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IL LIBRO DI GEREMIA: L’ASPIRAZIONE ALL’UNITÀ POPOLARE …

Lezione N.: 
15

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sapienza poetica beritica  2008     6-7-8  febbraio  2008

IL LIBRO DI GEREMIA: L’ASPIRAZIONE ALL’UNITÀ POPOLARE …

     Con la fine dell’esilio babilonese, decretato (nel 538 a.C.) dal famoso” Editto di Ciro, si ricostituisce, nella terra di Canaan, lo Stato giudaico: questo nuovo Stato – che si presenta come un territorio di frontiera che deve coprire il confine sud-occidentale dell’impero persiano – nasce tra mille difficoltà. Nei ranghi della pubblica amministrazione di questo nuovo Stato – come sappiamo – ci sono anche gli scrivani della terza generazione degli ex esiliati a Babilonia: gli scrivani (cosiddetti, dalla seconda metà del 1700) del Codice Priester”, del Codice sacerdotale” [“Priester – lo sappiamo – è parola tedesca che significa prete, sacerdote”] e sono proprio questi scrivani a rappresentare la categoria più adatta ad affrontare i gravi problemi di ordine sociale, politico, culturale, religioso che mettono a repentaglio la nascita e l’esistenza del nuovo Stato giudaico.

     Il primo grave problema che gli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale] si trovano a dover affrontare è quello dello scontro tra le principali classi sociali che dovrebbero formare la struttura portante della nazione: il ceto aristocratico-sacerdotale, il ceto produttivo (queste due classi sociali sono formate dagli eredi degli ex deportati che tornano a Gerusalemme da Babilonia una con il ruolo di classe dirigente e l’altra con il ruolo di classe imprenditoriale) e la classe degli ebionim [dei diseredati]”, gli eredi di quei poveri che cinquant’anni prima non erano stati deportati in Mesopotamia ed erano rimasti a morir di fame su una terra, la terra di Canaan, desolata e non amministrata dai Babilonesi.

     In un primo momento gli ebionim” [i diseredati] si rivoltano contro la nuova classe dirigente che li vuole sudditi, senza neppure prenderli in considerazione come membri attivi della nascente nazione, e la ribellione degli ebionim” [dei diseredati] si rivela come una vera e propria emergenza.

     Come si comportano gli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale] di fronte a questa emergenza che avrebbe potuto portare ad una sanguinosa guerra civile e ad un intervento di tipo repressivo da parte dei Persiani che avrebbe bloccato il processo costitutivo del nuovo Stato?  Gli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale], di fronte a questa emergenza, – facendo tesoro di una tradizione di cui sono eredi – utilizzano gli strumenti della cultura, usano, in modo creativo e anche un po’ spregiudicato, dispositivi intellettuali. Gli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale] si sono assunti un compito difficile perché devono far fronte – come sappiamo – ad una situazione di forte conflittualità perché, nel momento della costituzione del nuovo Stato giudaico, tanto la classe aristocratica, tanto il ceto produttivo, quanto la massa degli ebionim” [dei diseredati] rivendicano un ruolo privilegiato, ciascuna di queste componenti pretende di essere il resto d’Israele, la componente di base della nazione.

     Gli ebionim” [i diseredati] si ribellano perché vorrebbero veder migliorare le loro condizioni di vita, il ceto produttivo protesta perché vorrebbe che tutti i finanziamenti (gli incentivi economici) elargiti dai Persiani (con l’Editto di Ciro) servissero per agevolare il rilancio del mercato; la classe aristocratico-sacerdotale si sente privilegiata (governa in nome dell’impero persiano che è la super-potenza del momento e si fa forte di questo fatto) e si comporta come se fosse la padrona dello Stato e la guida indiscussa del popolo che dovrebbe ubbidire sottomesso: « - E er popolo? - Se gratta. - E er resto? - Va da sé ».

     A questo proposito – in relazione alla parola popoloe alla parola resto: due parole attinenti al tema che stiamo studiando – vengono in mente, appunto, questi celebri versi di Trilussa, del dicembre 1908, che raccontano L’incontro de li sovrani:

LEGERE MULTUM….

Trilussa, L’incontro de li sovrani  (dicembre 1908)

 

Bandiere e banderole, penne e pennacchi ar vento,

un luccichìo d’argento de bajonette ar sole,

e in mezzo a le fanfare spara er cannone e pare

che t’arimbombi dentro. Ched’è? Chi se festeggia?

... continua la lettura ...

     Gli ebionim” [i diseredati] non vorrebbero essere fregati e, pur sapendo che – soprattutto dal punto di vista economico – dovranno rimanere subalterni, pretendono che si metta per iscritto (che appaia chiaramente nella Scrittura) che hanno avuto un ruolo fondamentale (che il Dio d’Israele ha assegnato loro un compito) nel presidiare la terra di Canaan nel momento della sconfitta, della disfatta.

     Gli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale], facendo tesoro dell’esperienza acquisita attraverso la tradizione di cui sono eredi, capiscono perfettamente la situazione e compiono una straordinaria operazione politico-istituzionale: intervengono sulla Scrittura, intervengono sui testi dei Libri – che sono stati scritti a Babilonia in massima parte dalla seconda generazione di scrivani (quella del proclama di Amos)  e puntano la loro attenzione in particolare sui Libri dei Re (e già abbiamo studiato questo tema), sul Libro di Geremia (su cui la scorsa settimana abbiamo cominciato a puntare l’attenzione), sul Libro di Isaia (su cui dobbiamo prossimamente puntare l’attenzione) e sul Libro del Deuteronomio (stiamo preparando il terreno per studiare questa importante opera), tutto questo per poter attribuire la dignità di resto d’Israele(senza fare un’affermazione esplicita in modo da non contraddirsi) a ciascuna delle componenti sociali in conflitto tra loro.

     La scorsa settimana ci siamo trovati ad attraversare i luoghi, impervi ma non desolati, del Libro di Geremia; abbiamo studiato la prima e la seconda parte del Libro di Geremia. Il testo del Libro di Geremia – come tutti i testi della Letteratura beritica – è un’opera complessa e questa sera dobbiamo ancora completare la riflessione sulla prima parte. Sappiamo che la prima parte – i primi 24 capitoli – sono stati composti proprio dagli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale] per attribuire la responsabilità della sconfitta non alla classe dirigente del Regno di Giuda nel suo insieme (per giunta ci siamo resi conto che, a distanza di un decennio, la classe dirigente del Regno di Giuda ha subito, da parte di Nabucodonosor, due sconfitte e due deportazioni) ma agiscono operando una distinzione tra governanti irresponsabili (i fichi marci, colpevoli della seconda più grave deportazione) e governanti responsabili (i fichi belli) di cui sono eredi i membri dell’attuale classe dirigente i quali vanno messi alla prova: questo vogliono sottolineare gli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale] anche perché – in quanto membri della pubblica amministrazione fanno parte anch’essi della classe dirigente e vogliono cautelarsi operando con probità, con rettitudine.

