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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA RINASCIMENTALE ALL’ALBA DELL’ETÀ MODERNA SI AFFERMA IL GENERE LETTERARIO DELL’ADAGIO COME ELEMENTO PROPEDEUTICO ALLA PROMOZIONE DELLA LETTURA ...

Lezione N.: 
20

ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34  -  «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»

PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE

DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA

Prof. Giuseppe Nibbi

La sapienza poetica e filosofica agli albori dell’età moderna         22–23-24  marzo 2017

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA RINASCIMENTALE ALL’ALBA DELL’ETÀ MODERNA

SI AFFERMA IL GENERE LETTERARIO DELL’ADAGIO COME ELEMENTO PROPEDEUTICO

ALLA PROMOZIONE DELLA LETTURA  ...

     Questo è il ventesimo itinerario del nostro viaggio di studio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica rinascimentale agli albori dell’età moderna” e con l’inizio della primavera, come avevamo auspicato, siamo sul punto di entrare dentro la Cappella Sistina per osservare le immagini affrescate da Michelangelo sul soffitto di questo famoso edificio, anche se il verbo “osservare” non si addice propriamente all’esercizio che stiamo per intraprendere.

     È dall’autunno scorso [sono, quindi, più di cinque mesi] che siamo in attesa di poter varcare la soglia della Cappella più famosa del mondo, ma papa Giulio II ha atteso cinque anni prima di poter dare la commissione dell’affrescatura del soffitto della Sistina a Michelangelo e poi altri quattro anni e mezzo prima di vedere il lavoro finito: per certe cose ci vuole pazienza.

     L’attesa, che era prevista, non è stata vana perché - studiando l’itinerario della formazione culturale di Michelangelo - abbiamo potuto fare l’inventario dei concetti che costituiscono il lascito intellettuale che abbiamo ereditato da quel periodo [così osannato] che chiamiamo “Rinascimento” e che non possiamo, non dobbiamo e non vogliamo ridurre a una superficiale catalogazione di immagini, etichettate convenzionalmente con la parola “bellezza”: per usufruire del bello [kallas] - concetto che non può stare senza la bontà [agata] e la giustizia [axia] - è necessario capire il senso delle cose [paideia]. Il Rinascimento è un complesso movimento culturale [che parla il greco, il latino, l’ebraico, l’arabo] che ha inaugurato l’Età moderna immettendo sulla scena della Storia del Pensiero Umano una serie di idee significative che possono essere sintetizzate nella parola-chiave “autonomia” [la capacità di investire in intelligenza].

                 Il 31 ottobre 1512 [e lo abbiamo ripetuto molte volte] viene ufficialmente inaugurata l’opera di affrescatura del soffitto della Cappella Sistina e meno di quattro mesi dopo, nel febbraio del 1513, papa Giulio II muore. Le sue ultime parole sono: «Io vado, ma sono convinto che San Pietro non mi farà entrare e mi rimanderà indietro. Non ho giustificazioni, ma vorrei vedere Lui qui in terra a governare la Chiesa di oggi».           

     Qualcuno ha tenuto conto dell’affermazione di Giulio II in punto di morte [«Io vado, ma sono convinto che San Pietro non mi farà entrare e mi rimanderà indietro»] e ha preso lo spunto per scrivere un libretto intitolato Iulius exclusus e coelo [Giulio cacciato dal cielo] il cui autore risulta essere anonimo. Nel 1517 questo libretto, sempre con lo stesso titolo, viene ristampato a Basilea in un momento di grande contestazione contro le gerarchie ecclesiastiche.

     Per lo stile con cui è scritto e le allusioni che contiene questo testo viene attribuito ad uno studioso che si chiama Erasmo da Rotterdam [e penso che tutte e tutti voi abbiate sentito nominare questo personaggio]. Il fatto è che Erasmo da Rotterdam ha sempre negato [ed era uno che solitamente non diceva le bugie] di aver scritto questo testo che nel titolo fa esplicito riferimento a Giulio II. Erasmo sostiene che qualcuno [qualche suo studente o qualche suo collega] si è servito del suo pensiero, critico nei confronti del comportamento di molti ecclesiastici, per comporre questo opuscolo polemico che testimonia il clima conflittuale che si è venuto a determinare in Europa all’interno della cristianità agli albori dell’Età moderna: un clima precorritore di funesti avvenimenti e, contemporaneamente, anche di un significativo dibattito intellettuale del quale noi vogliamo occuparci.

     E adesso leggiamo un frammento tratto dall’opuscolo, di autore anonimo [attribuito a Erasmo da Rotterdam], intitolato Iulius exclusus e coelo [Giulio cacciato dal cielo]: è un breve brano che fa riflettere.

LEGERE MULTUM….

Anonimo, Iulius exclusus e coelo [Giulio cacciato dal cielo]

Ci sono certamente anche motivi pratici dietro le degenerazioni degli ecclesiastici. Fin dal tempo di Costantino gli uomini di Chiesa hanno cominciato ad accettare gli onori che gli ha offerto il potere temporale. Dopo gli onori hanno cominciato ad accettare le ricchezze, prima, a dire il vero, per aiutare i poveri, ma poi perché le ricchezze costituiscono lo strumento più adatto ad acquisire e a mantenere il potere. Tanto che, alla fine, come succede ai nostri giorni, il potere è stato cercato per se stesso a tal punto che un vescovo, oggi, non si sente vescovo se non ha un potere temporale da gestire come se il suo primo compito non fosse quello di essere pastore di anime. E quindi oggi un vescovo preferisce trionfare come un monarca piuttosto che custodire il gregge come fanno i profeti. E sappiamo che con il potere temporale arriva l’avidità, l’ambizione, il dispotismo e lo spirito evangelico viene completamente alienato.

     E adesso dobbiamo incontrare Erasmo da Rotterdam, ma, non dovevamo entrare nella Cappella Sistina? Sì, ma ormai il lavoro è finito e non scappa, mentre Erasmo sta dicendo: «Non vorrete liquidarmi accostando il mio nome a questo opuscolo che riporta cose ovvie quando, anche con la mia opera esegetica, ho contribuito anch’io a dare un senso all’impresa di affrescatura del soffitto della Sistina, e papa Giulio II, finché è vissuto, ha sempre apprezzato il mio lavoro di magister». Erasmo ha ragione e, quindi, dobbiamo procedere con ordine, e lo dobbiamo incontrare.

