Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza poetica beritica 2008 9-10-11 gennaio 2008
LA DISSONANZA CRONOLOGICA: LO SVILUPPO “A RITROSO” DEI TESTI ...
Ben tornate e ben tornati a Scuola: buon anno nuovo a tutti! …
Ben tornate e ben tornati a viaggiare su questo Percorso di didattica della lettura e della scrittura che ci ha portati nello scorso anno, e ci porta nel nuovo, ad attraversare il vasto e complesso territorio del movimento della “sapienza poetica beritica”. Al movimento della “sapienza poetica beritica” dobbiamo la composizione di quello straordinario apparato culturale che è la Letteratura dell’Antico Testamento e che si concretizza nei Libri della Bibbia. Sappiamo che le radici della tradizione culturale europea (le radici culturali di quasi tutti noi) affondano in un duplice terreno: il terreno del “movimento della sapienza poetica orfica” da cui derivano le opere della Letteratura greca (di cui ci siamo occupati – viaggiando in compagnia di Erodoto – nell’anno 2006-2007: vi ricordo che le Lezioni di questo Percorso sono leggibili e scaricabili dal sito www.inantibagno.it) e poi le nostre radici culturali affondano nel terreno del “movimento della sapienza poetica beritica” da cui derivano i (49) Libri della Letteratura veterotestamentaria.
Per affrontare questo viaggio di studio, in corso dall’ottobre 2007 (di cui abbiamo percorso 10 itinerari), siamo partiti da Alessandria d’Egitto, intorno al II secolo a.C. e, procedendo all’indietro verso l’Età assiale della storia, abbiamo cominciato a studiare i significati del termine “beritico” che, come tutti sappiamo, deriva dalla parola ebraica “berit” che traduce i termini: “patto”, “accordo tra le parti”, “disposizione testamentaria”.
Come la conoscenza dei testi fondamentali della Letteratura greca è ritenuta indispensabile per un’adeguata comprensione di noi stesse/stessi, così la conoscenza dei Libri dell’Antico Testamento è altrettanto indispensabile per chi voglia comprendere il nostro patrimonio culturale in modo da capire meglio chi siamo, in modo da comprendere meglio la nostra identità umana. Per essere ancora più concreti – visto che il nostro Percorso è in funzione della didattica della lettura e della scrittura – dobbiamo dire che la conoscenza delle parole-chiave e delle idee-cardine contenute nella Letteratura dell’Antico Testamento dà la possibilità alle persone di accedere con maggiore consapevolezza a molti oggetti culturali, a molte creazioni intellettuali, soprattutto ai romanzi dell’800 e del ‘900 di cui la Scuola propone la lettura per propiziare una riflessione che possa condurre le lettrici e i lettori ad esprimere con la scrittura il proprio pensiero (a concretizzare il proprio spirito autobiografico) per imparare sempre di più ad investire in intelligenza.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Dai primi dieci itinerari di questo Percorso, che si sviluppa sul territorio del movimento della “sapienza poetica beritica”, su cui abbiamo viaggiato nell’anno 2007, è emersa la prima parte di un catalogo di parole-chiave che fanno parte del nostro albero genealogico lessicale e sono: il patto, l’accordo, il testamento, la traduzione, la falsificazione, l’ispirazione, il profeta, il pastore, il proclama, l’esilio, la lamentazione, il ruggito…
Nell’attesa del completamento del catalogo e delle scelte da fare alla conclusione del Percorso: quale di queste parole, oggi, mettereste per prima nell’elenco?
Scrivetela…
Nell’ultimo itinerario dello scorso anno siamo entrati in contatto con un Libro che, questa sera (in modo da poter riprendere il nostro cammino, spesso non agevole), ritroviamo sul nostro Percorso: il Libro di Amos, considerato un’opera importante perché si presenta (e, probabilmente, questo fatto ce lo ricordiamo) come il manifesto, come il documento costitutivo di una corrente di pensiero che si sviluppa per iniziativa della seconda generazione di scrivani in esilio a Babilonia: la generazione dei figli, o deportati da bambini o nati e cresciuti in esilio.
In seno a questa corrente di pensiero – che (come già abbiamo annunciato prima della pausa natalizia) è stata chiamata dello “stile del proclama di Amos” – nascono numerosi Laboratori di scrittura, che, fondati e gestiti dagli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia, si trasformano gradualmente in vere e proprie Scuole di costruzione del testo raggiungendo la loro massima fioritura tra il 570 e il 560 a.C. (in piena Età assiale della storia). Dagli scrivani di queste Scuole di scrittura viene prodotto il patrimonio più consistente di Letteratura biblica propriamente detta.
Questa affermazione ci permette – prima di proseguire – di fare il punto della situazione per quanto riguarda le fasi dello sviluppo del movimento della “sapienza poetica beritica” nel corso delle quali gli scrivani d’Israele producono i materiali della Letteratura biblica propriamente detta.
Nel nostro Percorso, in autunno, siamo partiti dalla fine, dall’ultima fase: quella che matura ad Alessandria d’Egitto, nella comunità ebraica della diaspora, intorno al II secolo a.C.. Durante quest’ultima fase del movimento della “sapienza poetica beritica” – che viene chiamata la fase “ellenistico alessandrina” – avviene la traduzione in greco dei Libri della Bibbia (la versione dei Settanta) e la composizione degli ultimi Libri della Letteratura dell’Antico Testamento: i Libri deuterocanonici (del secondo canone o del canone alessandrino) su cui spicca il Libro della Sapienza.
Adesso noi abbiamo cominciato ad inquadrare quella che viene considerata la prima fase del movimento della “sapienza poetica beritica”: la complessa fase che si sviluppa a Babilonia, durante l’esilio, soprattutto per opera delle Scuole del “proclama di Amos”, fiorite tra il 570 e il 560 a.C., alle quali dobbiamo la produzione del materiale letterario che, dopo l’esilio (dopo il 539 a.C.) va a formare il primo canone (il canone giudaico-palestinese) che comprende i Libri del Pentateuco (le Origini, i Patriarchi e la Legge), i Libri dei profeti anteriori (i Giudici, i Re, la divisione del regno) e i Libri dei profeti posteriori (le Lamentazioni per la rovina, l’assunzione di responsabilità, la speranza di liberazione).
E allora, per sintetizzare dobbiamo dire che: il movimento della “sapienza poetica beritica” si compone di una prima fase (detta anche del primo canone o del canone giudaico-palestinese), questa prima fase si sviluppa nel VI secolo a.C. durante l’esilio e subito dopo l’esilio a Babilonia ed è chiamata la “fase del proclama di Amos”. Poi – abbiamo già studiato e sappiamo che – il movimento della “sapienza poetica beritica” si compone di un’ultima fase denominata: la “fase ellenistico-alessandrina” (del secondo canone o del canone alessandrino) che si sviluppa ad Alessandria intorno al II secolo a.C. all’interno dello scontro epocale tra le correnti “filotraduzioniste” e “controtraduzioniste” in cui si dividono gli intellettuali della comunità ebraica della diaspora in Egitto.
Naturalmente tra la prima fase (la “fase del proclama di Amos”) e l’ultima (la “fase ellenistico-alessandrina”) c’è dell’altro, ma cerchiamo (se è possibile) di procedere con ordine perché il nostro sentiero attraversa un territorio molto impervio.
Dagli scrivani delle Scuole del “proclama di Amos” (stavamo dicendo) –, fiorite a Babilonia tra il 570 e il 560 a.C., viene prodotto il patrimonio più consistente di Letteratura biblica propriamente detta. Le Scuole del “proclama di Amos” – gestite dagli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia –, in ordine cronologico di composizione, producono per primi i materiali letterari che formeranno i Libri dei “profeti posteriori”: questo materiale contiene i resoconti delle lamentazioni dei padri per la rovina, gli scritti sull’assunzione di responsabilità dei pastori-profeti e le narrazioni sulla speranza di liberazione coltivata attraverso il concetto del “patto”, attraverso l’idea della “berit”.
Poi, in successione, le Scuole del “proclama di Amos” compongono i materiali letterari che formeranno i Libri dei “profeti anteriori”: questo materiale contiene la revisione delle cronache degli “scrivani di corte del X secolo” sul tema della divisione del regno, i racconti sui Re e le narrazioni sull’epopea dei Giudici.
