, tra le studiose e gli studiosi, che potrebbe essere un’introduzione a tutta la Letteratura dell’Antico Testamento prodotta durante l’esilio babilonese) – “l’essere pastore”, nel movimento della “sapienza poetica beritica”, diventa una prerogativa essenziale perché una persona possa anche “essere profeta”, cioè una voce che non rappresenta le divinità (gl’Idoli) racchiuse nei santuari nazionali ma che proclama il messaggio dell’unico Dio dell’universo. Questo modo di essere – la prerogativa di essere un “pastore” – serve per avvalorare tutte le parole che da Amos vengono pronunciate.
L’incipit del Libro di Amos serve per proclamare l’identità tra “l’essere pastore” e “l’essere profeta”: ma come lo capiamo questo fatto dal punto di vista intellettuale, come lo percepiamo da lettrici e da lettori? Intanto leggiamolo l’inizio del Libro di Amos, leggiamo solo il testo tralasciando, per ora, le note messe tra parentesi:
LEGERE MULTUM….
Libro di Amos 1, 1-2
Queste sono le parole di Amos, che era un pastore (rō’ehnābi’) del villaggio di Tekoa (a 15 km a sud di Gerusalemme nel regno di Giuda). Due anni prima del terremoto (veniva tramandata la notizia di un forte terremoto che ci fu, nella zona di Gerusalemme, verso il 750 a.C.), mentre Ozia era re di Giuda (Ozia regnò negli anni 781-740 a.C.) e Geroboamo figlio di Ioas era re di Israele (Geroboamo regnò negli anni 787-747 a.C.), Dio rivelò ad Amos tutte queste cose riguardanti Israele (Israele indica qui il regno delle dieci tribù del nord che si è formato dopo la morte di Salomone e ha come capitale Samaria). Amos ha detto:
«Il Signore ruggisce dal monte Sion, la sua voce tuona da Gerusalemme.
Per questo i pascoli si seccano e la verde cima del monte Carmelo (Il monte Carmelo domina il Mediterraneo nella parte nord-ovest della Palestina) ingiallisce»…
Abbiamo detto che l’incipit del Libro di Amos serve per mettere in evidenza l’identità tra “l’essere pastore” e “l’essere profeta”: ma – ci siamo chiesti – come facciamo ad identificare questo concetto da lettrici e da lettori? Questa idea – l’intreccio tra la parole “pastore” e “profeta” – la si capisce prendendo atto dei termini che (gli autori) l’autore del testo di Amos utilizza per definire la parola “pastore”: perché diciamo “dei termini”, al plurale? Chi ha composto il testo di Amos, per definire la parola “pastore”, mette insieme due termini per precisare, per specificare, il ruolo di questo personaggio e qui, nelle parole-chiave, sta la concretizzazione di un’idea-cardine intorno alla quale può ruotare tutta la riflessione, intorno alla quale si può muovere tutto il ragionamento che ispira l’intera Letteratura dei profeti ma anche l’intera Letteratura dell’Antico Testamento.
Il Libro di Amos è uno di quei Libri strategici (ne abbiamo già visto una serie in questo Percorso e spero che, strada facendo, li abbiate anche letti integralmente) che caratterizzano il movimento della “sapienza poetica beritica”. Bisognerebbe conoscere l’ebraico e noi non lo conosciamo ma (invece di rinunciare) – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – ci possiamo permettere una piccola incursione specialistica perché le studiose e gli studiosi di filologia biblica mettono a nostra disposizione il materiale che ci serve.
In ebraico il termine “pastore” corrisponde alla parola “rō ’eh”, mentre la parola “profeta” corrisponde al termine “nābi’”, questa parola – lo abbiamo già ricordato – coincide con il participio presente del verbo “proclamare” e, quindi, “nābi’” significa “colui che proclama”, il “proclamatore”.
Come si comporta l’autore dei primi versetti del Libro di Amos? L’autore, nel comporre il primo versetto del Libro di Amos, per definire il personaggio, mette insieme, accoppia questi due termini, costruendo la parola “rō’ehnābi’” che tradotta letteralmente significa: “il pastore (rō ’eh) che proclama (nābi’)”, il “proclamatore”, vale a dire, “il profeta”: nella parola troviamo l’identità tra essere pastore e essere profeta.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Un proclama è un appello, una dichiarazione solenne, un annuncio: scrivi anche tu – è sufficiente una riga (è utile fare la sintesi) il tuo proclama di oggi…
Non vi angustiate particolarmente nel fare questo esercizio, a volte i proclami possono essere di una sconcertante (ma apparente) semplicità: a questo proposito (apriamo una brevissima parentesi) mi è venuto in mente Il proclama del cavaliere enciclopedico di Giuseppe Gioacchino Belli. Tutti avete sentito nominare questo poeta che, ogni tanto, incontriamo nei nostri Percorsi. Giuseppe Gioacchino Belli è un poeta che di solito scrive in dialetto romanesco, difatti è nato a Roma nel 1791 ed è morto, sempre a Roma, nel 1863. Giuseppe Gioacchino Belli si è guadagnato da vivere svolgendo modesti impieghi nell’amministrazione pontificia ed è autore della più grandiosa raccolta di sonetti della letteratura non solo italiana ma mondiale: dal 1830 al 1849 ne ha scritto (scriveva dieci minuti al giorno) ben 2279!