     A questo proposito – all’interno di questa delicata opera di mediazione che stanno svolgendo –, gli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale], nei primi 24 capitoli del Libro di Geremia, da loro composti, codificano (senza essere pienamente consapevoli di quello che stanno facendo, ma per un bisogno urgente) la nozione di popolo in modo che nell’immaginario degli appartenenti a tutte le classi sociali si formi – secondo il dettato della Scrittura – l’idea di popolo d’Israele e tutti riconoscano, quindi, di avere una responsabilità in funzione dell’unità della Nazione.

     Voi capite però – e lo capiscono anche gli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale] – che una cosa è far parte del popolo in quanto classe aristocratico-sacerdotale, altra cosa è essere popolo in quanto ceto produttivo e, altra cosa ancora, è appartenere al popolo facendo parte della massa degli ebionim” [dei diseredati]: è necessario produrre, avendo come obiettivo il raggiungimento dell’unità nazionale, un collante ideologico molto forte. Ed è proprio con questo intento – abbiamo detto – che nei primi capitoli del Libro di Geremia – composti dagli  scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale] – prende forma il concetto di “popolo come collante ideologico per cercare di attenuare (se non proprio di superare) le divisioni tribali e di ceto.

     Con questa operazione – come già abbiamo ricordato – si viene a determinare il fatto che la parola popolonon definisce più una realtà, ma diventa una parola che non nomina, che non dice nulla perché il termine popolo diventa il non luogo della politica, perché non è la classe, non è la moltitudine, non è la folla solitaria, non è la gente, non è la comunità, non è la società: la parola popolo, nel testo del Libro di Geremia, comincia a definire un’astrazione che si confermerà nel tempo in quanto tale.

     Gli scrivani del Codice Priester [del Codice sacerdotale]”, nei primi capitoli del Libro di Geremia, da loro composti, codificano la nozione di popolo (per un bisogno urgente che consiste nell’impedire una possibile e tragica guerra civile) in modo che nell’immaginario di tutte le classi sociali si formi l’idea di appartenenza alla nuova Nazione giudaica.

     Gli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale] ritengono – nello scrivere i primi capitoli del Libro di Geremia – di dover attribuire la responsabilità delle sconfitte (soprattutto dell’ultima disfatta di cinquant’anni prima) non solo alle classi dirigenti del Regni d’Israele e di Giuda ma anche alle altre classi sociali. Gli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale], eredi della seconda generazione degli ex deportati a Babilonia, sanno benissimo che i monarchi e gli uomini di corte (l’élite palatina e templare) hanno le colpe maggiori nella disfatta ma ritengono di dover coinvolgere tutti gli strati sociali in una comune responsabilità in modo da avvalorare l’idea che c’era stato – prima del tempo delle nefaste divisioni tra le tribù e della tragica scissione tra i due Regni – un tempo (mitico) in cui il popolo era unito.

     Con il richiamo a questa mitica situazione unitaria del passato (in realtà sappiamo che, tra le tribù presenti sul territorio della terra di Canaan e tra i ceti che determinano la stratificazione sociale di ogni tribù, c’è sempre stata una conflittualità permanente attenuata da fragili patti confederali) gli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale] vorrebbero, nel presente, creare una mentalità per cui il nuovo Stato giudaico dovrebbe proporsi, sul piano della storia, non come un agglomerato di tribù (sono le tribù, prima ancora delle classi sociali, che tendono a dividersi) ma come la nazione del popolo d’Israele.

     Gli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale] sanno che – per raggiungere il loro obiettivo politico – devono fare un intervento di natura filologica, devono lavorare sui termini (sulle parole e sui nomi) perché – prima di tutto – non hanno a disposizione un vocabolo preciso che corrisponda alla parola popolo: devono creare un termine adeguato che possa formulare un concetto nuovo portando con sé l’antica tradizione e capiscono che questa operazione può essere la chiave giusta per aprire la porta della prospettiva unitaria per la Nazione che si va costituendo.

     Nell’antica tradizione ebraica non esiste propriamente il concetto del popolo in relazione ad uno Stato ma esiste – come abbiamo ricordato – quello della tribù in relazione a un territorio. La tribù con le relative parole che la definiscono in ebraico – šēbet e matteh – è un contenitore di gente che vive in una famiglia allargata, bêt’āb, ma questi termini rimandano decisamente ad una cultura tribale soggetta a frammentazione e non fanno pensare ad una dimensione nazionale unitaria.

     Come pensano di regolarsi allora gli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale]? Gli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale], per costruire la dicitura che in italiano corrisponde alla formula: il popolo d’Israele, fanno ricorso ad un’espressione che ha una lunga tradizione alle spalle, questa espressione è ‘am hā’āres e, letteralmente, significa la (nostra) gente che vive sulla terra. Questo termine, in età monarchica, dal X secolo a.C. (dai tempi di Salomone), indica quella parte della popolazione del regno (in maggioranza) che non fa parte della corte (che non serve il re), che è organizzata in clan famigliari e si mantiene in modo autonomo perché detiene propri mezzi di produzione (sono pastori e contadini). Questo, che è stato chiamato – e che possiamo chiamare – il popolo della terra [‘am hā’āres]”, raccoglie i sudditidel regno cioè coloro che non intervengono mai nella vita politica se non in occasione di crisi particolari (lotte di successione, usurpazioni) e, in linea di massima, rimangono passivi e fiduciosi nell’operato del re. Il popolo della terra [‘am hā’āres]” ha i suoi rappresentanti – gli anziani e i capi-clan – i quali, di volta in volta, stipulano o rinnovano un contratto (una berit) con il re che riguarda il taglio dell’erba, l’uso dei pozzi, l’utilizzo dei pascoli in concessione.

     Con la deportazione a Babilonia della classe dirigente del Regno di Giuda, nel 587 a.C., è il popolo della terra [‘am hā’āres]” che rimane sul posto e che subisce – come sappiamo – le conseguenze della grave crisi economica che si abbatte sulla terra di Canaan per il completo disinteresse dell’amministrazione babilonese e – come sappiamo –, a causa di ciò, il popolo della terra [‘am hā’āres]” si trasforma nella massa degli ebionim” [dei diseredati]: incolti, analfabeti, disgregati e senza capi, miseri e senza speranze, senza progetto e senza Dio.

