Autorizzazione all'uso dei cookies

IL COMPROMESSO DEUTERONOMICO SULLA FIGURA DI GIOSIA …

Lezione N.: 
13

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sapienza poetica beritica  2008      23-24-25   gennaio  2008

IL COMPROMESSO DEUTERONOMICO SULLA FIGURA DI GIOSIA …

     Chissà se a qualcuna o a qualcuno di voi è venuta la curiosità di puntare l’attenzione sul romanzo Resurrezione di Leone Tolstoj che abbiamo incontrato sull’itinerario della scorsa settimana? Se qualcuna o qualcuno di voi ha cominciato a leggere Resurrezione si è trovato a fare i conti con la primavera. Tolstoj è particolarmente sollecito a far diventare le stagioni (soprattutto la primavera) protagoniste dei suoi romanzi – come se fossero dei personaggi allegorici – e la scrittura di Tolstoj, con cui ha inizio il testo di Resurrezione, richiama alla mente altre interpretazioni allegoriche della primavera (che lo scrittore rimugina nei suoi pensieri), per esempio la pittura di Sandro Botticelli intitolata Allegoria della primavera che tutti siamo in grado di raffiguraci nella mente. L’originale di quest’opera, dipinta intorno al 1478, si trova (è come se noi lo avessimo in casa) agli Uffizi, ma oggi non c’è bisogno neppure di entrare nella pinacoteca per vederla, infatti non mancano le occasioni per imbattersi in questa immagine riprodotta anche troppo spesso tanto che non la si osserva neanche più: un esercizio interessante è quello di  guardarla attentamente dopo aver letto la prima pagina di Resurrezione! Altra interpretazione allegorica della primavera(che risuona senz’altro nella mente di Tolstoj) è la Sonata per violino e pianoforte di Ludwig van Beethoven (1770-1827) soprannominata La primavera pubblicata nel 1801 (questa Sonata è gemella della Sonata a Kreutzer, che è anche il titolo di uno dei famosissimi romanzi brevi di Tolstoj). Della Sonata per violino e pianoforte di Ludwig van Beethoven soprannominata La primavera si consiglia l’ascolto, suggerendo di leggere, in contemporanea, la prima pagina di Resurrezione.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Buona osservazione (di Botticelli), buon ascolto (di Beethoven) e buona lettura (di Tolstoj)

     Il romanzo Resurrezione inizia, quindi, con un brano famoso, con un brano da antologia: «La primavera – scrive Tolstoj – era sempre primavera e, nonostante la follia degli uomini, i pioppi, le betulle, i pruni stendevano le loro foglie vischiose e profumate, i tigli si gonfiavano di gemme pronte a schiudersi». C’è una corposità rinascimentale e una musicalità romantica nella descrizione di Tolstoj. «Gli uomini invece, allora come oggi, – afferma Tolstoj alludendo al proclama di Amos(siamo sempre sul sentiero della sapienza poetica beritica) – affumicavano l’aria col carbon fossile e con la nafta e deturpavano la bellezza della natura, della primavera, della vita».

     Il massimo degrado (fisico, umano, sociale) è dato – secondo Tolstoj – dal carcere nel quale lo scrittore ci fa incontrare, per la prima volta, nel corridoio impregnato di odori nauseabondi, Katjùša Màslova (che abbiamo già conosciuto la scorsa settimana), la protagonista del romanzo, il cui «petto rigoglioso sembrava – scrive Tolstoj – sfidare l’orrore e il marcio dell’ambiente». L’inno alla primavera, con cui inizia Resurrezione, ha il suo riscontro, alla fine del romanzo, con le parole tratte dal Vangelo secondo Matteo (dal capitolo 18 e dal famoso Discorso della montagna), lette dal principe Nechljùdov (l’altro protagonista che abbiamo conosciuto la scorsa settimana), che sono testimonianza della resurrezione, l’attestazione della primavera dell’Anima. Rimandiamo alla fine la lettura dell’incipit di Resurrezione.

     Ora diciamo che chi intraprenderà la lettura (o la rilettura) del romanzo Resurrezione si renderà conto che una delle «strutture» del testo del romanzo è data dagli elenchi: gli elenchi di personaggi, gli elenchi di idee, gli elenchi di proponimenti. La struttura letteraria de l’elenco (di personaggi, di idee, di proponimenti) è una tipica forma della costruzione del testo messa a punto dalle Scuole di scrittura del movimento della sapienza poetica beriticae ce ne renderemo conto strada facendo.

     La forma letteraria de l’elenco la troviamo spesso nei testi dei romanzi dell’800. In Resurrezione di Tolstoj il primo elenco lo troviamo nel capitolo V della prima parte: è l’elenco dei giurati. Altro elenco, più breve, è quello dei giudici [Tolstoj, con la sua caustica ironia – si domanda se i giudici siano degnie soprattutto se siano autonomi per giudicare –  nella Russia di Tolstoj la magistratura è subordinata al potere esecutivo – ed è la stessa domanda che si pone l’autore del Libro di Amos]: c’è il presidente (che – scrive Tolstoj – non stava più nella pelle nell’attesa di un incontro con una governante svizzera all’albergo Italia), c’è il giudice puntualissimo che aveva avuto un forte litigio con la moglie, e c’è il non puntuale sostituto procuratore. È inutile sottolineare la tecnica artistica di Tolstoj, che dà indicazioni psicologiche e sociali anche in poche battute o righe (centinaia di scrittrici e di scrittori hanno imparato da Tolstoj). Abbiamo detto che c’è, nell’elenco, il sostituto procuratore il quale è in ritardo perché aveva passato la notte in un bordello con gli amici (Lo stesso bordello in cui –aggiunge sarcastico Tolstoj – aveva lavorato la Màslova, l’imputata), e naturalmente non aveva avuto il tempo di leggere l’incartamento del processo. Anche il quarto giudice dell’elenco, Matviej Nikitič, arriva in ritardo: Costui – scrive Tolstoj – cercava sempre di trarre qualche brevissimo auspicio per esempio dal numero di passi che faceva per andare dal suo ufficio alla poltrona nella sala d’udienza. Naturalmente barava in modo da ricevere sempre un auspicio favorevole. Chi leggerà (o rileggerà) il testo del romanzo incontrerà altri importanti elenchi.

     Non è possibile (ed è necessario fare un accenno, seppur brevissimo, dopo aver lasciato passare un po’ di tempo dalla proiezione del romanzo sceneggiato su Guerra e pace) concepire il romanzo Resurrezione – come non è possibile capire tutti i romanzi di Tolstoj – al di fuori della polemica, della critica, della pubblicistica di Tolstoj. Il fatto di essere uno scrivano geniale gli permette di esprimere – in ogni testo, in ogni appello, in ogni lettera – il suo pensiero sotto forma di opera d’arte, secondo il concetto dell’arte che Tolstoj ha elaborato che prevede che l’arte non debba essere un frivolo piacere, un passatempo, e neppure una «realizzazione estetica»: l’arte – secondo Tolstoj – deve essere un «servizio». L’arte di Tolstoj è difatti tutta tesa (e tesa in modo vitale) a costruire testi in cui s’intrecciano i più diversi metodi e intenti: il realismo critico, la critica vera e propria, la satira, la feroce ironia, la pubblicistica, la dichiarazione morale, la confessione. In tutto questo possiamo veder emergere anche gli elementi dello stile del proclama di Amos (vi ricordo che siamo sul territorio della sapienza poetica beritica): la lamentazione, la presa di coscienza, l’assunzione di responsabilità.

     Questi tre elementi portanti dello stile del proclama di Amos – la lamentazione, la presa di coscienza, l’assunzione di responsabilità – sono ricorrenti nel genere letterario del romanzo dell’800, nel testo di Resurrezione ne determinano la struttura. Le frasi con cui Tolstoj compone i suoi testi – soprattutto il testo di Resurrezione – sono precise come un bisturi acuminato che incide sulla realtà e, quindi, l’arte non si manifesta tanto nello sviluppo della trama ma la lettrice e il lettore può trarre piacere, vantaggio e insegnamento soprattutto dall’eccezionale forza e bellezza dalla scrittura riflessiva che invita in ogni pagina al raziocinio, all’esercizio del pensiero. In Resurrezione le contraddizioni sono rappresentate in modo molto aspro (Tolstoj s’identifica in Nechljùdov costringendo tutte le lettrici e i lettori alla riflessione): in Nechljùdov, come in tutte le persone – scrive l’autore – ci sono due personalità, quella spirituale e quella animalesca e con questi due aspetti, in lotta tra loro, dobbiamo fare i conti. Il metodo artistico usato da Tolstoj è assai complesso e raffinato – si rifà alla Letteratura dei profeti in particolare al linguaggio del proclama di Amos – e riesce quasi sempre a far coincidere l’arte con la predica (cosa non facile!) e il risultato è notevole: leggiamo un frammento da Resurrezione.

LEGERE MULTUM….