Il Belli ha giudicato i suoi sonetti “scandalosi moralmente e politicamente” e ha affidato gli autografi a monsignor Vincenzo Tizzani con l’incarico di bruciarli dopo la sua morte. Ma monsignor Tizzani, che era persona intelligente, invece di bruciarli, si è dato da fare per farli pubblicare ritenendo che i sonetti del Belli fossero, come il poeta stesso aveva affermato, “un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma”. Nell’opera di Giuseppe Gioacchino Belli l’effetto comico nasconde, senza cancellarla, una visione drammatica dell’esistenza e manifesta una amara riflessione sulla prepotenza del potere ideologico.
LEGERE MULTUM….
Giuseppe Gioacchino Belli, Il proclama del cavaliere enciclopedico
Si stava il cavalier su una poltrona inviluppato in una sua guarnacca (veste da camera)
a ricercar sul calepin (vocabolario) se Ancona si scrivesse con l’acca o senza l’acca.
Ciò fatto prende in man la ceralacca manda un servo alla posta e s’abbandona.
Poi prende a ragionar di pipe e d’armi, de metodi per cuocer la frittata,
del Turco e della Cassa de’ Risparmi. Poi, guardando la finestra spalancata, proclama:
«Non faccio per vantarmi, ma oggi è una bellissima giornata»…
Incontreremo ancora Giuseppe Gioacchino Belli!
Ora dobbiamo fare – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – una complicata riflessione che riguarda l’autore del Libro di Amos o, per meglio dire, gli autori, perché, su tutti i testi dei Libri della Letteratura veterotestamentaria, più di una persona, e in tempi diversi, ci ha messo le mani, ci ha messo la penna, ci ha messo lo stilo e lo stile.
L’autore del Libro di Amos, in modo palese, s’identifica con il personaggio principale dell’opera: Amos è chiaramente una figura letteraria che rappresenta l’autore (e gli autori) del Libro. Il personaggio di Amos si presenta (viene presentato) come un pastore che lancia un proclama, che fa un appello, una dichiarazione solenne, un annuncio, quindi è un “rō’ehnābi’”: un “pastore proclamatore”, un “profeta”. Ma nella figura di Amos s’identifica l’autore del testo il quale vuole codificare il suo ruolo di “scrivano”: vuole presentare un nuovo programma, basato su nuove parole-chiave e su nuove idee significative.
Anzi, nella figura di Amos s’identifica tutta una generazione di scrivani: la seconda generazione in esilio a Babilonia, che presenta caratteristiche nuove rispetto a quelle degli scrivani della generazione precedente (della prima generazione), che cosa significa? Significa che (gli autori) l’autore del Libro di Amos annuncia (intorno al 560 a.C.), in modo programmatico, la funzione che, nel movimento della “sapienza poetica beritica”, viene ad assumere la seconda generazione degli scrivani in esilio a Babilonia.
Le studiose e gli studiosi di filologia biblica affermano che intorno al 560 a.C. – dopo circa trent’anni dalla deportazione (avvenuta nel 587 a.C.) – si manifesta nel movimento della “sapienza poetica beritica” una fondamentale variazione di stile dovuta ad una nuova scelta programmatica decretata dagli scrivani in esilio a Babilonia appartenenti alla seconda generazione: sono i figli di coloro i quali, circa trent’anni prima, sono stati deportati in Mesopotamia in quanto appartenenti alla classe dirigente e ai ceti abbienti del Regno di Giuda. Gli scrivani della seconda generazione sono persone arrivate bambine o nate e cresciute in esilio che non sentono più (come era successo agli scrivani della generazione precedente) pesare su di loro il carico e la responsabilità della disastrosa sconfitta: hanno smesso di disperarsi e di lamentarsi per assumere un nuovo atteggiamento che nasce dalla riflessione sulla disperazione e sulle lamentazioni dei loro padri.
Gli scrivani appartenenti alla seconda generazione dell’esilio, quella dei figli, sono, quindi, persone che possono biasimare i loro padri per la tragica disfatta (prima del Regno d’Israele e poi del Regno di Giuda) e possono anche rimproverare il comportamento ambiguo delle categorie degli “scrivani” delle generazioni precedenti. Gli scrivani appartenenti alla seconda generazione dell’esilio criticano aspramente i loro padri (anche secondo la dinamica del conflitto generazionale che – come l’anno scorso ci ha insegnato Erodoto – è sempre esistito e che vede i figli contro i padri e viceversa) perché (i loro genitori e i loro nonni) sono stati parte integrante della classe dirigente dello Stato ebraico e quindi sono corresponsabili della divisione della nazione, del degrado materiale e morale generato dalla corruzione e dall’adorazione degli Idoli e, soprattutto, sono coinvolti nella persecuzione degli “scrivani dissidenti” in fuga tra i pastori transumanti.