     Il pensiero elaborato dalla corrente neoplatonica più feconda culturalmente, quella “pedagogico-filologica” fondata da Marsilio Ficino e Pico della Mirandola [un pensiero del quale, in questi mesi, abbiamo studiato gli aspetti fondamentali], contribuisce alla nascita di un movimento intellettuale che in Europa diventa l’erede di questa corrente e che ha preso il nome di “Umanesimo utopico”, ed Erasmo da Rotterdam è uno dei rappresentanti più significativi dell’Umanesimo utopico.

     Che cosa vuol dire “utopico” e che cosa significa “utopia”? Per rispondere a questi interrogativi è meglio, didatticamente parlando, attendere l’incontro con un altro personaggio importante [certo Thomas More o Tommaso Moro] che avverrà a breve ma, adesso, per procedere con ordine, incontriamo Erasmo. Chi è Erasmo da Rotterdam?

     Erasmo è nato nella città olandese di Rotterdam e il suo nome è, di conseguenza, rimasto strettamente legato al suo importante luogo d’origine.

     Oggi Rotterdam, città di circa 600 mila abitanti che si sviluppa lungo un ramo del delta comune del Reno e della Mosa, pur essendo a circa trenta chilometri dal mare [il Mar del Nord], è dotata del porto più attrezzato del mondo ed è interessante sapere che Rotte è il fiume sul quale è stata costruita una diga [“dam” in olandese, per cui Rotterdam significa “diga sul fiume Rotte”], e questo argine ha permesso ad un piccolo villaggio di pescatori di diventare - secondo un documento del 1328 - una fiorente e popolosa città.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con una guida dell’Olanda e navigando in rete andate a far visita alla città di Rotterdam facendo particolare attenzione alla basilica tardo-gotica di San Lorenzo [in costruzione dal 1412] posta in quello che era il cuore della città vecchia [prima della tragedia della seconda guerra mondiale]: le belle porte di bronzo della basilica sono opera dello scultore Giacomo Manzù... 

Di fronte alla chiesa c’è la statua di Erasmo [lì collocata nel 1622 opera di Hendrik de Keyser], buon viaggio...

     Ebbene, Erasmo è nato a Rotterdam intorno al 1466, e della sua infanzia noi sappiamo ben poco: quasi nulla di sua madre [figlia di un medico di nome Margherita], mentre di suo padre sappiamo che era un monaco che si chiamava Gerardo, e Gerardo  è anche il nome [Geert Geertsz] con cui Erasmo è stato battezzato. Il nome Erasmo ­- per la precisione Desiderius Erasmus Roterodamus - se lo è dato lui a trent’anni. Da bambino suo padre lo tiene con sé in convento e si preoccupa di allevarlo e di farlo studiare prima di farlo entrare nel seminario della città di Deventer [nel nord dell’Olanda] che è un rinomato centro di erudizione dove Erasmo [che ha voglia di studiare] acquisisce una vasta competenza sulla cultura classica, biblica e patristica. Erasmo eccelle nella disciplina filologica e quello del filologo diventa il suo lavoro. Nel 1492 viene ordinato sacerdote nel monastero agostiniano di Steyn, ma chiede la dispensa dalle celebrazioni e dai benefici ecclesiastici: vuole vivere una vita da laico e svolgere l’attività di insegnante [e questo è un indizio significativo in relazione al clima che si è determinato nella Chiesa: Erasmo vuole essere prete ma non appartenere alla casta ecclesiastica]. Nel 1494 viene assunto come segretario da Enrico di Bergen, l’arcivescovo di Cambrai [città dell’Artois, nel nord-est della Francia], ma, sebbene questo sia un buon posto di lavoro, un trampolino di lancio per fare carriera, l’anno dopo Erasmo si licenzia e va a Parigi dove s’iscrive alla facoltà delle Arti e si laurea in teologia: arricchisce ancor di più la sua cultura ma si rende anche conto che il movimento della Scolastica ha perso la sua spinta propulsiva [nelle Università domina il carrierismo, l’arrivismo, l’ambizione, l’opportunismo] e soprattutto capisce che gli studi sulle Opere degli autori classici [greci e latini] e sui testi dei Libri biblici vanno profondamente rinnovati secondo il nuovo indirizzo dato alla filologia dagli Umanisti [a cominciare da Lorenzo Valla, che abbiamo incontrato nel viaggio dello scorso anno] e in particolare da Marsilio Ficino e da Pico della Mirandola [che sono già morti ma le loro Opere circolano in Europa nonostante siano all’Indice dei Libri proibiti]. Dopodiché Erasmo comincia a viaggiare per l’Europa e si mantiene insegnando nelle varie Scuole che temporaneamente lo assumono.

     Nel 1499 è a Londra dove conosce e stringe amicizia con due personaggi di cui parleremo prossimamente: John Colet e Thomas More [Tommaso Moro]. Nel 1501 torna a Parigi e pubblica la prima edizione di un’opera che raccoglie un grande numero [all’inizio sono 818] di adagi [un adagio è un detto, un proverbio, una sentenza, una massima, un motto, un aforisma] e quest’opera è il frutto della grande erudizione di Erasmo che legge molto e sa raccogliere migliaia di citazioni, di proverbi, di epigrammi, di apologhi, di motti, tutti provenienti dalle Opere dei Classici [greci e latini] e dai Libri biblici. Quest’opera - che Erasmo inizialmente ha intitolato Adagiorum collectanea cioè Raccolta di adagi - si presenta come un grande glossario [un dizionario] che contiene i frutti della sapienza antica, tardo antica e medioevale. Quest’opera viene subito intercettata da Fedra Inghirami che la introduce nella biblioteca vaticana ed è molto apprezzata da papa Giulio II [che se ne fa leggere un paio di pagine ogni sera]. Nel 1506 Erasmo viene in Italia e gira in lungo e in largo per la penisola spostandosi da una città all’altra - sarebbe meglio dire trasferendosi da una Scuola all’altra - per conoscere gli Umanisti e per trarre suggerimenti dal loro lavoro [in Italia c’è un grande fervore di studi per merito della corrente pedagogico-filologica del neoplatonismo].

     Nel 1508, a Venezia, il famoso editore Aldo Manuzio stampa la seconda edizione della Raccolta di adagi di Erasmo, assai più ampia della prima, e la intitola Adagia. Successivamente, negli anni a venire, Erasmo continua ad aggiungere pensieri alla raccolta [da 818 diventano 4151] che viene ripubblicata nel 1515 con il titolo Adagiorum Chiliades cioè Raccolta di migliaia di adagi:  la pubblicazione completa degli Adagia è del 1536, l’anno della morte di Erasmo].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Conoscete un adagio, un detto, un proverbio, una sentenza, una massima, un motto... magari anche composto da voi?...