Leone Tolstòj, Resurrezione (1889-1899)

Nechljùdov aveva stabilito di fermarsi presso le zie non più di un giorno, ma quando ebbe visto Katjùša, accettò di trattenersi altri due giorni per fare la Pasqua con loro. Telegrafò al suo compagno e amico Scembòk, col quale aveva appuntamento a Odessa, di venire anche lui dalle zie.

Dal primo momento che rivide Katjùša, Nechljùdov provò nuovamente per lei il sentimento di un tempo. Come una volta, anche adesso gli bastava scorgere il grembiule bianco di Katjùša per sentirsi turbato; era felice quando udiva i suoi passi, la sua voce, il suo riso; non poteva guardare senza tenerezza i suoi occhioni neri come le more umide, soprattutto quando sorrideva; gli era impossibile, poi, vedere senza confondersi come essa arrossiva, incontrandolo. Capiva d’essere innamorato, ma non più come prima, quando l’amore era per lui un mistero che non osava confessare neppure a se stesso. Allora era convinto che si potesse amare una volta sola nella vita. Adesso sapeva d’essere innamorato e ne gioiva, ma sapeva anche torbidamente, sebbene cercasse di nasconderselo, in che consisteva il suo amore, e quale ne sarebbe stata la conclusione.                                            

In Nechljùdov, come in tutti, c’erano due uomini: uno, spirituale, che cercava il bene proprio in accordo con quello altrui, e un altro animale, che cercava il bene proprio soltanto in senso egoistico, e che per ottenerlo era disposto a sacrificare il bene del mondo intero. Nello stato di folle egoismo in cui si trovava allora, dopo la vita militare e quella di Pietroburgo, l’uomo animale aveva preso in lui il sopravvento e soffocato quello spirituale.

Ma rivedendo Katjùša e sentendosi rinascere in cuore il sentimento di un tempo, l’uomo spirituale sollevò la testa, proclamando i suoi diritti. E in Nechljùdov, durante quei due giorni prima di Pasqua, si svolse una lotta ininterrotta e inconfessata. Nell’intimo suo egli sapeva che avrebbe dovuto andarsene, che non era il caso di trattenersi ancora dalle zie. Sapeva che non ne sarebbe derivato nulla di buono. Ma d’altronde provava tanta gioia e tanto piacere che non ascoltò la voce del dovere e rimase.  Il sabato sera, la vigilia di Pasqua,

     Gli elementi che caratterizzano lo stile del proclama di Amos sono entrati nella Storia della Letteratura moderna e in particolare nel genere letterario del romanzo. Abbiamo detto che nei romanzi dell’800 molti personaggi sono modellati sulla figura del profeta-pastore: nei romanzi di Tolstoj la presenza di personaggi che rimandano alle figure dei profeti [allo stile di Amos] è una costante. Sono di solito personaggi minoriai quali lo scrittore affida un messaggio di carattere biblico, di natura beritica: un messaggio provocatorio [contro la banalità religiosa e in favore della fede che s’incarna nella storia] con il quale Tolstoj tende – con piglio profetico – a colpire i comportamenti spesso incoerenti delle gerarchie ecclesiastiche [su Tolstoj pesa ancora la scomunica da parte della Chiesa ortodossa russa]. In Guerra e Pace s’incontra – a questo proposito – la bellissima figura di Platòn Karatàev: la raccomandazione della Scuola non può che tradursi nell’invito a leggere questo significativo romanzo (a non fermarsi agli sceneggiati). In Resurrezione Tolstoj (oltre a Simonsòn) mette in scena, sul modello del pastore-profeta Amos, un personaggio minore.

     E allora leggiamo la microstoria che ce lo fa incontrare:

LEGERE MULTUM….

Leone Tolstòj, Resurrezione (1889-1899)

Nechljùdov, in piedi sull’orlo della chiatta, guardava il fiume ampio e rapido. Nella sua immaginazione si alternavano due immagini: la testa sussultante per gli scossoni di Krilzòv moribondo e irritato, e la figura di Katjùša sul filo della strada, che camminava sicura al fianco di Simonsòn. L’immagine del moribondo Krilzòv che non si rassegnava a morire, era penosa e triste; l’altra, della coraggiosa Katjùša, che aveva trovato l’amore di un uomo come Simonsòn ed era ormai avviata sulla via sicura e giusta del bene, avrebbe dovuto dargli un senso di gioia, e gli dava invece una gran pena: una pena che non sapeva vincere.

Dalla città arrivò portato dall’acqua il rintocco vibrante e metallico di una grossa campana. Il vetturale di Nechljùdov, in piedi accanto a lui, e tutti i carrettieri si tolsero l’uno dopo l’altro il berretto e si segnarono. Invece un vecchietto tutto arruffato di cui Nechljùdov non si era accorto, che stava vicino alla sponda, non li imitò. Guardava Nechljùdov a testa alta. Indossava una veste tutta toppe, pantaloni di panno e scarpe logore, pezzate. Portava sulla schiena una bisaccia, in testa un berrettone frusto di pelle.

– E tu, vecchio, perché non preghi? – gli domandò il vetturino di Nechljùdov, rimettendosi il berretto in capo.

– Non sei battezzato forse?     

– E chi dovrei pregare? – rispose il vecchio con piglio deciso e scandendo in fretta le parole.

– Si sa chi Iddio! – esclamò ironicamente il vetturale.                                                           

– Mi sai far vedere dov’è. Lui? il tuo Dio?

Nell’espressione del vecchio v’era qualcosa di così duro, di così grave, che il vetturino, sentendo di aver di fronte una volontà forte, si confuse un po’. Ma non se ne fece accorgere, e, per non fare brutta figura davanti al pubblico che lo stava ascoltando, rispose in fretta:

– Dov’è? Ma lo san tutti, in cielo.

– Ci sei stato, tu?

– Per esserci, non ci sono stato, ma tutti sanno che bisogna pregare Dio.                                        – Dio, non l’ha mai visto nessuno. Il figlio unigenito, che è nel seno del padre, l’ha detto – fece il vecchio accigliato, con la sua parlata rapida.

– Allora tu non sei cristiano! Non preghi niente. Il vuoto preghi! – disse il vetturino, infilando la frusta nella cintura e aggiustando il sottocoda ad uno dei cavalli laterali.

Qualcuno rise.

– Ma tu, nonno, di che religione sei? – domandò un uomo non più giovane, che stava col suo carro sull’orlo della chiatta.

–  Io? Non ne ho di religione, io. Non credo a nessun altro fuorché a me stesso, – rispose sempre in fretta e risolutamente il vecchio.

– Ma come si fa a credere a se stessi? – intervenne Nechljùdov. – Uno può sbagliarsi  

– No e poi no, –  rispose pronto il vecchio crollando il capo.

– E come mai allora ci sono tante religioni? – domandò Nechljùdov.

– Perché la gente ha fede negli altri e non in sé. Anch’io credevo negli uomini e ho errato come in una taigà e mi ero talmente smarrito, che non credevo più di uscirne. E vecchi credenti e nuovi credenti e sabbatisti e flagellanti e clistì e popovzi e non popovzi e molocani e skopzi. Tutte sette che pretendono d’essere nel giusto che si trascinano di qua e di là come cuccioli ciechi. Di religioni ce ne sono tante ma lo spirito è uno. In te in me, in lui. Se dunque ciascuno crederà allo spirito che ha in sé, tutti saranno uniti. Che ciascuno sia con se stesso e tutti saranno come uno solo.

Il vecchio parlava forte e si guardava d’attorno come se volesse farsi ascoltare dal maggior numero di persone.

– È molto tempo che andate predicando a questo modo? – gli domandò Nechljùdov.

– Io? Da un pezzo. È da ventitré anni che mi perseguitano.                                        

– Come, perseguitano?

– Come hanno perseguitato Cristo, perseguitano anche me. Mi acciuffano e mi trascinano davanti ai tribunali, a preti, a scribi e farisei; in manicomio mi han ficcato. Ma non mi si può far nulla perché sono libero. «Come ti chiami?», mi domandano. Credono che io abbia un nome. Ma io non ne ho nessuno. Ho rinunciato a tutto: non ho nome, né paese, né patria nulla ho. Io sono io.

«Come ti chiami?». «Uomo». «Quanti anni hai?». «Io», dico, «non li conto e neppure li posso contare, perché sempre sono stato e sempre sarò». «Chi sono tuo padre e tua madre?». «Non ho padre né madre, tranne Dio e la terra. Dio è mio padre, la terra, mia madre». «E lo zar», mi domandano, «lo riconosci?». «E perché no! Lui è zar per conto suo e io son zar per conto mio».

«Be’», dicono, «non c’è gusto a parlare con te». E io: «Ma non son io che l’ho domandato ». Così mi continuano a tormentare.

– E adesso dove andate? –  domandò Nechljùdov.

– Dove Dio mi manda. Lavoro, e se non trovo lavoro, chiedo la carità, – concluse il vecchio. E vedendo che la chiatta stava per raggiungere la riva opposta, guardò i suoi ascoltatori con aria trionfante.

La chiatta attraccò. Nechljùdov tirò fuori il borsellino e offrì al vecchio un po’ di denaro. Il vecchio rifiutò.