Ecco che l’immagine di Amos diventa il vessillo di una generazione (la seconda generazione di scrivani in esilio a Babilonia) che s’identifica con gli antichi “scrivani dissidenti” in fuga tra i pastori transumanti i quali diventano profeti (proclamatori) per cercare, con il loro messaggio moralizzatore, di evitare la rovina di un popolo.
Gli scrivani in esilio a Babilonia appartenenti alla seconda generazione sono cresciuti nella tradizione dell’Ebraismo (i loro padri sono stati capaci – pur col metodo della lamentazione e pur coltivando profondi sensi di colpa – a mantenere viva la tradizione) ma sono anche ormai entrati pienamente in contatto con gli strumenti della cultura babilonese (la lingua, la letteratura, la scienza) e con le istituzioni della civiltà mesopotamica (i decreti, le leggi, le cerimonie) e di conseguenza hanno maturato una nuova mentalità e hanno assunto un diverso modo intellettuale di agire che le studiose e gli studiosi di filologia biblica hanno denominato: lo “stile del proclama di Amos”.
Il Libro di Amos contiene il programma dei “laboratori di costruzione del testo” creati dagli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia per mettere al centro dell’attenzione due parole-chiave, due idee-cardine (rimaste nel dimenticatoio) che possano avviare, nella comunità dei deportati, il processo di superamento della fase di disperazione, di lamentazione, di totale pessimismo; queste due parole-chiave sono: la berit e la torah, il patto (la presa di coscienza che è necessario stare uniti) e la Legge (la presa di coscienza che sarebbe stato, a suo tempo, ed è necessario oggi in esilio, cambiare lo stile di vita: conoscere, capire e rispettare la legge che deve essere uguale per tutti).
Lo stile del Libro di Amos, tanto per la forma quanto per il contenuto, risulta essere un fondamentale dispositivo intellettuale per il movimento della “sapienza poetica beritica” e di conseguenza per la costruzione della Letteratura biblica propriamente detta.
Ricapitolando, l’autore del Libro di Amos è uno scrivano che s’identifica con il personaggio dell’opera che sta scrivendo (fa del pastore-profeta Amos un simbolo, una bandiera) e utilizza questo meccanismo di identificazione per redigere un proclama, per stendere un manifesto intellettuale che contenga le linee generali di un progetto culturale che sta maturando nel laboratori di costruzione del testo creati dagli scrivani appartenenti alla seconda generazione (quella dei figli) in esilio a Babilonia.
Quali sono i nodi strategici di questo progetto, quali sono i punti-chiave dello “stile del proclama di Amos”? Prima di tutto l’autore del testo di Amos – identificandosi con il protagonista del Libro (che appare come un pastore-profeta dissidente) – a nome della generazione alla quale appartiene (persone arrivate bambine o nate e cresciute in esilio a Babilonia) vuole distinguersi dalla prima generazione di scrivani (la generazione dei padri): vuole dichiarare di non appartenere alla categoria degli scrivani collusi con la classe dirigente corrotta che ha condotto Israele alla disfatta e all’esilio. L’autore, per raggiungere questo obiettivo, fa affermare, nel testo del Libro che sta scrivendo, al personaggio di Amos – con il quale s’identifica – di non essere un “profeta di corte, un profeta di mestiere”, di non essere uno di quei profeti (assoldati dal re) asserviti alla monarchia che fanno parlare gl’Idoli secondo la volontà della classe oligarchica al potere e secondo gli interessi del monarca assoluto per costringere il popolo alla sottomissione e all’accettazione della misera condizione in cui vive.
Nel testo del Libro di Amos troviamo esplicitata la differenza tra i “profeti di corte” che si mettono a servizio acritico del potere monarchico e i “profeti dissidenti” che, fuggiti nel mondo pastorale, proclamano l’ira del Signore (imbestialito – è un Dio che ruggisce come un leone – contro la corruzione e contro l’idolatria) e richiamano alla necessità di ristipulare, con il Dio unico dell’universo, il “patto”, la “berit” (la presa di coscienza che bisogna condividere tutti uniti la stessa sorte nel bene e nel male).
Nel testo del Libro di Amos il concetto di ristipulare, con il Dio unico dell’universo, il “patto”, la “berit”, corrisponde all’idea di una necessaria presa di coscienza che possa determinare il doveroso cambiamento di stile di vita che si attua con il rispetto della torah, il rispetto della Legge, a cominciare dal re il quale ha da essere un “pastore” che sta in mezzo al suo popolo e non un Idolo che sta chiuso in un santuario.