Scrivetelo per arricchire il glossario degli Adagia...

     L’opera Adagia ha inizio con “una dissertazione” di Erasmo che spiega la funzione che l’adagio [il proverbio, la sentenza, il motto, l’epigramma], in quanto genere letterario, ha avuto nella Storia della Letteratura greca, romana, ebraica, araba. Leggiamo, quindi, un brano di questa dissertazione che Erasmo ha posto come introduzione agli Adagia per spiegare il suo metodo di lavoro.

LEGERE MULTUM….

Erasmo da Rotterdam, Adagia [Dissertazione]

L’invito alla lettura di questa raccolta comporta una dissertazione introduttiva nella quale è bene spiegare l’importanza del virtuoso genere dell’adagio la cui etimologia deriva dal verbo [latino] “aio [dire, per cui “ad aio” significa “io dico a…”]”, la cui essenzialità, data dal meritorio esercizio della sintesi, fa di esso un testo esaustivo nella sua completezza quasi fosse un vero e proprio trattato con una sua piena autonomia.

Per esempio - e da qui voglio cominciare - il detto conosci te stesso, il più sublime degli adagi, per quanto sia breve, o proprio per questo, è come se fosse un Libro disceso dal cielo, perché il miracolo che la natura compie in un animale microscopico è maggiore di quello che può avvenire in un elefante; e sulla loro funzione Aristotele vede negli adagi le reliquie e le faville dell’antica sapienza filosofica, salvatesi dal naufragio per la loro brevità, lepidezza [piacevolezza arguta e ingegnosa], festosità; così come nel detto di Pitagora: I beni degli amici sono proprietà comune, è contenuto in embrione un adagio che fa da sommario all’etica della felicità umana.

Quando l’adagio viene usato a proposito si comporta come il riso quando compare al momento opportuno e come la musica quando allieta e non infastidisce.

La metafora, l’allegoria, il traslato, l’iperbole, le assonanze e i giuochi di parole sono gli elementi formali degli adagi: ne valorizzano l’essenza, ne sublimano l’esistenza. La mole del volume si giustifica col fatto che contiene migliaia di adagi per ognuno dei quali sono indicati la forma originale nella rispettiva lingua, gli autori e le opere in cui esso è collocato, l’interpretazione e i vari sensi ed eccezioni. Gli adagi sono poi classificati per argomenti che ne facilitano la ricerca in modo che non si proceda senza orientamento in una miniera di erudizione che non ha da essere fine a se stessa ma ad uso della riflessione e dello studio.

     Sono molti i commenti che potremmo fare dopo aver letto questo brano. Adesso dobbiamo dire che gli Adagia di Erasmo da Rotterdam riprendono, rinnovandola, una lunga tradizione “sapienziale” e perfezionano - in modo molto più efficace in termini filologici - un metodo “enciclopedico” che [in età antica, tardo-antica e medioevale] si era già espresso, e questo interesse assicura al “genere degli adagi” un futuro che si concretizza con grandi opere moderne che rincontreremo a suo tempo, a cominciare dai Saggi di Montaigne e dai Pensieri di Pascal.

     Ma quello che adesso dobbiamo sottolineare è un aspetto importante legato alla funzione pedagogica [e la corrente pedagogico-filologica del neoplatonismo di Marsilio Ficino e Pico della Mirandola ha lasciato il segno] che, secondo Erasmo, la raccolta degli Adagia deve avere: che cosa significa? Erasmo da Rotterdam ritiene che un adagio, un detto, un proverbio debba servire a far riflettere e ad istruire le masse popolari [anche perché gli adagi, i proverbi, i detti nascono in un contesto popolare] e, in particolare, devono istruire il popolo cristiano - tradizionalmente tenuto nell’ignoranza - perché le persone umili, semplici e incompetenti devono elevare la loro capacità di discernimento in particolare nei riguardi della Sacra Scrittura che ciascuno deve conoscere e capire. E nell’edizione degli Adagia del 1515 Erasmo - sempre ragionando sulla forma di questo particolare genere letterario - mette in evidenza quello che, secondo lui, è il vizio di fondo della cristianità: secondo Erasmo il Kerigma [il nocciolo del messaggio evangelico] e tutta la Letteratura dei Vangeli è stata subordinata alla logica del Diritto romano. La figura del papa per esempio, afferma Erasmo, ha assunto le stesse prerogative di monarca assoluto che ha un imperatore mentre nella Chiesa, sostiene Erasmo, bisogna dare la parola alle comunità dei credenti per costruire “la sinodalità” [syn odos, camminare insieme] perché la voce della Chiesa deve essere polifonica [corale] e non l’assolo di quel sovrano [spesso dispotico] che è il papa affiancato da quella istituzione verticistica e autoritaria che è il Sant’Uffizio, per cui, afferma Erasmo, la dottrina cristiana si è conformata all’atteggiamento che ha la legislazione romana spesso ammantata di ipocrisia [Erasmo - in proposito - cita Cicerone il quale a suo tempo denuncia il fatto che il potente di turno fa approvare leggi a suo vantaggio, ad personam, e Cicerone, come sapete, ci rimette la testa per difendere l’indipendenza della Magistratura]. Quindi, afferma Erasmo, il cristianesimo ha perso lo slancio propulsivo che il messaggio evangelico porta con sé e, di conseguenza, per Erasmo, è necessario dare una autonomia al messaggio evangelico con una riforma strutturale [la Chiesa deve essere sinodale] e culturale [le masse cristiane devono essere alfabetizzate]…e, come possiamo constatare, la parola-chiave “autonomia” [la capacità di investire in intelligenza] si conferma il termine più significativo agli albori dell’Età moderna.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

In biblioteca e navigando in rete trovate un gran numero di edizioni degli Adagia con volumi che ricalcano le varie pubblicazioni a partire da quella del 1501 con vari titoli – Modi di dire, Adagiorum collectanea [Raccolta di adagi], Adagiorum Chiliades [Raccolta di migliaia di adagi] – oppure con volumi che suddividono gli Adagia per argomenti [la guerra, la pace, la saggezza, la follia, la politica ...]...  

Se vi mettete in ricerca potete fare delle interessanti scoperte in proposito...

