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IL “BISOGNO DI RACCONTARSI” – LO SPIRITO, IL PENSIERO, IL LAVORO AUTOBIOGRAFICO DEGLI SCRIVANI DELLA SCUOLA DI AMOS – È BERITICO …

Lezione N.: 
12

Prof. Giuseppe Nibbi             Lo sapienza poetica beritica  2008                  16-17-18   gennaio  2008

IL “BISOGNO DI RACCONTARSI” – LO SPIRITO, IL PENSIERO,

IL LAVORO AUTOBIOGRAFICO DEGLI SCRIVANI DELLA SCUOLA DI AMOS – È BERITICO …

     Nell’itinerario della scorsa settimana, viaggiando sul nostro Percorso, ci siamo soffermati – e lo avevamo già fatto prima delle vacanze natalizie – sul testo del Libro di Amos. Perché abbiamo puntato – e stiamo ancora puntando – la nostra attenzione sul testo del Libro di Amos? Il Libro di Amos è un’opera importante perché viene considerato il manifesto della corrente letteraria più significativa del movimento della sapienza poetica beritica. Questa corrente letteraria nasce dall’impegno intellettuale degli scrivani della seconda generazione (quella dei figli) in esilio a Babilonia.

      Dobbiamo specificare – prima di continuare la nostra indagine sul testo del Libro di Amos – che la seconda generazione di scrivani (quelli che erano bambini al momento della deportazione, nel 587 a.C., o che sono nati e cresciuti in esilio in Mesopotamia) hanno avuto – nonostante la rovina, nonostante la disgrazia – la possibilità di vivere, di crescere e di studiare in un ambiente particolarmente favorevole: Babilonia nel VI secolo a.C. è un centro culturale di notevole importanza dove la categoria degli scribi è una di quelle che detiene il potere. A Babilonia vengono stanziate molte risorse per investire in intelligenza e questo fatto ha una ricaduta positiva sullo sviluppo della letteratura, dell’arte, della scienza, del diritto.

     Gli scrivani della seconda generazione (quella dei figli) in esilio a Babilonia approfittano di questa situazione per maturare delle competenze nuove rispetto alla generazione degli scrivani precedenti, quella dei loro padri, i quali, per giunta, soffrono di un senso di colpa non espresso (preferiscono lamentarsi piuttosto che prendere coscienza delle proprie responsabilità) per aver favorito – a servizio di governanti inetti – la sconfitta, la rovina e la deportazione. Gli scrivani della seconda generazione (quella dei figli) in esilio a Babilonia non sentono, invece, pesare su di loro alcuna responsabilità per la sconfitta subita e quindi – dopo avere maturato nuove competenze, soprattutto dal punto di vista formale, sulla costruzione del testo – sentono nascere in loro la responsabilità di dover esaltare, di dover far rivivere, mettendola per iscritto, la tradizione del dissenso che si era sviluppata in Israele secoli prima dell’esilio, per opera dell’atteggiamento critico assunto da molti scrivani di corte dal X secolo a.C., dal tempo del re Salomone.

     Gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia si riconoscono pienamente (entrando in conflitto con i loro padri) con questa antica tradizione del dissenso per cui molti scrivani di corte – disgustati dai comportamenti deleteri dei governanti – erano fuggiti (erano andati in volontario esilio) tra i pastori diventando profeti cioè annunciatori-proclamatori [nebijim]” di un messaggio di giustizia (per cui la Legge, la torah, è uguale per tutti) e di solidarietà (per cui è necessario un patto di solidarietà, la berit, fondato su regole certe, eque e rette). Il movimento culturale degli scrivani della seconda generazione in esilio (quella dei figli) attinge alla ricca cultura mesopotamica e mutua strumenti (forme e contenuti) provenienti dalla letteratura, dall’arte, dalla scienza, dal diritto babilonese.

     In ragione dell’acquisizione di questi strumenti fioriscono – tra il 570 e il 560 a.C. – i Laboratori di scrittura, le Scuole di costruzione del testo che elaborano i materiali letterari da cui prenderanno forma i Libri dei profeti. Sappiamo che queste stesse Scuole prenderanno il nome dei profeti: nomi che risultano essere la sintesi di veri e propri programmi di sviluppo dei testi scritti.

     Che cosa imparano dalla cultura babilonese gli scrivani d’Israele della seconda generazione che, sebbene in esilio, hanno la possibilità di vivere, di crescere e di studiare in un ambiente intellettuale particolarmente favorevole? Babilonia – abbiamo detto – nel VI secolo a.C. è un centro culturale di notevole importanza dove la categoria degli scribi è quella più vicina al vertice del potere. Che cosa conservano di interessante, nelle loro biblioteche, gli scribi babilonesi? Conservano un grande patrimonio di repertori culturali, antico di secoli, che attira la curiosità degli scrivani ebrei della seconda generazione in esilio a Babilonia i quali – ormai inseriti in questo ambiente – ne studiano le opere e fanno tesoro delle parole-chiave e delle idee-cardine contenute in esse assumendosi la responsabilità di costruire una identità nuova per il popolo d’Israele superando le Lamentazioni dei loro padri e recuperando il messaggio di liberazione degli antichi pastori-profeti.

     Gli scribi babilonesi, nelle loro biblioteche, conservano soprattutto le opere del cosiddetto primo impero babilonese formatosi intorno al 1700 a.C.: un periodo di massima fioritura artistica e letteraria. Il fondatore del primo impero babilonese è il famoso re Hammurabi che occupa l’intera Mesopotamia e instaura il culto del dio Marduk e promuove (fa scrivere) il Codice delle Leggi: il celebre Codice di Hammurabi (la prima raccolta di Leggi scritte). Il culto del dio Marduk e il Codice delle leggi favorisce la coesione tra le genti della Mesopotamia e propizia la nascita di un grande Stato.

     Questo fatto non sfugge agli scrivani d’Israele della seconda generazione in esilio a Babilonia: capiscono che è necessario scrivere le Leggi (la torah) per favorire la stipula del patto di solidarietà (la berit) mediante il quale può prendere forma la Nazione e capiscono che, quindi, è necessario descrivere la figura di un Dio che, più che essere un grande inseminatore, sia un fecondo legislatore.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

La parola “legge” rimanda alle regole… Ricordate se – al tempo della vostra infanzia, della vostra giovinezza –, nell’ambiente dove avete vissuto, c’erano delle regole (magari non scritte) che andavano tassativamente rispettate?…

Scrivete quattro righe in proposito…

     Se leggiamo anche solo una pagina del Codice di Hammurabi ci rendiamo conto di come il linguaggio di questa raccolta di Leggi sia affine al linguaggio dei Libri legislativi della Bibbia: alla seconda parte del Libro dell’Esodo, al Libro del Levitico, al Libro dei Numeri, al Libro del Deuteronomio (solo per fare alcuni esempi). Questi Libri sono stati scritti, nella loro prima versione, nei Laboratori di scrittura della seconda generazione di scrivani in esilio a Babilonia e risentono della cultura mesopotamica, poi sono stati riscritti dopo l’esilio ma l’impronta mesopotamica è rimasta.

     Leggiamo alcuni articoli del Codice di Hammurabi:

LEGERE MULTUM….

Codice di Hammurabi  (1700 circa a.C.)

Se un uomo accusa un altro uomo di omicidio senza averne le prove, sarà condannato. Se un uomo accusa un altro uomo di stregoneria senza averne le prove, l’accusato si recherà dal dio-fiume e s’immergerà nell’acqua. Se il fiume lo porta via, colui che ha fatto l’accusa avrà la casa dell’accusato. Se il fiume invece purifica l’accusato ed egli ne esce salvo, chi l’ha accusato di stregoneria verrà condannato e quello che è stato immerso nel fiume avrà la casa dell’accusatore. Se un uomo ha rapito il bambino di un altro uomo, verrà condannato. Se un uomo ha compiuto una rapina, verrà condannato. Se un uomo ha rinforzato il suo argine e questo cede e i campi vengono spazzati via dall’acqua, l’uomo, il cui argine ha ceduto, risarcirà il grano che è stato perduto in questo modo. Se egli non è in grado di risarcire il grano, verrà venduto insieme a tutta la sua proprietà e i vicini, il cui grano è stato spazzato via dall’acqua, si divideranno il ricavato. Se il figlio batte il padre gli verrà tagliata la mano. Se un uomo cava un occhio al figlio di un altro uomo, gli verrà cavato un occhio. Se un uomo durante una rissa fa cadere un dente a un altro uomo suo pari, gli verrà tolto uno dei denti. Se egli fa cadere il dente di un uomo a lui inferiore, pagherà un terzo di denaro d’argento [gli inferiori erano liberi, ma non avevano gli stessi diritti dei cittadini]. Se uno schiavo percuote la guancia del figlio di un uomo libero, gli si taglierà l’orecchio.