Nel frammento che tra breve leggeremo, e che è posto nel capitolo 7 proprio nel cuore del Libro di Amos, troviamo “la dichiarazione di indipendenza della seconda generazione di scrivani in esilio a Babilonia” rispetto alla prima generazione di scrivani. La dichiarazione di indipendenza della seconda generazione di scrivani in esilio a Babilonia è il primo punto-chiave dello “stile del proclama di Amos”: questa dichiarazione – fatta in nome del Dio unico dell’universo (il Dio dei profeti, “El-nebijim”) – esalta il pensiero dei pastori-profeti dissidenti che, a suo tempo (dal X secolo a.C., nel corso di una lunga tradizione), si sono opposti al regime monarchico corrotto e idolatrico. Inoltre la dichiarazione di indipendenza della seconda generazione di scrivani in esilio a Babilonia intende denigrare e criticare il ruolo dei “profeti di corte”, dei “profeti di mestiere”, responsabili, insieme a tutta la classe dirigente, della sconfitta, della disfatta e dell’esilio.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Quale parola-chiave (per esempio, ma è solo un esempio: la casa, la scuola, il viaggio, il lavoro, il partito, le amicizie, la fede, la città, il ballo…) ha rappresentato per te l’idea di “indipendenza”?…
Scrivila…
Con questa dichiarazione d’indipendenza la seconda generazione di scrivani (la generazione dei figli nati, o arrivati da bambini, in esilio a Babilonia) mette sotto accusa i padri – responsabili della deportazione – rinfacciando loro di non aver saputo e di non aver voluto fare nelle loro raccolte di scritti (la prima generazione di scrivani ha continuato da subito a svolgere il proprio ruolo) una doverosa autocritica. Gli scrivani della prima generazione hanno infatti già composto parti consistenti dei Libri di Isaia, di Geremia e di Ezechiele. In queste raccolte di scritti, però, gli scrivani della prima generazione si abbandonano alla “disperazione”, si lasciano andare allo “sconforto”, cercano di giustificare le loro colpe e non riconoscono, in quanto appartenenti alla classe dirigente, che sarebbe stato necessario rispettare i “patti di solidarietà sociale” e che sarebbe stato doveroso “rispettare la Legge”, che è uguale per tutti: inscenano, utilizzando la forma poetica, le loro “lamentazioni” in modo da mettere in secondo piano l’autocritica, l’assunzione di responsabilità. Difatti, il primo strato della Letteratura dei profeti – composto tra il 587 e il 560 a.C. dalla prima generazione di scrivani (la generazione dei padri deportati a Babilonia) – è stato denominato il “genere letterario della Lamentazione” che dà voce al lungo periodo del pessimismo totale.
La seconda generazione di scrivani (la generazione dei figli nati in esilio a Babilonia, o arrivati da bambini) – che non si sente responsabile della disfatta, e mal sopporta il fatto che le colpe dei padri debbano ricadere sui figli – richiama la generazione precedente, la generazione dei padri, alla doverosa e necessaria autocritica che non deve essere un punto di arrivo ma bensì un punto di partenza. La continua “lamentazione”, che emerge dagli scritti della prima generazione di scrivani (la generazione dei padri deportati a Babilonia), non può essere fine a se stessa ma deve condurre ad una “presa di coscienza” che possa aprire una via d’uscita dallo stadio del “pessimismo totale” (tema dominante delle Lamentazioni) per cominciare a coltivare una fase in cui prenda forma l’idea della “speranza” sostenuta dalla due parole-chiave intorno alle quali la seconda generazione di scrivani in esilio a Babilonia intende e dichiara di voler lavorare: la berit (il patto) e la torah (la Legge uguale per tutti).
Il “patto” – secondo lo “stile del proclama di Amos” – rappresenta l’idea della necessaria presa di coscienza, della doverosa assunzione di responsabilità, e la “Legge” decreta un fondamentale cambiamento di stile di vita, gradito al Signore, Dio dell’universo, che non può essere ridotto ad un Idolo chiuso nel santuario di uno staterello, ma bensì considerato come una divinità che aleggia sulla terra planando dall’alto dei cieli.
L’autore del Libro di Amos utilizza la figura del sacerdote Amasìa – che ora incontriamo nel frammento che stiamo per leggere – per rappresentare la prima generazione di scrivani (la generazione dei padri deportati a Babilonia) i quali cercano, con le loro Lamentazioni e con le loro accuse, di non assumersi le proprie responsabilità ma di tentare di addossare la colpa della tragica sconfitta ai “profeti-pastori dissidenti”: accusati di aver aizzato il popolo contro i re.