Infine le Scuole del “proclama di Amos” producono gli scritti che daranno corpo ai Libri del Pentateuco, e questo materiale letterario contiene la codificazione della Legge (la torah), le storie dei Patriarchi e la narrazione delle Origini con il Libro della Genesi che, in questa fase, è stato scritto per ultimo e poi, nel canone, verrà collocato per primo perché la cronologia della composizione del testo passa in secondo piano rispetto all’esigenza di costruire “la storia” (questa idea, fra un po’, la spigheremo meglio) per cui il complessivo racconto allegorico che dà corpo alla Letteratura dell’Antico Testamento, attraverso le fasi del movimento della “sapienza poetica beritica”, viene ad identificarsi con la storia del popolo d’Israele.
Dagli scrivani delle Scuole del “proclama di Amos” (stavamo dicendo) –, fiorite a Babilonia tra il 570 e il 560 a.C., viene prodotto il patrimonio più consistente di Letteratura biblica propriamente detta. Ciascuna di queste Scuole di costruzione del testo – chiamate genericamente “del proclama di Amos” – si dà un nome, prende un titolo specifico: i “nomi” delle Scuole, fondate per iniziativa della seconda generazione di scrivani in esilio a Babilonia, corrispondono ai nomi dei “profeti” perché gli scrivani che le gestiscono vogliono, in prima istanza, rilanciare una tradizione – quella del pensiero dei “pastori-profeti” – di cui, sotto traccia, si raccontano oralmente (a veglia) moltissime storie e, su cui, molto si è anche scritto da parte della prima generazione di scrivani (quella dei padri), ma (come sappiamo) solo sotto forma di Lamentazioni.
I “nomi” dei profeti (di cui sotto traccia si raccontano moltissime storie), che danno il titolo alle Scuole di costruzione del testo (le Scuole di Isaia, di Geremia, di Ezechiele e via dicendo), corrispondono non a persone reali ben identificate (non è mai esistito nella realtà un Isaia, un Geremia, un Ezechiele, un Amos ) ma i “nomi” dei profeti corrispondono (a molto di più) alle denominazioni di antiche congregazioni culturali (oggi diremmo: associazioni, circoli) che, dal X secolo a.C., dal tempo del re Salomone, in Palestina, coltivano un pensiero alternativo a quello del potere (il pensiero dei “pastori-profeti”) e il programma di ciascuna di queste associazioni culturali si riassume in un enunciato esplicativo (in uno slogan) che finirà poi per dare origine al nome simbolico di un profeta (fra un momento spiegheremo meglio questo concetto che non è difficile da capire).
Le Scuole più famose e più importanti di costruzione del testo sono quelle di Isaia, di Geremia e di Ezechiele – ma le altre Scuole (che portano il nome di altri profeti) non sono da meno – e in esse lavorano gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia che si dedicano con grande impegno alla composizione dei testi della Letteratura dei profeti cosiddetti “posteriori”.
I Libri dei cosiddetti “profeti posteriori” – lo sappiamo già, ma lo ripetiamo –costituiscono il primo grande apparato di “Letteratura biblica” propriamente detta che sia stato scritto e l’uso di questo termine, “posteriore”, deve essere spiegato.
Facciamo un inciso – in un Percorso in funzione della didattica della lettura e della scrittura si finisce sempre per giocare con le parole – perché so di interpretare un sentire comune e sono d’accordo con voi nel pensare all’ambiguità di questo termine “posteriore”: sembra persino sconveniente utilizzarlo in contiguità con la parola “profeta”; d’altra parte, cosa volete, il termine “posteriore” non può non venirci in mente in tutte le sue valenze significative: anche “anatomiche” oltre che “cronologiche” che sono quelle che ci c’interessano ora, sul nostro Percorso di studio. Non si può negare che il termine “posteriore” sia sempre al centro dei grandi dibattiti cul-turali che si sviluppano nel nostro paese: ricordate certamente (certe cose non si dimenticano) la colta discussione, protrattasi per giorni sui più autorevoli quotidiani, riguardo al fatto se le fanciulle aspiranti al titolo di miss Italia dovessero essere inquadrate anche “posteriormente”, cioè lì dove si concentra la maggiore possibilità di investimento in intelligenza.
Inoltre il termine “posteriore” (in concomitanza con l’espressione “vaffa” nella quale si concentrano i due verbi “andare e fare”: una concentrazione di alto valore linguistico) ha fatto la sua comparsa nei programmi della cosiddetta “politica dell’antipolitica”. Il fenomeno della “politica dell’antipolitica” – che nasce dalla profonda insoddisfazione popolare nei confronti della maggior parte dei rappresentanti istituzionali – mette in evidenza, se si riflette, una situazione inquietante: la sfiducia completa che l’elettorato ha in se stesso, e cioè l’idea che il popolo non sia capace, non sia in grado di scegliere le proprie e i propri rappresentanti, perché siamo noi, sono le cittadine e i cittadini che mandano in Parlamento deputati e senatori: compresi gli inquisiti, i delinquenti comuni, i depravati, gli incompetenti, e via dicendo.
Il fenomeno della “politica dell’antipolitica” porta a pensare che, per salvare la democrazia, basti abolire gli strumenti su cui si fonda: i partiti, i sindacati, il Parlamento, la Costituzione, e che il tutto sia sostituibile con “assemblee virtuali” da tenere in rete: forse, però, il “sistema democratico” è qualcosa di più complesso ma questa potrebbe anche non essere una spiritosaggine …
Ora – e uso un paradosso (ce lo ha insegnato Zenone di Elea lo scorso anno) – se davvero l’antipolitica prendesse il potere e governasse con lo strumento (efficace) della rete di internet, ebbene, quante cittadine e cittadini sarebbero in grado di partecipare? (E questo verbo, “partecipare”, è fondamentale per l’esercizio democratico). Vale a dire quante cittadine e cittadini sono capaci di utilizzare in modo efficace la rete? Nel nostro paese le cittadine e i cittadini che sono in grado di utilizzare in modo efficace la rete sono una minoranza assoluta (qualche centinaia di migliaia di persone a fronte di 15 milioni di possessori di computer) e sapete perché? Il Centro Studi di Confindustria (che ci fornisce questi dati) ci dà una bella risposta: “Per le gravi carenze alfabetiche in cui versa la popolazione”. Senza “saper leggere, scrivere e far di conto” non si accede all’informatica e anche l’antipolitica – se non mette i piedi sul piano della “politica”– non ha prospettive.
E il “vaffa” che si lega con il “posteriore” diventa qualcosa di fine a se stesso: un esercizio di Lamentazione, direbbero gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia.
Tutti lo sanno (ma nessuno ne parla) che una della cause reali del degrado sociale, culturale e morale, una della cause principali della crisi dei sistemi democratici (in Italia e nel mondo) dipende dalle “scarse competenze intellettuali” che non danno la possibilità alla stragrande maggioranza delle cittadine e dei cittadini di conoscere, di capire, di applicarsi, di analizzare, di sintetizzare e di valutare. La stragrande maggioranza della popolazione vive nell’incapacità di far funzionare le azioni dell’apprendimento che conducono all’acquisizione degli “alfabeti” e, come dicono, dal 1948, all’UNESCO: “Senza alfabeto non c’è crescita sociale e sviluppo intellettuale, senza alfabeto non c’è democrazia”.
Quindi il “vaffa” – se proprio vogliamo usarlo nel sua accezione Politica (con la P maiuscola) più rispondente – suona meglio ed è più credibile prima di tutto nell’espressione: “Va a far Scuola!”: un invito perentorio, rivolto a tutte le cittadine e i cittadini, una sollecitazione collocata nell’articolo 34 della Costituzione.
Quindi – tornando a “fare Scuola” – è meglio lasciare il “posteriore”, nel senso cronologico del termine, ai “profeti”.
I Libri dei cosiddetti “profeti posteriori” – lo ripetiamo ancora – costituiscono il primo grande apparato di “Letteratura biblica” propriamente detta che sia stato scritto. L’uso del termine “posteriore”, in senso cronologico, deve essere spiegato perché si può essere spinti a pensare che questi Libri, contrariamente a quello che è avvenuto, siano stati scritti successivamente ad altri, e – se non si studia l’argomento – si recepisce davvero questo messaggio.