     E ora leggiamo alcuni versetti del Libro dell’Esodo: certe corrispondenze non sfuggono.

LEGERE MULTUM….

Libro dell’Esodo  21, 12-18  23

«Chi colpisce volontariamente una persona e la uccide, deve essere condannato. Se però non aveva intenzione di uccidere, ma si tratta di una disgrazia, quell’uomo potrà rifugiarsi in un luogo che io ti indicherò. Ma quando un uomo è adirato con un altro e lo uccide di proposito, deve essere condannato anche se si è rifugiato presso il mio altare. Chi colpisce il padre o la madre, deve essere condannato. Chi rapisce un uomo – sia che poi lo abbia venduto, sia che lo tenga ancora in suo potere – deve essere condannato. Chi maledice il padre o la madre, deve essere condannato. Quando alcuni stanno litigando e uno colpisce un altro con una pietra o con il pugno, e quest’ultimo non muore, ma è costretto a mettersi a letto, e poi guarisce e può uscire appoggiandosi al bastone, chi lo ha colpito non sarà punito, dovrà pagare soltanto il riposo forzato e le cure necessarie».

«In tutti i casi in cui si procura una disgrazia, si deve risarcire solo vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido».

     Questa parentesi che abbiamo aperto che cosa ha a che fare con la composizione del Libro di Amos? Gli scrivani d’Israele della seconda generazione in esilio a Babilonia, immersi nella cultura giuridica mesopotamica, capiscono ancora meglio quale importanza abbiano le forme, le sagome, i modelli, gli stili. Gli scrivani d’Israele della seconda generazione in esilio a Babilonia percepiscono l’importanza di una legge che regolamenti la forma, che regoli lo stile, che dia un’impronta al testo in modo che il midrash (il racconto cerimoniale) beritico (biblico, veterotestamentario) si distingua da quello della letteratura mesopotamica.

     Difatti lo stile del proclama di Amos viene concepito, quindi, come modello di regolamentazione formale (come una guida) nella costruzione del testo beritico (biblico, veterotestamentario). I materiali dei Libri dei profeti posteriori e anteriori, i materiali del Libro del Deuteronomio e del Libro dell’Esodo sono già stati scritti e adesso (intorno al 560 a.C.) – pensano gli scrivani d’Israele della seconda generazione in esilio a Babilonia – è necessario uno strumento che possa dare la forma migliore possibile alle opere del movimento della sapienza poetica beritica.

     Sappiamo che il Libro di Amos codifica le caratteristiche, già sperimentate, di quello che viene chiamato lo stile del proclama di Amos, del modello di regolamentazione formale (della guida) nella costruzione del testo biblico propriamente detto. Questa guida – nel corso della codificazione della Letteratura veterotestamentaria –verrà utilizzata soprattutto dagli scrivani della terza generazione (quelli che torneranno a Gerusalemme da Babilonia, perché anche l’esilio, nel 539 a.C., avrà fine) quando costruiranno il canone giudaico-palestinese dei Libri della Bibbia.

     Quali sono gli elementi caratteristici dello stile del proclama di Amos? Li abbiamo già enumerati nello scorso itinerario, ma ripetiamoli perché è necessario fare alcune integrazioni.

     Il primo elemento caratteristico dello stile del proclama di Amos è la dichiarazione d’indipendenza della seconda generazione di scrivani, quella dei figli nati e cresciuti in esilio che s’identificano con la figura del profeta-pastore, rispetto alla prima generazione di scrivani, quella dei padri, a cui si rinfaccia la collusione con le monarchie corrotte (del regno d’Israele prima, e del regno di Giuda poi) e, quindi, la responsabilità della rovina e dell’esilio. Questa dichiarazione d’indipendenza l’abbiamo letta prima delle vacanze natalizie: rileggiamo il famoso versetto 14 del capitolo 7.

LEGERE MULTUM….

Libro di Amos  7, 14

Amos rispose: Non sono un profeta (hōzeh) di mestiere, e non faccio parte di un gruppo di profeti (dei profeti di corte). Sono un pastore (rō’ehnābi’) e coltivo le piante di sicomoro (mi mantengo con il mio lavoro, sono indipendente rispetto ai centri del potere).

     Questa dichiarazione d’indipendenza, per la seconda generazione di scrivani in esilio a Babilonia, assume anche un valore di emancipazione di carattere letterario nei confronti non solo dei loro padri (delle Lamentazioni) ma anche nei confronti dei grandi apparati della cultura e della civiltà babilonese, soprattutto nei confronti dei grandi repertori letterari. Gli scrivani della Scuola nella quale nasce il testo del Libro di Amos vogliono affermare di essere indipendenti tanto dalle “Lamentazioni” dei loro padri (e sappiamo già di che cosa si tratta) quanto dai repertori della ricchissima Letteratura mesopotamica (che prossimamente incontreremo più da vicino) di cui hanno assimilato gli straordinari contenuti (il Codice di Hammurabi, l’epopea di Gilgamesh, il poema Enuma Elish, tanto per citare alcune opere). Gli scrivani della Scuola nella quale nasce il testo del Libro di Amos si rendono conto (prendono coscienza) di aver utilizzato, e che dovranno utilizzare ancora, per raccontare la storia e dare un’identità culturale al popolo d’Israele (il Libro della Genesi non è ancora stato scritto), i contenuti della straordinaria Letteratura mesopotamica che hanno assimilato a Babilonia. Ma perché questa operazione intellettuale avvenga in un contesto di autonomia (alla quale aspirano) è necessario – allude l’autore del Libro di Amos – che i materiali (gli argomenti, i racconti e i personaggi) estrapolati dalle opere del patrimonio letterario babilonese entrino in una nuova forma, in un nuovo stampo, in un nuovo calco, in un nuovo modello, nell’impronta data da un nuovo stile (e non solo uno stile letterario, ma anche un stile di vita). Per esempio la figura del dio Marduk, con le sue caratteristiche, risulta molto utile per definire meglio l’immagine del dio beritico, ordinatore del Cielo e della Terra: di questa straordinaria operazione intellettuale ne parleremo quando incontreremo il testo del Libro della Genesi, per ora non è stato ancora scritto, ma gli scrivani della Scuola di Amos – tra il 570 e il 560 a.C. – lo stanno già elaborando (lo si capisce da molti particolari che emergono dal testo), quindi lasciamoli creare.

     Il secondo elemento caratteristico dello stile del proclama di Amos sta nella centralità che vengono ad assumere, nel movimento della sapienza poetica beritica, due parole-chiave fondamentali, che danno forma alle pareti dello stampo: la parola berit (il patto) e la parola torah (la Legge). Da questo momento perché un’opera prodotta all’interno del movimento della sapienza poetica beritica possa essere considerata letteratura biblica propriamente detta deve contenere il marchio, il timbro, il sigillo dato da una di queste due parole-chiave.

     Il terzo elemento caratteristico dello stile del proclama di Amos si configura nel superamento della fase del pessimismo totale e della disperazione, una fase (dal 587 al 570 a.C. circa) in cui gli scrivani della prima generazione si dedicano alla composizione dei testi delle Lamentazioni: gli scrivani della Scuola di Amos utilizzano (come abbiamo già studiato) il genere letterario delle Lamentazioni come primo stadio, come elemento propulsivo di un procedimento che deve condurre alla fase successiva, quella della presa di coscienza, quella in cui – per dirlo con la metafora poetica che utilizza l’autore del Libro di Amos – si comincia a sentire il ruggito del Signore, che conduce ad una assunzione di responsabilità. E questa assunzione di responsabilità significa imparare a riconoscere nella rovina i segni della speranza di salvezza.

     Che cosa significa concretamente – per gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia – assumersi delle responsabilità? Significa imparare a rinnovare costantemente il patto di solidarietà (la berit)e imparare a rispettare la Legge (la torah) uguale per tutti.

     Questi elementi compositivi – riassunti nel Libro di Amos – li troviamo in evidenza in tutti Libri della Bibbia. Tutti i testi dei Libri della Bibbia (e questa è una chiave per accedere alla lettura di questi Libri) – pur mantenendo la loro varietà – contengono gli elementi costitutivi codificati dal Libro di Amos. Per essere più corretti dobbiamo affermare che gli addetti ai lavori (gli scrivani) della Scuola di Amos raccolgono e codificano (in un testo che assume, quindi, le caratteristiche del documento, del manifesto, del proclama) le componenti di base, la piattaforma stilistica di tutta la Letteratura beritica.