     Gli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale] – dopo l’esilio, nel momento della costituzione del nuovo Stato giudaico – vogliono ripristinare l’espressione di popolo della terra [‘am hā’āres]”. Con questa operazione vogliono – almeno formalmente – ridare dignità agli ebionim” [ai diseredati] che minacciano di ribellarsi e di mettere a repentaglio la costruzione dello Stato giudaico.

     Ma gli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale], per poter realizzare il loro piano, devono agire modificando i termini in funzione della nuova situazione (politica, sociale, economica, religiosa) venutasi a creare e, di conseguenza, ritengono necessario scomporre l’espressione ‘am hā’āres.

     Per prima cosa mettono in evidenza il termine «‘am» che assume definitivamente il significato di popolo e, per essere più precisi, assume il significato di il nostro popolo, in contrapposizione con tutti gli altri popoli: il popolo separato, che nella traduzione greca diventa il popolo eletto, ma che, in questa traduzione, non rende bene il concetto originario di popolo separato perché indipendente, autonomo non perché superiore o privilegiato.

     La seconda modifica che apportano è quella di togliere la parola «’āres», la terra”… Perché fanno questo? Perché il rapporto tra popoloe terraallude inevitabilmente alla questione di chi sia il legittimo occupante del territorio (e quindi di chi abbia il ruolo di resto d’Israele), e gli altri due ceti sociali – la classe aristocratico-sacerdotale e la classe produttiva – pretendono di avere anch’essi il diritto di occupare la terrae di avere anch’essi il ruolo di resto d’Israele. Gli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale] capiscono che il concetto di popolo d’Israelepuò formarsi solo facendo la somma dei resti d’Israeleperché nessuno dei ceti sociali rinuncerà all’idea di essere il resto.

     Quindi gli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale], nei primi capitoli del Libro di Geremia, decidono di accostare la parola «‘am» (che assume definitivamente il significato di popolo) al termine Israele e, di conseguenza l’espressione «‘am hā’āres [il popolo della terra si trasforma nell’espressione «‘am hā’Israel [il popolo d’Israele che richiama – almeno sulla carta – la Nazione tutta intera. Con questa operazione – come già abbiamo ricordato – si viene a determinare il fatto che la parola popolonon definisce più una realtà (non è che nominando e scrivendo la parola popolole divisioni svaniscono e la conflittualità sociale si attenua), ma diventa una parola che non nomina, che dice tutto senza significare nulla perché il termine popolo diventa il non luogo della politica che, per sua natura, è fatta soprattutto di contrapposizioni e di mediazioni. Sarà per questo – per essere una parola che non nomina – che il termine popoloha sempre avuto un grande successo?

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Sebbene il termine “popolo” definisca un’astrazione vogliamo tuttavia sforzarci di dare un senso a questo vocabolo: quale parola – classe, moltitudine, etnia, folla, gente, pubblico, comunità, società… (o quale altra parola) – metteresti, per prima, accanto alla parola “popolo”?…  

Nella tua autobiografia c’è sicuramente un momento (in una piazza, in una chiesa, in un circolo, in uno stadio, in un teatro …) in cui ti sei sentita/sentito in mezzo al popolo: racconta, scrivi quattro righe in proposito

     L’incidenza della parola «popolo» è stupefacente nella vita (nella autobiografia) delle persone. In democrazia «la sovranità appartiene al popolo » [un concetto che prende le mosse nel contesto del movimento della sapienza poetica beritica”] e noi siamo contenti che la nostra Costituzione lo affermi. E «in nome del popolo italiano» si esercita la giustizia, a volte anche l’ingiustizia.

     L’incipit della Costituzione americana è esemplare: «Noi, popolo degli Stati Uniti», ma forse, più che mai, in questo grande paese la parola «popolo» andrebbe declinata al plurale.

     Quando c’era l’Unione Sovietica lo scontro di potere avveniva sempre per risolvere «le contraddizioni in seno al popolo» ed era difficile capire che cosa significasse questa frase. Nel mondo di oggi è soprattutto il «popolo delle tivù» a guardare le «adunate di popolo» che esistono se le tivù le riprendono e che non sono «il popolo che avanza» e neppure «il popolo che prende coscienza» ma piuttosto (e di questo ci si accontenta) il «popolo che appare».

     Ma quante accezioni ha il «popolo»? Si parla del popolo della politica e dell’antipolitica, del popolo dei fax, del popolo di Internet, del popolo delle partite Iva, del popolo di Seattle, del popolo dei no global, del popolo della notte. Abbiamo avuto servire il popolo e la delinquenziale prigione del popolo. Abbiamo il popolo dei blog e il popolo delle primarie, abbiamo il popolo migratore (ci commuoviamo, al cinema, nel veder migrare il popolo dei pinguini, un po’ meno vedendo migrare il popolo dei Romeni). Un poeta estemporaneo parla del popolo come «primo (o ultimo) rutto della demagogia».

     In italiano la parola «popolo» non si presta alla rima, se cerchiamo una rima passabile con la parola «popolo» che parole abbiamo a disposizione? Luppolo? Nespolo? Scrupolo? Quindi la parola «popolo» finisce sempre per penetrare nel corpo dei versi: «Milanesi, fratelli, popol mio!» Sono i tempi di «Dio e popolo», che è il motto della Giovine Italia fondata a Londra da Giuseppe Mazzini.  Siamo nei bei tempi del Risorgimento, e nel Risorgimento, per lo meno, dicevi «popolo» e capivi che bisognava buttare fuori lo straniero: la parola «popolo» era sinonimo di Nazione e di Patria, magari, appunto, con la connotazione religioso-mazziniana che santificava il popolo sostituendolo ai santi della liturgia.

     Goffredo Mameli – facendoci rammentare che siamo in compagnia degli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale] – sintetizza nei versi del suo (del nostro) inno (versi che, però, non si cantano mai): «Noi fummo da secoli / Calpesti, derisi, / Perché non siam popolo, / Perché siam divisi», e poi, ancora, in quegl’anni ottocenteschi si declamava: «Quando il popolo si desta / Dio si mette alla sua testa / le sue folgori gli dà».

     L’Italia ha centinaia e centinaia di «piazze del Popolo» (forse voi ne avete in mente una, e potete scrivere quattro righe in proposito) ma a quale «popolo» pensiamo quando siamo in piazza del Popolo?