I Libri che portano il nome di questi “profeti” – che saranno in seguito chiamati i “profeti maggiori”: Isaia, Geremia, Ezechiele, Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abacuc, Sofonia, Zaccaria, Malachia – sono stati etichettati con il termine “posteriori” (vale a dire: “come se fossero esistiti in un secondo momento”) quando, a Gerusalemme, al termine dell’esilio, viene costruito il primo canone, il canone giudaico-palestinese (e studieremo a suo tempo questa questione).
Anche l’esilio termina intorno al 539 a.C. e una parte dei discendenti dei deportati tornano in Palestina: tra loro ci sono anche gli scrivani della terza generazione i quali portano con loro il grande apparato della Scrittura. Si parla di “ritorno in Israele” ma queste persone si muovono verso una terra (la terra di Canaan) che non hanno mai visto e che hanno conosciuto solo attraverso la tradizione culturale sviluppatasi nelle Scuole di costruzione del testo: la Scrittura, che portano a Gerusalemme, è stata, ed è per loro, il surrogato della patria, della nazione, dello Stato da ricostruire.
Con questo strumento fondamentale (i Libri della Legge e dei profeti) – che vengono depositati nel Tempio di Gerusalemme in ristrutturazione – gli scrivani della terza generazione, tornati dall’esilio, acquisiscono un potere (il potere che si acquisisce quando si è artefici della Scrittura) e vanno, quindi, ad affiancare la nuova classe aristocratico-sacerdotale che diventa la classe dirigente.
Tutto il materiale scritto, che è stato prodotto in esilio a Babilonia, viene messo in ordine per opera della nuova categoria di scrivani (gli scrivani del “codice P.”, di cui parleremo ampiamente a suo tempo): è in questa occasione che i Libri dei “profeti maggiori” (che abbiamo elencato un momento fa) vengono collocati posteriormente (“come se questi profeti fossero esistiti in un secondo momento”) rispetto ai Libri dei cosiddetti “profeti anteriori” – di Giosuè, dei Giudici, dei due Libri di Samuele, dei due Libri dei Re – anche se i Libri dei “profeti anteriori” sono stati scritti successivamente rispetto ai Libri dei “profeti” classificati come “posteriori”
Perché abbiamo fatto questo ragionamento cavilloso? Perché è necessario capire che la Letteratura dell’Antico Testamento, per quanto riguarda la costruzione dei testi (e questo vale per tutte le Letterature che si sono formate durante l’Età assiale della storia), si è sviluppata “a ritroso”, con un’evoluzione che viene chiamata: “l’andamento del gambero”. La nuova classe sacerdotale (gli scrivani del “codice P.”) che, dopo l’esilio ha redatto il primo canone (il canone giudaico-palestinese), ha codificato la Scrittura – affermano le specialiste e gli specialisti di filologia biblica – in perfetta “dissonanza cronologica” rispetto alla costruzione del testo: che cosa significa? Significa che gli scrivani del dopo-esilio revisionano e completano tutto il materiale prodotto a Babilonia collocando al primo posto i Libri scritti successivamente (come quello della Genesi) rispetto a quelli scritti prima (come i Libri dei profeti).
Perché nella costruzione del canone, nella compilazione dell’indice dei Libri della Bibbia, gli scrivani della terza generazione di ritorno dall’esilio non hanno mantenuto l’ordine cronologico della composizione dei testi? Questa è una bella domanda che mette in gioco temi molto complessi. Noi, ora, cercheremo di dare una risposta stringata ma la più efficace possibile in funzione della didattica della lettura e della scrittura. Il fatto che, nella costruzione del canone, nella compilazione dell’indice dei Libri della Bibbia non si sia mantenuto l’ordine cronologico della composizione dei testi dipende dal modo in cui – gli scrivani d’Israele di tutte e tre le generazioni in esilio a Babilonia – hanno concepito l’idea del tempo. Gli scrivani d’Israele – e questa è una specificità importante nell’Età assiale – concepiscono il tempo in senso storico. Gli scrivani d’Israele – contrariamente agli aedi, ai poeti, agli scrittori greci che considerano reale ciò che è eterno – non vogliono assolutizzare il tempo ma lo vogliono governare (l’esempio più eclatante è la pagina del Libro della Genesi in cui si narra – e la leggeremo a suo tempo – il rito della creazione che si svolge nell’arco della settimana). Gli scrivani d’Israele – di tutte e tre le generazioni in esilio a Babilonia – non hanno nella mente l’idea dell’eternità. E a noi viene spontaneo dire come sia possibile questo fatto se uno degli attributi di Dio è proprio quello che lo mette nella condizione di essere considerato: l’Eterno.
Dobbiamo – a questo proposito – fare una riflessione di carattere filologico (dobbiamo osservare la forma delle parole nelle lingue originali). Il termine biblico ‘olam è stato tradotto, nella versione greco-alessandrina dei Settanta, con la parola aión che, in greco, significa “eternità” (e siamo stati a lungo ad Alessandria nel II secolo a.C. quando si stava svolgendo questa grande operazione culturale: la traduzione dei Libri della Bibbia dall’ebraico in greco): quindi dobbiamo alla lingua greca e alla cultura greca – nell’ultima fase del movimento della “sapienza poetica beritica”, tra il III e il I secolo a.C., – l’ingresso nella Letteratura dell’Antico Testamento del concetto di “eternità” con la sua valenza “atemporale” (tipica della mitologia greca).
In realtà però il termine ebraico ‘olam – preceduto dalla parola ‘et, che significa “tempo per fare” – ha il significato di “tempo lontanissimo” e, quindi, non corrisponde all’idea di “eternità”: la formula ebraica ‘et‘olam – che possiamo anche tradurre con l’espressione: “nella notte dei tempi” – non esprime il concetto di un tempo fuori dal tempo.
In funzione della didattica della lettura e della scrittura dobbiamo fare molta attenzione a questo fatto perché gli scrivani alessandrini “filotraduzionisti”, nel momento in cui – traducendo in greco i Libri della Bibbia – attribuiscono all’idea del “tempo” la dimensione dell’eternità, modificano sostanzialmente il pensiero degli scrivani delle tre generazioni dell’esilio, in particolare degli scrivani della seconda generazione: quelli delle Scuole del “proclama di Amos”.
E allora è necessario sapere – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – che tra il canone giudaico-palestinese ordinato a Gerusalemme nel VI secolo a.C. e il canone ellenistico-alessandrino, confezionato ad Alessandria nel I secolo a.C. non c’è semplicemente una differenza di lingua (e questo vale per tutte le operazioni di traduzione) ma c’è anche una differenza di idee che influisce sulla formazione intellettuale e sulla vita pratica delle persone. Quindi – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – è importante sapere da quale canone si attinge.
Di conseguenza dobbiamo sapere che nella Letteratura che deriva dal movimento della “sapienza poetica beritica” (che si concretizza in quella grande biblioteca che chiamiamo la Bibbia) ci sono due grandi varianti: quella originaria del canone di Gerusalemme del VI secolo a.C. (di cui stiamo studiando la formazione) radicata nel periodo dell’Età assiale della storia e la variante, riveduta e corretta alla luce del pensiero greco nel I secolo a.C. (di cui ci siamo occupati nella prima parte del nostro Percorso: ricordate Filone Alessandrino?), del canone di Alessandria radicato nel periodo dell’Ellenismo.
Ma riprendiamo il bandolo della nostra riflessione filologica per dire ancora che il termine ebraico ‘olam – oltre a dare un significato al “tempo” – indica anche “il mondo” perché “il mondo” è la realtà che si concretizza nel “tempo della creazione”: il mondo è la “storia” e (ancora) il termine ‘olam, questa volta seguito dalla parola ‘et – quindi nella dicitura ‘olam‘et – esprime la parola “storia” e rappresenta anche la parola “intelligenza” perché non c’è il tempo (‘et‘olam), non c’è il mondo (‘olam), non c’è la storia (‘olam‘et) senza intelligenza (‘olam‘et) senza (se vogliamo perfezionare questa riflessione filologica) saper conoscere, capire, applicare, analizzare, sintetizzare e valutare...