     Ciascun Libro della Bibbia contiene (in dosi diverse a seconda delle Scuole di composizione del testo) i principali ingredienti tipici, di quello che viene chiamato lo stile del proclama di Amos, che sono: la lamentazione, la presa di coscienza e l’assunzione di responsabilità. L’essenza della Letteratura che nasce dal movimento della sapienza poetica beritica – e quindi l’essenza della Bibbia, per quello che è l’ambito della didattica della lettura e della scrittura (questo è il perimetro all’interno del quale il nostro Percorso si muove) – è determinata da questi tre concetti esistenziali che si traducono nelle parole: sofferenza, consapevolezza e responsabilità (tre parole tipiche dell’albero genealogico lessicale collocate sul piano dell’Età assiale della storia). Questi tre elementi, codificati nel Proclama di Amos, non fanno solo riferimento allo stile letterario a cui le scrivane e gli scrivani si devono adeguare, ma soprattutto fanno riferimento allo stile di vitaa cui le lettrici e i lettori devono aderire.

     Tra le pieghe del pessimismo (il lamentarsi, il soffrire), che spesso attanaglia le persone che vengono a trovarsi nel mondo, bisogna saper cogliere gli elementi di speranza (il conoscere, il capire, l’applicarsi) con i quali è possibile dare un senso (responsabilizzarsi) alla vita stessa.

     Gli scrivani della Scuola di Amos, nell’elaborazione di questi tre elementi – la lamentazione, la presa di coscienza, l’assunzione di responsabilità – riescono a dare una forma antropologicaa tutto l’apparato della Letteratura beritica (tanto a quella che è già stata scritta quanto a quella che è in via di elaborazione). Che cosa significa dare una forma antropologica a tutto l’apparato della Letteratura beritica? Significa che gli scrivani della Scuola di Amos (come dicono le studiose e gli studiosi di antropologia culturale) riescono a presentare un modello da proporre ad ogni persona affinché possa impegnarsi ad assumere un nuovo stile di vita. Gli scrivani della Scuola di Amos sono in grado di fare questa proposta – di dare una forma antropologicaa tutto l’apparato della Letteratura beritica, di dare un modello in cui l’essere umano sia in grado di riconoscersi – perché si avvalgono, traducendolo in scrittura, del loro spirito autobiografico.

     Il Libro di Amos si presenta come un manifesto intellettuale (non solo come un racconto mitico) proprio perché gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia coltivano la memoria autobiografica e lasciano una preziosissima testimonianza diretta su come sono andate le cose che riguardano il processo di composizione della Letteratura beritica. Ed è proprio seguendo il filo della loro memoria (seguendo l’attuarsi del loro spirito autobiografico) che tessono la trama dalla quale emerge la piattaforma stilistica della Letteratura beritica.

     Cosa c’è – quali dati ci sono – nella memoria degli scrivani della Scuola di Amos? Quali sono i dati della loro autobiografia familiare, emergenti soprattutto dallo scontro generazionale con i loro padri: con gli scrivani di corte della prima generazione dell’esilio collusi con il potere? Quali sono i dati della loro autobiografia sociale, emergenti dalla tradizione del dissenso dei pastori-profeti con cui si riconoscono? Quali sono i dati della loro autobiografia intellettuale, emergenti dalla formazione culturale che hanno acquisito a Babilonia? Che cosa si è sedimentato – crescendo in esilio a Babilonia – nella mente e nei pensieri degli scrivani della Scuola di Amos?

     Nella mente e nei pensieri degli scrivani della Scuola di Amos ci sono le sterili e giustificatorie lamentazioni pessimistiche dei loro padri che intendono rimuovere la responsabilità di essere stati complici della sconfitta e della rovina. Nella mente e nei pensieri degli scrivani della Scuola di Amos c’è il ricordo – rimosso dai padri, scrivani di corte compromessi con il potere – della straordinaria tradizione di dissenso dei pastori-profeti (di cui Amos rappresenta il modello). Nella mente e nei pensieri degli scrivani della Scuola di Amos c’è – dopo aver acquisito ed elaborato strumenti culturali sumeri, accadici, egizi, iranici, ugaritici – la volontà di scrivere la storia (l’identità) del popolo d’Israele partendo e riflettendo sulla loro esperienza esistenziale, basandosi sul loro spirito autobiografico.

     Ed è proprio sulla scia dell’autobiografia (questa è l’ispirazione) che si compone la trafila degli elementi formali, che costituiscono la piattaforma stilistica della Letteratura beritica. L’elemento della lamentazione diventa, filtrato dagli scrivani della Scuola di Amos attraverso l’autobiografia, il modo con cui poter affermare che il Signore è un Dio di giustizia il quale condanna e punisce i loro padri: gli scrivani di corte, collusi con la monarchia che si lamentano della sconfitta e della rovina senza fare autocritica. Nella costruzione del testo il procedimento autobiografico permette di estendere la condanna e la punizione a tutte le generazioni passate di scrivani di corte colluse con i regimi corrotti e idolatrici, ed è così che l’autobiografia diventa storia.

     Lo scontro generazionale tra la prima generazione dell’esilio (quella dei padri che vogliono solo giustificarsi lamentandosi contro un destino cinico e dimenticandosi di avere delle responsabilità) e la seconda generazione (quella dei figli che contestano ai padri di non fare autocritica) diventa il modello – con una forte connotazione autobiografica – dello scontro tra gli antichi scrivani di corte (collusi con il potere corrotto e idolatrico) e i pastori-profeti (che dissentono e predicano il patto si solidarietà e il rispetto della Legge uguale per tutti). Gli scrivani della Scuola di Amos ereditano il fenomeno (il genere letterario) della lamentazione come elemento autobiografico (lo imparano dai loro padri), lo interpretano con una riflessione culturale guardando al passato (alla tradizione del dissenso dei pastori-profeti) e lo trasformano, nel presente, in condanna e punizione (la deportazione ne è la prova) – decretata dal Dio di giustizia – contro tutti gli abbienti che affamano i poveri, contro tutti i potenti che schiacciano i deboli, contro tutte le figure istituzionali, spesso corrotte, che si ostinano a rimuovere le loro responsabilità. Patrimonio autobiografico originale degli scrivani della Scuola di Amos è tanto l’elemento della presa di coscienza con la quale mettono in evidenza la necessità di stipulare il patto di solidarietà, la berit, quanto l’elemento dell’assunzione di responsabilità con la quale mettono in evidenza la necessità di rispettare la Legge, la torah, uguale per tutti.

     Gli scrivani della Scuola di Amos portano all’interno del movimento della sapienza poetica beritica un elemento propulsore fondamentale: il bisogno di raccontarsi. Gli scrivani della Scuola di Amos sentono l’urgenza, l’emergenza, il diritto e il dovere di realizzare un progetto, di portare a termine un programma. Il loro bisogno di raccontarsi è la sensazione di volere, di dovere ridare un senso alla propria vita e alla vita e alla storia del proprio popolo.

     Il bisogno di raccontarsi – per gli scrivani d’Israele della seconda generazione in esilio a Babilonia – non è solo la somma dei loro ricordi, non è solo il tenere insieme i loro ricordi, non è solo la memoria di quello che sono stati e di quello che hanno fatto ma è il sentire che hanno vissuto un’esperienza non comune e che la stanno ancora vivendo, ed è soprattutto il sentire che il loro passato si trasforma in passione ulteriore per la vita presente. Anche se il loro passato personale è doloroso, pieno di errori e di occasioni perdute, di storie consumate male o non vissute affatto, il bisogno di raccontarsi si presenta sempre come un ripatteggiamento con quanto si è stati (ecco perché la parola berit [il patto]” – per questi scrivani – assume una valenza così forte). Il bisogno di raccontarsi si presenta sempre come una forma di riconciliazione che procura molte emozioni e un senso di quiete e di soddisfazione.