La seconda generazione di scrivani (quella dei figli nati in esilio o arrivati da bambini), invece, si riconosce pienamente nella tradizione dei “profeti-pastori dissidenti” e decide, quindi, di recuperare le mitiche saghe orali, di ridisegnare i repertori e di catalogarne il pensiero, e, identificandosi con essi, di assumerne il ruolo con un documento programmatico che introduce un nuovo stile (lo “stile del proclama di Amos”) che produce una svolta decisiva nel movimento della “sapienza poetica beritica”.
Leggiamo la “dichiarazione d’indipendenza” degli scrivani della seconda generazione, nati e cresciuti o arrivati da bambini, in esilio a Babilonia:
LEGERE MULTUM….
Libro di Amos 7, 10-17
Amasìa, sacerdote di Betel, fece pervenire al re Geroboamo questo messaggio: – Amos è qui nel regno d’Israele e congiura contro di te. La gente non sopporta più i suoi discorsi. Infatti egli dice: “Geroboamo morirà in battaglia, e la popolazione d’Israele sarà deportata, lontano dalla sua patria” – Allora Amasìa disse ad Amos: – Visionario, vattene, ritorna nella terra di Giuda per guadagnarti il pane, e fai là, il profeta. Non profetizzare più a Betel. Questo è il santuario del re, il tempio della nazione! – Amos rispose: “Non sono un profeta (hōzeh) di mestiere, e non faccio parte di un gruppo di profeti (dei profeti di corte). Sono un pastore (rō’ehnābi’) e coltivo le piante di sicomoro. Il Signore mi ha chiamato mentre seguivo il gregge al pascolo, e mi ha ordinato di portare il suo messaggio a Israele. E ora tu vuoi che io non profetizzi più contro il popolo di Israele, e che non parli più contro i discendenti di Isacco (dell’antico patto). Allora ascolta queste parole del Signore: Tua moglie diventerà una donna di strada, i tuoi figli e le tue figlie saranno uccisi in guerra. La tua proprietà sarà divisa fra altre persone, tu stesso morirai in terra straniera, e la popolazione d’Israele sarà deportata lontano dalla sua patria”.
Come avete notato l’autore utilizza due nomi diversi per definire due categorie diverse di “profeti”: il termine “rō’ehnābi’”, che già conosciamo e che definisce il “profeta-pastore” e poi la parola “hōzeh” che letteralmente significa “visionario” e che viene usato dall’autore in senso negativo, dispregiativo, per etichettare il “lo scrivano di corte” e “il profeta di mestiere”.
La prima generazione di scrivani si è rifiutata di fare autocritica, si è lasciata andare ad una disperata lamentazione, ed è, quindi, rimasta allo stesso livello dei profeti di corte (di “hōzeh”, del visionario asservito agl’Idoli). L’esercizio del “lamento” ha solo generato disperazione e pessimismo.
L’autore del Libro di Amos ritiene sia necessario, quindi, riscrivere e completare i testi delle Lamentazioni con lo “stile del proclama di Amos”. Amos, quindi, è il modello del “rō’ehnābi’”, del profeta-pastore, in cui si riconosce la seconda generazione di scrivani (quella dei figli nati in esilio a Babilonia) e il testo di Amos prevede di andare oltre il “pessimismo”, di superare il lamento e la disperazione. La rovina deve portare ad una presa di coscienza (alla berit, al patto) e nella rovina si deve saper scorgere la speranza di liberazione, la possibilità di salvezza, che viene dalla torah, che si realizza con il rispetto della Legge uguale per tutti.
A proposito di “lamentazione” – un termine significativo che tutti abbiamo sentito nominare e che va ad arricchire (insieme alle parole: profeta, pastore, proclama, esilio) il catalogo delle parole-chiave del movimento della “sapienza poetica beritica” – dobbiamo precisare che se scorriamo l’indice della Bibbia possiamo constatare che esiste un Libro che s’intitola Lamentazioni. Secondo la tradizione questo Libro viene attribuito al profeta Geremia, ma ormai sappiamo che il nome dei profeti non corrisponde ad una persona ma è in relazione ad un laboratorio di scrittura, coincide con una scuola di costruzione del testo fondata dagli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia. Il Libro intitolato Lamentazioni è stato composto dagli scrivani dello stesso laboratorio che ha prodotto il Libro di Amos ed è, di conseguenza, un esempio significativo di ciò che abbiamo studiato percorrendo l’itinerario di questa sera.
Quindi – prima di tornare ad occuparci del testo di Amos – dobbiamo aprire una parentesi per invitare alla lettura del Libro intitolato Lamentazioni, un Libro di otto pagine, formato da cinque capitoletti: sono necessari quindici, venti minuti di lettura per questo esercizio che la Scuola consiglia di fare.