Ora leggiamo un esempio proveniente dalla Scuola di costruzione del testo intitolata al profeta Isaia (una delle Scuole del “proclama di Amos”): è un solo versetto, il 28, del capitolo 40 del Libro omonimo (del Libro di Isaia) dove, in lingua originale, troviamo un significativo gioco di parole:
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Puoi cercare e osservare, sulla Bibbia che possiedi, il testo del capitolo 40 del Libro di Isaia che consta di 31 versetti divisi in due paragrafi…
LEGERE MULTUM….
Libro di Isaia 40, 28
Voi non sapete, non avete udito che il Signore è Dio da tempo (‘et‘olam) lontanissimo? [Nella traduzione greca dei Settanta si legge: non avete udito che il Signore è Dio in eterno?]. Egli ha creato il mondo (‘olam) e non si stanca mai. Nessuno può capire a fondo la sua (‘olam‘et) intelligenza [la sua (‘olam‘et) storia]. …
Sulla scia di questo versetto la Scuola propone la lettura di tutto il capitolo 40 del Libro di Isaia (il capitolo 40 del Libro di Isaia è contenuto in una pagina quindi non è necessario avere molto tempo a disposizione per fare questo esercizio!). Dobbiamo puntualizzare che il Libro di Isaia è formato da tre parti ben distinte tra loro: il proto-Isaia (dal capitolo 1 al capitolo 39), il deutero-Isaia (dal capitolo 40 al capitolo 55) e il trito-Isaia (dal capitolo 56 al capitolo 66). Con il capitolo 40 – di cui si consiglia la lettura – comincia, quindi, la seconda parte del Libro di Isaia.
La seconda parte, il deutero-Isaia, è composta di materiali scritti quasi esclusivamente nelle Scuole del “proclama di Amos” difatti nella seconda parte del Libro di Isaia troviamo solo poche tracce del genere letterario delle Lamentazioni mentre prevale un testo che si regge sul concetto della “assunzione di responsabilità” e sull’idea della “speranza di liberazione”. Il capitolo 40 del deutero-Isaia si divide in due paragrafi (e potrete constatarlo senza difficoltà): il primo paragrafo (dal versetto 1 al versetto 11) contiene “parole di conforto” (quindi non contempla la lamentazione ma bensì la speranza), il secondo paragrafo (dal versetto 12 al versetto 31) contiene il messaggio che “Il Signore non ha paragoni” e quando nel versetto 28 – che abbiamo letto un momento fa e che è tratto da questo secondo paragrafo – si afferma che “Il Signore è Dio da tempo (‘et‘olam) lontanissimo” gli scrivani delle Scuole del “proclama di Amos” vogliono ribadire che “la storia del Signore si perde nella notte dei tempi” e, quindi, il Signore non è fuori dal tempo (non è nell’eternità) ma è a diretto contatto con il tempo (‘et‘olam), con il mondo (‘olam) e con la storia (‘olam‘et), ed è proprio per questo motivo che “nessuno si può confrontare con lui”.
Quando ad Alessandria (tra il III e il I secolo a.C.) vengono tradotti in greco i Libri della Bibbia i saggi traduttori, studiosi della cultura greca, rendono l’espressione ‘et‘olam – presente in molti testi della Letteratura dell’Antico Testamento – con la parola aiòn-eternità snaturando il modo di pensare degli scrivani delle Scuole del “proclama di Amos” e modificando sostanzialmente un’idea-cardine del canone giudaico-palestinese della Bibbia. Nel canone giudaico-palestinese (scritto in ebraico e codificato dopo il 539 a.C.) si sostiene l’idea che “Il Signore non ha paragoni” perché vive a diretto contatto con il tempo, con il mondo e con la storia. Nel canone ellenistico-alessandrino (scritto in greco e codificato tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C.) l’enunciato “Il Signore non ha paragoni” viene tradotto con l’espressione “Il Signore è eterno”: questa formulazione introduce un concetto che copre inesorabilmente il pensiero degli scrivani del “proclama di Amos” sotto il velo della cultura greca per la quale ciò che è eterno è reale, mentre gli scrivani delle Scuole del “proclama di Amos” non concepiscono l’idea dell’eternità e pensano che sia reale ciò che è nel tempo (‘et‘olam), ciò che è nel mondo (‘olam), ciò che è nella storia (‘olam‘et).
Anche nel primo paragrafo del capitolo 40 del deutero-Isaia – il paragrafo delle “parole di consolazione” di cui stiamo per leggere un frammento – troviamo, nel versetto 8, l’espressione ‘et‘olam che andrebbe tradotta con la parola tempo secondo il pensiero delle Scuole del “proclama di Amos”. Ma, naturalmente, nella traduzione alessandrina dei Settanta, questa espressione è stata resa privilegiando il concetto di eternità, questo fatto ha modificato l’impostazione del messaggio per cui la “parola di Dio” – di cui si parla nel versetto 8 del capitolo 40 del deutero-Isaia, che ora leggeremo – assume l’impronta (aleatoria) dell’eternità a scapito di quella concreta della temporalità: scrivere che “la parola di Dio è eterna” fa pensare che stia in un altro mondo e sia inapplicabile qui tra gli umani, mentre lo scrivere – come fanno gli scrivani del “proclama di Amos” – che “la parola di Dio è nel tempo” significa averla a disposizione per metterla in pratica.
E ora leggiamo un secondo frammento proveniente dalla Scuola di costruzione del testo intitolata al profeta Isaia, una delle Scuole del “proclama di Amos” a cui dobbiamo la composizione del deutero-Isaia: sono solo tre versetti – il 6, il 7 e l’8 – del capitolo 40 del Libro omonimo (del Libro di Isaia) dove, oltre al contrasto tra l’idea di “tempo” e l’idea di “eternità”, troviamo un piccolo assaggio della grande capacità sapienziale e poetica degli scrivani appartenenti alla seconda generazione in esilio a Babilonia:
LEGERE MULTUM….
Libro di Isaia 40, 6 -7- 8
Una voce grida: «Annunzia un messaggio!»; e io domando: «Che cosa devo annunziare?». «Annunzia che ogni persona è come l’erba; e la sua consistenza è come il fiore del campo: secca l’erba, il fiore appassisce quando il Signore fa soffiare il vento su di essi. Sì, la persona è come l’erba: secca l’erba e il fiore appassisce; ma la parola di Dio dura nel tempo (‘et‘olam)». [La versione greca dei Settanta traduce: “ma la parola di Dio dura in (aiòn) eterno”].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
La Scuola consiglia la lettura di tutto il capitolo 40 del Libro di Isaia … Questo capitolo è contenuto in una pagina quindi non è necessario che tu abbia molto tempo a disposizione per fare questo esercizio: è un minimo investimento di tempo per un significativo investimento in intelligenza …
Il Dio biblico – secondo il pensiero delle Scuole di costruzione del testo fondate a Babilonia dagli scrivani della seconda generazione in esilio – non viene concepito come “eterno” nel senso di atemporale (fuori dal tempo) ma nel senso che è autonomo di fronte al divenire e libero nei confronti del morire, e nel senso che esercita la sua signoria su ogni tempo: la presenza del Dio biblico non si manifesta in un tempo dalla dimensione illimitata (l’eternità) ma si manifesta concretamente tutti i giorni (nella quotidianità).
Nella sapienza poetica beritica, proprio perché manca qualunque riferimento all’eternità come realtà ulteriore e perfetta, il tempo è l’espressione completa della realtà, quindi, ciò che è nel tempo è reale e il tempo biblico è un tempo qualitativo, non è l’astratta misura della durata, ma è tutt’uno con la storia che viene raccontata. Di conseguenza, quando gli scrivani della terza generazione, tornati dall’esilio, mettono in ordine il materiale prodotto a Babilonia, pensano al tempo in termini storici, non pensano all’ordine cronologico in cui sono stati composti i testi, e quindi il Libro della Genesi, che racconta allegoricamente il primo atto della storia, diventa realisticamente il primo Libro anche se cronologicamente è stato scritto per ultimo.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
C’è una persona, un fatto, un oggetto, che – sebbene lontano nel tempo – riemerge, in questo periodo, costantemente in primo piano nei tuoi pensieri?