     Nel progetto d’attuazione dei Percorsi di Storia del Pensiero Umano in funzione della didattica della lettura e della scrittura – dopo più di vent’anni di sperimentazione –possiamo definire il bisogno di raccontarsi (con cui molte e molti di noi convivono) come una necessità beritica, e voi tutti capite che cosa significa.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Se la nostra vita ha avuto un senso dipende da un insieme di cose: quale avvenimento, quale fatto, quale situazione pensate abbia contribuito maggiormente a dare un senso alla vostra vita?… 

Scrivete quattro righe in proposito …

     Il bisogno di raccontare, la necessità di raccontarsi si concretizza in un genere letterario che si chiama midrash, che è lo stile con cui ci si racconta. Il midrash è un racconto trasfigurato perché ogni ricordo è sempre una nuova e diversa invenzione, una trasfigurazione straordinaria di quanto realmente è accaduto. Gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia fanno riferimento a un Super-soggetto (di natura divina) con il quale i personaggi letterari beritici hanno stipulato un patto, hanno fatto un accordo ma, contemporaneamente, è proprio lo scrivano che – mentre crea i grandi personaggi biblici – patteggia un’alleanza con se stesso. Lo scrivano utilizza i grandi avvenimenti, già trasfigurati, della tradizione orale, per mettere in moto il proprio io-tessitore e, mentre racconta le grandi vicende della tradizione, racconta se stesso. L’io-tessitore dello scrivano collega, intreccia, costruisce, diventa il motore del bisogno di raccontarsi: è così che i grandi temi della tradizione si fondono con l’autobiografia di chi scrive e, lo scriverediventa un modo per stipulare un patto, per trovare un accordo con se stessi. Quindi possiamo affermare che il bisogno di raccontarsi è beritico, e quando l’io-tessitore emerge in noi come una presenza insistente (vorrei cominciare a scrivere un po’ di autobiografia, ma) possiamo parlare di pensiero autobiografico. Il bisogno di raccontarsi, tra le persone, è abbastanza generalizzato: si traduce soprattutto in racconto orale attraverso ricordi sparsi (spesso ripetuti), oppure rappresenta, per la persona, un modo (riservato, intimo) per tenersi compagnia.

     Però possiamo parlare di pensiero autobiografico vero e proprio solo quando l’io-tessitore decide di passare dall’oralità alla scrittura, allora gradualmente il bisogno di raccontarsi diventa uno scopo di vita. Quando entra in gioco la scrittura (l’esercizio intellettuale che materializza i pensieri) si attua il passaggio dal pensiero autobiografico al lavoro autobiografico.

     Il merito degli scrivani della Scuola di Amos, nel redigere il loro proclama, è quello di aver gettato le basi per la prima significativa riflessione sul valore dell’autobiografia nella costruzione della Storia del Pensiero Umano, sul valore dell’autobiografia come supporto fondamentale  nella edificazione dell’albero genealogico lessicale. E il termine autobiografiava attribuito a pieno titolo al ramo del movimento della sapienza poetica beritica.

     Ma, a proposito di quanto abbiamo detto, risulta più agevole capire i concetti che abbiamo espresso, se leggiamo i capitoli 3, 4, 5, 6 del Libro di Amos in cui gli elementi che abbiamo descritto (la lamentazione, la presa di coscienza, l’assunzione di responsabilità) s’intersecano, nel testo sapienziale e poetico, alla luce dell’autobiografia, tra avvenimenti conflittuali dell’oggi, memorie del tradizionale dissenso di ieri e plausibili speranze per il domani.

LEGERE MULTUM….

Libro di Amos   3, 9-15   4, 1-13   5, 1-20   6, 1-14

Annunziate a quelli che vivono nei palazzi di Asdod e di Egitto: «Riunitevi sulle colline di Samaria, guardate il grande disordine che vi regna e le violenze che vengono commesse». Il Signore dice: «Questa gente non sa nemmeno cosa significa essere onesti. Riempiono i loro palazzi con tesori, frutto di rapine e violenze. Perciò un nemico invaderà la loro terra, abbatterà le loro difese e saccheggerà i loro palazzi».

Il Signore dice: «Come il pastore strappa al leone solo due zampe o un orecchio dell’animale che la belva sta divorando, così si salverà solo una piccola parte del popolo d’Israele che vive nel lusso in Samaria. Ascoltate ora e ammonite i discendenti di Giacobbe, dice il Signore, Dio dell’universo. Nel giorno in cui io punirò il popolo d’Israele per i suoi peccati, io distruggerò gli altari della città di Betel. Gli angoli rialzati degli altari saranno spezzati, e cadranno a terra. Distruggerò le case invernali e quelle estive, le case decorate in avorio cadranno in rovina e i palazzi saranno spazzati via. Così dice il Signore».

Ascoltate queste parole, donne di Samaria, che vi siete ingrassate come le vacche della regione di Basan. Voi violate i diritti dei deboli, opprimete i poveri, ordinate ai vostri mariti di portarvi da bere. Dio, il Signore, ha deciso: «Com’è vero che io sono santo, verrà il giorno in cui sarete prese prigioniere; e, come pesci presi all’amo, trascinate via con dei ganci. In fila dovrete abbandonare la città passando per le rovine delle mura, e sarete cacciate verso il nord».

Dio, il Signore, dice: «Israeliti, andate pure al santuario di Betel e peccate! Andate a Galgala e peccate ancora di più! Il mattino dopo l’arrivo portate i vostri animali da sacrificare, e il giorno seguente le vostre decime. Offrite pure il vostro pane lievitato per il sacrificio di lode. Vantatevi delle vostre offerte spontanee. Sono queste le cose che vi piacciono! «Io ho mandato la carestia nelle vostre città e vi ho lasciati tutti senza pane, eppure non siete tornati a me (non vi siete assunti le vostre responsabilità)», dice il Signore. «Sono io che non ho fatto piovere sui vostri raccolti quando ne avevano più bisogno; che ho fatto piovere su una città e non su un’altra. Mentre su un campo è caduta troppa pioggia, su un altro neppure una goccia, e si è inaridito. Molta gente assetata ha cercato acqua nelle città vicine, ma non ne ha trovata a sufficienza per dissetarsi, eppure non siete tornati a me (non vi siete assunti le vostre responsabilità)», dice il Signore. «Io ho mandato vento caldo e vermi per distruggere i vostri raccolti. Le cavallette hanno divorato tutti i vostri giardini, le vigne, gli alberi di fico e gli ulivi, eppure non siete tornati a me (non vi siete assunti le vostre responsabilità)», dice il Signore. «Io vi ho mandato la peste come l’ho mandata in Egitto. Ho ucciso i vostri giovani in battaglia e ho catturato i vostri cavalli. Vi ho fatto sentire il fetore dei cadaveri nei vostri accampamenti, eppure non siete tornati a me (non vi siete assunti le vostre responsabilità)», dice il Signore.  «Vi ho distrutti come le città di Sodoma e Gomorra. I superstiti erano come tizzoni strappati da un incendio, eppure non siete tornati a me (non vi siete assunti le vostre responsabilità)», dice il Signore. «Per questo, Israeliti, io vi punirò. Perciò siate pronti ad affrontare il mio giudizio!». Dio ha creato i monti e i venti, fa conoscere i suoi pensieri all’essere umano, fa seguire il giorno alla notte. È il sovrano di tutta la terra, il suo nome è Signore, Dio dell’universo!

Popolo d’Israele, ascolta questo lamento funebre che pronunzio per te:

Israele, bella e giovane, è caduta, non si alzerà più.

Giace a terra abbandonata, nessuno l’aiuta a rialzarsi.

Dio, il Signore, dice: «In Israele, su mille soldati che una città manderà in guerra, ne torneranno solo cento; su cento mandati da un’altra, ne torneranno solo dieci».

Il Signore dice agli Israeliti: «Se volete vivere, rinnovate con me il patto. Ma non cercatemi al santuario di Betel, non andate a Galgala, non recatevi a Bersabea, perché gli abitanti di Galgala saranno esiliati, perché Betel sarà distrutta. Rispettate tutti la Legge del Signore, se volete vivere». Se non cercate il Signore, egli si avventerà sui discendenti di Giuseppe. Come un fuoco divorerà gli abitanti di Betel e nessuno potrà spegnerlo. Nelle vostre mani la giustizia è diventata veleno, con le vostre sentenze calpestate i diritti della gente.

Dio fa muovere le stelle della primavera e dell’autunno.

Trasforma l’oscurità in chiarore e il giorno in notte.

Raccoglie l’acqua del mare e la riversa sulla terra.

Il suo nome è Signore. Il Signore distrugge i potenti e demolisce le loro fortezze.

Voi odiate chi in tribunale vi accusa d’ingiustizia e dice la verità. Voi opprimete i poveri e portate via parte del loro grano. Avete costruito belle case, ma non le abiterete. Avete piantato vigne stupende, ma non ne berrete il vino. Io so quanto sono numerosi i vostri misfatti, quanto orribili i vostri peccati. Voi tormentate l’uomo giusto, accettate ricompense illecite e impedite ai poveri di ottenere giustizia in tribunale. Perciò chi è prudente tace in questi tempi così malvagi. Cercate di fare quel che è bene e non il male, se volete vivere. Allora il Signore, Dio dell’universo, sarà veramente con voi, così come dite. Odiate il male e amate il bene, riportate la giustizia nei tribunali: allora forse il Signore Dio dell’universo avrà pietà dei superstiti d’Israele. Il Signore Dio dell’universo così dice: «Vi saranno lamenti e grida di dolore per le piazze e per le strade. Per piangere i morti si chiameranno anche i contadini, oltre a quelli che lo fanno per mestiere. In tutte le vigne ci saranno lamenti, perché io verrò a punirvi». Il Signore ha parlato.