Qual è la chiave di lettura che dobbiamo utilizzare nell’avvicinarci a questo testo? L’abbiamo in parte già illustrata. Il testo di questo Libro contiene una consistente quantità di materiale, frutto del “genere letterario della Lamentazione”, prodotto dalla prima generazione di scrivani deportati a Babilonia, che si caratterizza per un contenuto fortemente pessimista, dove emerge il sentimento della disperazione, dello sconforto, dello smarrimento. Questa consistente quantità di materiale, prodotto, a caldo, dalla prima generazione di scrivani subito dopo la deportazione a Babilonia (subito dopo il 587 a.C.), è stato utilizzato (trent’anni dopo, intorno al 560 a.C.) dagli scrivani della seconda generazione – quelli del laboratorio dello “stile del proclama di Amos” – per scrivere il Libro delle Lamentazioni in modo da dare un senso diverso alla disperazione: guardando al contenuto pessimista secondo una nuova mentalità che vuole superare lo scoramento e le false giustificazioni. C’è una ragione – sostengono gli scrivani di seconda generazione del laboratorio dello “stile del proclama di Amos” – che ha provocato la rovina: “i molti peccati commessi (le trasgressioni alla Legge)”, soprattutto dalla classe al potere, da Sion (è una località) che rappresenta i sacerdoti e gli scrivani di corte, e da Giuda (il regno di Giuda, il regno del sud con capitale Gerusalemme) che rappresenta il potere economico e politico.
Se leggiamo un frammento delle Lamentazioni capiamo subito l’operazione letteraria che gli scrivani di seconda generazione, del laboratorio dello “stile del proclama di Amos”, hanno compiuto:
LEGERE MULTUM….
Lamentazioni 1, 1-5
È stata proprio abbandonata da tutti la città (Gerusalemme) prima tanto popolata! Era così rinomata tra le nazioni, e ora è come una vedova. Era signora e dominava tra le province, e ora è costretta ai lavori forzati. Passa le notti a piangere e le lacrime rigano le sue guance. Tra quelli che l’amavano più nessuno ora la consola. Tutti i suoi amici l’hanno tradita, anzi sono diventati suoi nemici. Giuda va in esilio deportata, soffre per la miseria e la più dura schiavitù. Vive tra le nazioni, ma non trova dove stabilirsi. Quando era in difficoltà, è stata raggiunta dai suoi persecutori. Le strade di Sion sono in lutto perché nessuno va più alle feste, le sue piazze sono deserte. I suoi sacerdoti sospirano, le sue ragazze sono tristi. In Sion c’è solo amarezza. I suoi avversari hanno avuto il sopravvento, i suoi nemici sono soddisfatti. (Questo è un tipico esempio del “genere letterario della Lamentazione”: questo materiale è stato prodotto dalla prima generazione di scrivani e nel testo regna il “pessimismo totale” e non c’è nessuna presa di coscienza sulle cause che hanno provocato la rovina. A colmare questa lacuna ci pensano gli scrivani della seconda generazione che riscrivono e completano il testo inserendo il tema della “assunzione di responsabilità”, il tema del “patto”, della “berit” che fa entrare in scena il Signore, il Dio dei profeti-pastori)…
È il Signore che la fa soffrire per i suoi molti peccati che ha commesso. I suoi bambini sono fatti prigionieri, camminano spinti dai nemici. (Questa è la voce della seconda generazione di scrivani che – utilizzando lo “stile del proclama di Amos” – ci mettono anche la firma con la metafora dei “bambini sono fatti prigionieri”: sono loro, sono i figli, è la seconda generazione che richiama i padri alle loro responsabilità, e il testo delle Lamentazioni procede con questo ritmo)…
Il Libro intitolato Lamentazioni è uno dei prodotti più significativi creati dal laboratorio dello “stile del proclama di Amos”. Da questo testo si capisce come gli scrivani della seconda generazione (la generazione dei figli, nati e cresciuti a Babilonia, o arrivati da bambini, e dobbiamo pensare che quelli arrivati da bambini abbiano l’età per essere tra i più autorevoli tra gli scrivani della seconda generazione) abbiano maturato l’idea che la rovina (la tragedia, il dramma) debba portare ad una presa di coscienza (alla berit, al patto) e nella rovina si debba saper intravedere la speranza della liberazione, si debba imparare a vivere nell’attesa della salvezza: un’attesa scandita dalla torah, dalla Legge, che deve essere scritta, conosciuta, capita e rispettata da tutti.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Il verbo “lamentare” ci accompagna costantemente nella nostra vita: quale di queste parole – l’accusa, il compianto, la deplorazione, il dolore, il pianto, il brontolio, la protesta, il reclamo, il cruccio, la mormorazione, la recriminazione… – metteresti per prima accanto al verbo “lamentare”?…
Scrivila (senza lamentarti) guardando alla tua esperienza quotidiana…
Dopo questa incursione nelle Lamentazioni, di cui si raccomanda la lettura, torniamo a riflettere brevemente sul Libro di Amos; tanto sul testo delle Lamentazioni quanto sul testo del Libro di Amos punteremo ancora la nostra attenzione nel prossimo anno.