Scrivi quattro righe in proposito…
Abbiamo detto che la Letteratura dell’Antico Testamento si è sviluppata “a ritroso”: Come avviene questo andamento “a ritroso” (questa “dissonanza cronologica”) nella costruzione dei testi?
Per cercare di rispondere a questa domanda dobbiamo tornare con la mente all’inizio dell’esilio. Gli scrivani della prima generazione deportati a Babilonia (nel 587 a.C.) portano con loro in esilio, nel loro bagaglio, insieme agli strumenti del mestiere, anche gli astucci, le custodie di legno e di cuoio in cui ci sono i rotoli contenenti le cronache, i poemi, le narrazioni mitiche degli “antichi scrivani di corte” che, dal X secolo a.C. (e li abbiamo incontrati), hanno lavorato a servizio dei re e della classe dirigente. Tutti questi scritti (cronache, poemi, narrazioni mitiche) degli “antichi scrivani di corte” sono stati chiamati “materiali proto-beritici” e costituiscono lo strato più profondo della Letteratura dell’Antico Testamento ma sono incompleti e soprattutto non possiedono ancora le caratteristiche della Letteratura biblica propriamente detta.
Inoltre gli scrivani della prima generazione dei deportati a Babilonia (i padri) portano nella loro memoria (perché nessuno aveva avuto ancora il coraggio di scrivere su questo argomento, sebbene ne esistesse una traccia indelebile) le saghe orali, i racconti leggendari tramandati oralmente che descrivono il fenomeno reale del “profetismo pastorale”. Il fenomeno del “profetismo pastorale” ha inizio quando molti “scrivani dissidenti” lasciano la corte per denunciare la corruzione (l’ingiustizia sociale) e l’idolatria (l’immoralità privata e pubblica) e si rifugiano nel territorio della transumanza (tra i pastori). Qui gli “scrivani dissidenti” danno vita al movimento dei “proclamatori [nebijm]” (dei “pastori-profeti”, e conosciamo questi termini) i quali prevedono la rovina dei due Regni (d’Israele e di Giuda) in cui si era diviso lo Stato degli Ebrei, che era rimasto unito fino alla morte del re Salomone. I “proclamatori” (i “pastori-profeti”) introducono nel movimento della “sapienza poetica beritica” due parole-chiave fondamentali che fungeranno da base per la Letteratura biblica propriamente detta: la parola “berit” (che contiene il concetto del patto di solidarietà sociale) e la parola “torah” (nella quale emerge l’idea che la Legge è uguale per tutti).
Noi capiamo che, in questi concetti della “sapienza poetica beritica” – in concomitanza con la “sapienza poetica orfica (con la cultura greca)” – ci sono le radici della modernità (come sostiene il teologo Sergio Quinzio nel suo saggio intitolato Radici ebraiche del moderno).
Ma gli scrivani della prima generazione deportati a Babilonia (i padri) – che sono coinvolti con il potere, che fanno parte della classe dirigente – rinunciano a fare autocritica, a prendere coscienza delle proprie responsabilità (fanno finta di non sentire il “ruggito del Signore”) e, quando cominciano (e cominciano subito) a scrivere preferiscono lamentarsi: il primo strato di scritti prodotti in esilio a Babilonia dalla prima generazione di scrivani dà forma al “genere letterario delle Lamentazioni” (avete letto, durante le vacanze, il Libro delle Lamentazioni?) che comprende un vasto repertorio di scritti – ammantati di “pessimismo totale” – che poi, per iniziativa della generazione successiva di scrivani (quella dei figli), entreranno nei testi dei Libri di Isaia, di Geremia e di Ezechiele.
E sarà, appunto, la seconda generazione di scrivani in esilio a Babilonia a dare una svolta al movimento della “sapienza poetica beritica”. Infatti è per iniziativa della seconda generazione di scrivani in esilio a Babilonia (la generazione dei figli, o deportati da bambini o nati e cresciuti in esilio) che si sviluppa un importante movimento intellettuale che dà origine – come già sappiamo – a numerose Scuole di costruzione del testo e a numerosi Laboratori di scrittura. Questi Laboratori di scrittura, queste Scuole di costruzione del testo, gestite dagli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia, (come abbiamo già detto poco fa) assumono il nome simbolico dei “profeti”: le più famose e le più importanti sono le Scuole di Isaia, di Geremia e di Ezechiele. I nomi dei “profeti” corrispondono a personaggi mitici, si rifanno agli eroici protagonisti degli straordinari racconti leggendari che tramandano – fino a questo momento oralmente – il fenomeno della dissidenza di molti scrivani di corte che entrano in conflitto con il re e con la classe dirigente di cui dovrebbero coprire, con le loro cronache compiacenti, il malgoverno, la corruzione e l’idolatria. Quindi, dietro alle figure simboliche dei “profeti maggiori” o “posteriori” non c’è un personaggio ben identificato ma ci sono molte persone concrete o associazioni di resistenza civile le quali proclamano le parole-chiave e le idee-cardine alternative al regime che sta portando alla divisione e alla rovina lo Stato degli Ebrei.
Gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia prendono coscienza che è necessario assumersi delle responsabilità e contestano i loro padri, denunciano il comportamento degli scrivani della prima generazione, i quali si lamentano – hanno scritto, dal 587 al 560 circa a.C., pagine e pagine di Lamentazioni utilizzando la loro capacità poetica, la loro abilità letteraria per tentare di giustificarsi – senza, quindi, riconoscere le loro colpe, senza ammettere che i “profeti-pastori” avevano ragione, erano nel giusto, senza capire che i “profeti-pastori” hanno lasciato in eredità ai deportati le due parole-chiave utili (berit e torah, il patto e la Legge) perché il popolo esiliato si integri, si consoli e non perda – o, per meglio dire, costruisca – la propria identità culturale.
Gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia prendono coscienza che è doveroso assumersi delle responsabilità e contestano i loro padri: si sa che – da che mondo è mondo – i figli polemizzano con i padri e ci deve essere stato anche un 568 a.C., ci deve essere stata, a quanto pare, una ventata di contestazione nella comunità degli esiliati a Babilonia. Gli scrivani della seconda generazione obiettano ai loro padri (agli scrivani della prima generazione) di avere messo per iscritto le “narrazioni orali sui profeti” solo in forma di “lamentazione” e dentro una cornice di “pessimismo totale” che crea una sorta di latente discolpa, uno sgravio delle proprie responsabilità. Come dire: «Siccome le cose a questo mondo – affermano i padri scrivani – vanno sempre tutte male: noi non abbiamo colpa se siamo finiti in rovina perché la rovina è insita nelle cose». Ma i figli scrivani ribattono: «Se voi non aveste perseguitato i profeti-pastori, se aveste difeso il loro pensiero in cui risalta l’idea che tutti devono rispettare la Legge (la torah) e l’idea che va privilegiato il patto (la berit) piuttosto che la guerra probabilmente non saremmo andati in rovina e avremmo evitato l’esilio: prendetevi, quindi, le vostre responsabilità e riconoscete le vostre colpe!».
Gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia s’immedesimano nelle figure dei “profeti-pastori” e ne rinverdiscono intellettualmente la tradizione fondando Laboratori di scrittura e Scuole di costruzione del testo.
I più famosi e i più importanti di questi Laboratori di costruzione del testo fondati dagli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia sono (come abbiamo detto, ma lo ripetiamo ancora) le Scuole di Isaia, di Geremia e di Ezechiele, ma le altre Scuole non sono da meno e tutte lavorano alla composizione dei testi della Letteratura dei profeti cosiddetti “posteriori”.