Come sarà terribile il giorno del Signore, per voi che l’attendete! Che cosa vi aspettate da quel giorno? Sarà un giorno di tenebre, non di luce. Sarà come un uomo che fugge davanti al leone e s’imbatte in un orso; si rifugia in casa, appoggia la mano al muro ed è morso da un serpente. Il giorno del Signore sarà tenebre e non luce, completamente oscuro.

Guai a voi che vivete tranquilli in Sion. Guai a voi che vi sentite sicuri in Samaria. Guai a voi, uomini importanti d’Israele, la prima fra le nazioni, voi ai quali si rivolgono gli Israeliti. Andate a vedere la città di Calne, di là passate per la grande città di Camat e scendete fino alla città di Gat in Filistea. Sono forse migliori dei regni di Giuda e d’Israele? I loro territori sono più vasti dei vostri? Voi non volete pensare al giorno della disgrazia, ma con le vostre azioni fate avvicinare il regno della violenza. Vi sdraiate su divani pregiati e ben lavorati, mangiate carne di agnello e di vitello, presi dal gregge e dalla stalla. Vi credete bravi come Davide: componete canti e li sonate con l’arpa. Bevete il vino in grandi coppe e usate i profumi più raffinati, ma non vi preoccupate della rovina che sta per colpire Israele, perciò voi sarete i primi ad andare in esilio. I vostri banchetti e le vostre feste finiranno. Il Signore, Dio dell’universo, ha promesso solennemente: «Siccome detesto l’orgoglio degli Israeliti e odio i loro palazzi, consegnerò al nemico la loro capitale e tutto quel che c’è in essa». Se rimarranno dieci uomini in una casa, essi dovranno morire. Quando il parente di un morto verrà con chi brucia i corpi a prendere il cadavere per portarlo via, domanderà a chi si trova ancora nella casa: - È rimasto qualcuno con te?

Questi dirà: - No! - e aggiungerà: - Tutto è silenzio!

Non c’è più nessuno che possa pronunziare il nome del Signore.

Quando il Signore lo comanda, le case grandi e piccole sono ridotte in macerie. Possono galoppare i cavalli sulle rocce? Può essere arato il mare dai buoi? Eppure nelle vostre mani la giustizia è diventata veleno, i diritti della gente come i frutti amari e nocivi dell’assenzio. Voi vi vantate perché avete conquistato la città di Lodebar e dite anche: «Siamo stati così forti da conquistare Karnaim!». Il Signore, Dio dell’universo, dice: «Israeliti, io manderò un esercito straniero a occupare la vostra terra. Vi opprimerà dal passo di Camat, a nord, fino alla valle del torrente dell’Araba, a sud!».

     Gli scrivani della Scuola di Amos sono capaci, nel loro proclama, di elaborare una sintesi mirabile utilizzando il fenomeno (il genere letterario) della lamentazione che – mediante lo spirito autobiografico – interpretano con una riflessione culturale che guarda al passato (alla memoria della tradizione del dissenso dei pastori-profeti) e lo trasformano, nel presente, in condanna e punizione (l’esilio ne è la prova) – decretata dal Dio di giustizia – contro tutti gli abbienti che affamano i poveri, contro tutti i potenti che schiacciano i deboli, contro tutte le figure istituzionali, spesso corrotte, che si ostinano a rimuovere le loro responsabilità.

     Gli scrivani della Scuola di Amos sono capaci, nel loro proclama, di elaborare una sintesi mirabile utilizzando poi – mediante lo spirito autobiografico – l’elemento della presa di coscienza con la quale mettono in evidenza la necessità di stipulare il patto di solidarietà, la berit, e l’elemento dell’assunzione di responsabilità (nel testo è martellante) con la quale mettono in evidenza la necessità di rispettare la Legge, la torah, uguale per tutti.

     Il testo del Libro di Amos, negli ultimi capitoli, riferisce cinque visioni. Queste cinque visioni – la scorsa settimana abbiamo annunciato che vi avremmo puntato l’attenzione – rappresentano un modello letterario secondo le forme dettate dallo stile del proclama di Amos: se leggiamo i testi delle cinque visioni constatiamo che sono costruiti secondo uno schema che si ripete e, questo schema – in modo vario e a seconda della eterogeneità dei contenuti – si ripete anche in tutti i Libri della Bibbia. In questo modello letterario, secondo le forme dettate dallo stile del proclama di Amos, prima c’è il motivo del pessimismo totale (la lamentazione), poi quello della presa di coscienza, della consapevolezza (l’ascolto del ruggito del Signore), infine il motivo della speranza di salvezza. Ma non solo, – e qui dobbiamo completare delle riflessioni che abbiamo già intrapreso nei precedenti itinerari – l’autore del Libro di Amos propone e scrive sul tema della visione proprio per imbastire una riflessione su che cosa voglia dire essere un visionario e, nell’introduzione e nello sviluppo di questo argomento, si capisce che il ragionamento dell’autore del testo di Amos – a nome di tutti gli scrivani della sua Scuola – avviene all’interno della polemica in corso (e qui lo scontro si fa violento) tra la prima e la seconda generazione di scrivani in esilio a Babilonia.

     Ma andiamo con ordine e cominciamo a leggere il testo delle visioni.

LEGERE MULTUM….

Libro di Amos  7, 1-9

Le cavallette  (prima visione)

Dio, il Signore, mi fece avere una visione: egli formava uno sciame di cavallette proprio quando l’erba ricominciava a crescere, dopo il primo taglio riservato ai greggi del re. Quando le cavallette ebbero divorato quasi tutta l’erba della regione, io dissi:

- Signore Dio nostro, perdona Israele! Come potrà sopravvivere il tuo popolo? È così debole!

Allora il Signore ritornò sulla sua decisione e disse: - Quel che hai visto non accadrà!

Il fuoco (seconda visione)

Dio, il Signore, mi fece avere un’altra visione: egli stava per punire il suo popolo con un fuoco che consumava il grande oceano sotterraneo e tutto il territorio d’Israele. E io dissi: - Signore Dio nostro, fermati! Come potrà sopravvivere il tuo popolo? È così debole!

Anche allora il Signore ritornò sulla sua decisione e disse: - Neanche questo accadrà.

Il filo a piombo (terza visione)

Il Signore mi fece avere ancora un’altra visione: stava vicino a un muro, alto e diritto, e teneva in mano un filo a piombo. Il Signore mi chiese: - Amos, che cosa vedi?

- Un filo a piombo, - risposi. - Ho misurato con esso il mio popolo, - disse il Signore, - e non posso più perdonarlo. Io devasterò i luoghi sacri dei discendenti di Isacco, i santuari d’Israele saranno distrutti e porrò fine con la spada alla dinastia del re Geroboamo.

     A questo punto (e come abbiamo detto poco fa, nel testo delle visioni di Amos emerge soprattutto la vivace polemica generazionale in corso), nel bel mezzo della terza visione intitolata Il filo a piombo, l’autore del Libro di Amos, come presa di coscienza, come assunzione di responsabilitàintroduce la famosa dichiarazione d’indipendenza, di cui abbiamo già studiato il valore culturale. La dichiarazione d’indipendenza si trova all’interno di un dialogo – molto conflittuale – tra il pastore Amos e il sacerdote Amasia: la dichiarazione d’indipendenza è il filo a piomboe questa bellissima metafora non ha bisogno di alcuna spiegazione per essere compresa.

     Sappiamo già che il testo di questo dialogo è strutturato in modo allegorico: la figura del pastore Amos rappresenta l’autore stesso del Libro il quale parla a nome di tutti gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia, in nome dei figli. La figura del sacerdote Amasia rappresenta metaforicamente gli scrivani di corte della prima generazione, i padri, i quali non gradiscono affatto la contestazione dei figli e non intendono fare autocritica, non hanno intenzione di assumersi delle responsabilità. L’autore del Libro, immedesimandosi nel pastore Amos, dichiara (a nome di tutti gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia) di essere non un visionario asservito al potere, di non essere fedele al re idolatra, ma di essere un pastore che si mantiene con il suo lavoro e di essere fedele al Dio di giustizia.