     Ma per renderci conto di che cosa sono gli Adagia [di quale sia lo stile e che cosa significhi fare ricerca filologica da parte di Erasmo] dobbiamo, con pazienza, leggerne alcune pagine, e quali pagine leggiamo? Leggiamo il testo di alcuni Adagia che, secondo il preziosissimo Epistolario di Fedra Inghirami, hanno fatto riflettere papa Giulio II [Fedra Inghirami ama spesso scrivere ai suoi corrispondenti per commentare i frutti della sua esperienza di bibliotecario e di lettore - questo (della sua esperienza da bibliotecario) è l’argomento più trattato nelle sue Lettere - e Fedra dà sempre delle indicazioni di lettura che gli vengono richieste dai suoi interlocutori].

     La considerazione, insieme al bibliotecario Fedra Inghirami, che dobbiamo fare [noi che ci occupiamo di Albafetizzazione e promuoviamo l’Alfabetofanìa, la manifestazione delle potenzialità dell’alfabeto] è che gli Adagia di Erasmo da Rotterdam sono anche, come abbiamo appena ricordato, un manuale in funzione della didattica della lettura e della scrittura. Certo che la proposta letteraria che il magister-filologo Erasmo ci presenta è molto impegnativa [cita centinaia di autori e di opere] ma lui si rivolge, in primo luogo, all’intelletto di coloro che devono promuovere l’alfabetizzazione e insegna loro a fare l’inventario - a cominciare dal titolo di un’opera della quale è bene conoscere l’esistenza e da una citazione, che contiene un concetto da capire che a sua volta rimanda a uno dei temi trattati nell’opera stessa - di un enorme numero di Opere provenienti dal patrimonio dei Classici greci, latini, ebraici, arabi che fanno parte di quell’enorme e ricco serbatoio che chiamiamo “Intelletto universale” che è la più importante riserva di nutrimento intellettuale per le menti umane.

     E ora, per confermare ciò che abbiamo detto, leggiamo alcune pagine dagli Adagia di Erasmo da Rotterdam con la pazienza che è necessaria per affrontare la lettura di un’opera di questa natura.

LEGERE MULTUM….

Erasmo da Rotterdam, Adagia

   A mortuo tributum exigere [Esigere le tasse anche dai morti], è un adagio antico di tradizione greca con il quale Aristotele nell’Etica Nicomachea stigmatizza il tentativo di estorcere denaro con qualunque pretesto, lecito o illecito, oltre che di procurarselo esercitando mestieri infami. Strabone di Amasea nella Geografia narra della conquista di Corinto nella quale i Romani fecero una legge che dava loro il diritto di aprire le tombe dei cimiteri per saccheggiare il bronzo che vi era rinchiuso. Furono chiamati necrocorinzi, e pensare che il Kerigma [il nocciolo del messaggio evangelico] e tutta la Letteratura dei Vangeli è stata subordinata alla logica del Diritto romano e la stessa dottrina cristiana si è conformata all’atteggiamento che ha la legislazione romana spesso ammantata di ipocrisia: non deve quindi il messaggio evangelico riconquistare la propria autonomia?

 

   Amicorum communia omnia [Tra gli amici tutto è in comune]. Secondo quanto riferisce Diogene Laerzio nelle Vite dei filosofi, Timeo di Tauromenio ha attribuito la paternità di questo antico adagio a Pitagora, per il quale «l’amicizia è uguaglianza, e i suoi discepoli ponevano tutti i loro possessi in comune» come conferma Giamblico di Calcide nella sua opera intitolata Sinagoge [Raccolta] delle dottrine pitagoriche. Anche Cicerone tiene presente Timeo di Tauromenio scrivendo nel De legibus [Le leggi] di «quel famoso detto di Pitagora, per cui i beni tra gli amici sono comuni e l’amicizia è uguaglianza», ripetendo nel De officiis [I doveri] che, «com’è nell’adagio greco, tutto è comune tra gli amici», ed Aulo Gellio in Notti Attiche ricorda che coloro che erano accolti da Pitagora mettevano in comune averi e denaro «formando un’inseparabile comunità chiamando questa loro azione eredità indivisa”». Ancora Diogene Laerzio nelle Vite dei filosofi informa che Diogene il Cinico sosteneva che tutto appartiene ai sapienti, fornendo la seguente argomentazione: «Tutto appartiene agli dèi, gli dèi sono amici dei sapienti e i possessi degli amici sono in comune. Dunque, tutto appartiene ai sapienti». È poi noto come per Platone, nella Repubblica, una condizione per la prosperità dello Stato sia la comunione dei beni: «le migliori leggi sono quelle in cui l’antico detto i beni degli amici sono davvero beni comuni trova la sua più completa realizzazione in tutto lo Stato», mentre lo Stato rovina quando «si sentono i singoli pronunciare all’unisono questo è mio e guai a chi lo tocca”». L’adagio Amicorum communia omnia [Tra gli amici tutto è in comune] è richiamato anche alla conclusione del dialogo Fedro di Platone per condividere la preghiera filosofica pronunciata da Socrate in una prospettiva teoretica solo apparentemente lontana dalla politica, e a questo proposito bisogna rilevare come la comunione platonica dei beni sia profondamente avversata da molti ecclesiastici, soprattutto da quelli di maggior rango, benché quel filosofo pagano non abbia mai detto nulla di più prossimo alle parole di Cristo. Siccome la tendenza tipica dei primi cristiani - come leggiamo negli Atti degli Apostoli - era quella a mettere tutto in comune non si riesce a capire come la maggior parte degli ecclesiastici sia così attaccata al proprio tornaconto! Che non abbiano mai letto un adagio, oppure è più facile che non abbiano mai letto gli Atti degli Apostoli?

 

   Bis dat qui cito dat è un adagio latino [Dà due volte chi dà presto]. Il soccorrere con sollecitudine la persona indigente o l’amico in difficoltà raddoppia il beneficio. Per questo motivo bisogna anche riportare la versione del detto come la scrive Publilio Siro nelle Sentenze: «Beneficium inopi bis dat, qui dat celeriter [chi offre senza indugio raddoppia il beneficio]». L’adagio era già noto in ambiente greco e nell’Antologia Palatina sono conservati i versi: «I benefici più dolci sono i più rapidi: se tardano, diventano senza significato e perdono la loro grazia». Poiché in greco [chàris] significa tanto «dono» che «grazia» la sentenza, citata in greco nei Parentalia da Ausonio di Burdigala [Bordeaux], che dice «un dono [chàris] in ritardo è un dono [chàris] senza grazia [chàris]» contiene una triplice ripetizione della parola per moltiplicare l’effetto dell’adagio. 