– Soldi non ne accetto. Solo il pane.

– Scusa. 

– Non c’è nulla da scusare. Non mi hai offeso. Nessuno può offendermi, – disse il vecchio buttandosi la bisaccia sulle spalle.

Nel frattempo la vettura era stata scaricata e i cavalli attaccati.

– Avete voglia, signore, di discorrere! – disse il vetturino a Nechljùdov, quando questi, dopo aver dato la mancia ai robusti barcaioli, montò sulla teliega.

– Non è che un vagabondo senza cervello.

Salendo per la strada che portava in città, il vetturino si voltò.

– A che albergo devo condurvi?

– Qual è il migliore?

– Il Siberia. Ma si sta bene anche da Diukov.

– Dove vuoi.

Il vetturino tornò a sedersi di fianco e partì al galoppo.

     In Resurrezione la Siberia rappresenta il luogo dell’esilio nel quale poter elaborare – dopo la lamentazione, dopo la presa di coscienza e dopo l’assunzione di responsabilità – l’idea della speranza di liberazione. In questa ottica, nell’ottica dello stile del proclama di Amos – con le chiavi che sono state messe in evidenza – ciascuna e ciascuno di noi può dedicarsi, quindi, alla lettura [o alla rilettura] di Resurrezione.

     E ora ritorniamo sul nostro sentiero specifico per mezzo del quale stiamo attraversando il territorio del movimento della sapienza poetica beritica: il nostro Percorso ci ha portato ad Alessandria e in questa città ci siamo trattenuti per qualche settimana intorno al II secolo a.C.. Poi – procedendo a ritroso – abbiamo viaggiato verso Babilonia e lì, nel VI secolo a.C., abbiamo soggiornato insieme alle generazioni di scrivani d’Israele in esilio.

     E ora, quali novità ci sono? Come abbiamo già annunciato la scorsa settimana la novità è che a Babilonia l’esilio, la deportazione degli Ebrei, sta per finire, sta per avere un epilogo: che cosa succede? Per trattare questo tema – il tema della fine dell’esilio degli Ebrei a Babilonia – dobbiamo imbastire una riflessione utile per poi poter affrontare un delicato e complesso argomento.

     La prima cosa da dire è che, nell’area geografica della Mesopotamia, in questi secoli (dal X al VI secolo a.C.) dopo gli Assiri e i Babilonesi, dopo gli Ittiti e i Medi, troviamo un altro popolo che prende il sopravvento su tutti gli altri: i Persiani. Negli ultimi due anni, su questo argomento – che vede come protagonisti della storia i Persiani –, noi abbiamo avuto un informatore di eccezione: Erodoto di Alicarnasso o di Turi, e noi conosciamo molti argomenti che riguardano i Persiani (i re, le regine, i costumi, gli usi, le guerre contro i Greci) attraverso i libri de Le Storie di Erodoto. Che rapporto c’è tra i Persiani e l’esilio degli Ebrei a Babilonia? Erodoto di questo argomento non ne parla: non ne può parlare perché non ha nessuna fonte a disposizione.

     Le fonti – sul rapporto tra i Persiani e l’esilio degli Ebrei a Babilonia – sono tutte di natura beritica [ne parla solo la Bibbia] e appaiono molti decenni dopo la morte di Erodoto (circa un secolo dopo) e saranno sconosciute ai più [compresi gli addetti ai lavori] finché, tra il III e il I secolo a.C., i Libri della Bibbia non saranno tradotti in greco durante la fase alessandrina del movimento della sapienza poetica beritica.

     E allora, in breve, veniamo subito al dunque: che rapporto c’è tra i Persiani e l’esilio degli Ebrei a Babilonia? Per rispondere a questa domanda dobbiamo cercare di capire come si sono svolti i fatti.

     Nel 539 a.C., i Persiani, comandati da Ciro il Grande, conquistano Babilonia e tutta l’area mesopotamica, e poi, avanzando verso est, si spingono fino al fiume Indo. Così si forma l’impero Persiano [che – come sappiamo – circa due secoli dopo verrà conquistato dal Megalexandròs, da Alessandro Magno]: è uno Stato enorme anche quello di Ciro re dei Persiani, che si estende dal Medio Oriente alle sponde dell’Indo. Ciro capisce subito – non era necessario essere un grande stratega per capire – che un territorio così grande, come quello che ha in mano, va amministrato con molta sagacia senza urtare troppo la suscettibilità dei vari popoli sottomessi. La classe dirigente persiana, poi, non può materialmente amministrare da sola tutto quel territorio. Ciro – insieme ai suoi consiglieri – si rende conto che è necessario creare Stati collaborazionisti” [di questo fatto ce ne rendiamo conto leggendo Le Storie di Erodoto, abbiamo incontrato una serie di personaggi – quasi sempre dei tiranni – che governano in nome dei Persiani], che siano sottomessi [che paghino dei tributi] ma che si governino e si amministrino in modo autonomo.

     Ciro, e il suo staff, capisce che è necessario – essendo questo grande Stato sbilanciato verso est – creare uno Stato cuscinetto sul confine sud-occidentale, sul territorio dove c’erano i due Regni degli Ebrei [il Regno d’Israele a nord e quello di Giuda a sud, dove c’è Gerusalemme]. Lì, quindi, nella terra di Canaan, in quest’area particolarmente turbolenta, Ciro [incoraggiato dai suoi consiglieri] ritiene opportuno far sorgere uno staterello, soggetto all’Impero persiano, ma con una sua classe dirigente, responsabile di tutti i problemi politici, sociali e amministrativi. Per raggiungere questo obiettivo strategico è necessario individuare la classe dirigente ebraica alla quale affidare il governo di questo Stato cuscinetto da creare nella terra di Canaan. E dove sta la classe dirigente [o per lo meno gli eredi della ex classe dirigente] della terra di Canaan, ora, nel 539 a.C.?  Noi lo sappiamo già dove stanno gli eredi della classe dirigente della terra di Canaan, e Ciro lo scopre poco dopo aver conquistato il cuore della Mesopotamia.

     Da cinquant’anni (dal 587 a.C.) la classe dirigente del Regno di Giuda [le famiglie della tribù di Giuda e di Beniamino] è deportata a Babilonia. Quindi, in questo momento, nel 539 a.C., a Babilonia ci sono le comunità ebraiche della terza generazione dei deportati: persone che sono nate, cresciute e che ormai si sono ben inserite nel tessuto della civiltà mesopotamica. Ciro, atteggiandosi a liberatore, vorrebbe che costoro tornassero nella terra di Canaan [una terra povera e abbandonata a se stessa] ad amministrare, in nome suo, uno Stato di frontiera [esposto a molteplici pericoli], ma queste persone – la terza generazione degli esiliati a Babilonia – si sono già liberateda sole [se così si può dire].

     Gli Ebrei deportati a Babilonia sono stati capaci di organizzare complessivamente [pur nella conflittualità generazionale che si è dimostrata un ulteriore elemento propulsivo], un processo di liberazione: la prima generazione [quella delle Lamentazioni] ha cercato di inserirsi facendo dei compromessi con il nuovo potere; la seconda generazione [quella della presa di coscienza e dell’assunzione di responsabilità, quella del proclama di Amos”] ha recuperato le tradizioni dei pastori-profeti, ha riscritto la storia del popolo d’Israele mettendo al centro le due parole-chiave fondamentali, la berit” [il patto di solidarietà] e la torah [la Legge uguale per tutti], e la terza generazione ha acquisito il diritto di cittadinanza in Mesopotamia e ha saputo conciliare la legislazione propria della comunità d’Israele [raccolta nel Pentateuco] con le norme delle istituzioni babilonesi fondate sul Codice di Hammurabi.

     Ciro si rende subito conto che non è così facile convincere gli Ebrei di Babilonia a tornare in Palestina. Ciro capisce che costoro – ma soltanto una parte di costoro – si muoveranno, e solo se saranno molto incentivati. La categoria che è più disposta a muoversi – quella che per prima sarà interessata ad aprire una trattativa sugli incentivi – è quella degli scrivani della terza generazione i quali – avendo in mano uno strumento di potere fondamentale, il patrimonio della Scrittura (la Legge e i profeti) – aspirano ad avere, nel nuovo Stato in terra di Canaan, a Gerusalemme, un ruolo dirigenziale.