     Dobbiamo sottolineare a questo punto – nel momento in cui è entrata in ballo la parola-chiave autobiografia– che la dichiarazione d’indipendenzadegli scrivani della seconda generazione (la generazione dei figli che fondano Scuole di scrittura a loro spese e che non vogliono più, sul modello dei pastori-profeti della tradizione come Amos, essere scrivani prezzolati) mette bene in evidenza lo scontro in atto con gli scrivani della prima generazione (i padri, che sono scrivani di mestiere) i quali non vorrebbero essere giudicati e che probabilmente stanno compiendo delle ritorsioni di tipo economico (fanno causa) contro le Scuole del proclama di Amos. E difatti nella quarta e nella quinta visione (che ora leggiamo) l’autore del Libro di Amos colpisce con durezza la generazione dei padri, scrive tre paragrafi i cui titoli sono eloquenti: Contro i commercianti imbroglioni, Il giudizio del Signore e Dio castiga i colpevoli.

     Senza queste chiavi di lettura finiamo per scivolare sulle righe del testo di Amos senza renderci conto che – molto concretamente – il dibattito tra il pastore Amos e il sacerdote Amasìa è ancora in corso e ci tocca da vicino, ci riguarda.

     E ora riprendiamo a leggere il testo delle visioni di Amosda dove lo abbiamo interrotto per riflettere, ripartendo dalla terza visione (de Il filo a piombo) proprio dal dialogo tra Amos e Amasia:

LEGERE MULTUM….

Libro di Amos  7, 10-17    8, 1-14    9, 1-10

Amos e Amasìa (terza visione)

Amasìa, sacerdote di Betel, fece pervenire al re Geroboamo questo messaggio: «Amos è qui nel regno d’Israele e congiura contro di te. La gente non sopporta più i suoi discorsi. Infatti egli dice: Geroboamo morirà in battaglia, e la popolazione d’Israele sarà deportata, lontano dalla sua patria».

Allora Amasia disse ad Amos: - Visionario, vattene, ritorna nella terra di Giuda per guadagnarti il pane, e fai là il profeta. Non profetizzare più a Betel. Questo è il santuario del re, il tempio della nazione!

Amos rispose: - Non sono un profeta di mestiere, e non faccio parte di un gruppo di profeti. Sono un pastore e coltivo le piante di sicomoro. Il Signore mi ha chiamato mentre seguivo il gregge al pascolo, e mi ha ordinato di portare il suo messaggio a Israele. E ora tu vuoi che io non profetizzi più contro il popolo d’Israele, e che non parli più contro i discendenti di Isacco. Allora ascolta queste parole del Signore: «Tua moglie diventerà una donna di strada, i tuoi figli e le tue figlie saranno uccisi in guerra. La tua proprietà sarà divisa fra altre persone, tu stesso morirai in terra straniera, e la popolazione d’Israele sarà deportata lontano dalla sua patria».

Un cesto di frutta (quarta visione)

Dio, il Signore, mi fece avere un’altra visione: un cesto di frutta matura.

- Che cosa vedi, Amos?, - chiese il Signore.

- Un cesto di frutta matura, - risposi.

- Anche per il mio popolo Israele è maturata la fine, - disse il Signore. - Non gli perdonerò più nulla e non cambierò più la mia decisione. In quel giorno i canti del palazzo diventeranno grida di lamento. Dappertutto vi saranno cadaveri e saranno buttati fuori in silenzio.

Contro i commercianti imbroglioni

Ascoltate queste parole, voi che schiacciate i poveri e trattate gli umili come prigionieri di guerra. Proprio voi che dite: «Quant’è lungo il sabato! Ma quando finisce la festa della luna nuova? Noi dobbiamo vendere il nostro grano! Possiamo aumentare i prezzi, falsificare le misure e truccare le bilance. Venderemo anche il grano di scarto! Ci saranno certamente dei poveri che non possono pagare i loro debiti, neppure per un paio di sandali. Allora li compreremo come schiavi».

Per l’arroganza dei discendenti di Giacobbe il Signore ha giurato: «Non dimenticherò mai i loro misfatti».

Per questo, vi sarà un terremoto: la terra si gonfierà come il Nilo in piena, ondeggerà e si abbasserà; e i suoi abitanti saranno in lutto.

«Allora, - dice Dio, il Signore, - farò tramontare il sole a mezzogiorno e oscurerò tutta la terra. Muterò le vostre feste in lutto, i vostri canti in lamento. Come genitori, che hanno perso il loro unico figlio, vi raserete la testa, vi vestirete di sacco e soffrirete molto. Quel giorno sarà amaro sino alla fine!».

«Verranno giorni, - dice Dio, il Signore, - in cui io manderò la carestia in questa regione. Non di pane avranno fame, non di acqua avranno sete, ma di ascoltare la parola del Signore. Ovunque cercheranno con ansia la parola di Dio, da nord a sud e da ovest a est. Ma non la troveranno. In quel giorno, anche ragazzi e ragazze in ottima salute verranno meno per la sete. Quelli che giurano sugli idoli di Samaria e dicono: Per il dio di Dan o Per il dio di Bersabea, cadranno senza più rialzarsi!».

Giudizio del Signore (quinta visione)

Vidi il Signore vicino all’altare. Mi disse: «Colpisci i capitelli delle colonne così forte da far tremare l’intero portico del tempio. Falli cadere sulla testa di tutti, e io ucciderò il resto della gente in guerra. Nessuno potrà sfuggire, nessuno riuscirà a scappare. Se si rifugiano sottoterra, nel mondo dei morti, li afferrerò ugualmente.

Se scappano verso il cielo, li trascinerò giù. Anche se si nascondono in cima al monte Carmelo, li scoverò e li prenderò. Se si allontanano dal mio sguardo, anche in fondo al mare, ordinerò al serpente marino di morderli. Se saranno catturati come prigionieri di guerra, ordinerò ai loro nemici di massacrarli. Ho intenzione di distruggerli, non di aiutarli».

Dio creatore e giudice

Il Signore, Dio dell’universo, colpisce e la terra trema, dappertutto si sentono grida di lamento. Tutta la terra si gonfierà e si abbasserà come il Nilo. Egli costruisce la sua dimora nel cielo, sopra la volta poggiata sulla terra. Raccoglie l’acqua del mare e la riversa sulla terra. Il suo nome è Signore!

Dio castiga i colpevoli

«Israeliti, - dice il Signore, - voi siete per me come qualsiasi altro popolo, anche lontano. Ho fatto uscire voi dall’Egitto i Filistei da Creta, gli Aramei da Kir. Io il Signore, conosco le colpe del regno d’Israele e lo spazzerò via dalla faccia della terra. Tuttavia non sterminerò completamente i discendenti di Giacobbe. Ho deciso di scuotere il popolo d’Israele, come si scuote il grano nel setaccio. Neppure un sassolino cadrà per terra. Così spargerò gli Israeliti in mezzo alle nazioni. I peccatori del mio popolo saranno uccisi in guerra, anche se proprio loro dicevano: Certamente Dio non permetterà che ci colpisca la sventura».

     E quindi, alla fine, secondo le forme dettate dallo stile del proclama di Amos, il Libro si conclude con un annuncio di salvezza: Dio ricostruirà il regno di Davide.

     Leggiamo questo frammento pensando al fatto che, probabilmente, il testo del proclama di Amos è stato scritto dagli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia anche per fare da prefazione al Letteratura dei profeti e il preciso riferimento alla restaurazione del regno di Davideè l’introduzione ai Libri dei profeti anteriori. Poi le cose all’atto della formazione dei canoni sono andate diversamente...

     Per giunta questo finale del Libro di Amos – ci dicono le studiose e gli studiosi di filologia biblica – è stato rimaneggiato nel periodo alessandrino quando è stato tradotto in greco difatti il regno di Davide assume una caratteristica eternae noi sappiamo – lo abbiamo già studiato la scorsa settimana – che il concetto di eternitàappartiene alla cultura greca.

     Leggiamo – dopo tutte queste debite puntualizzazioni – la conclusione del Libro di Amos:

LEGERE MULTUM….

Libro di Amos  9, 11-14

Il Signore dice: «In quel giorno io restaurerò il regno di Davide, ridotto come una casa in rovina. La rialzerò, riparerò i suoi muri, e la ricostruirò com’era prima. Così parla il Signore, che farà tutto questo. Verrà il giorno in cui – dice il Signore – non si finirà di seminare il grano, che sarà già ora di mietere; non si finirà di pigiare l’uva, che sarà già ora di vendemmiare di nuovo. Dai monti stillerà il vino dolce, e scorrerà giù per le colline. Farò tornare il mio popolo nella sua terra. Ricostruirà le sue città devastate, e vi abiterà. Pianterà vigne, e ne berrà il vino. Coltiverà giardini, e ne mangerà i frutti.

Io lo trapianterò nella terra che gli ho dato, mai più ne sarà sradicato».

Così ha parlato il Signore Dio tuo.