La necessità di aiutare sollecitamente gli amici in difficoltà è espressa da Omero per bocca di Ettore nell’Iliade: «Odio aiutare in ritardo gli amici». E Lucio Anneo Seneca scrive nelle Lettere a Lucilio: «Risulta inutile il dono che rimane a lungo nelle mani di chi lo deve dare». E, di conseguenza, non si giustifica il fatto che molti ecclesiastici capiscano in ritardo che i poveri hanno fame oggi.

 

   Vittoria cadmea [kadmèia nìke, in greco antico] è un adagio utilizzato nell’antica Grecia per indicare una battaglia vinta a un prezzo altissimo o in cui il vincitore patisce sofferenze analoghe a quelle del vinto. L’espressione viene comunemente riferita alla vicenda della lotta fratricida di Eteocle e Polinice, figli di Edipo e discendenti di Cadmo, che si sono uccisi l’un l’altro per il possesso di Tebe. La città, era stata fondata da Cadmo che vi eresse quella che, per questo motivo, fu detta la Rocca cadmea. L’episodio, noto come la Spedizione dei Sette a Tebe, ha fornito ispirazione alla tragedia I sette contro Tebe di Eschilo. Questa è l’interpretazione che ne dà Erodoto nelle sue Storie, un’interpretazione alla quale aderisce anche Plutarco di Cheronea negli Opuscoli morali quando scrive: «Gli antichi definivano vittoria cadmea, in quanto turpe e miserrima, quella dei due fratelli davanti a Tebe». Noi [Erasmo] vogliamo ricordare una leggenda secondo la quale Cadmo, volendo essere il primo a trasmettere la scrittura ai Greci, uccise il cantore Lino, che si era ripromesso di fare altrettanto. Non ottenne però alcun beneficio, perché poco dopo fu cacciato dai suoi concittadini. Uccidere è peccato mortale, uccidere per avere potere sulla scrittura è peccato imperdonabile.

 

   In vino veritas, è un adagio latino [nel vino è la verità]. Ciò significa che quando una persona è alticcia ha i freni inibitori rilassati e può facilmente rivelare fatti e pensieri veritieri che da sobrio non direbbe mai. Come scrive Orazio nelle Satire: «che cosa non rivela l’ebbrezza? Essa mostra le cose nascoste». Nei Dipnosofisti [I sofisti a banchetto] Ateneo di Naucrati cita Filocoro autore delle Attidi, il quale afferma che «chi si abbandona al vino, non solo si scopre, ma dà anche l’occasione agli altri di farsi conoscere per la libertà che il vino ispira».  Teognide di Megara nella Silloge delle elegie ha anche detto che «il vino smaschera il pensiero dell’uomo». E Plinio il vecchio nella Storia naturale afferma che l’adagio può essere contraddetto dal fatto che «l’eccesso di vino può fare concepire false opinioni». Noi [Erasmo] possiamo dire che non sempre la verità si contrappone alla menzogna, ma talvolta si contrappone alla simulazione e perciò accade che si dicano in buona fede cose false, aggiungendo anche che si dicano verità pur parlando in modo insincero. Pertanto occorre distinguere un’ubriachezza sfrenata, che generalmente falsifica la corretta visione della realtà, da una moderata ebbrezza che elimina la simulazione e l’ipocrisia.

Se dalla Letteratura dei Vangeli impariamo che il vino si tramuta nel sangue di Cristo versato per la stipula della nuova ed eterna Alleanza anche l’adagio In vino veritas muta la sua essenza filologica portando la mente dal senso dell’ebbrezza al concetto di salvezza.

 

   Punica fides [Fedeltà cartaginese]. Il termine si basa sul nome con cui i Romani chiamavano i Cartaginesi, Puni, i Fenici, dai quali i Cartaginesi discendevano. Nella cultura romana antica questo termine era sinonimo di non mantenere la parola, di mala fede, di fedeltà ambigua e sospetta. Infatti i Romani consideravano i Cartaginesi, loro acerrimi nemici, infidi e ingannatori. In realtà questa espressione non era la realtà assoluta, ma era molto condizionata dalla propaganda interna di Roma, sia durante il periodo delle guerre puniche che successivamente. Cartagine era vista come il nemico per eccellenza dai Romani, soprattutto durante la Seconda guerra punica in cui le truppe di Annibale sconfissero per quattro volte consecutive Roma e fecero temere un assedio dell’Urbe, generando così forti sentimenti di odio nella popolazione che sarebbero perdurati a lungo. Per queste ostilità i nemici cartaginesi venivano così spesso dipinti in maniera empia e negativa. Poiché della civiltà cartaginese non sono rimaste tracce, dato che la città venne distrutta dopo la Terza guerra punica, sono pervenute a noi poche fonti su di loro, inevitabilmente filtrate dall’ottica dei vincitori, i Romani, che non potevano essere indulgenti nel descrivere la città contro la quale vennero consumati anni di guerra e innumerevoli vite. Ciò sfociò inoltre in una certa propaganda di tipo nazionalistico, esaltando le virtù e le qualità dei Romani in opposizione ai difetti e alle meschinità che attribuivano al nemico, in questo caso Cartagine. Anche fra gli storiografi non-romani le testimonianze sulla cultura cartaginese sono spesso in disaccordo. In realtà in molti casi sono stati proprio i Romani a violare i patti stipulati coi Cartaginesi. Ad esempio la Prima guerra punica è scoppiata dopo che i Romani sono accorsi in aiuto dei briganti mercenari Mamertini di Messina, occupata dai Cartaginesi, nonostante esistesse un trattato che delimitava le sfere d’influenza delle due grandi città, imponendo ai Romani di non sbarcare in Sicilia e di non interferire con gli affari cartaginesi, che a loro volta rinunciavano a pretese sull’Italia ed inviarono persino aiuti a Roma nella guerra contro Pirro in funzione anti-greca. Inoltre alla fine della guerra Roma approfittò dell’instabilità interna di Cartagine, impegnata nella rivolta dei mercenari, per occupare con la forza le isole di Sardegna e di Corsica, nonostante la tregua. Fra gli storici antichi le testimonianze giunte a noi sono spesso in disaccordo fra di loro. Fra di essi, Polibio ne Le Puniche e Plutarco ne Le vite parallele tracciano il ritratto più negativo dei Cartaginesi, definendoli servili e immorali, mentre Aristotele nella Politica ne elogia il sistema amministrativo e l’onestà mercantile e alcuni frammenti del Trattato sull’agricoltura di Magone di Cartagine ci forniscono aspetti molto positivi sulla cultura cartaginese.

Nessun apparato religioso, tanto meno il cristianesimo, deve gettare discredito su chi professa una fede diversa.