Per concludere, prendiamo ancora in considerazione l’incipit del Libro di Amos che abbiamo letto questa sera: che cosa proclama il pastore-profeta? Il pastore-profeta proclama di aver sentito “ruggire il Signore” (abbiamo già detto che il Signore ruggisce come un leone). Questa affermazione – «Il Signore ruggisce dal monte Sion, la sua voce tuona da Gerusalemme» – ci colpisce, prima di tutto, dal punto di vista poetico, ma non abbiamo di fronte solo un testo poetico, bensì ci troviamo al cospetto di un testo “poetico sapienziale”: che cosa significa?
Innanzitutto dobbiamo osservare il termine “Sion” che gli scrivani della seconda generazione – tanto nel Libro di Amos che nelle Lamentazioni – utilizzano per definire il potere religioso e intellettuale: il Signore (il Dio dei profeti-pastori) si è insediato sul monte Sion al posto dei profeti di mestiere e degli scrivani di corte e non sospira e non piange (come fanno costoro) il Signore; ma ruggisce: che cosa significa questa figura allegorica? Significa che, nella lingua ebraica – coniata dagli “scrivani d’Israele in esilio a Babilonia” – l’espressione “sentir ruggire il Signore” determina una situazione molto particolare. Se in questo momento sentissimo un ruggito, immediatamente la nostra attenzione sarebbe attratta da questo fatto insolito. Quando sentiamo un ruggito (in special modo se sentissimo un ruggito in una situazione come questa) non possiamo non alzare immediatamente il tasso d’attenzione e quindi, nella lingua ebraica (dobbiamo dire che questo concetto è penetrato nella lingua ebraica attraverso le colture contigue: quella mesopotamica, quella egizia, quella iraniana), sentire “il Signore che ruggisce” significa: “alzare il tasso d’attenzione” e, quindi, “prendere coscienza”. Il pastore che sente ruggire il Signore è il profeta che prende coscienza del suo ruolo e dà voce ai “ruggiti” dell’unico Dio dell’universo.
L’autore del Libro di Amos – in linea con lo “stile del proclama” messo a punto dalla seconda generazione di scrivani in esilio a Babilonia – utilizza questo concetto (del “Signore che ruggisce”, della presa di coscienza) per dare un senso, per dare un fondamento (poetico-sapienziale) al processo di superamento della lamentazione e del pessimismo.
E a che cosa porta la presa di coscienza (il “ruggito del Signore”) di cui gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia sono fautori? Per rispondere a questa domanda dobbiamo aspettare il prossimo anno (il 2008 è in arrivo)!
Adesso, per concludere l’itinerario di questa sera (l’ultimo itinerario dell’anno 2007), dobbiamo celebrare il Natale: il ventiquattresimo Natale della storia (con la “s” minuscola) del Percorso di Storia (con la “S” maiuscola) del Pensiero Umano in funzione della didattica della lettura e della scrittura. E, nel celebrare il Natale, cogliamo l’occasione per constatare come si sia sviluppato il concetto del “pastore-profeta” – che è stato il tema dominante della serata – nella Letteratura dei Vangeli (un territorio nel quale abbiamo viaggiato per due anni, nel secolo scorso, più di una decina di anni fa).
A questo proposito puntiamo l’attenzione sul cosiddetto “testo proto-lucano” (di cui abbiamo parlato altre volte), formato dai primi due capitoli del Vangelo secondo Luca. Il testo dei primi due capitoli del Vangelo Secondo Luca (fate un’istruttiva incursione) viene chiamato anche il Vangelo della mitica infanzia di Gesù.
Il testo proto-lucano insieme agli Atti degli Apostoli (che sono stati scritti contemporaneamente alla fine del primo secolo) formano il primo catechismo della Chiesa di Roma. Questo “originario catechismo” lo ha ispirato il primo papa storico della Chiesa di Roma, Clemente Romano (papa dal 92 al 101, secondo Eusebio di Cesarea), che noi abbiamo già incontrato all’inizio di questo Percorso. I primi due capitoli del Vangelo Secondo Luca raccontano, in parallelo, la nascita di Giovanni il Battezzatore (che ha fama di profeta precursore) e di Gesù (che è la sintesi di tutti i profeti). Tanto Giovanni, il precursore, quanto Gesù, il figlio di Dio, non potrebbero essere considerati tali se non fossero direttamente collegati alla tradizione dei pastori-profeti, allo “stile del proclama di Amos”.
Leggiamo due frammenti dal testo proto-lucano: è un catechismo, abbiamo detto, e qui troviamo anche la prima definizione di Dio, una definizione molto efficace:
LEGERE MULTUM….