     E soprattutto abbiamo mai riflettuto sul significato di questa parola (La nostra Scuola ha riflettuto sul significato della parola «popolo» quando abbiamo commemorato i duemila anni delle Metamorfosi di Ovidio)? Il senso della parola italiana «popolo» sta nell’espressione senatus populusque romanus: un’espressione in cui il «popolo» viene concepito nel senso militare della Repubblica romana, che si presenta come una democrazia contadina affidata alle armi, ed è in questo contesto che emerge il verbo latino populor che vuol dire devastare, saccheggiare, desolare, e in senso traslato significa consumare e guastare.

     Il populus, contrapposto da un lato agli aristoi (agli aristocratici) e dall’altro alla plebs (ai servi che fanno la corvèe), è composto di piccoli proprietari terrieri che usano il vomere, vale a dire la lama dell’aratro, sia per tagliare le zolle della propria terra sia, impugnandolo come una spada (gladium), per tagliare la gola ai nemici. E populatio significa infatti saccheggio, devastazione, preda e bottino: le origini del termine «popolo» – come possiamo constatare (ce lo ha spiegato Ovidio duemila anni fa e ha pagato con l’esilio anche per aver ricordato ad Augusto che non era propriamente lecito accaparrarsi tutto il potere a «furor di popolo») – non sono rassicuranti e forse è meglio che l’anima della parola  «popolo»  sia stata dimenticata nell’uso e nell’abuso.

     Tuttavia bisognerebbe studiare – e non é, quindi, casuale il fatto che ci troviamo su un Percorso in compagnia degli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale] – come abbia fatto questa parola a diventare insignificante, a perdere ogni aderenza con la realtà fosse pure un’aderenza ideale.

    Niccolò Machiavelli (che a quest’ora è a giocare a dadi all’Albergaccio) per esempio usa ancora il «popolo» nell’accezione romana, e voleva (se leggiamo il Principe) rilanciare il «popolo» armato contro l’uso dei soldati mercenari.

     E nel socialismo ottocentesco il «popolo» “Avanti popolo” risale al 1908 – è il titolare della bandiera rossa, dunque dell’avvenire, e la casa del popolo è una costruzione che mai si portava definitivamente a compimento.

     Il «popolo» della prima guerra mondiale è carne da cannone secondo il linguaggio – purtroppo realista – dell’antimilitarismo catto-anarco-socialista.

     Poi nel fascismo il «popolo» diventa oceanico, diventa una figura spettacolare del nazionalismo imperialista, diventa un’opera di coreografia della grande proletaria (così viene chiamata l’Italia), e «agli uomini del popolo» della grande proletaria «è fatto assoluto divieto – diceva un editto di Achille Starace (il regista delle tragicomiche manifestazioni del regime) – di portare il colletto della camicia nera inamidato»: ecco, finalmente, una chiara prerogativa per essere «popolo», peccato che le donne – sebbene un certo numero portassero anch’esse la divisa con la camicia nera – non vengano conteggiate come popolo.

     Nel dopoguerra – nonostante le contrapposizioni ideologiche – il «popolo» ha un potere unificante perché si appellano al «popolo» tanto la sinistra (del sindaco Peppone) che si riaggancia al Risorgimento e con il blocco del popolo ripropone Garibaldi (molto amato dal «popolo»), quanto per i cattolici (del parroco don Camillo) che organizzano il popolo dei credenti, con le parrocchie che diventano il popolo di Dio.

    E, a proposito di Dio, torniamo sul sentiero che stiamo percorrendo, per dire che gli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale], nella composizione dei primi capitoli del testo del Libro di Geremia, per introdurre il concetto di popolo d’Israele [‘am hā’Israel]” mettono a punto una strategia che prepari il passaggio da una mentalità tribale (soggetta a continue divisioni) alla mentalità nazionale (fondata sull’unione di intenti). La strategia è, quindi, quella di presentare, in un primo momento, i termini di Israele e di Giuda come rappresentazione della mentalità tribale che, coltivando la disunione, conduce alla disfatta.

     Gli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale], nel capitolo 3 del Libro di Geremia, usano il termine Israeleper indicare le dieci tribù del Regno del nord (sconfitto dagli Assiri) e il termine Giuda per indicare le due tribù del Regno del sud (sconfitto dai Babilonesi). Gli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale] – utilizzando la voce di Geremia – presentano Israele e Giuda come infedeliperché si separano e la separazione dei due Regni porta la sconfitta, procura un danno irreparabile per tutte le componenti sociali dello Stato. Gli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale], in prima battuta, nel capitolo 3 del Libro di Geremia, vogliono ribadire con parole molto crude – con una serie di allegorie sull’infedeltà – la negatività della divisione, della separazione:  leggiamo il testo.

LEGERE MULTUM….

Libro di Geremia  3, 1-13

 Israele infedele a Dio

Dice il Signore: «Supponiamo che un uomo divorzi dalla moglie. Questa se ne va per diventare moglie di un altro. Certamente il primo marito non può ritornare più da lei, per non rendere impura la terra. Ma tu, Israele, ti sei prostituita con tanti amanti, e osi tornare da me? Guarda attentamente su ogni collina: riesci a vedere un luogo dove non ti sei prostituita? Ti sedevi lungo le strade e aspettavi i clienti, appostata come i predoni arabi nel deserto. Così hai reso impura la terra con la tua prostituzione e la tua immoralità. Per questo ho trattenuto le piogge e non ho mandato gli acquazzoni di primavera. Ma tu continui a prostituirti in modo sfacciato, senza un minimo di pudore»«D’ora in poi forse mi dirai: Tu sei mio padre, mi hai tanto amata nella mia giovinezza. Non sarai sempre adirato, non mi serberai rancore per sempre!. Tu dici così, ma intanto continui a commettere tutto il male che puoi».

Israele e Giuda: due sorelle infedeli a Dio

Durante il regno di Giosia il Signore mi disse: «Geremia, hai visto che cosa ha fatto l’infedele Israele? Se n’è andata a fare la prostituta sulla cima di tutte le colline sacre, all’ombra di ogni albero. Io pensavo che una volta sbizzarrita, certamente sarebbe ritornata da me. Ma non è tornata. Sua sorella, la traditrice Giuda, ha visto tutto. Ha visto che io ho consegnato all’infedele Israele una dichiarazione scritta di divorzio e l’ho cacciata via perché si è prostituita. Ma la traditrice Giuda non ha avuto paura e anch’essa si è comportata come una prostituta. La sua immoralità ha reso impuro tutto il paese perché ha commesso adulterio, ha adorato idoli di pietra e di legno. Nonostante il castigo d’Israele, la traditrice Giuda non è tornata da me con tutto il cuore: non è sincera. Lo dico io, il Signore».