 

   Rara avis è un adagio latino [uccello raro] che, in senso traslato, indica generalmente una persona di rara qualità. Giovenale nelle Satire ha usato questo adagio nel verso «Rara avis in terris, nigroque simillima cygno [uccello raro sulla terra, quasi come un cigno nero]» alludendo alla fedeltà coniugale testimoniata secoli prima da Lucrezia, la nobile matrona romana, moglie di Collatino che, per non sopravvivere all’oltraggio fattole da Sesto, figlio di Tarquinio il Superbo, si tolse la vita, e a Penelope, moglie di Ulisse, che per vent’anni ha atteso pazientemente il marito declinando le insistenti offerte di giovani pretendenti. E per avere una migliore comprensione del contesto della frase si tenga conto che i Romani supponevano che i cigni neri non esistessero, e Giovenale utilizza anche l’espressione «più raro di un corvo bianco», mentre Aulo Persio Flacco ne Le Satire usa la stessa espressione per definire un evento altamente improbabile, quando ammette ironicamente che «se qualche volta riesco a scrivere qualcosa di buono, si tratta di una rara avis”».

 

   Una hirundo non facit ver [Un’unica rondine non fa primavera] è un antico adagio di tradizione greca che viene usato come monito: un segnale isolato non è sufficiente per trarre delle conclusioni, così come non basta vedere una rondine per poter dire che è arrivata la primavera. L’espressione compare nell’Etica Nicomachea di Aristotele: «Come una rondine non fa primavera, né la fa un solo giorno di sole, così un solo giorno o un breve spazio di tempo non fanno felice nessuno». E Aristofane nella commedia gli Uccelli sembra completare il concetto: «C’è bisogno di molte rondini per far primavera». Così come Sofocle nell’Antigone scrive che «Non esiste una città abitata da una sola persona», si può dire che una sola buona azione non è sufficiente a far ritenere buona una persona, né una sola parola ben pronunciata a fare un oratore, né una sola moneta ci possa rendere ricchi.

 

   Dulce bellum inexpertis [La guerra piace a chi non la conosce, a chi non l’ha provata]. Questo adagio in calce al Trattato sull’esercito del funzionario imperiale alla corte di Costantinopoli Flavio Renato Vegezio pone due interrogativi: la guerra può essere giusta e la violenza può essere giustificata? Devo dire che non condivido mai la guerra: neppure quella contro i Turchi. La religione cristiana sarebbe messa davvero male se la sua sopravvivenza dipendesse unicamente da questi puntelli! Non ha senso attendersi che, a partire da premesse ostili, le genti sottomesse diventino buoni cristiani: ciò che si conquista con la violenza, lo si perde nello stesso modo. Ma perché - sento dire - non dovremmo poter sgozzare quelli che vengono a sgozzarci?. A costoro rispondo: Vi sembra davvero così inaccettabile che altri siano più crudeli di noi? Allora perché non derubiamo chi ci deruba? E perché non prendiamo a male parole uno per uno tutti quelli che ci offendono? Perché non odiamo visceralmente tutti quelli che ci odiano?. Nessun argomento sulla guerra giusta è sostenibile e di fronte al meccanismo più perverso e distruttivo escogitato dalla mente umana l’unico antidoto possibile è rappresentato dalla parola: in principio è la Parola e la parola non può che essere strumento di pace…

     Nel 1509 [mentre Michelangelo lavora al soffitto della Sistina e Raffaello alla Scuola di Atene] Erasmo è a Londra dove - anche in relazione all’esperienza italiana - scrive un’opera che dedica a Thomas More [Tommaso Moro] che nel frattempo è diventato cancelliere del re d’Inghilterra Enrico VIII [avrà delle grane per questo e lo vedremo a suo tempo]. Quest’opera procura ad Erasmo una grande notorietà in tutta Europa, notorietà che dura tuttora: il titolo di quest’opera scritta in latino è espresso metà in greco e metà in latino: Morìas Egkòmion [questo è greco] seu Laus stultitiae [questo è latino].

     Erasmo da Rotterdam mentre nell’estate del 1509 attraversa le Alpi a cavallo,  ispirato da quegli orridi e affascinanti paesaggi, concepisce un’opera che scrive appena arriva a Londra ospite in casa di Thomas More [Tommaso Moro, cancelliere del governo inglese]. Erasmo dedica l’opera al suo amico e la intitola scherzando anche sul suo nome, infatti “moros” in greco significa “folle” e, come abbiamo detto, il titolo di quest’opera scritta in latino è espresso metà in greco Morìas Egkòmion [Elogio della follia] e metà in latino seu Laus stultitiae [o Lode della stoltezza], e in italiano s’intitola Elogio della follia.

     Erasmo mette in scena il personaggio della Follia ricorrendo al genere letterario della satira cercando di condirla con la maggiore ironia possibile rifacendosi allo stile di Luciano di Samosata [città della Siria dove Luciano è nato nel 125, ed è morto in Egitto verso il 190] che ha scritto un romanzo satirico [molto gradito a Erasmo, che noi abbiamo studiato qualche anno fa] che s’intitola Storia vera, in cui si narra il fantastico viaggio compiuto da una comitiva dalle Colonne d’Ercole alla luna e ritorno approdando sulla terra in un nuovo continente; inoltre Erasmo si rifà anche allo stile del filosofo sofista Libanio di Antiochia [314-393] maestro di Giuliano l’Apostata, che ha scritto numerose Orazioni in tono ironico.

     E poi Erasmo prende a modello un’opera contemporanea sul tema della follia intitolata La nave dei folli. La nave dei folli è un poema satirico-didascalico pubblicato nel 1494 a Basilea, scritto in lingua tedesca [ma anche tradotto il latino col titolo di Stultifera navis] dall’umanista di Strasburgo Sebastian Brant [1458-1521], che consta di 2039 versi [ottonari di ritmo giambico rimati a coppie] ed è stato composto come usava, per tradizione, in occasione del carnevale. L’autore finge di imbarcare tutti i matti del paese di Cuccagna su un vascello che fa vela per “Narragonien” [la Mattagonia] cioè il reame della Follia, e sul vascello prendono posto i rappresentanti di tutte le classi sociali [il clero, i nobili, la giustizia, l’università, i mercanti, i contadini, i cuochi, ecc.] e ciascuno racconta le pazzie che si possono fare rivestendo il proprio ruolo.