     Che cosa sappiamo noi, a questo proposito, attraverso la Letteratura del movimento della sapienza poetica beritica? Sappiamo che Ciro il Grande fa scrivere e firma un Editto – il famoso Editto di Ciro – nel 538 a.C., con il quale decreta la liberazione degli Ebrei dalla schiavitù di Babilonia, e li invita, con enfasi, a tornare in patria. La prima cosa da dire – per fare chiarezza nella nostra mente – è che l’aggettivo famosoin relazione all’Editto di Ciro va messo tra virgolette: perché? Perché quando questo Editto è stato promulgato ha avuto pochissima eco [non se n’è accorto nessuno] e noi il testo originale di questo documento non lo possediamo. Quindi il testo del famoso Editto di Ciro noi lo possiamo leggere non nella sua versione originale, non come è stato scritto dai funzionari dell’Impero Persiano, ma bensì lo possiamo leggere attraverso il racconto degli scrivani del movimento della sapienza poetica beritica. E il testo di questo Editto – che è riportato più di una volta nella Letteratura beritica – è stato scritto dagli scrivani d’Israele circa due secoli dopo la sua promulgazione, e la Letteratura beritica ha costruito, attorno a questo avvenimento storico – di natura imperialista, di cui noi conosciamo gli intenti utilitaristici [la creazione di uno Stato di frontiera] – uno dei più famosi midrash [dei più significativi racconti cerimoniali] di tutta la Storia della Letteratura universale.

     L’Editto di Ciro, del 538 a.C. – scritto intorno al 330 a.C. dagli scrivani d’Israele – è un formidabile testo mitico che è stato composto per rafforzare, avvalorare, giustificare il potere della classe sacerdotale a Gerusalemme, due secoli dopo l’esilio, come dire: i nostri antenati sono stati investiti di una missione, e noi ne siamo gli eredi, ecco qui il documento che lo dimostra. L’Editto di Ciro, del 538 a.C. – scritto intorno al 330 a.C. dagli scrivani d’Israele – è un formidabile testo miticodove il grande protagonista, il super-soggetto, non è Ciro il Grande ma è il Dio degli Ebrei, che viene chiamato qui El-Shaddaim che letteralmente significa: l’Onnipotente che abita nell’alto dei cieli, il Dio del Cielo.

     Abbiamo già – all’inizio del nostro viaggio, quando abbiamo introdotto la parola berit, nel capitolo 17 del Libro della Genesi, – incontrato questo nome e ora possiamo fare una considerazione in più [visto che abbiamo vissuto gli avvenimenti essenziali dell’esilio a Babilonia] dicendo che il risvolto culturale di questo nome, è propriamente babilonese: il termine ebraico El-Shaddaim contiene la radice mesopotamica El-ish che significa il Cielo [ma avremo modo – quando penetreremo nel Libro della Genesi – di occuparcene ancora di questo termine]. Il Dio del Cielo, El-Shaddaim, – secondo il midrash biblico costruito dagli scrivani d’Israele intorno al 330 a.C. [poi, strada facendo, daremo anche un nome alla categoria a cui appartengono questi scrivani], – è un Dio che vive anche a Babilonia perché è lì che si pensa sia stato scritto l’Editto di Ciro nel 538 a.C.. Questo Dio è il Dio d’Israele ma – secondo gli scrivani che costruiscono questo midrash– è potente anche a Babilonia, come dimostra la radice del suo nome, El-ish: questa prerogativa filologica ne fa il super-soggetto che ha suggerito a Ciro di liberare gli Ebrei perché possano tornare a Gerusalemme a ricostruire il Tempio di Salomone o di Davide.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Domani mattina dai (è poi una cosa consueta) un’occhiata al cielo (“El-ish”): com’è ?  Che cosa ti suggerisce?…

Scrivi quattro righe in proposito…

     E allora: dove lo possiamo leggere il midrashdi cui stiamo parlando, dove lo troviamo il testo dell’Editto di Ciro composto con i canoni della sapienza poetica beritica intorno al 330 a.C. dagli scrivani d’Israele? La versione beritica dell’Editto di Ciro la si può leggere, anche, nel capitolo 1 del Libro di Esdra:

LEGERE MULTUM….

Libro di Esdra 1, 1-5

Nel primo anno del regno di Ciro, re di Persia, il Signore realizzò quel che aveva annunciato per bocca del profeta Geremia (queste citazioni risultano essere il marchio delle Scuole che redigono i testi). Egli mosse dunque lo spirito di Ciro a diffondere in tutto il suo regno, a voce e per scritto, questo editto: Così decreta Ciro re di Persia: il Dio del Cielo (El-Shaddaim), ha dato in mio potere tutti i regni della terra e mi ha incaricato di costruirgli un tempio a Gerusalemme, città della Giudea. Perciò mi rivolgo a tutti quelli che appartengono al suo popolo: tornate a Gerusalemme di Giudea per ricostruire il tempio del Signore, Dio d’Israele, in Gerusalemme, che è la sua città. Il vostro Dio vi accompagni. In ogni regione i superstiti che decidono di partire siano aiutati dagli abitanti del posto. Essi daranno loro argento, oro, beni e bestiame, e inoltre offerte volontarie per il tempio di Dio a Gerusalemme. Allora i capifamiglia delle tribù di Giuda e di Beniamino, e i sacerdoti e i leviti accolsero l’invito. Erano tutti quelli a cui Dio aveva messo in cuore il desiderio di tornare a Gerusalemme per ricostruire il tempio del Signore.

     A questo punto viene spontaneo chiederci: chi è Esdra? Il fatto è che non possiamo rispondere subito [deve passare qualche settimana] a questa domanda: dobbiamo procedere con ordine e prima dobbiamo occuparci di altre questioni importanti legate al tema della fine dell’esilio a Babilonia.

     In relazione al testo che abbiamo letto – i primi cinque versetti del primo capitolo del Libro di Esdra – possiamo dire che il genere letterario del midrash [del racconto cerimoniale, che, di generazione in generazione, gli scrivani d’Israele hanno imparato ad usare molto bene a Babilonia] porta la narrazione su un altro piano perché gli accadimenti non vengono narrati così come si sono svolti ma vengono presentati in modo trasfigurato alla luce della sapienza poetica beritica: la storia – quando viene raccontata – deve avere l’essenza della berit, deve manifestare la fedeltà al patto tra Dio e il suo popolo.

     Gli scrivani d’Israele ci tengono a puntualizzare che uno degli incentivi che Ciro il Grande propone agli ex deportati perché si trasferiscano da Babilonia a Gerusalemme è quello della ristrutturazione del Tempio che era sempre in rovina (del valore simbolico del Tempio di Gerusalemme ne abbiamo parlato alla fine di ottobre, quando eravamo ad Alessandria), e alludono al fatto che l’intenzione di investire risorse da parte di Ciro per ristrutturare il Tempio di Salomone (che era stato distrutto da Nabucodonosor nel 587 a.C.) contiene una proposta per gli scrivani della terza generazione in esilio a Babilonia, i quali, se fossero tornati a Gerusalemme, avrebbero potuto assumere un ruolo sacerdotale. La proposta di poter assumere questo ruolo privilegiato – portando con loro a Gerusalemme il patrimonio della Scrittura (lo strumento di governo) accumulatosi nel tempo dell’esilio a Babilonia – aveva probabilmente convinto un certo numero di scrivani della Scuola di Geremia (che in quel momento, sul finire dell’esilio, prevale culturalmente) a tornare (e a fare opera di convinzione per far tornare più gente possibile) in Palestina, nella terra di Canaan.

     Diciamo subito che (e lo abbiamo già detto diverse volte) gli scrivani della terza generazione in esilio a Babilonia, che tornano a Gerusalemme assumendo un ruolo sacerdotale, saranno chiamati: gli scrivani del codice P., dove la P. è la lettera iniziale della parola Priester che, in tedesco – perché sono gli studiosi tedeschi (Salomon Semler, Wilhelm Jerusalem, Samuel Reimarus, li abbiamo incontrati qualche anno fa a cena dal barone d’Holbach, era il 14 marzo 1765) che si sono occupati per primi dello studio di questo codice biblico – significa prete, significa sacerdote.

     L’apparato della Scrittura, con la fine dell’esilio, da Babilonia si sposta a Gerusalemme (siamo intorno al 538 a.C.) nelle mani di scrivani che diventano sacerdoti e che, quindi, assumono un potere reale sulla formazione del canone giudaico-palestinese della Bibbia. Gli scrivani della terza generazione – gli scrivani del codice Priester” [del codice sacerdotale] – sono chiamati ad assumere un ruolo di governo e per governare pensano di poter utilizzare lo strumento della torah, il dispositivo della Legge, ma la Scrittura (la Legge e i profeti) prodotta a Babilonia nel tempo dell’esilio, a Gerusalemme, come strumento di governo, dimostra tutta la sua inadeguatezza: perché? Che cosa succede nella terra di Canaan? Una parte dei membri della terza generazione di scrivani in esilio a Babilonia, tornata a Gerusalemme, assume le redini della ricostituzione del potere sacerdotale e la gestione (molto travagliata) della ristrutturazione del Tempio di Salomone (o di Davide). Ma soprattutto a questa generazione di scrivani – soprannominata del codice Priester” [del codice sacerdotale] – è affidata copia di tutto il patrimonio della Scrittura prodotto in esilio. Questa generazione di scrivani – soprannominata del codice Priester” [del codice sacerdotale] – subito dopo essersi insediata a Gerusalemme [ci vuole qualche anno] mette mano alla costruzione del canone [giudaico-palestinese] della Scrittura: in questa operazione gli scrivani del codice Priester” [del codice sacerdotale] intervengono anche sui testi [completando, legando, commentando, riscrivendo] cercando di mettere in ordine tutto il materiale [dando forma ai Libri del Pentateuco, ai Libri dei profeti anteriori e posteriori, a una prima parte degli Scritti sapienziali e poetici] nello spirito dell’esilio e dei dettami dello stile del proclama di Amos.