Allora il Signore mi fece capire che Israele, con tutte le sue infedeltà, si era comportata meglio della traditrice Giuda. Mi ordinò di andare al nord per dire: «Torna da me, Israele infedele. Io ti perdonerò perché sono misericordioso. Non sarò in collera per sempre, - dice il Signore. - Riconosci la tua colpa: ti sei ribellata contro il Signore, Dio tuo, ti sei concessa a divinità straniere all’ombra di ogni albero e non hai ascoltato la mia voce. Dice il Signore».

     E quando gli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale] cominciano a mettere in evidenza il termine popoloil loro sguardo non corre più al passato ma al presente: la citazione del tempo passato, della nefasta separazione tra le tribù del nord (Israele) e del sud (Giuda), è un’allegoria che serve per evocare nel tempo contemporaneo, le disunioni in atto tra le varie classi sociali; e l’ingresso sulla scena delle parole che danno forma al concetto di popolo d’Israeleè un invito alle classi sociali (ceto aristocratico, ceto produttivo ed ebionim [diseredati]) perché cerchino e trovino l’unità necessaria per l’autonomia e per la prosperità del nuovo Stato. L’invito all’unione tra le diverse componenti sociali della Nazione viene richiamato dagli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale] intrecciando insieme l’idea tradizionale della berit [del patto] con Dio che promette la terra, con  l’idea del riconoscimento della nuova classe dirigente uscita dall’esilio, presentata anch’essa come dono di Dio.

     Leggiamo il testo:

LEGERE MULTUM….

Libro di Geremia  3, 14-25   4, 1-4

Popolo di Giuda, ritorna al tuo Dio

«Torna da me, popolo infedele, sono sempre io il tuo Signore. Ti radunerò da ogni città e da ogni tribù e ti ricondurrò al monte Sion. Ti darò dei capi che ti guideranno come voglio io, con saggezza e intelligenza. Allora, - dice il Signore, - quando sarai diventato numeroso nella tua terra, non si parlerà più dell’arca dell’alleanza con il Signore. Nessuno ci penserà più, nessuno se ne ricorderà, non ne faranno un’altra perché nessuno ne sentirà la mancanza. Gerusalemme sarà chiamata: Trono del Signore e si raduneranno in essa tutte le nazioni per adorare me, il Signore. Non si ostineranno più a fare quel che suggerisce il loro animo malvagio. Gli appartenenti alla tribù di Giuda si uniranno a quelli d’Israele. Dalle regioni del nord dove stanno in esilio, torneranno insieme nella terra data da me in eredità ai loro antenati».

Popolo d’Israele, ritorna al tuo Dio

 Il Signore dice: «Israele, desideravo tanto accoglierti tra i miei figli e darti una terra invidiabile, il gioiello più prezioso del mondo. Volevo sentirti dire: Padre mioe pensavo che mi saresti rimasto vicino. Invece, tu mi hai tradito come una moglie infedele. Così dice il Signore».

Si odono gli Israeliti piangere e gemere sulle colline. Hanno perso la strada, hanno dimenticato il Signore, loro Dio. Tornate a lui, figli infedeli: Egli vuole guarirvi dalle vostre infedeltà. Allora voi direte: «Eccoci, noi apparteniamo a te perché tu sei il Signore, nostro Dio. È vero, dalle colline sacre abbiamo riportato soltanto delusioni, sui monti abbiamo fatto solamente chiasso. Certo, la salvezza per Israele può venire soltanto dal Signore, nostro Dio. Invece, fin da quando eravamo giovani, noi abbiamo sacrificato scioccamente a Baal il frutto delle fatiche dei nostri padri: pecore e buoi, figli e figlie. Buttiamoci a terra per la vergogna, lasciamoci coprire dal disonore, perché dall’inizio fino ad oggi, noi e i nostri antenati abbiamo peccato contro il Signore, nostro Dio. Non abbiamo mai ascoltato la voce del Signore, nostro Dio».

Invito alla conversione e all’unione

Il Signore dice: «Popolo d’Israele (‘Am hā’Israel), se davvero cambi condotta, puoi ritornare a me. Se elimini quegli idoli che io non posso sopportare e ti mantieni fedele a me, se tu giuri sul mio nome nella verità, nel diritto e nella giustizia, allora anche gli altri popoli vorranno essere benedetti da me e mi canteranno le loro lodi».

Il Signore dice agli abitanti di Giuda e di Gerusalemme: «Arate di nuovo i campi lasciati incolti, non seminate più fra le spine, ma rinnovate il vostro patto con me. Cambiate sinceramente vita, abitanti di Giuda e di Gerusalemme. Se non farete così, il mio furore divamperà come fuoco. Brucerà e nessuno lo potrà spegnere a causa del male che avete commesso».

     L’argomento che abbiamo di fronte (lo abbiamo già ricordato) – il tema della costituzione del nuovo Stato giudaico dopo l’esilio babilonese – è molto complesso, e noi dobbiamo affrontarlo tenendo conto di quelle che sono le finalità (i limiti) del nostro Percorso, cioè in funzione della didattica della lettura e della scrittura e, a questo proposito adesso dobbiamo occuparci della terza parte del Libro di Geremia.

     Con il capitolo 36 ha inizio la terza parte del Libro di Geremia e la composizione di questa terza parte (dal capitolo 36 al 52) è ancora una volta nelle mani degli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale]. Con il capitolo 36 è come se il Libro di Geremia ricominciasse un’altra volta da capo. Il capitolo 36 è un punto-cardine per tutto il Libro; infatti, gli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale] inseriscono qui un testo molto interessante con il quale vogliono giustificare – ancora una volta con un macchinoso racconto allegorico – in che modo è stata scritta quest’opera che si presenta complessa, disordinata, di difficile lettura; ma soprattutto gli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale] devono trovare una giustificazione al loro lavoro di ristrutturazione dei testi della Scrittura, al loro intervento di revisione sulle opere del patrimonio letterario scritto a Babilonia perché si è determinato un duro scontro con i sacerdoti che non gradiscono l’autonomia ma preferiscono il collaborazionismocon i Persiani dai quali sono stati nobilitatiche garantisce loro molti privilegi.