     Gli elementi che caratterizzano lo stile del proclama di Amos sono entrati nella Storia della Letteratura e in particolare nel genere letterario del romanzo Nei romanzi dell’800 molti personaggi sono modellati sulla figura del profeta-pastore. Facciamo un esempio in funzione della didattica della lettura ma, prima di presentarlo,  riflettiamo in funzione della didattica della scrittura.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

In relazione alla parola “profeta” emergono una serie di azioni: indovinare, preannunciare, rivelare, predire, pronosticare, presagire…

Riflettendo sulla vostra esperienza, tenendo conto della vostra autobiografia: da quale di queste azioni potete prendere spunto per scrivere quattro righe in proposito?…

     Uno dei romanzi più significativi nel quale si configura lo stile del proclama di Amose che, quindi, entra a pieno titolo su questo itinerario, s’intitola Resurrezione ed è stato scritto nell’ultimo decennio del XIX secolo da Leone Tolstoj. Resurrezione è l’ultimo dei tre grandi romanzi di Tolstoj dopo Guerra e Pace (che è stato scritto dal 1863 al 1869) e Anna Karenina (che è stato scritto dal 1873 al 1877).

     Anche Resurrezione ha avuto un lungo processo di scrittura, durato dal 1889 al 1899, come gli altri due romanzi, del resto, e come tutte le altre opere di Tolstoj. Di questo lavoro sono testimonianza, anche per Resurrezione, le numerose varianti e redazioni: Tolstoj scrive e riscrive i suoi testi.

     Resurrezione è un’opera «di tendenza», è un manifesto, è un proclama in cui lo scrittore esprime in modo diretto e forte la sua idea sulla società. Questo romanzo è anche la prova di come uno scrivano geniale (ci vengono in mente gli anonimi scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia) possa scrivere un’opera «tendenziosa» e, nello stesso tempo, dotata di grande forza artistica. Nel testo di Resurrezione non si trova l’ampiezza «cosmica» e l’afflato epico, di livello omerico, di Guerra e Pace, e neppure la tormentosa ricerca di una grande e passionale storia d’amore e di morte, come in Anna Karenina. In Resurrezione si trova (sulla scia dello stile del proclama di Amos) una spietata condanna dei mali della società, una descrizione precisa e angosciosa dei tormenti cui sono sottoposti i «dannati della terra» della Russia, i carcerati, i condannati ai lavori forzati. Inoltre, in Resurrezione si trova (come sempre in Tolstoj) un sottile, profondo e penetrante esame dei sentimenti umani in tutta la sua gamma.

     Lo stile di Amos – possiamo dire – nel testo di Resurrezione è ancora più evidente che in tutte le altre opere tolstojane. Resurrezione si diversifica dagli altri due grandi romanzi: in Guerra e Pace e anche in Anna Karenina ci sono diverse linee narrative mentre in Resurrezione c’è una sola storia, che si realizza nei due (più uno) famosi protagonisti. Però, accanto a questa unica storia di amore e di riscatto, troviamo (come al solito in Tolstoj) decine e decine di microstorie, che allargano le dimensioni del romanzo e ne fanno uno specchio appassionato e tormentoso della Russia di quegli anni: la Russia del tardo Tolstoj. Ma ciascuna di queste microstorie non serve solo come exemplum del malgoverno zarista, delle ingiustizie feudali e delle crudeltà di un ferreo sistema burocratico ma le piccole storie (con decine di personaggi) che accompagnano la storia principale sono utili soprattutto per innescare una riflessione esistenziale più ampia e sempre attuale sulle incapacità di autogovernarsi, sulle ingiustizie e sulle crudeltà di cui tutte le persone sono capaci. Tolstoj si mette in prima linea, immedesimandosi (come sempre) nei suoi personaggi grandi e piccoli, confessando debolezze e coltivando aspirazioni. Resurrezione – come afferma anche Bertolt Brecht – è il romanzo più «didattico» di Tolstoj ed è il motivo principale per cui va letto e riletto periodicamente: lo si trova facilmente in biblioteca.

     La storia che Tolstoj trasforma in romanzo deriva da un fatto realmente accaduto: il giurista e scrittore Anatolji Fjodorovič Koni (1844-1927), amico di Tolstoj, di Dostoevskij, di Turgenev e altri scrittori, nel 1887 racconta a Tolstoj un caso: la storia di Rozalija Oni e del suo seduttore, che apparteneva alla classe dei «signori». Rozalija diventa prostituta, dopo l’abbandono da parte del suo seduttore.

     Il romanzo Resurrezione presenta e segue in parallelo l’evoluzione della personalità di due celebri personaggi che sono il principe Dmitrj Ivanovič Nechljùdov e la giovane Katjùša Màslova. I due si ritrovano nell’aula del tribunale in cui lei è imputata dell’omicidio di un cliente della casa di tolleranza dove ha lavorato, fino al giorno dell’arresto, come prostituta.

      Possiamo raccontare a grandi linee la trama di questo romanzo perché è molto famosa ed è stata tradotta per il cinema, per teatro, ma il problema – per cui la Scuola invita alla lettura di Resurrezione (le lettrici e i lettori di questo romanzo sono pochissimi) – non riguarda la trama ma concerne l’esperienza da fare a contatto con questo testo: più che la trama valgono i ragionamenti, le considerazioni, i pensieri che il testo ci propone e su cui c’invita a riflettere spassionatamente.

     La trama del romanzo si esaurisce nei primi capitoli dove lo scrittore racconta la storia di come il giovane nobile Nechijùdov abbia sedotto la bella Katjùša, che si era innamorata di lui, di come l’abbia poi trattata con disprezzo (dandole, per liberarsene, cento rubli), di come Katjùša sia diventata prostituta (per colpa della lussuria – scrive Tolstoj – di tutti gli uomini con i quali aveva avuto, prima della sua definitiva caduta, un rapporto di lavoro), di come abbia lavorato in una famosa casa di tolleranza, di come sia stata accusata dell’omicidio di un cliente (da lei non commesso), di come sia comparsa davanti alla giuria, e di come Nechijùdov facesse parte di quella giuria. La storia racconta il colpo forte che la coscienza di quest’uomo riceve nel rendersi conto che l’imputata, condannata ingiustamente, – addirittura per un errore di forma che i regolamenti giudiziari, rigidi e folli, non permettono di superare – è la ragazza di cui ha contribuito alla rovina. Da questo colpo, da questa presa di coscienza, ha inizio l’assunzione di responsabilità (possiamo cogliere, come potete capire, gli elementi dello stile del proclama di Amos) che conduce Nechijùdov sulla via della trasformazione. Anche in Katjùša c’è una presa di coscienza e una assunzione di responsabilità e va osservato che la sua trasformazione risulta la più autentica, la più sofferta, la più libera da qualsiasi spirito di vanità, mentre il processo di trasformazione di Nechljùdov, narrato con straordinaria efficacia, risulta tuttavia meno autonomo artisticamente, risulta – per motivi didattici – più forzato.

     Il principe Nechljùdov decide di adoperarsi con tutte le sue possibilità per salvare Katjùša dalla condanna, ma – nonostante il suo impegno – non riesce nel suo intento, e quando viene condannata ai lavori forzati in Siberia, lui la segue passo dopo passo, persuaso ormai com’è che deve «riscattare», in questo itinerario di pentimento, la propria anima. Ma Katjùša – durante il viaggio verso la Siberia – incontra un uomo che la sa amare davvero in modo disinteressato (il terzo grande personaggio del romanzo): Simonsòn, un prigioniero politico, un rivoluzionario, una persona calma, riflessiva, tutta ragione e tutta altruismo.

     Katjùša a contatto con Simonsòn e con gli altri prigionieri politici appare anche cambiata esteriormente. In principio comincia a trasformarsi grazie a Nechljùdov, ma poi è l’influenza importante di Simonsòn e degli altri deportati, presentati da Tolstoj come persone sincere, oneste, altruiste, pacifiche, intelligenti, coerenti e ferme nelle proprie opinioni (per reati d’opinione sono stati condannati) ad aiutarla veramente nella sua crescita. Alla fine Katjùša rifiuta il matrimonio con Nechljùdov (che si presenta come un matrimonio riparatore), ed è lei a metterlo di fronte alla realtà, creando dubbi sull’autenticità del suo sentimento: ma lui la ama davvero o fa questo gesto perché sente soprattutto il dovere di riscattarsi? Nechljùdov s’interroga, capisce che il suo amorenon è completamente disinteressato e dà inizio ad una più profonda riflessione con cui termina il romanzo. La Màslova – ci comunica Tolstoj utilizzando i cognomi dei personaggi nei momenti decisivi – ama ancora Nechljùdov (soprattutto ora che è cambiato) ma decide di avvicinarsi a Simonsòn, e la sua è una scelta autentica, soggettiva, libera e del tutto consapevole.