     Sappiamo che questi scrivani che ritornano a Gerusalemme con funzioni sacerdotali – incentivati dall’Editto di Ciro del 538 a.C. [ma che cosa prescriveva il testo originale dell’Editto di Ciro noi non lo sappiamo] – non riusciranno, purtroppo, ad ottenere la ristrutturazione del Tempio [se non la costruzione di un altare sotto ad una tenda] ma saranno capaci a dare corpo ad un’opera più grande del Tempio: riusciranno a dare una struttura alla porzione più consistente di quella grande biblioteca che chiamiamo la Bibbia. La terza generazione di scrivani – la generazione del codice Priester” [del codice sacerdotale] – appena tornata a Gerusalemme [fresca di cultura babilonese] completa l’assemblaggio delle fonti jahvista (J), elohista (E) e deuteronomica (D) [studieremo a suo tempo questo fondamentale argomento delle fonti] che sono in evidenza nel testo del Libro della Genesi. Gli scrivani del codice Priester” [del codice sacerdotale] intendono creare un collegamento – usando il filo della berit– tra la le Origini del mondo e la torah, e aspirano a costruire un ponte tra il concetto della creazione del mondo e l’idea della Legge uguale per tutti.

     Poi, la terza generazione di scrivani – la generazione del codice Priester” [del codice sacerdotale]– appena tornata a Gerusalemme deve rivedere l’impostazione del testo del Libro dell’Esodo [con l’ingresso sulla scena del personaggio di Mosè e della saga sull’Egitto] per dare un maggiore significato al valore della torah, al senso della Legge uguale per tutti. Inoltre la terza generazione di scrivani – la generazione del codice Priester” [del codice sacerdotale] – appena tornata a Gerusalemme deve riscrivere il testo della Legge, deve produrre una nuova versione del Libro del Deuteronomio, deve rivedere completamente la fonte deuteronomistica.

     Perché è necessario tutto questo sforzo per modificare il senso della Scrittura e per mettere in evidenza il valore della Legge e per modificare la forma della Legge? Qui ci troviamo di fronte a un bel problema da affrontare: un tema di notevole complessità che noi possiamo solo trattare a grandi linee ma che dobbiamo prendere in esame per conoscere, per capire e per applicarci in funzione della didattica della lettura e della scrittura. Il nuovo Stato ebraico propiziato dall’Editto di Ciro, governato dalla classe sacerdotale, deve fondarsi (come tutti gli Stati) su una Legge e gli scrivani della terza generazione, della generazione del codice Priester” [del codice sacerdotale], trasferisce da Babilonia a Gerusalemme il testo della torah, il corpus della Legge uguale per tutti. Il fatto è che a Babilonia la torah – per la comunità dell’esilio – risultava uguale per tutti, mentre a Gerusalemme, nel nuovo Stato, non risulta più uguale per tutti.

     La nuova classe dirigente, nata e cresciuta a Babilonia, porta con sé a Gerusalemme l’apparato di una Legge che andava proposto [che andava imposto] a tutte le genti che stazionavano sulla terra di Canaan, che sarebbero dovute diventare il popolo (i sudditi) del nuovo Stato giudaico e avrebbero – a ragion di logica – dovuto sentire questa Legge come propria. Ma, fin dall’inizio, le genti cananee che vivono dentro i confini del nuovo Stato giudaico sentono la Legge, portata da Babilonia dalla classe sacerdotale che ha assunto il potere, come un’imposizione. E questo non solo perché questa Legge ha un’impronta, ha un taglio dato dalla cultura Mesopotamica [nella forma seguiva il modello del Codice di Hammurabi], ma anche perché esiste un serio problema di fondo che condiziona i rapporti sociali, economici, politici, religiosi: un grave problema che andava affrontato con determinazione. Di che cosa si tratta?

      Tra la gente cananea che vive nei confini del nuovo Stato giudaico ci sono soprattutto gli eredi di coloro i quali, cinquant’anni prima, non facevano parte né della classe dirigente né del ceto produttivo del Regno di Giuda e che quindi [non essendo manodopera qualificata] non erano stati deportati a Babilonia: fortunati loro, ci viene da dire, si sono scansati l’esilio! Fortunati un corno [ci rispondono subito costoro in malo modo]! Costoro erano i poveri, i miserabili [contadini, pescatori, soprattutto pastori], erano i morti di fame– in ebraico gli ebionim –, i quali rimangono abbandonati a se stessi su una terra che era diventata ancora più inospitale di quanto già fosse per loro. Questi poveracci sono costretti a rimanere [senza il minimo sussidio] su un territorio di cui il regno di Babilonia si disinteressa completamente e sul quale non esercita alcuna amministrazione per il fatto che questi diseredati non hanno nulla da dare: sono solo un peso di cui sarebbe bene liberarsi. I discendenti di questi poveri, di questi miserabili erano diventati ancora di più morti di famedei loro antenati, ancora di più diseredati– il termine ebraico ebionim, nel linguaggio del movimento della sapienza poetica beriticadesigna in particolare i diseredati(ecco perché successivamente, nelle comunità della diaspora, emergerà in modo prorompente il tema della eredità, e noi lo affronteremo ancora questo tema) – e quindi erano molto, ma molto arrabbiati e non gradivano affatto integrarsi in questo nuovo Stato in cui non si sentivano rappresentati, e non volevano sentir parlare di una Legge alla quale sottomettersi senza aver partecipare alla sua costruzione.

     Costoro, gli ebionim” [i diseredati”], erano sopravissuti emigrando verso l’Egitto, attraversando [a seconda delle stagioni] il Mar Rosso, spostandosi in piccoli raggruppamenti [ecco l’esodo continuo]. Questi gruppi – secondo un’antica tradizione che era già delle tribù cananee – transumanti nella terra del Nilo cercavano pascoli e pozzi per le loro pecore, e all’occorrenza cercavano anche di fare provvista di cereali razziando i campi egiziani ben coltivati: è che spesso, per questi gruppi transumanti di cananei, finiva male, perché l’esercito egiziano, quando li intercettava o li annientava (se tentavano di opporre resistenza) o li costringeva alla sottomissione, alla schiavitù, ai lavori forzati.

     Gli scrivani del codice Priester” [del codice sacerdotale] tornati dall’esilio e divenuti classe dirigente della nuova Nazione nata con l’incentivo dell’Editto di Ciro [538 a.C.] capiscono subito la gravità di questa situazione [del malcontento, della motivata disaffezione] e si rendono conto della necessità di affrontare con determinazione e con serietà [non furbescamente] il problema degli ebionim [dei diseredati”]. Se si voleva creare davvero uno Stato, gli ebionim andavano integrati: come poteva esistere uno Stato senza popolo? Come poteva esistere uno Stato senza un popolo che ne riconoscesse la Legge? Gli scrivani del codice Priester” [del codice sacerdotale] capiscono che l’integrazione degli ebionim [dei diseredati”] sarebbe potuta avvenire solo se essi avessero trovato dei motivi (delle ragioni valide) per riconoscersi a pieno titolo come gruppo sociale nel vero collante della Nazione, cioè nella Scrittura [così come ci si riconoscevano gli eredi dei deportati chiamati ad essere la nuova classe dirigente].

     Con questo intento gli scrivani del codice Priester” [del codice sacerdotale] costruiscono il canone giudaico-palestinese prendendosi la responsabilità [come dettava il proclama di Amos”] di intervenire sui testi [completando, legando, commentando, riscrivendo] cercando di mettere in ordine tutto il materiale [dando forma ai Libri del Pentateuco, ai Libri dei profeti anteriori e posteriori] nello spirito dell’esilio babilonese, secondo i dettami dello stile del proclama di Amos e anche, soprattutto, in funzione del problema degli ebionim, dei diseredati, i quali si trovavano in difficoltà a capire una Scrittura, a conoscere una Legge, composta nell’ambito di un’esperienza – a stretto contatto con la cultura mesopotamica – che non avevano vissuto. Gli ebionim avevano vissuto un’altra esperienza, più drammatica ancora dei deportati a Babilonia: l’esperienza della continua e dolorosa transumanza tra l’Egitto e la terra di Canaan. Gli Egiziani per gli ebionim cananei erano fondamentalmente dei nemici, dei carnefici [in molte occasioni], tuttavia essi avevano interiorizzato molti aspetti della civiltà egizia con la quale erano (nel bene e nel male) sempre stati in contatto.

     Bisogna dire anche che i Regni ebraici, dai tempi di Salomone, avevano sempre avuto a che fare con la potente nazione egiziana [Salomone aveva sposato le figlie del Faraone per garantire la pace in quell’area] e di questi rapporti culturali ne era rimasta traccia evidente anche nella mente dei membri della classe dirigente che era stata deportata a Babilonia e di conseguenza si riconoscevano tracce di riferimenti intellettuali di cultura egizia tanto nella Scrittura quanto nei pensieri degli scrivani del codice Priester” [del codice sacerdotale].