I nomi dei “profeti” che corrispondono ai nomi delle Scuole, in definitiva, sono dei marchi, sono degli stampi, sono degli slogan, sono degli enunciati significativi che (come abbiamo detto prima) sintetizzano il programma della Scuola stessa: Isaia significa “il Signore salva attraverso il patto (la berit)”, Ezechiele significa “sotto l’influsso della Legge del Signore (la torah)”, mentre in Geremia si raccoglie un concetto che viene espresso con quattro verbi: “sradicare ed abbattere, piantare e edificare”. In questi quattro verbi troviamo esemplificato il lavoro di costruzione del testo che compiono gli scrivani della seconda generazione nei loro Laboratori: “sradicare ed abbattere” sono due azioni che esprimono il “pessimismo totale” tipico degli scritti prodotti dalla prima generazione di scrivani (le Lamentazioni) che vengono utilizzati dalla Scuola di Geremia, per fare da base, per creare il presupposto all’assunzione di responsabilità (a cui il “profeta-pastore” richiama) che porta a “piantare e edificare”, cioè a patteggiare (la berit) , ad accordarsi e a legiferare (la torah).
Si capisce che, in questo momento, noi siamo arrivati ad un crocevia da cui parte un altro sentiero che taglia quello che stiamo percorrendo: un sentiero specifico che attraversa il vasto territorio del movimento della “sapienza poetica beritica” e che riguarda la Letteratura dei “profeti posteriori”, in particolare i Libri di Isaia, di Geremia e di Ezechiele. Naturalmente noi, ora, dobbiamo rinunciare (il nostro viaggio diventerebbe troppo lungo) a percorrere questo sentiero che passa per i Laboratori di costruzione del testo dei Libri dei “profeti maggiori” gestiti dagli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia, tuttavia questo Percorso lo mettiamo in programma per il futuro affermando anche che nulla vieta di dedicarsi alla lettura o alla rilettura dei testi dei Libri di Isaia, di Geremia e di Ezechiele tenendo conto delle chiavi che sono già state messe in evidenza e di quelle che ancora saranno indicate.
Il linguaggio dei testi dei Libri dei profeti – in particolare dei Libri di Isaia, di Geremia e di Ezechiele – affascinano per la ricchezza e la complessità delle descrizioni. Nei Libri dei profeti “posteriori” possiamo trovare le narrazioni di visioni straordinarie e i resoconti di azioni grandiose e di significativi gesti simbolici. Nei testi dei Libri di Isaia, di Geremia (di cui ci occuperemo prossimamente in funzione di alcuni temi specifici) e di Ezechiele sono frequenti le ripetizioni e le variazioni nel modo di scrivere perché, come sappiamo, vengono assemblati materiali diversi, in un tempo abbastanza lungo di composizione, da scrivani diversi.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
La Scuola consiglia la lettura dei Libri di Isaia, di Geremia e di Ezechiele…
In questo Percorso, fra qualche settimana, incontreremo più da vicino il Libro di Geremia e il Libro di Isaia ma ora ci dobbiamo occupare prima di tutto di un Libro della Letteratura dei “profeti posteriori” che ha un’importanza particolare: il Libro di Amos. E allora torniamo al tema con cui abbiamo iniziato l’itinerario di questa sera: il Libro di Amos anche perché abbiamo citato ripetutamente lo “stile del proclama di Amos”. Ma in che cosa consiste lo “stile del proclama di Amos”?
Intanto dobbiamo subito dire che il testo del Libro di Amos è quello che possiede la maggior compattezza rispetto a tutti gli altri Libri della Letteratura dei profeti – è quasi certo che sia stato composto da un solo autore in tempi brevi – ed è considerato un’opera significativa perché (come già sappiamo) si presenta come il manifesto, come il documento costitutivo di un movimento culturale che è stato chiamato dello “stile del proclama di Amos”.
Il Libro di Amos si presenta come il programma dei Laboratori di scrittura, delle Scuole di costruzione del testo fondate dagli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia e difatti il testo del Libro di Amos indica gli strumenti (le forme e i contenuti) che gli scrivani devono usare per dare un senso e una omogeneità al loro lavoro; il fatto è che quando il Libro di Amos viene scritto la maggior parte del lavoro (la prima versione della Letteratura dei profeti: quello che si chiama il “canone dell’esilio”) è già stato svolto e, quindi, più che presentare un programma da realizzare, il Libro di Amos presenta il resoconto di un lavoro che è già stato portato a termine.
E, a questo proposito, le studiose e gli studiosi di filologia biblica si sono posti il problema dei tempi di composizione di questo Libro e sono giunti alla conclusione che il testo di Amos è un documento a posteriori: che cosa significa? Le studiose e gli studiosi di filologia biblica ritengono che il Libro di Amos sia stato composto come un documento di sintesi di un’esperienza e, quindi, dopo la revisione, dopo la riscrittura di tutto il materiale letterario già prodotto dalla prima generazione di scrivani (quella dei padri) i quali (come sappiamo), nei decenni precedenti, avevano già composto – sotto l’egida del pessimismo, sulla scia della disperazione giustificatoria – molte parti dei Libri della Letteratura dei profeti posteriori. Il Libro di Amos viene composto quando le prime versioni dei Libri di Isaia (le prime due parti), di Geremia e di Ezechiele sono già state costruite e ne fotografa gli elementi fondamentali che determinano lo schema del genere letterario dei profeti. Le studiose e gli studiosi di filologia biblica ritengono che il Libro di Amos sia stato scritto dopo la composizione della prima versione dei più importanti Libri dei profeti posteriori e anche dopo la composizione della prima versione dei Libri dei profeti anteriori (di Giosuè, dei Giudici, dei due Libri di Samuele, del primo Libro dei Re) che è avvenuta – da parte degli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia – ricostruendo (lo abbiamo studiato alcune settimane fa) le antiche narrazioni di corte del X secolo a.C. tramandate oralmente.
Le studiose e gli studiosi di filologia biblica ritengono anche che il Libro di Amos sia stato scritto dopo la composizione – da parte degli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia – della versione dell’esilio del Libro del Deuteronomio (il Libro della Legge con tutte le sue norme) e della versione dell’esilio del Libro dell’Esodo (il Libro del rinnovo del patto primordiale, della berit, con la consegna della prima Legge, i cosiddetti Comandamenti, sul Sinai). L’autore del Libro di Amos codifica il programma dei laboratori di scrittura a cui hanno dato vita gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia, i quali hanno affinato sul campo gli strumenti (le forme e i contenuti) utili per il loro progetto di composizione.
Le studiose e gli studiosi di filologia biblica affermano però che il Libro di Amos è stato scritto prima del testo del Libro della Genesi proprio per dare un indirizzo, uno stile – lo “stile del proclama di Amos” – a quello che avrebbe dovuto essere (e che sarà) il primo atto di un’opera molto vasta. Il Libro di Amos – con lo “stile del proclama” – codifica la figura del profeta inteso come pastore che annuncia l’esistenza di un “patto” (di una “berit”) tra l’unico Dio dell’universo e tutte le persone che lo cercano con cuore sincero e che si allontanano dai santuari degli Idoli: nel testo del Libro di Amos troviamo una netta distinzione tra il concetto della fede e quello della religione.
Una parte dei Libri della Letteratura dei profeti posteriori (una parte del Libro di Isaia, del Libro di Geremia, del Libro di Ezechiele) erano già stati scritti, secondo il genere letterario della “lamentazione”, dalla prima generazione di scrivani in esilio a Babilonia, ma in queste prime raccolte di testi mancava l’idea della necessità di stipulare un “patto” con l’unico Dio dell’universo.
Gli scrivani della seconda generazione (dei figli, arrivati da bambini o nati e cresciuti a Babilonia), prima ancora che il Libro di Amos venga scritto, operano già secondo lo “stile del proclama di Amos” e, quindi, nasce sul campo, anticipatamente, lo “stile del proclama di Amos” e poi, in un secondo momento, questo “stile”, viene codificato nel Libro di Amos.
Gli scrivani della seconda generazione revisionano, riscrivono e completano gran parte della Letteratura dei profeti posteriori annunciando la necessità di stipulare un “secondo patto” e introducono – senza dare, per il momento, alcuna spiegazione – l’idea dell’esistenza di una “primordiale berit”, di un “primo patto” non ben identificato. Gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia revisionano, riscrivono, completano la Letteratura dei profeti posteriori e anteriori e poi compongono una prima versione del Libro del Deuteronomio (la seconda Legge) e del Libro dell’Esodo.