     In funzione della didattica della lettura e della scrittura dobbiamo notare (e ne prederemo atto se leggeremo o rileggeremo questo romanzo) che – come succede nella Letteratura beritico-sapienziale (come succede per Abramo e per tutti i principali personaggi, compresa la divinità stessa) – Tolstoj fa cambiare il nome della protagonista a seconda delle diverse stagioni della sua esistenza per aumentarne la valenza allegorica, per scandire meglio le fasi della sua trasformazione. La Màslova è Katjùša quando vive, da ragazza innamorata, nel suo vestito bianco, a casa delle zie, poi si chiama Ljùbka quando fa la prostituta in una casa di tolleranza, dopo si presenta come Ekaterina in tribunale, ventisettenne – scrive Tolstoj – dal volto gonfio e dal grosso seno, e infine viene chiamata Katja tra i carcerati in prigione.

     Per concludere diciamo ancora (ancora una chiave di lettura) che sono più di una le figure che Tolstoj tratteggia con le caratteristiche dei pastori-profeti e naturalmente una di queste figure è il personaggio di Simonsòn. Lasciamo che sia Tolstoj a presentarcelo: Nechljùdov è la figura in cui Tolstoj s’immedesima come personaggio da superare, Simonsòn è la figura in cui Tolstoj s’immedesima come personaggio a cui tendere.

LEGERE MULTUM….

Leone Tolstòj, Resurrezione (1889-1899)

La Màslova, dunque, subiva l’influenza di Màrja Pàvlovna perché le voleva bene. Ma subiva anche l’influenza di Simonsòn e questo perché Simonsòn voleva bene a lei. Tutti gli uomini vivono e agiscono in parte secondo le proprie idee e in parte secondo le idee altrui. Ma in che misura vivono secondo le proprie idee e in che misura secondo le idee altrui? In ciò consiste per l’appunto la differenza essenziale fra gli esseri umani: gli uni si servono quasi sempre delle loro idee come di un gioco intellettuale, trattano la loro ragione come il volante d’una macchina al quale sia stata tolta la cinghia di trasmissione e subordinano le loro azioni alle idee altrui, vale a dire alla consuetudine, alla tradizione, alla legge. Gli altri, invece, considerano le loro idee come il motore precipuo della propria attività, obbediscono quasi sempre ai dettami della ragione e le si sottomettono, seguendo soltanto di rado, e soltanto dopo una valutazione critica, ciò che altri hanno deciso. A quest’ultima categoria apparteneva Simonsòn. Egli controllava e decideva ogni cosa con la ragione, e agiva di conseguenza.

Avendo deciso un giorno, quand’era ancora al liceo, che il denaro accumulato dal padre, funzionario dell’intendenza, era stato illecitamente accumulato, egli dichiarò che questo patrimonio andava restituito al popolo. Quando poi suo padre non solo non gli diede retta, ma gli fece una scenata, abbandonò la casa e cessò di far uso del denaro paterno. Avendo deciso che tutto il male esistente proviene dall’ignoranza del popolo, al termine degli studi universitari aderì al populismo, andò a insegnare nelle scuole rurali e si mise a predicare audacemente agli scolari e ai contadini tutto quel che considerava giusto e a negare quel che considerava falso.

Lo arrestarono e lo processarono.

Durante il processo decise che i giudici non avevano il diritto di processarlo, e lo dichiarò. Quando poi i giudici non gli diedero ragione e continuarono a processarlo, decise di non rispondere e a tutte le loro domande oppose il silenzio. Condannato al confino nel governatorato di Archàngelsk, egli si creò una dottrina religiosa alla quale informò tutta la sua attività. Secondo questa dottrina tutto ciò che esiste al mondo è vivo, non vi è nulla di morto tutte le cose da noi considerate morte e inorganiche sono soltanto parte di un immenso corpo organico che non possiamo abbracciare con la mente: e perciò il compito dell’essere umano, quale particella di questo organismo, consiste nel mantenere in vita tale organismo e tutte le sue parti viventi. Per questo motivo giudicava un delitto distruggere qualsiasi cosa vivente; era contro la guerra, contro la pena capitale, contro qualsiasi uccisione non solo di persone, ma di animali. Anche in merito al matrimonio aveva una teoria sua, secondo la quale la riproduzione è soltanto una funzione umana inferiore, mentre la funzione superiore consiste nel giovare a ciò che già esiste ed è vivente. Nella presenza dei fagociti nel sangue aveva trovato una conferma a questa sua idea. I celibi, secondo lui, erano per l’appunto i fagociti, la cui missione consiste nell’aiutare le parti deboli e malate dell’organismo. Da allora aveva informato la sua vita a questa teoria, sebbene da giovinetto fosse stato dedito al vizio. Considerava se stesso, e anche Màrja Pàvlovna, come fagocita del mondo.

Il suo amore per Katjùsa non implicava nessuna contraddizione, poiché l’amava platonicamente e riteneva che un simile amore non solo non ostacolasse la sua attività di fagocita in servizio dei deboli, ma la stimolasse ancora di più.

Oltre a risolvere a modo suo i problemi morali, risolveva a modo suo anche la maggior parte dei problemi pratici. Per tutte le cose aveva le sue teorie. Aveva stabilito quante ore bisognava dormire, quante riposare, come nutrirsi, come vestire, come accendere la stufa, come illuminare una stanza.

Con tutto ciò Simonsòn era timidissimo con la gente e modestissimo. Ma una volta che si era prefisso qualcosa, nulla lo poteva fermare.

Questo era dunque l’uomo che aveva un’influenza decisiva sulla Màslova perché l’amava. Con la sua sensibilità femminile essa non tardò a intuirlo, e la consapevolezza di aver potuto suscitare l’amore in una persona così straordinaria la rialzava nella sua propria opinione. Nechljùdov le aveva offerto di sposarla per magnanimità e per quel che c’era stato prima fra loro; ma Simonsòn l’amava come era adesso, e l’amava semplicemente perché l’amava. Inoltre ella sentiva che Simonsòn la considerava come una donna fuori dell’ordinario, come una che si distingueva da tutte le altre, una che possedeva speciali e superiori qualità morali. Ella non sapeva di preciso che qualità le attribuisse, ma a ogni modo per non ingannarlo cercava con tutte le sue forze di far nascere in sé le più belle qualità che riusciva a immaginare. E così tentava di essere buona quanto poteva esserlo.

La cosa era già cominciata nel carcere, durante l’ora di visita dei condannati politici, quando aveva sentito lo sguardo di quegli occhi azzurro-cupo, buoni e puri che la fissavano di sotto la fronte spiovente e le folte sopracciglia. Sin da quella volta si era accorta che era un uomo diverso dagli altri e la guardava in modo diverso, ed era stata colpita dallo strano contrasto fra la durezza dei capelli ispidi e delle sopracciglia aggrottate e la bontà infantile, l’innocenza dello sguardo. Più tardi lo rivide a Tomsk, quando fu aggregata ai prigionieri politici. E sebbene fra loro non fosse mai corsa una parola, si confessarono con lo sguardo che si erano capiti e ciò che significavano l’uno per l’altra. Anche in seguito non ci fu mai tra loro una conversazione importante, ma la Màslova sentiva che quando egli parlava in sua presenza, le sue parole erano rivolte a lei, che egli parlava per lei e cercava di esprimersi in modo da riuscirle comprensibile.

     È davvero un piacere – soprattutto trovandosi in viaggio nel territorio del movimento della sapienza poetica beritica– leggere Resurrezione di Tolstoj. Dobbiamo ancora dire alcune cose su questo romanzo ma, naturalmente, lo faremo la prossima settimana.

     Intanto a Babilonia – come hanno auspicato gli scrivani della seconda generazione, gli scrivani della Scuola di Amos – anche l’esilio sta per finire. Quali avvenimenti determinano la fine della deportazione degli Ebrei a Babilonia? Nel 539 a.C., dopo cinquant’anni, in esilio in Mesopotamia c’è la terza generazione dei deportati i quali sono ormai a pieno titolo cittadini babilonesi e la loro libertà, la loro autonomia se la sono già conquistata lì. Solo una minoranza (e fortemente incentivata), quindi, se la sente di tornare in Palestina. Solo pochi, di questa minoranza, sentono di dover tornare a Gerusalemme perché hanno una missione da compiere: sono gli scrivani del codice P.. Chi sono? Qual è la loro missione?

     Per scoprirlo anche voi avete una missione da compiere: correre a Scuola.

     La Scuola è qui

 

Lezione del: 
Venerdì, Gennaio 18, 2008