     Erasmo ne L’elogio della follia fa entrare in scena la personificazione della Follia, che proclama la lode di se stessa. In primo luogo la Follia dichiara di essere una componente indispensabile dell’esistenza umana e mostra come senza follia la vita non sarebbe pensabile in tutte le sue molteplici dimensioni. Poi la Follia prende di mira i diversi ceti e gruppi sociali, e stigmatizza, biasima, rimprovera la boria dei teologi, l’alterigia dei monaci, la strafottenza dei vescovi e l’arroganza dei preti. Infine la Follia, richiamando un passo dalle Lettere di Paolo di Tarso, parla della pazzia di chi segue radicalmente Gesù Cristo e di coloro che, facendo proprio anche l’insegnamento dei Dialoghi di Platone, si sono elevati oltre il mondo sensibile pregustando la futura beatitudine celeste. Dopo questo gioco sconcertante, in cui scherzo e serietà si confondono, la Follia interrompe bruscamente il suo discorso.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

In quale occasione avete detto: «Questa volta ho fatto una follia!»...

Scrivete quattro righe in proposito...

     E ora leggiamo un brano, e lasciamo che la Follia si presenti.

LEGERE MULTUM….

Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia

Sono la Follia in persona e mi presento dinanzi a questa grande assemblea di tutte le nazioni, le classi e le età, e annuncio di voler fare l’elogio di me stessa poiché nessuno ci pensa ma io sono la dea al cui trionfo tutti contribuiscono. Sono figlia di Pluto, dio della ricchezza e origine di tutte le cose, e della Giovinezza; e dimostro i miei meriti verso l’umanità passando in rassegna tutti i convenuti e lodando in ciascuno di essi ciò che invece dovrebbe essere biasimato. In questo modo io mostro la mia onnipotenza alle radici della vita, nell’amore, nell’amicizia, nella guerra, nell’arte, in tutto. Non dovrei forse prendere di mira il clero, l’idolatria dei santi, la presunzione dei vescovi, la corruzione dei monaci, la vita di Cristo e del suo degno rappresentante a Roma? Io sola posseggo lo splendore della lingua, il brio dell’eloquio, l’arguzia della satira e, quindi, ascoltate, punto per punto, tutto quello che ho da rivelare. Io possiedo le stesse caratteristiche della ragione quando questa si scrolla di dosso i luoghi comuni e, di conseguenza, potrei essere la personificazione della sapienza stessa che vanta le sue aspirazioni morali. Se io dico che la proprietà privata va abolita, come prescrivono gli Atti degli Apostoli, mi sento ribattere che è pura follia: ma io sono la Follia! Se io dico che bisogna abolire gli eserciti perché attentano alla pace, mi si accusa di pazzia: ma io sono la Follia! Quando dico che i preti devono guadagnarsi da vivere lavorando mi si dice che chi tocca le cose sacre non può toccare le cose materiali ma Gesù Cristo si è fatto carne per glorificare proprio la materia e questa non è, forse, una follia? E, quindi, mi compiaccio di fare l’elogio di me stessa: che viva la Follia!

     Adesso catalogheremo le principali opere esegetiche che Erasmo ha prodotto, richiameremo avvenimenti in cui è coinvolto e citeremo personaggi con i quali interagisce ed elencheremo temi che dovremo sviluppare strada facendo.

     Erasmo nel 1514 si trasferisce a Basilea dove continua a scrivere opere importanti basate sull’esegesi della Letteratura dei Vangeli e della Letteratura Patristica [Con una guida della Svizzera e in rete fate una visita a Basilea e alla sua Università fondata nel 1459 da papa Pio II]. Nel 1517 il magister [monaco agostiniano] Martin Lutero pubblica Le 95 Tesi con cui apre una disputa per chiarire l’efficacia delle indulgenze [e Lutero lo incontreremo strada facendo e allora chiariremo questa situazione].

     Erasmo viene invitato presso tutte le corti europee ma rifiuta ogni invito, e si tiene anche a distanza da papa Leone X [Giovanni de’ Medici - il secondogenito di Lorenzo il Magnifico - che è succeduto a Giulio II]. Erasmo capisce che la situazione è grave e condivide molte idee di Lutero: si trasferisce a Lovanio ma da lì deve scappare perché c’è un ambiente antiluterano [Con una guida del Belgio e in rete andate a far visita a Lovanio, famosa per la sua Università fondata nel 1426 su auspicio di papa Martino V]. Nel 1519 torna a Basilea e interviene presso il papa in difesa e in favore di Lutero, e l’anno dopo si oppone alla bolla Exurge Domine che è il documento di scomunica della Riforma di Lutero, ed Erasmo difende le tesi della Riforma luterana [un argomento che studieremo a breve]. Nel 1521, però, Erasmo rimane deluso dall’impostazione che Lutero dà alla Riforma: secondo lui, anche Lutero si oppone a Roma fabbricando dei dogmi e, inoltre, il conflitto religioso diventa una rivolta nazionalistica dalla quale traggono vantaggio i feudatari tedeschi ai quali “la discussione sulla natura della fede in Gesù Cristo” interessa poco.

     Nel 1524 Erasmo scrive il trattato intitolato De libero arbitrio nel quale si oppone alla pessimistica visione che Lutero ha sul tema del destino dell’Uomo [ma a suo tempo sentiremo la voce di Lutero in proposito]. Nel 1528 Erasmo - visto che, in tutte le altre città dove potrebbe stare, i cattolici ce l’hanno con lui e i luterani anche - deve rifugiarsi a Friburgo dove continua a scrivere i suoi trattati di filologia sui testi dei Padri della Chiesa [Con una guida della Svizzera e in rete fate una visita a Friburgo].

     Erasmo vive in solitudine rattristato e profondamente turbato dalla divisione drammatica creatasi in Europa con la Dieta [l’Assemblea] di Augusta del 1530 che, come studieremo a suo tempo, produce un documento che divide la cristianità e rompe l’unità europea. Erasmo vive molto male questa situazione: scrive a tutti gli uomini di potere europei per esprimere la sua costernazione e per proporre un ritorno alla pace e alla tolleranza religiosa. Intanto nel 1535 Tommaso Moro viene [ingiustamente] “giustiziato a Londra” [e di questo personaggio a breve studieremo la vita e l’opera]. Nel 1536 Erasmo torna a Basilea per pubblicare i suoi lavori e lì muore in casa di un suo amico.