     Quindi gli scrivani del codice Priester” [del codice sacerdotale] sono stati capaci di compiere una straordinaria mediazione intellettuale in modo che tanto la cultura babilonese [che aveva caratterizzato l’esperienza dell’esilio delle classi dirigenti] quanto la cultura egizia [che aveva caratterizzato l’esperienza della transumanza degli ebionim verso la valle del Nilo] potessero convivere nel processo di revisione [di canonizzazione] della Scrittura che si apprestavano a fare per dare un aspetto normativo, legislativo, il più possibile unitario al nascente Regno giudaico.

     Gli scrivani del codice Priester” [del codice sacerdotale] sono stati capaci di inserire nel testo dei vari Libri delle motivazioni positive perché tutte le varie componenti sociali potessero riconoscersi nel nuovo Stato ebraico nato con l’Editto di Ciro. Gli scrivani del codice Priester” [del codice sacerdotale] per favorire la nascita del nuovo Stato degli Ebrei disegnato dall’Editto di Ciro devono creare i presupposti per garantire l’unità nazionale: per raggiungere questo obiettivo ritengono sia necessario intervenire sui testi della Scrittura e sulla forma da dare al canone (all’indice dei Libri della Bibbia).

     L’intervento degli scrivani del codice Priester” [del codice sacerdotale] sui testi della Scrittura determina alcune [famose] questioni che caratterizzano il movimento della sapienza poetica beriticae che incontreremo strada facendo.

     La prima di queste questioni s’intitola: La scoperta della Legge da parte del re Giosia e questo è il primo tassello su cui è stata impiantata una piattaforma sulla quale si sono poggiati i pilastri dell’unità nazionale del nuovo Stato giudaico. Durante la cerimonia d’insediamento la classe dirigente del nuovo Stato si presenta schierata attorno all’altare del Tempio [l’unico lavoro di ristrutturazione che viene fatto con soldi babilonesi] e, in questa occasione, il popolo degli ebionim, riunito sulla spianata del Tempio, insorge – urlando a gran voce – invocando la torah, esigendo che si rispetti il concetto contenuto in questo termine: chiedendo che la Legge sia uguale per tutti. Gli scrivani del codice Priester” [del codice sacerdotale], assurti a nuova classe dirigente, promettono solennemente [davanti all’altare del Tempio] di riscrivere il testo della Legge che era stato composto a Babilonia: promettono di impegnarsi a scrivere una seconda versione della Legge, e noi sappiamo che a questa dicitura corrisponde il termine greco deuteronomio” [deuteros significa secondo, nomos significa legge”]. Noi sappiamo anche che il quinto Libro del Pentateuco s’intitola appunto Libro del Deuteronomio e la forma che ancora oggi ha questo Libro gli è stata data dagli scrivani del codice Priester” [del codice sacerdotale] proprio in questo momento storico, al ritorno dall’esilio sull’onda di questa delicata situazione sociale, politica, religiosa.

     Mentre gli scrivani del codice Priester” [del codice sacerdotale] promettono solennemente (davanti all’altare del Tempio) che s’impegneranno a scrivere una seconda versione della Legge (un deuteronomio), il popolo degli ebionimscandisce ad alta voce il nome di Giosia. Perché avviene questo, e chi è questo personaggio evocato dal popolo? Gli scrivani del codice Priester” [del codice sacerdotale], assurti a nuova classe dirigente, capiscono che è necessario, prima di tutto, ricominciare – nello stile degli antichi scrivani di corte – a produrre le Cronache del Regno e a darne pubblica lettura davanti al popolo, ma soprattutto capiscono che è necessario rimettere mano (nel codificare il canone della Scrittura) ai Libri dei profeti, in particolare ai Libri dei profeti anteriori e, nello specifico – nel sentire scandire il nome di Giosia – ai Libri dei Re. L’intervento sul testo dei Libri dei Re – capiscono gli scrivani del codice Priester” [del codice sacerdotale] – può risultare [e risulterà] determinante per avviare il processo di unità nazionale e per portare gli ebionim a riconoscersi, a pieno titolo, nel nuovo Stato. Per giunta dobbiamo capire che il materiale della Letteratura dei profeti [tanto anteriori quanto posteriori”] composto a Babilonia dagli scrivani d’Israele [soprattutto da quelli della seconda generazione] non era ancora ordinato in Libri, era stato raccolto non propriamente con un ordine preciso, non in un canone. Quindi sono gli scrivani del codice Priester” [del codice sacerdotale] che – subito dopo l’esilio – danno una forma [molto vicina a quella che hanno oggi] ai Libri dei profeti anteriori compresi i due Libri dei Re.

     Chi è Giosia, chi è questo personaggio che viene invocato a gran voce dal popolo e su cui puntano l’interesse gli scrivani del codice Priester” [del codice sacerdotale]? Giosia è un re, uno degli ultimi re di Giuda che governa lo Stato ebraico del sud tra il 640 e il 610 a.C. [una ventina d’anni prima dell’inizio dell’esilio a Babilonia] in un momento di pausa in cui, sul territorio della terra di Canaan gli Assiri stavano perdendo il potere e i Babilonesi non erano diventati ancora una grande potenza. In questo momento di passaggio tra il dominio dell’impero assiro e dell’impero babilonese (tra il 640 e il 610 a.C.) sulla terra di Canaan il re Giosia tenta di riunificare il Regno d’Israele sotto un’unica nazione. Ma soprattutto Giosia vuole avviare una riforma religiosa di carattere legislativo: ed è proprio per questo motivo che viene ricordato facendo anche ricorso alla leggenda. Ed è proprio intorno alla leggenda legata alla figura di Giosia – capiscono gli scrivani del codice Priester” [del codice sacerdotale] – che può essere trovata una base ideale comune su cui possa poggiarsi il corpus del nuovo Deuteronomio, della nuova Legge, uguale per tutti.

     Il popolo degli ebionim, riunito sulla spianata del Tempio, scandendo il nome di Giosia chiede che ci si ricordi di un famoso episodio di carattere leggendario: La scoperta della Legge da parte del re Giosia. Se una Legge ci deve essere: per il popolo degli ebionimquesta Legge si deve legare al nome, alla storia, alla leggenda di Giosia.

     Nell’abbondante materiale scritto proveniente da Babilonia che riguardava la Letteratura dei profeti anteriori, con particolare riferimento ai Libri dei Re, gli scrivani della seconda generazione in esilio avevano preso in considerazione, nel loro midrash, solo i personaggi che, secondo loro, erano degni di essere ricordati, cioè: Davide, Salomone e soprattutto i due colossi del profetismo anteriore, Elia e Eliseo e un’altra figura di re che presto incontreremo ma che questa sera non citiamo neppure per non fare confusione, ma che avremo modo di conoscere.

     Gli scrivani del codice Priester” [del codice sacerdotale], tornati a Gerusalemme, si sentono in dovere di attuare – di fronte al popolo degli ebionim– ciò che gli scrivani della seconda generazione di deportati a Babilonia non avevano sentito la necessità di fare: cominciano a scrivere le Cronache del nuovo Stato giudaico raccontando, senza inibizioni, la storia dei due Regni, d’Israele e di Giuda, in cui (dopo la morte di Salomone) si era divisa la Nazione degli Ebrei. Ecco che, nella Scrittura, nei Libri dei profeti anteriori, entrano in scena le figure dei re che si sono succeduti al comando dei due Stati fino alla caduta di Gerusalemme e alla deportazione a Babilonia.

     Dobbiamo sapere che le Cronache venivano lette, periodicamente, davanti alla spianata del Tempio e il popolo era chiamato – durante queste letture pubbliche – a far sentire la sua voce, ad approvare o a disapprovare. È così che gli scrivani del codice Priester” [del codice sacerdotale]possono costruire una cornice che inseriscono nel testo che diventa il Secondo Libro dei Re. All’interno di questa cornice spicca – con l’approvazione popolare – la figura di Giosia e il racconto [leggendario] della scoperta della Leggediventa una realtà: è come se si attualizzasse.

     Questo racconto diventa la forma [il primo anello] all’interno della quale poter inserire il contenuto del nuovo Deuteronomio che poi – con poche varianti – rimane quello prodotto a Babilonia: ecco il cosiddetto compromesso deuteronomico sulla figura di Giosia. Secondo questo compromesso gli ebionimsi riconoscono nella forma data dalla cronaca che entra nel testo del Secondo Libro dei Re per cui Giosia aveva migliorato le condizioni economiche del popolo tanto che il popolo poteva fare un’offerta per il Tempio (e questo è ciò che auspicano gli ebionimnel presente). Giosia aveva imposto il rispetto della Legge uguale per tutti dopo che il testo della Legge viene ritrovato (secondo la leggenda) miracolosamente nel Tempio: gli ebionimnel presente auspicano che la nuova Legge si ricolleghi a quella Legge. Giosia rinnova la berit, il patto, con la celebrazione della Pasqua e con l’avvio di una riforma religiosa che dovrebbe essere riattualizzata per dare, nel nuovo Stato giudaico, maggiore dignità ai poveri, ai diseredati.