     Che cosa raccontano gli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale] a proposito della ricostruzione, della riscrittura del Libro di Geremia che loro hanno realizzato in funzione della nuova situazione politica creatasi dopo l’esilio? Raccontano che Geremia non ha scritto questo Libro ma ha affidato il compito di comporlo (di scriverlo sotto dettatura) a un personaggio che si chiama Baruc e che, naturalmente, fa lo scrivano ed è certamente un personaggio allegorico. Con questa significativa metafora gli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale] s’identificano – come gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia – con i personaggi che creano e li inseriscono, per renderli attivi, in mezzo a tutta una serie di personaggi storici riportati nelle antiche Cronache regie. Con la creazione del personaggio di Baruc gli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale] vogliono alludere al fatto che loro stanno completando il lavoro di questo scrivano e stanno portando a termine la missione di Geremia che è quella di dare un senso all’esilio: la lezione dell’esilio deve insegnare che tutte le componenti del popolo devono assumersi le loro responsabilità, contrariamente è a rischio l’unità, l’autonomia, la prosperità della Nazione.

     Leggiamo il significativo capitolo 36 del Libro di Geremia:

LEGERE MULTUM….

Libro di Geremia  36, 1-32

Nel quarto anno del regno di Ioiakim figlio di Giosia e re di Giuda (il  personaggio di Giosia – come sappiamo - viene sempre citato quando c’è da mettere l’accento sulla necessità di essere uniti), il Signore diede a Geremia quest’ordine: «Procurati un rotolo da scrivere e scrivici i messaggi che ti ho comunicato riguardo al popolo d’Israele e di Giuda e alle nazioni straniere. Scrivi tutto quel che ti ho detto da quando ho incominciato a parlarti durante il regno di Giosia, fino ad oggi. Forse gli abitanti di Giuda si convinceranno che io ho davvero intenzione di mandare su di loro una grave sciagura e smetteranno di agire in modo malvagio. Così perdonerò le loro colpe e i loro peccati».

Geremia allora chiamò Baruc figlio di Neria, per dettargli tutti i messaggi che il Signore gli aveva comunicato e Baruc li scrisse sul rotolo (il testo del Libro di Geremia è dalle sue origini in mano agli scrivani).

Baruc legge i messaggi del Signore nel tempio

Quindi Geremia diede a Baruc queste istruzioni: «Io non posso andare al tempio perché me l’hanno proibito. Va’ tu al posto mio quando si raduna la gente per un giorno di digiuno. Allora leggerai ad alta voce i messaggi del Signore che hai scritto nel rotolo sotto mia dettatura (qui si avvalora, ancora una volta, l’usanza di leggere la Scrittura ad alta voce davanti al popolo da parte degli scrivani). Cerca di farli sentire bene anche a quelli che arrivano dalle città di Giuda. Forse pregheranno il Signore di perdonarli e smetteranno di agire in modo malvagio. Infatti il Signore ha detto che è particolarmente indignato e furente contro questo popolo (guai a chi, oggi, non s’impegna per l’unità della Nazione)».

Baruc figlio di Neria eseguì fedelmente le istruzioni del profeta Geremia: andò nel tempio per leggere i messaggi del Signore che aveva scritto nel rotolo.

Si era già nel quinto anno del regno di Ioiakim figlio di Giosia e re di Giuda. Nel nono mese di quell’anno tutto il popolo fu invitato a digiunare per ottenere i favori del Signore. Le popolazioni delle città di Giuda vennero a Gerusalemme per fare il digiuno insieme con gli abitanti di quella città. Proprio in questa circostanza, Baruc lesse ad alta voce nel tempio il messaggio di Geremia, scritto nel rotolo. Infatti era andato nella sala di Ghemaria figlio di Safan, segretario di corte. Questa stanza si trovava nel cortile superiore del tempio, nei pressi della nuova porta.

Michea figlio di Ghemaria e nipote di Safan, sentì Baruc mentre leggeva dal rotolo i messaggi del Signore. Allora andò al palazzo reale ed entrò nella stanza del segretario dove era in corso una riunione dei capi. Erano presenti, tra gli altri, Elisama segretario di corte, Delaia figlio di Semaia, Elnatan figlio di Acbor, Ghemaria figlio di Safan e Sedecìa figlio di Ananìa. Michea riferì loro tutto quel che aveva sentito leggere ad alta voce da Baruc davanti alla gente.

Allora i capi mandarono Iudi figlio di Natanìa nipote di Selemìa e pronipote di Cushi [l’Etiope], ad invitare Baruc a presentarsi con il rotolo che aveva letto ad alta voce davanti alla gente. Baruc figlio di Neria prese il rotolo e si presentò davanti a loro. Quelli gli ordinarono: – Siediti e leggi il rotolo anche a noi. Baruc eseguì gli ordini. Quando ebbe finito di leggere, i capi si guardarono pieni di paura e gli dissero:

– Dobbiamo proprio riferire tutto al re!

Poi domandarono a Baruc: – Spiegaci un po’, come mai hai scritto tutte queste cose?

E Baruc rispose: – Geremia mi dettava parola per parola e io ho scritto tutto nel rotolo con l’inchiostro.

Allora i capi gli dissero: – Dovete nascondervi tutti e due, tu e Geremia. Non fate sapere a nessuno dove andrete.

Il re Ioiakim brucia il rotolo di Geremia

I capi lasciarono il rotolo nella stanza di Elisama, segretario di corte, e si recarono negli appartamenti reali per raccontare al re quel che era accaduto. Il re mandò subito Iudi a prendere il rotolo nella stanza di Elisama. Iudi andò a prenderlo e poi lo lesse ad alta voce davanti al re e ai capi che stavano in piedi attorno a lui. Era inverno e il re abitava nella parte più riparata del palazzo e teneva vicino un braciere acceso. Appena Iudi aveva finito di leggere tre o quattro colonne dello scritto, il re le tagliava con un coltellino e le gettava nel fuoco. E continuò a fare così finché tutto il rotolo non fu bruciato.

Il re e i suoi ufficiali di corte sentirono leggere tutti quei messaggi, ma non ne furono impressionati né mostrarono alcun segno di pentimento. Eppure Elnatan, Delaia e Ghemaria avevano insistito perché il re non bruciasse il rotolo, ma egli non li ascoltò. Anzi ordinò a Ieracmeel, della famiglia reale, di andare con Seraia figlio di Azriel e con Selemia figlio di Abdeel, ad arrestare il profeta Geremia e il suo segretario Baruc. Ma il Signore li aveva messi al sicuro.