A questo punto, dopo tutto questo lavoro (intorno al 560 a.C.), in un Laboratorio di scrittura della seconda generazione in esilio a Babilonia prende forma il Libro di Amos che codifica le caratteristiche, già sperimentate, dello “stile del proclama di Amos” e fa da introduzione al cosiddetto “canone dell’esilio babilonese”.
E allora: quali sono gli elementi caratteristici dello “stile del proclama di Amos”?
Il primo elemento caratteristico dello “stile del proclama di Amos” è la dichiarazione d’indipendenza della seconda generazione di scrivani, quella dei figli nati in esilio che s’identificano con la figura del profeta-pastore, rispetto alla prima generazione di scrivani, quella dei padri, a cui si rinfaccia la collusione con le corti e la responsabilità della rovina e dell’esilio (questa dichiarazione l’abbiamo letta durante lo scorso itinerario, prima delle vacanze).
Il secondo elemento caratteristico dello “stile del proclama di Amos” sta nella centralità che vengono ad assumere, nel movimento della “sapienza poetica beritica”, due parole-chiave fondamentali: la berit (il patto) e la torah (la Legge): da questo momento perché un’opera prodotta all’interno del movimento della “sapienza poetica beritica” possa essere considerata letteratura biblica propriamente detta deve contenere il marchio, il timbro, il sigillo dato da una di queste due parole-chiave.
Il terzo elemento caratteristico dello “stile del proclama di Amos” si configura nel superamento della fase del “pessimismo totale” e della disperazione che si era tradotto nella composizione dei testi delle Lamentazioni da parte della generazione precedente.
Il quarto elemento caratteristico dello “stile del proclama di Amos” annuncia l’avvio della “fase della presa di coscienza”, della fase di “assunzione di responsabilità” in cui si riconosce che nella “rovina” bisogna saper leggere i segni della speranza di salvezza (saper rinnovare costantemente il “patto di solidarietà” e saper “rispettare la Legge”).
Le caratteristiche dello “stile del proclama di Amos” diventano il punto di riferimento con cui gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia comporranno i cicli narrativi dei Patriarchi e delle Origini, vale a dire le prime stratificazioni testuali del Libro della Genesi.
La cosiddetta “invenzione dei Patriarchi” (che avviene ricalcando antiche saghe, antiche narrazioni mitiche della cultura dell’ebraismo primordiale) – in linea con lo “stile del proclama di Amos” (utilizzato dagli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia) – colma una duplice lacuna: era, infatti, necessario forgiare uno strumento che potesse fare da tratto d’unione tra la storia leggendaria dei profeti (fautori del “secondo patto”) e la storia precedente fatta di antiche saghe, di narrazioni mitiche che si perdono nella notte dei tempi. “L’invenzione dei Patriarchi” – la creazione di queste straordinarie figure letterarie (che tutti abbiamo in mente) da parte degli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia – è un passaggio intellettuale fondamentale nel quadro della sapienza poetica beritica perché, se la tradizione attribuisce ai profeti la stipula del “secondo patto”, e se il primo patto risulta un atto non ben identificato, allora, diventa necessario ipotizzare qualcuno (un personaggio, altri personaggi) che sia depositario del “patto primordiale”, della “berit originaria”. Inoltre nella creazione delle figure mitiche dei Patriarchi c’è anche una forte ispirazione autobiografica: con “l’invenzione dei Patriarchi” (di cui parleremo a suo tempo), gli scrivani della seconda generazione (i figli) vogliono disegnare una nuova immagine dei “padri”, vogliono creare un modello ideale di paternità e a cui avrebbero desiderato si ispirassero i loro padri.
Lo strumento che il Libro di Amos predispone – in quanto documento programmatico che funge da post-fazione per i Libri dei profeti e da pre-fazione per i Libri sui Patriarchi – è, come sappiamo, la figura del “pastore”: Amos (come saranno tutti i profeti) è un pastore, ed è questo ruolo che lo rende autonomo dal potere e in sintonia con il Dio dell’universo con il quale stipula un “secondo patto”.
E che cos’è Abramo – il primo patriarca che stipula il primo patto, il patto primordiale con Dio – se non un “pastore” transumante? Questo fatto – come potete capire – non è casuale: c’è un legame profondo, c’è un solido filo conduttore. Ma Abramo lo incontreremo a suo tempo, strada facendo, sul sentiero dei cicli narrativi dei Patriarchi con i quali dovremo venire a contatto.
Che cosa racconta il Libro di Amos? L’autore del Libro di Amos vuole mettere in evidenza che la “rovina” (che si sta concretizzando nell’esilio a Babilonia) arriva da lontano e gli “scrivani di corte”, asserviti alla monarchia, sono responsabili – facendo parte della classe dirigente – della tragedia che ha investito il regno degli Ebrei. L’autore del Libro di Amos colloca il suo racconto nel secolo VIII a.C. proprio quando il regno d’Israele, situato a nord di quello di Giuda, vive un periodo di tranquillità politica ed economica. Per la debolezza delle nazioni vicine, specialmente di Aram (o Siria), non teme alcuna minaccia dall’esterno, mentre gli scambi commerciali sono fonte di prosperità. Questa situazione favorisce il diffondersi di un clima di agiatezza che si riflette nello splendore delle manifestazioni del culto verso gli Idoli.
Ma la realtà è ben diversa: la ricchezza economica – che presupporrebbe una ridistribuzione dei beni materiali – è di poche persone (comprese quelle appartenenti alla categoria degli “scrivani di corte”), perciò la divisione tra le classi sociali aumenta e la solidarietà (la stipula del “patto di solidarietà”, della “berit”) tra i membri del popolo viene meno e regna lo sfruttamento da parte dei più forti sulle componenti più deboli della società. La corruzione non risparmia neppure i tribunali che emettono sentenze ingiuste nei riguardi dei più indifesi.
È in questa situazione che l’autore del Libro inserisce il messaggio del pastore-profeta Amos.
Gli scrivani della Scuola del “proclama di Amos” si scagliano prima di tutto contro le manifestazioni religiose: il culto, i rituali grandiosi e di stampo idolatra avevano preso il sopravvento a scapito della fede nel Dio unico predicato dai profeti, un Dio (il Dio di Amos) che non vive nelle istituzioni di potere ma nei cuori dei suoi fedeli. Amos ricorda ai suoi contemporanei che il culto gradito al Dio dei profeti si esprime nell’umiltà e nella giustizia: il Dio dell’universo ha stabilito un diritto che non può essere calpestato ed egli si presenta come il difensore dei deboli.
Ma gli scrivani della Scuola del “proclama di Amos”, appartenenti alla seconda generazione in esilio (i figli), mentre scrivono guardano al passato per commentare il presente e naturalmente colgono l’occasione per attaccare i padri, gli scrivani della prima generazione i quali, a Babilonia, hanno pensato bene di avvicinarsi alle divinità locali di scegliere la religione degli Idoli mesopotamici piuttosto che la fede nel Dio dell’universo. Una fede che – secondo le radici del profetismo che abbiamo trovato nel pensiero di Zaratustra – deve basarsi sulla “giustizia”, sulla “sapienza”, sulla “memoria” (queste tre parole-chiave, nel pensiero di Zaratustra, si concentrano nel nome del Dio del Bene: Ahùra Mazda, che fa da modello al Dio dei profeti) e non è, quindi, sui rituali, né sui culti sacrificali che si fonda il “patto”, la “berit”. I rituali esteriori, i culti superstiziosi avevano preso il sopravvento nei due regni in cui si era diviso le Stato degli Ebrei. Ed ecco che – di fronte a questa situazione – si leva la voce dei profeti e il Libro di Amos (guarda al passato per parlare del presente) diventa un manifesto di contro-informazione: in esilio – alludono gli scrivani della seconda generazione – si può cadere nella tentazione di affidarsi ai rituali, ai culti riservati agli Idoli mesopotamici, piuttosto che prendere coscienza delle proprie responsabilità, delle cause che hanno portato alla sconfitta, alla disfatta, alla rovina.
Leggiamo, dal capitolo 5 del Libro di Amos, un frammento molto esplicito in proposito: il Signore ruggisce.
LEGERE MULTUM….