     Gli scrivani del codice Priester” [del codice sacerdotale] fanno del loro meglio per assemblare questi elementi e per tradurli in Scrittura, in Cronaca, in testo da inserire nel Secondo Libro dei Re e in più attribuiscono a Giosia tutta una serie di regole (contro l’idolatria, di moralizzazione dei costumi, di umanizzazione della religione) di ordine pubblico: lo Stato doveva essere governato se non si voleva che il castigo del Signore si riabbattesse su l’intero Israele.

     Leggiamo che cosa dice il testo (ai capitoli 22 e 23) del Secondo Libro dei Re di cui stiamo parlando: questo testo [come vedete nell’indicazione dei paragrafi] lo troviamo pari pari nel Secondo Libro delle Cronache [un tema, quello delle Cronache, o per meglio dire delle Nuove cronache, che dobbiamo chiarire meglio, strada facendo].

LEGERE MULTUM….

Secondo Libro dei Re   22, 1-20  23, 1-30

Giosia, re di Giuda (vedi 2 Cronache 34,1-2)

Giosia divenne re all’età di otto anni e regnò per trentun anni a Gerusalemme. Sua madre si chiamava Iedida, era figlia di Adaia e veniva da Boscat. Giosia fece la volontà del Signore [era il servo del Signore] e seguì l’esempio del suo antenato Davide, senza mai prendere una strada diversa (Gli scrivani mettono in evidenza la continuità tra Davide e Giosia).

Il sommo sacerdote ritrova il libro della legge (vedi 2 Cronache 34,8-18)

Nel diciottesimo anno del suo regno, Giosia mandò al tempio il segretario Safan, figlio di Asalia e nipote di Mesullam, con quest’ordine: «Va’ dal sommo sacerdote Chelkia e fagli contare il denaro che i custodi dell’ingresso hanno raccolto dal popolo come offerta al tempio. Chelkia dovrà consegnare questo denaro ai direttori dei lavori nel tempio, perché questi possano a loro volta pagare gli operai addetti alle riparazioni: falegnami, costruttori e muratori. Si dovranno inoltre comprare legname e pietre squadrate per fare le riparazioni. Non si dovranno eseguire controlli sul denaro consegnato loro, perché si comportano onestamente» (Gli scrivani mettono in evidenza l’esigenza sempre presente di ristrutturare il tempio).

Il sommo sacerdote Chelkia comunicò al segretario Safan: «Nel tempio ho trovato il libro della legge (il Deuteronomioe lo consegnò a Safan. Egli lo lesse, poi andò a far rapporto al re: «I tuoi funzionari hanno versato ai direttori dei lavori nel tempio il denaro che si trovava lì». Poi aggiunse: «Il sommo sacerdote Chelkia mi ha dato questo libro». E lo lesse al re.

Giosia fa consultare la profetessa Hulda (vedi 2 Cronache 34,19-28)

Quando udì quel che diceva il libro della legge, il re, turbato, si strappò i vestiti. Diede disposizioni al sacerdote Chelkia, ad Achikam, figlio di Safan, ad Acbor figlio di Michea, al segretario Safan e al ministro Asaia. Disse loro: «Andate a interrogare il Signore, per me e per tutto il popolo di Giuda, riguardo al contenuto del libro che è stato ritrovato. Il Signore è certamente in collera con noi, perché i nostri padri non hanno ascoltato quel che è scritto in quel libro e non l’hanno messo in pratica».

Il sacerdote Chelkia, Achikam, Acbor, Safan e Asaia andarono da una profetessa di nome Hulda, che abitava nel quartiere nuovo di Gerusalemme. Era la moglie di un certo Sallum, figlio di Tikva e nipote di Carcas, guardarobiere del tempio. Le spiegarono ogni cosa. Hulda diede loro un messaggio da parte del Signore, Dio d’Israele, per il re. La parola del Signore era questa: «Io manderò una sciagura su Gerusalemme e sui suoi abitanti, come è scritto nel libro che il re di Giuda ha letto. Essi mi hanno abbandonato e hanno onorato altre divinità. Hanno provocato il mio sdegno con gli idoli da loro fabbricati. Per questo sono in collera contro Gerusalemme, e non è più possibile frenare la mia indignazione». La profetessa continuò: «Al re di Giuda, che vi ha mandati qui a interrogare il Signore, riferite anche queste parole del Signore, il Dio d’Israele: Hai ascoltato le minacce di rovina e di maledizione che ho pronunziato contro Gerusalemme e i suoi abitanti; ti sei umiliato, hai riconosciuto la tua colpa, hai pianto davanti a me e ti sei strappato i vestiti: Io, il Signore, ho ascoltato la tua preghiera. Ti lascerò morire in pace: non vedrai la rovina che manderò su Gerusalemme».  Chelkia e gli altri riferirono al re questo messaggio.

Impegno di Giosia e del popolo con Dio (vedi 2 Cronache 34,29-32)

Il re Giosia radunò i responsabili di Gerusalemme e della regione di Giuda. Si recò al tempio, accompagnato dalla popolazione di Giuda e da tutti gli abitanti di Gerusalemme: sacerdoti, profeti e gente del popolo di ogni condizione (Si sottolinea la partecipazione degli “ebionim”). In loro presenza lesse il libro dell’alleanza (della berit), che era stato trovato nel tempio. In piedi, accanto alla colonna, prese davanti al Signore il solenne impegno di seguirlo, di ubbidire alle sue leggi, ai suoi comandamenti e alle sue prescrizioni, con tutto il cuore e con tutta l’anima, e di mettere in pratica tutto quel che era scritto nel libro dell’alleanza. Il popolo si unì anch’esso all'impegno assunto da Giosia.

Riforma religiosa di Giosia (vedi 2 Cronache 34,3-5)

Giosia ordinò poi al sommo sacerdote Chelkia, ai suoi collaboratori e ai custodi dell’ingresso di buttar fuori dal tempio tutti gli oggetti costruiti per il culto del dio Baal, della dea Asera e degli astri. Li fece bruciare fuori Gerusalemme, nei campi del Cedron, e ne fece portare le ceneri a Betel. Mandò via quella pretaglia che era stata istituita dai suoi predecessori per offrire sacrifici nei santuari sulle colline attorno alle città della regione di Giuda e nei dintorni di Gerusalemme. Allontanò chiunque offriva sacrifici al dio Baal, alla Luna e agli astri. Tolse dal tempio il palo sacro della dea Asera e lo fece portare fuori Gerusalemme, nei pressi del torrente Cedron.

Qui, lo fece bruciare fino a ridurlo in cenere; la cenere fu gettata nella fossa comune. Nel tempio fece abbattere i locali degli addetti alla prostituzione sacra, dove alcune donne tessevano vesti per il culto della dea Asera.

Giosia fece venire a Gerusalemme i sacerdoti di tutte le città di Giuda, da Gheba a Bersabea, da un capo all’altro del regno. Sconsacrò tutti i santuari sulle colline, dove prima i sacerdoti bruciavano incenso.

Distrusse anche i santuari alla porte della città di Gerusalemme, in particolare quello a sinistra della porta di Giosuè, antico governatore della città. Ai sacerdoti che prima erano stati nei santuari sulle colline non fu permesso di avvicinarsi all’altare del Signore a Gerusalemme; insieme con i loro fratelli, cioè con gli altri sacerdoti, potevano soltanto mangiare il pane non lievitato. Giosia sconsacrò la fornace che si trovava nella valle di Ben-Innom, perché nessuno potesse più bruciare in sacrificio al dio Moloc un figlio o una figlia.

Fece portar via anche i cavalli sacri al dio Sole, che i suoi predecessori avevano collocato all’ingresso del tempio, nei cortili presso la stanza dell’eunuco Netan-Melech. Ordinò di bruciare anche i carri dedicati al Sole. Giosia distrusse anche gli altari che i suoi predecessori avevano costruito sul tetto della stanza di Acaz e quelli che Manasse aveva costruito nei due cortili del tempio; li distrusse e ne fece gettare le macerie nel torrente Cedron. Sconsacrò i santuari sulle colline a est di Gerusalemme, a sud del monte della Distruzione. Questi santuari erano stati costruiti da Salomone, re d’Israele, per Astarte, abominevole divinità degli abitanti di Sidone, per Camos, abominevole dio dei Moabiti e per Milcom, vergognosa divinità degli Ammoniti. Demolì le stele, fece i abbattere i pali sacri e fece coprire con ossa umane i luoghi dove si trovavano.