Geremia fa riscrivere i suoi messaggi

Dopo che il re ebbe bruciato il rotolo con i messaggi che Geremia aveva dettato a Baruc, il Signore disse a Geremia: «Procurati un altro rotolo e scrivici di nuovo tutti i messaggi che stavano nel primo, quello bruciato dal re Ioiakim. Poi, a nome mio, dirai a Ioiakim re di Giuda: Tu hai bruciato quel rotolo e hai accusato Geremia perché aveva scritto che il re di Babilonia sarebbe venuto di sicuro a distruggere questa terra e ad uccidere uomini e animali. Ebbene io, il Signore, dico a te, Ioiakim re di Giuda, che dopo di te nessuno dei tuoi discendenti sarà re nel regno di Davide. Il tuo cadavere resterà esposto al sole durante il giorno e al freddo della notte. Punirò te, i tuoi discendenti e i tuoi ufficiali di corte per i vostri peccati. Farò venire su di voi, sugli abitanti di Gerusalemme e sulla popolazione di Giuda tutte le disgrazie che ho minacciato contro di voi e che voi non avete mai preso sul serio».

Allora Geremia si procurò un altro rotolo e lo consegnò al suo segretario Baruc figlio di Neria. Geremia gli dettò tutti i messaggi contenuti nel rotolo bruciato da Ioiakim re di Giuda e ne aggiunse molti altri sullo stesso tono. Baruc scrisse tutto sul nuovo rotolo.

     Certamente gli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale] non si sono assunti un compito facile perché devono far fronte – come abbiamo studiato all’inizio di questo itinerario – ad una situazione di forte conflittualità che si crea nel momento della costituzione del nuovo Stato giudaico: la classe aristocratica, il ceto produttivo, la massa degli ebionim” [dei diseredati] rivendicano tutte e tre un ruolo privilegiato, ciascuna di queste componenti pretende di essere il resto d’Israele, di diventare la componente di base della Nazione.

     Gli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale] compiono una straordinaria operazione politico-istituzionale: intervengono sulla Scrittura – in particolare operano sui due Libri dei Re (e già abbiamo studiato questo tema), sul Libro di Geremia (su cui questa sera abbiamo ancora puntato l’attenzione), sul Libro di Isaia (su cui dobbiamo prossimamente puntare ancora l’attenzione) e sul Libro del Deuteronomio (stiamo preparando il terreno per studiare questa importante opera) – per attribuire (senza fare un’affermazione esplicita in modo da non contraddirsi) a ciascuna delle componenti sociali in conflitto tra loro la dignità di resto d’Israele.     Adesso – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – apriamo una parentesi dicendo che molte scrittrici e molti scrittori, in età moderna e contemporanea, hanno fatto proprio quello che in Letteratura viene chiamato lo stile di Geremiache si presenta come l’evoluzione dello stile del proclama di Amos. Lo stile di Geremia è caustico, è ironico, è incalzante.

     Il libro che questa sera incontriamo sul nostro itinerario s’intitola Le anime morte: perché ci si presenta dinnanzi proprio questo libro? Chi è l’autore di quest’opera dal titolo così particolare che sembra contenere un elemento di contraddizione visto che, quando pensiamo all’anima, pensiamo all’immortalità piuttosto che alla morte.

     L’autore di quest’opera si chiama Nikolaj Vasil’evic Gogol’ e tutti lo abbiamo sentito nominare. Nikolaj Vasil’evic Gogol’ nasce il 20 marzo (secondo il vecchio calendario russo; il 1° aprile secondo l’attuale) 1809 a Bol’šie Soročincy, nel governatorato di Poltava, in Ucraina. Il padre di Gogol’ è un piccolo proprietario terriero (possiede un’ottantina di anime: perché i proprietari terrieri nella Russia feudale erano anche padroni dei contadini), e aveva ricevuto una certa istruzione in seminario (Gogol’, fin da bambino piccolo, ha sentito raccontare la Bibbia da suo padre), e nutriva una gran passione per il teatro e scriveva anche dei versi (in russo) e delle commedie (in ucraino). Nelle vene dei membri della famiglia Gogol’ scorre anche sangue polacco  (erano stati cattolici prima di essere ortodossi) e al Ginnasio di Nežin, a Poltava (dove studia dal 1819 al 1828), Nikolaj Vasil’evič era conosciuto ancora col cognome polacco di Janovskij.

     Nikolaj Vasil’evič Gogol’ è stato un mediocre studente, fisicamente gracile, indolente e indisciplinato, e non riesce simpatico né agli insegnanti né ai compagni del Ginnasio: nemmeno la letteratura lo attrae in modo particolare, se non quando si tratta di mettere in ridicolo i vecchi professori del ginnasio e i loro antiquati criteri d’insegnamento. Gogol’ ha una tardiva vocazione letteraria e, prima che per la scrittura, mostra una viva propensione per il disegno: per le caricature grottesche e per l’improvvisazione mimica, tanto che gli amici lo considerano destinato alla carriera dell’attore.

     Alla fine del 1828 Gogol va a Pietroburgo, dove tenta – senza successo – di fare l’attore. Nel 1829 comincia a scrivere in poesia e pubblica i suoi poemetti a proprie spese con uno pseudonimo, ma l’accoglienza da parte della critica di queste sue prime prove come scrittore è addirittura beffarda, al punto che Gogol’ – rivelando da subito il suo carattere ombroso – acquista tutte le copie dei suoi scritti e le distrugge e poi parte da Pietroburgo con l’intenzione di andarsene in America. Si ferma a Lubecca, in Germania, dove ci ripensa e ritorna a Pietroburgo, dove con più pazienza ritenta la fortuna letteraria.

     Nel 1831 Nikolaj Vasil’evic Gogol’ (1809-1852) conosce Puškin il quale gli dà qualche consiglio, e così il giovane Gogol’ comincia a scrivere brevi racconti e a farsi conoscere negli ambienti intellettuali della capitale. Questi racconti diventano un volume che viene pubblicato con il titolo Le veglie alla fattoria di Dikan’ka (1831) dove, con una straordinaria capacità bozzettistica (che diventa una caratteristica della scrittura di Gogol’), descrive la vita di una comunità rurale ucraina con la sua cultura tramandata da personaggi in possesso di una grande vena narrativa (tutte, tutti voi sapete che cosa sono le veglie della tradizione contadina e potete fissare per iscritto i vostri ricordi...) e, visto il successo de Le veglie di Dikan’ka, a questo volume ne segue anche un secondo l’anno dopo (1832). Nel 1835 Gogol’ pubblica altri due volumi di racconti (intitolati Mirgorad) e il romanzo storico Taras Bulba, ma nel frattempo l’interesse di Gogol’ si sposta sull’ambiente di Pietroburgo (della città), dove – mettendo da parte il folklore e dando maggiore rilievo all’approfondimento psicologico – sono ambientati i racconti della raccolta, pubblicata sempre nel 1835 col titolo Arabeschi, della quale fanno parte La prospettiva Nevskij, Le memorie di un pazzo e, in prima stesura, Il ritratto dal quale Oscar Wilde prenderà spunto per comporre il suo Ritratto di Dorian Gray. Nel 1834 Gogol’ viene nominato professore di storia all’università di Pietroburgo: la sua breve esperienza accademica è stata un fallimento, del quale Gogol’ stesso si rende conto dimettendosi dalla cattedra l’anno successivo. Ma, intanto, la sua fama letteraria cresce di giorno in giorno e il giovane scrittore viene ammirato sia dai giovani idealisti capeggiati da Belinskij, sia dal circolo degli slavofili che a Mosca si raccolgono attorno alla famiglia Aksakov: questi sono i due centri culturali più importanti della città.