     Il pensiero di Erasmo si ricollega agli studi e alle tesi dell’umanesimo pedagogico e filologico di Lorenzo Valla, di Marsilio Ficino e di Pico della Mirandola. Come sappiamo, questi tre studiosi hanno indagato e riflettuto soprattutto sui testi delle opere dei Classici greci e latini e, in particolare, sui testi delle opere di Platone e di Aristotele. Erasmo con lo stesso metodo filologico indaga, studia, recupera e mette in circolazione la Letteratura dei Vangeli e la Letteratura dei Padri della Chiesa: ma perché [ci domandiamo] c’era ancora bisogno di fare questo esercizio nella cristianità? Era successo che la Letteratura dei Vangeli non era diventata patrimonio del popolo cristiano [e questo è un problema che si pone ancora oggi]. La Chiesa, afferma Erasmo, ha costruito nei secoli una liturgia in cui la Sacra Scrittura ha un posto marginale: declamata in lingue [latino, greco, ebraico] ormai sconosciute al popolo cristiano, incentrata soprattutto sull’elemento devozionale e misterico. La Letteratura dei Vangeli, afferma Erasmo, ha un posto marginale nella vita della Chiesa: al primo posto ci sono le formule liturgiche, i Sacramenti amministrati più come rituali superstiziosi che come “segni della salvezza”. Al primo posto, afferma e denuncia Erasmo, c’è il Diritto Canonico più che il Vangelo, una legislazione che ricalca il Diritto Romano che, spesso, afferma Erasmo, nei suoi princìpi è in contrapposizione con i valori evangelici.

     Erasmo, secondo la tradizione dei Padri della Chiesa, ritiene che la struttura portante del Cristianesimo sia la Sacra Scrittura: quella grande biblioteca formata dai Libri dell’Antico e del Nuovo Testamento e tutti i fedeli, afferma Erasmo, devono leggere, studiare, meditare, capire, discutere la Sacra Scrittura per poterla applicare. Per questo motivo ritiene di doversi dedicare a tradurre e spiegare la Letteratura dei Vangeli per metterla a disposizione di ogni persona, per fornire a tutti la possibilità di un contatto diretto con le sorgenti della fede, senza la mediazione dell’autorità. L’istituzione ecclesiastica, afferma Erasmo, non deve dare interpretazioni dogmatiche, ma deve educare la coscienza del singolo a cercare la via del Bene nella Scrittura che è dotata, afferma e scrive Erasmo, di una sua “simplicitas, una comprensibilità particolarmente illuminante” simile alla “humanitas che si trova nelle opere dei Classici”. Quindi l’obiettivo, afferma Erasmo, è quello “di riconciliare il Vangelo con la vita quotidiana”, facendo emergere lo spirito laico che sottende alla Letteratura evangelica e biblica in generale. La Letteratura dei Vangeli, afferma e scrive Erasmo, è fortemente “anticlericale”, e «la fede difficilmente sta chiusa nel Tempio ma la troviamo sicuramente negli angoli più reconditi dove si svolge l’umile vita del popolo».

     Erasmo scrive un’opera intitolata Manuale [Enchiridion] del militante cristiano e nel testo di questo trattato si dimostra un precursore dei Documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II per quanto riguarda il ruolo dei laici nella Chiesa.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Potete leggere - utilizzando la biblioteca o navigando in rete cercando Documenti del Concilio Vaticano II - il testo del capitolo IV della Costituzione Lumen Gentium

     E ora noi leggiamo un frammento da Manuale del militante cristiano.

LEGERE MULTUM….

Erasmo da Rotterdam, Manuale del militante cristiano

Io vorrei che i testi dei Vangeli e delle Lettere di san Paolo fossero letti da tutte le umili donnicciuole, fossero tradotti in tutte le lingue, che il contadino potesse cantarli presso l’aratro, il tessitore trarne delle ariette da intonare presso il telaio, ed i viaggiatori farne argomento di conversazione perché sembri più breve il cammino.

Questa sorta di filosofia è fondata più sull’intuizione che sui sillogismi, è fondata più sulla vita reale che sul punto di vista dei teologi, più sull’ispirazione che sull’erudizione, più sulla trasformazione che sul dogma Che altro è la dottrina di Cristo, che egli stesso chiama rinascita, se non un ritorno alla ben creata natura? Infine, benché nessuno ce l’abbia insegnata così compiutamente ed efficacemente come Cristo, nei Libri pagani di Platone e di Aristotele si possono trovare moltissime cose che concordano con la sua dottrina.              

     Lo scrittore Achille Campanile [1900-1977], nella sua raccolta intitolata Gli asparagi e l’immortalità dell’anima - dalla quale ogni tanto attingiamo qualche pagina - non ha potuto fare a meno di riflettere su l’Elogio della follia.

LEGERE MULTUM….

Achille Campanile, Gli asparagi e l’immortalità dell’anima

Pazzi

Io certe volte sospetto di essere pazzo. E certe volte ne ho l’assoluta certezza e allora vorrei abbandonare ogni finzione di saviezza. Come è riposante non simulare più!

La cosiddetta saggezza non è assenza di pazzia, perché tutti abbiamo la stoffa dei pazzi. È soltanto possibilità di simulare e possesso maggiore di alcuni freni.

Il bello è, poi, che quando mi convinco di essere pazzo e decido di gettar la maschera della saggezza, mi sento in un certo senso rinsavito. Finché simulavo la saggezza, mi sentivo pazzo. Abbandonandomi alla follia, mi sento savio. Andate a spiegare una cosa simile, ma è così che ha sempre pensato quel grande savio di Rotterdam che ha fatto della Follia il suo cavallo di battaglia: ma era davvero savio o era pazzo anche lui?

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     Allora, siamo sul punto di entrare nella Cappella Sistina?

     Non prima di aver fatto una dichiarazione che ora possiamo fare alla luce del pensiero di Erasmo da Rotterdam: “Il soffitto della Cappella Sistina contiene un’opera pazzesca [nel senso di straordinaria, temeraria, dissacrante]!” e questa affermazione è facile da fare, il difficile [sempre alla luce del pensiero di Erasmo] è capire perché si tratta di un’opera pazzesca [nel senso di straordinaria, temeraria, dissacrante]? Forse perché è Paolo di Tarso a ritenere “la saggezza di Dio una follia”? Ed è anche sulla scia di questo interrogativo che si può pensare di entrare in questo edificio: la prossima settimana? Forse.

     Buona sera e buon appetito; la mia cena è pronta: devo finire “i sassi fritti con olio sale e pepe” che mi sono avanzati a mezzodì. È il Percorso che mi fa diventare pazzo o sono io che faccio impazzire il Percorso?

     Sarei certamente pazzo se non dicessi: non perdete mai la volontà di imparare, quindi, fate una pazzia, continuate a frequentare la Scuola!

     La Scuola è qui, roba da pazzi!...

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Marzo 24, 2017