Giosia estende al Nord la riforma religiosa (vedi 2 Cronache 34,6-7)

Giosia demolì anche l’altare del santuario sulla collina a Betel, fatto costruire da Geroboamo figlio di Nebat, quello che fece peccare gli Israeliti. Distrusse altare e santuario, poi bruciò e ridusse tutto in cenere, anche il palo sacro della dea Asera. In quell’occasione, Giosia si guardò intorno e vide alcune tombe sul monte. Mandò a prelevare le ossa di quelle tombe, le bruciò sull’altare e, in questo modo, lo sconsacrò. Si avverò così il messaggio del Signore riferito da un antico profeta (qui il testo è di difficile comprensione).

Giosia chiese: - Che cos’è quel monumento che vedo laggiù?

Gli abitanti della città gli risposero: - È la tomba del profeta venuto dal regno di Giuda a preannunziare quel che tu hai appena fatto all’altare di Betel.

Giosia disse: - Allora lasciatela stare: nessuno tocchi le ossa del profeta.

Così le sue ossa furono risparmiate, insieme con quelle del profeta venuto da Samaria.

Giosia eliminò anche tutti i santuari sulle colline, che i re d’Israele avevano costruito nelle città della regione di Samaria, provocando l’indignazione del Signore. Giosia ripeté dappertutto quel che aveva fatto a Betel. Sugli altari di ogni santuario fece uccidere i sacerdoti e bruciò ossa umane. Infine rientrò a Gerusalemme.

Giosia fa celebrare la Pasqua (vedi 2 Cronache 35,1.18-19)

Il re Giosia ordinò a tutto il popolo: «Celebrate la Pasqua per il Signore, vostro Dio, com’è scritto sul libro dell’alleanza (il Deuteronomio)». Per tutto il tempo dei re d’Israele e di Giuda la Pasqua non era più stata celebrata: l’ultima volta era stata celebrata al tempo in cui in Israele governavano i giudici. La Pasqua per il Signore fu dunque nuovamente celebrata nel diciottesimo anno di regno di Giosia.

Altre notizie sul regno di Giosia (vedi 2 Cronache 35,20-27; 36,1)    

Giosia fece anche sparire dal territorio di Giuda e da Gerusalemme quelli che praticavano incantesimi, quelli che consultavano spiriti, le divinità familiari, gli idoli e altre cose ugualmente detestabili. Giosia voleva così mettere in pratica le leggi scritte nel libro che il sacerdote Chelkia aveva trovato nel tempio Prima di Giosia non c’era stato alcun altro re che fosse tornato al Signore con tutto il cuore; con tutta la mente e con tutte le forze, seguendo l’intera legge di Mosè. Neppure dopo, ce ne fu un altro come lui.

Eppure il Signore non poté placare la ardente ira contro il regno di Giuda: Manasse lo aveva troppo esasperato. Perciò il Signore disse: «Scaccerò lontano da me anche il popolo del regno di Giuda, come ho fatto col popolo del regno d’Israele. Respingerò Gerusalemme, la città che mi ero scelta, la città cui avevo detto: Lì, manifesterò la mia presenza!».

Gli altri fatti della vita di Giosia sono scritti nella Storia dei re di Giuda. Durante il suo regno, il re d’Egitto, il faraone Necao marciò verso il fiume Eufrate, per raggiungere il re d’Assiria. Il re Giosia si diresse contro di lui, ma, a Meghiddo, Necao lo uccise appena lo vide. I suoi ufficiali lo misero già cadavere su un carro e lo trasportarono a Gerusalemme dove lo seppellirono nella sua tomba. Il popolo consacrò re suo figlio Ioacaz, versandogli olio sul capo.

     Il testo, nel finale, racconta molto sommariamente la morte in battaglia di Giosia ucciso dagli Egiziani, ma questa storia – come sappiamo – serve da cornice: è una forma per presentare tanto il Libro del Deuteronomio, che è il vero capolavoro degli scrivani del codice Priester” [del codice sacerdotale], quanto per mettere in evidenza l’asse preferenziale tra il re e il popolo dei diseredati, visto che Giosia è una figura di monarca gradita agli ebionime, quindi, sono disposti ad accettare la Legge se è quella ritrovata nel Tempio al tempo di Giosia. Ma siamo appena all’inizio di una lunga riflessione: questa sera abbiamo solo presentato i primi dati.

     E ora concludiamo questo itinerario così come lo abbiamo incominciato, con il romanzo Resurrezione: abbiamo lasciato in sospeso l’incipit – un vero pezzo da antologia – e ora, anche se la primavera non è ancora nell’aria, lo leggiamo:

LEGERE MULTUM….

Leone Tolstòj, Resurrezione (1889-1899)

Invano gli uomini, ammucchiati a centinaia di migliaia in un piccolo spazio, si sforzavano di isterilire la terra su cui vivevano; invano la ricoprivano di pietre affinché nulla vi crescesse; invano strappavano anche il più piccolo filo d’erba e affumicavano l’aria col carbon fossile e la nafta; invano tagliavano alberi e scacciavano animali e uccelli. La primavera era sempre primavera, anche tra le mura della città. Il sole scaldava, l’erba, dove non la raschiavano, cresceva d’un bel verde vivido; e cresceva non solo nelle aiuole dei viali, ma anche fra le lastre di pietra. I pioppi, le betulle, i pruni stendevano le loro foglie vischiose e profumate, i tigli si gonfiavano di gemme pronte a schiudersi. Come sempre in primavera, le gracchie, i passeri e i colombi preparavano lietamente i loro nidi, e le mosche, riscaldate dal sole, ronzavano sulle pareti.

Le piante, gli uccelli, gli insetti e i bambini erano lieti. Soltanto gli uomini – i grandi, gli adulti – continuavano a ingannare e a tormentare se stessi e gli altri. Gli uomini, che non apprezzavano né quel mattino di primavera né quel divino splendore dell’universo, creato per il bene dei viventi e per predisporli tutti alla pace, alla concordia e all’amore; gli uomini, che consideravano sacro e importante soltanto ciò che essi stessi avevano inventato per dominar gli uni sugli altri.

E così, nell’ufficio del carcere provinciale, il fatto ritenuto sacro e importante non era che a tutti, animali e uomini, fosse concessa la divina gioia della primavera; consisteva in questo, invece: la vigilia era giunta in quell’ufficio una carta bollata e numerata, con l’ordine di condurre in tribunale, la mattina del giorno successivo, 28 aprile, alle ore nove, tre detenuti – due donne e un uomo – che si trovavano in attesa di giudizio. Una, la principale imputata, doveva esservi condotta separatamente.                                       

Appunto in osservanza a quell’avviso, il 28 aprile mattina, alle otto, un vecchio carceriere entrò nel corridoio oscuro e fetido del reparto femminile. Subito dopo comparve anche la carceriera della sezione, una donna dal viso affaticato e dai capelli grigi, che indossava una camicetta con le maniche ornate di galloni e una cintura filettata in azzurro.

– Cercate la Màslova? – domandò e s’avvicinò con lui a una delle porte che davano sul corridoio.

Il carceriere, con un rumore di ferracci, introdusse una chiave nella serratura della porta, che nell’aprirsi lasciò uscire un lezzo ancor più fetido di quello del corridoio; poi gridò: – Màslova, in tribunale! – E, richiusa la porta, rimase ad aspettare.

Persino nel cortile della prigione si respirava l’aria fresca e vivificante dei campi, portata dal vento in città. Ma in quel corridoio l’aria era opprimente, mefitica impregnata dell’odore di escrementi, di catrame e di marcio. Nessuno poteva respirarla senz’essere subito preso da un senso di scoraggiamento e di tristezza. Anche la sorvegliante, per quanto ci fosse abituata, ne rimase colpita. Era venuta dal cortile e, appena entrata nel corridoio, s’era sentita stanca e sonnolenta.

Nella camerata s’udiva un gran tramestio; voci di donne e passi di piedi scalzi.

– Su, fa’ in fretta, Màslova, spicciati! – gridò il vecchio carceriere attraverso la porta. Poco dopo, una donna giovane, non alta, e dal petto rigoglioso, uscì dalla camerata con passo deciso; sotto una casacca grigia indossava una camicetta e una gonna bianche. Aveva calze di tela e scarpe grossolane da detenuti; un fazzoletto bianco, annodato intorno al capo, lasciava sfuggire, evidentemente a bella posta, ciocche ondulate di capelli neri. Il volto della donna aveva quel pallore caratteristico di chi è vissuto a lungo in reclusione, che ricorda i germogli delle patate in cantina.

     La Màslova va in tribunale dove dovremmo trovare la scritta che rivela il carattere di un luogo simile: La Legge è uguale per tutti. Quindi, a questo punto, dovremmo incontrare sul nostro cammino il Libro del Deuteronomio in modo da riflettere sul fatto se sia proprio vero che la Legge è uguale per tutti. Perché usiamo il condizionale? Perché non si può – ci suggeriscono gli scrivani del codice Priester” [del codice sacerdotale] – entrare nel territorio del Libro del Deuteronomio senza passare per i luoghi del Libro di Geremia prima e del Libro di Isaia dopo. Sono luoghi impervi ma non desolati: sapete perché?

     Ora non c’è tempo per rispondere, c’è solo tempo per dire: correte, la Scuola è qui…

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Gennaio 25, 2008