Libro di Amos 5, 21-27
Il Signore dice: “Io odio le vostre feste religiose, anzi le disprezzo! Detesto le vostre assemblee solenni. Quando mi presentate i vostri sacrifici sull’altare, non li accetto, quando mi offrite grano, lo rifiuto; quando mi portate bestie grasse da sacrificare come segno di pace, nemmeno le guardo. Basta! Non voglio più sentire il frastuono dei vostri canti, il suono delle vostre arpe. Piuttosto fate in modo che il diritto scorra come acqua di sorgente, e la giustizia come un torrente sempre in piena. Durante i quarant’anni passati nel deserto (un riferimento al Libro dell’Esodo che è già stato scritto) non mi avete presentato né sacrifici né offerte. Ma ora vi siete fatti delle statue del vostro dio-re Siccut e del vostro dio-stella Chijon (divinità assiro-babilonesi). Perciò portatele con voi, quando vi manderò in esilio oltre Damasco! (Si tratta dell’esilio precedente a quello di Babilonia dopo la sconfitta inflitta al regno d’Israele dagli Assiri.) Ve lo dico io, il Signore, Dio dell’universo”.
Gli scrivani della Scuola del “proclama di Amos” vogliono prendere coscienza (sentono il “Signore che ruggisce”) e analizzano le cause delle sconfitte del regno di Israele e del regno di Giuda e vogliono invitare alla riflessione sugli errori politici delle classi dirigenti dei due regni in cui si è diviso lo Stato degli Ebrei. Gli scrivani della Scuola del “proclama di Amos” vogliono prendere coscienza e presentare l’immagine di un Dio (il Dio dei profeti-pastori) un po’ ironico e un po’ imbestialito, un Dio che ruggisce come un leone e invita a riflettere e a domandarsi a che cosa sia servita tutta la prosperità delle due nazioni ebraiche se poi non c’era giustizia sociale, se l’agiatezza economica era di poche persone, e la divisione tra le classi sociali aumentava, e la solidarietà veniva meno, e regnava lo sfruttamento dei deboli da parte dei più forti.
Leggiamo, a questo proposito, il frammento successivo: il Signore ruggisce.
LEGERE MULTUM….
Libro di Amos 2, 4-16
Il Signore dice: “La gente di Giuda ha commesso una violenza dopo l’altra; certamente io la punirò. Ha calpestato i miei insegnamenti e non ha rispettato i miei ordini. È stata sviata dagli stessi idoli che i suoi antenati avevano servito. Per questo darò fuoco alla terra di Giuda e brucerò le fortezze di Gerusalemme”. Il Signore dice: “Gli abitanti d’Israele hanno commesso una violenza dopo l’altra; certamente io li punirò. Hanno venduto come schiavi uomini onesti, solo perché non potevano pagare i loro debiti, perfino poveri che non erano in grado di saldare nemmeno il debito di un paio di sandali. Costringono il povero a strisciare nella polvere e rendono la vita difficile al debole. Padri e figli vanno con la stessa donna, e così profanano il mio santo nome. Nei luoghi di culto osano sdraiarsi sulle vesti avute in pegno dal povero. Nel mio tempio bevono il vino confiscato. Eppure, popolo mio, per la tua salvezza ho distrutto uomini alti come cedri e forti come querce. Li ho abbattuti e sradicati. Io ti ho fatto uscire dall’Egitto, ti ho guidato nel deserto per quarant’anni e ti ho dato una terra. Ho scelto tra i tuoi figli i miei profeti. Non è forse così, popolo d’Israele? Io, il Signore, te lo domando. Ma voi avete ordinato ai profeti di non annunziare il mio messaggio (questa è un’invettiva contro la generazione precedente). E ora io vi schiaccerò come un carro carico schiaccia il terreno. Neppure i più agili sfuggiranno, i forti perderanno la loro forza, i coraggiosi non si salveranno. Gli arcieri non resisteranno, i soldati non potranno fuggire, neppure gli uomini a cavallo scamperanno. Quel giorno perfino il più valoroso getterà le sue armi per poter fuggire. Lo affermo io, il Signore”.
E per concludere leggiamo come, al capitolo 3 del loro Libro, gli scrivani della Scuola di Amos espongono – in termini poetici – il proclama che codifica la “missione del profeta” che è quella di dare voce ai ruggiti del Signore:
LEGERE MULTUM….
Libro di Amos 3, 3-8
Possono due persone cominciare un viaggio insieme se non s’incontrano?
Può il leone ruggire nella foresta se non ha scovato una preda?
Può il leoncello farsi sentire dalla tana se non ha catturato qualcosa?
Può essere preso a terra un uccello se nella trappola non c’è esca?
Può chiudersi una trappola se qualcosa non la fa scattare?
Può suonare la tromba di guerra in città senza che il popolo s’allarmi?
Può abbattersi una sciagura in città se il Signore non l’ha provocata?
Ebbene, Dio, il Signore, non agisce senza aver prima rivelato le sue intenzioni ai suoi pastori, i profeti.
Quando il leone ruggisce chi può non aver paura?
Quando Dio, il Signore, parla, chi può evitare di trasmettere il suo messaggio?
La riflessione sul Libro di Amos non è ancora terminata e la riprenderemo nell’itinerario della prossima settimana.
Negli ultimi tre capitoli (7, 8 e 9) l’autore del testo del Libro di Amos propone alle lettrici e ai lettori la descrizione di cinque visioni: una caratteristica propria del profeta è quella di essere un “visionario”. Che cosa raccontano le famose cinque visioni allegoriche del Libro di Amos? Ciascuna delle cinque famose visioni allegoriche del Libro di Amos ha un titolo e i titoli – che riguardano i contenuti – sono: le cavallette, il fuoco, il filo a piombo, il cesto di frutta e il giudizio del Signore. Questi sono i “contenuti” delle visioni di Amos ma a noi interessano soprattutto gli elementi della “forma” che gli scrivani della Scuola del “proclama di Amos” hanno saputo dare al contenuto del testo per rappresentare queste allegorie.
Il titolo della quinta visione è: “Il giudizio del Signore”, e questo è un tema ricorrente nella Letteratura dei profeti ed è un tema ricorrente in tutto quel grande apparato che chiamiamo la Bibbia. Il tema del “giudizio di Dio” – questa idea-cardine del Pensiero Umano – si ripercuote in tutta la Storia della Letteratura.
E, per finire, a questo proposito, ci facciamo ancora accompagnare da uno dei famosi Sonetti di Giuseppe Gioacchino Belli, nato a Roma nel 1791 e morto, sempre a Roma, nel 1863, e che abbiamo incontrato poco prima delle vacanze natalizie. Nei 2279 Sonetti del Belli la parola-chiave “giudizzio” (scritta con due zeta) ricorre spesso per ricordarci che il movimento della “sapienza poetica beritica” ha lasciato e continua a lasciare la traccia indelebile delle “visioni” che ha prodotto.
LEGERE MULTUM….
Giuseppe Gioacchino Belli, Er giorno der giudizzio
Cuattro angioloni co le tromme in bocca
Se metteranno uno pe ccantone
A ssonà: poi co ttanto de voscione
Cominceranno a ddì: “Ffora a cchi ttocca.”
Allora vierà ssù una filastrocca
De schertri da la terra a ppecorone,
Pe rripijjà ffigura de perzone,
Come purcini attorno de la bbiocca.
E sta bbiocca sarà Ddio bbenedetto,
Che ne farà du’ parte, bbianca, e nnera:
Una pe annà in cantina, una sur tetto.
All’urtimo uscirà ‘na sonajjera
D’angioli, e, ccome si ss’annassi a lletto,
Smorzeranno li lumi, e bbona sera.
Giuseppe Gioacchino Belli, molto probabilmente, lo incontreremo ancora.
Che cosa raccontano le famose cinque visioni allegoriche del Libro di Amos? Ma perché a noi interessano soprattutto gli elementi della “forma” che gli scrivani della Scuola del “proclama di Amos” hanno saputo dare al contenuto del testo per rappresentare queste allegorie? Che cosa c’è negli elementi della “forma” delle famose cinque visioni allegoriche del Libro di Amos da sottoporre alla nostra attenzione?
Ora è tardi per dirlo, ora: “esce una schiera d’angioli a frotte, che, invitandoci (dopo cena) ad andare a letto, smorzeranno li lumi, e bbona notte...
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