Vangelo Secondo Luca 1, 67-80 2, 1-20
Allora Zaccaria, suo padre (padre di Giovanni il Battezzatore), fu riempito di Spirito Santo e si mise a profetare. «Benedetto il Signore. il Dio d’Israele: è venuto incontro al suo popolo, lo ha liberato. Per noi ha fatto sorgere un Salvatore potente tra i discendenti di Davide, suo servo. Da molto tempo lo aveva promesso per mezzo dei suoi santi profeti. Ci ha liberato dai nostri nemici e dalle mani di tutti quelli che ci odiano. Ha avuto misericordia dei nostri padri, è rimasto fedele alla sua alleanza. Ha giurato ad Abramo, nostro padre, di strapparci dalle mani dei nemici. Ora possiamo servirlo senza timore, santi e fedeli a lui per tutta la vita. E tu, figlio mio (Giovanni il Battezzatore), diventerai profeta del Dio Altissimo: andrai dinanzi al Signore a preparargli la via. E dirai al suo popolo che Dio lo salva e perdona i suoi peccati. Il nostro Dio è bontà e misericordia: ci verrà incontro dall’alto, come luce che sorge (la prima definizione di Dio). Splenderà nelle tenebre per chi vive all’ombra della morte e guiderà i nostri passi sulla via della pace». Il bambino (Giovanni) intanto cresceva fisicamente e spiritualmente. Per molto tempo visse in regioni deserte fino a quando pubblicamente si manifestò al popolo d’Israele.
In quel tempo l’imperatore Augusto con un decreto ordinò il censimento di tutti gli abitanti dell’impero romano. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a far scrivere il loro nome nei registri, e ciascuno nel proprio luogo d’origine. Anche Giuseppe parti da Nàzaret, in Galilea, e salì a Betlemme, la città del re Davide, in Giudea. Andò là perché era un discendente diretto del re Davide, e Maria sua sposa, che era incinta, andò con lui. Mentre si trovavano a Betlemme, giunse per Maria il tempo di partorire, ed essa diede alla luce un figlio, il suo primogenito. Lo avvolse in fasce e lo mise a dormire nella mangiatoia di una stalla, perché non avevano trovato altro posto. In quella stessa regione c’erano anche alcuni pastori. Essi passavano la notte all’aperto per fare la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro, e la gloria del Signore li avvolse di luce, così che essi ebbero una grande paura. L’angelo disse: «Non temete! Io vi porto una bella notizia che procurerà una grande gioia a tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato il vostro Salvatore, il Cristo, il Signore. Lo riconoscerete così: troverete un bambino avvolto in fasce che giace in una mangiatoia». Subito apparvero e si unirono a lui molti altri angeli. Essi lodavano Dio con questo canto: «Gloria a Dio in cielo e pace in terra agli uomini che egli ama». Poi gli angeli si allontanarono dai pastori e se ne tornarono in cielo. Intanto i pastori dicevano gli uni agli altri: «Andiamo fino a Betlemme per vedere quel che è accaduto e che il Signore ci ha fatto sapere». Giunsero in fretta a Betlemme e là trovarono Maria, Giuseppe e il bambino che dormiva nella mangiatoia. Dopo averlo visto, dissero in giro ciò che avevano sentito di questo bambino. Tutti quelli che ascoltarono i pastori si meravigliarono delle cose che essi raccontavano. Maria, da parte sua, custodiva gelosamente il ricordo di tutti questi fatti e li meditava dentro di sé. I pastori, sulla via del ritorno, lodavano Dio e lo ringraziavano per quel che avevano sentito e visto, perché tutto era avvenuto come l’angelo aveva loro detto…
Credo che non ci sia bisogno di fare alcun commento sui rapporti tra la Letteratura dell’Antico Testamento e quella del Nuovo Testamento, vanno di pari passo e la riflessione (come abbiamo fatto questa sera) sul Libro di Amos rende questa pagina più chiara, più comprensibile. Nella storia della salvezza in prima fila ci sono i “pastori”: c’è lo “stile del proclama di Amos”. La riflessione sul Libro di Amos non è appena all’inizio e la riprenderemo dopo la pausa natalizia.
Che augurio deve fare la Scuola per Natale? La Scuola (la Scuola pubblica degli Adulti) deve augurare un “buon Natale di studio”. Un Natale di “studium et cura” (queste due parole, come c’insegna il latino, sono sinonimi) infatti non c’è modo migliore per prendersi cura del proprio corpo e della propria anima che dedicarsi, per qualche ora la settimana, allo studio.
Il prossimo anno, al nostro ritorno, dovremo ancora approfondire alcune caratteristiche – utili in funzione della didattica della lettura e della scrittura – riguardanti lo “stile del proclama di Amos”.
Non lasciate “ruggire invano il Signore”, questa significativa metafora, come abbiamo imparato, significa: prendete l’iniziativa, correte a Scuola, la Scuola è qui...
Arrivederci a mercoledì 9 gennaio (Scuola Redi), a giovedì 10 gennaio (Scuola Levi), a venerdì 11 gennaio (Scuola Don Milani) …
E a tutte voi e a tutti voi: buon Natale di studio!…