     Gogol’, quindi, dovrebbe essere soddisfatto, dovrebbe sentirsi realizzato ma invece non lo è.  Gogol’ è insicuro e dubbioso per temperamento, ed è e sarà sempre molto incerto sul proprio talento artistico: cambia un po’ idea, ma solo temporaneamente, dopo lo strepitoso successo della prima rappresentazione (nell’aprile 1836) della sua opera teatrale più famosa, L’ispettore generale, dopo la quale l’imperatore stesso gli invia in dono 800 rubli. Ma L’ispettore generale, che è una mordace satira della corrotta e sonnolenta burocrazia di provincia, suscita – accanto alle lodi entusiastiche – anche molti dissensi indignati, per cui Gogol’, frastornato, riparte nel giugno del 1836. Da allora, per circa dodici anni, soggiorna in Germania, in Svizzera, a Parigi e soprattutto a Roma: questa città, tanto per l’architettura che per lo stile di vita dei suoi abitanti, lo affascina e risponde perfettamente al senso del magnifico e del pittoresco che Gogol’ possiede (c’è, a questo proposito, un saggio di Daria Borghese intitolato Gogol’ a Roma, pubblicato a Firenze nel 1957). A Roma lo raggiunse la notizia della morte di Puškin (molte e molti di noi l’abbiamo vissuta in diretta nella primavera del 2005).

     Gogol’, con la morte di Puškin, cerca di convincersi di essere lui, ora, il massimo esponente della letteratura russa, destinato a grandi cose. E, con questo pensiero, a Roma, (nell’abitazione di via Felice), dà inizio alla stesura definitiva dell’opera che è entrata a pieno titolo nella Storia del Pensiero Umano intitolata: Le anime morte che incontriamo questa sera sul nostro itinerario.

     In questi anni Gogol’ scrive anche la sua seconda commedia, Il matrimonio (una satira caustica e pungente), riscrive Il ritratto, scrive Il naso (un’opera surreale d’avanguardia) e compone il celebre racconto Il cappotto che è un capolavoro di narrativa di cui si consiglia – come per tutte le opere di Gogol’ – la lettura.

     Terminata, nel 1841, la prima parte de Le anime morte, Gogol’ rientra in Russia per ottenere il visto della censura. L’opera appare l’anno seguente con il titolo imposto dai censori i quali, nella dicitura «anime morte», sospettano una qualche allusione non ortodossa dal punto di vista religioso: il titolo che i censori impongono è Le avventure di Čičikov, ovvero le anime morte. Questo romanzo, che viene definito un poema, viene accolto entusiasticamente da tutta la società letteraria e Gogol’ tocca l’apice della sua carriera di scrittore.

     Ma da questo momento ha anche inizio la sua crisi, quella che è stata chiamata la crisi esistenziale di Gogol’ (potrebbe essere il titolo di un’opera perché, come la morte di Puškin, anche la crisi esistenziale di Gogol’si presta ad essere raccontata come se fosse un romanzo). Mentre Le anime morte (la prima parte) vengono accolte (e lo sono davvero), come un capolavoro di satira e di fantasia creativa, in Gogol’ comincia a prendere forma la convinzione di essere chiamato a qualcosa di più alto e di «più utile» per la Russia. «È inutile dire che ho scritto un capolavoro satirico e comico – sostiene Gogol’ – in cui si descrivono i mali della società (che tutti riconoscono essere un inferno) se poi non cambia niente». Da questo momento si fa strada in Gogol’ una agitazione profetica, una smania missionaria, un’ansia profonda di rigenerare la Russia, facendola risorgere dalla corruzione e dal peccato che lui ha così efficacemente descritto.

     E ora abbiamo capito perché questo personaggio e la sua opera la troviamo qui, su questo itinerario: in Gogol’ si materializza – in età contemporanea – quello che viene chiamato lo stile di Geremia. Nella seconda parte de Le anime morte, Gogol’ tenta di tracciare la via dell’espiazione, della redenzione (appunto il purgatorio) del personaggio principale. Ma il suo lavoro procede a stento e fra mille incertezze anche a causa delle sue precarie condizioni di salute.

     Nel 1847 Gogol’ dà alle stampe un libro intitolato Brani scelti dalla corrispondenza con gli amici. Nelle intenzioni di Gogol’ questo libro avrebbe dovuto essere un messaggio di redenzione, ma gli amici – a cui lui si riferisce – prendono le distanze: non vedono da che cosa dovrebbero redimersi. Tanto Aksakov, che era sempre stato il più acceso suo sostenitore, quanto Belinskij nella famosa «lettera a Gogol’» smentiscono di condividere il suo pensiero: in Russia – sostengono – tutto va bene e il fatto che tutti rubino un po’ e che la Legge non sia uguale per tutti è fisiologico, e avviene dovunque.

     La crisi di Gogol’ si accentua: minato nel fisico dalle pratiche ascetiche, ossessionato anche dall’idea che quanto ha scritto sia peccaminoso, intraprende – nel 1848 – un pellegrinaggio in Terra Santa. Quando rientra in Russia è ancora più deluso e più frustrato: tenta tuttavia di portare avanti la seconda parte del suo capolavoro, che poco prima di morire, in un accesso di furore autopunitivo, dà alle fiamme (la parte che ci resta costituisce solo una prima e molto parziale stesura). Gogol’ muore, sofferente nello spirito e stremato nel fisico dai prolungati digiuni, il 21 febbraio (secondo il vecchio calendario) 1852.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

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     Nell’ottobre del 1835 Gogol’ aveva comunicato in una lettera a Puškin: «Ho incominciato a scrivere Le anime morte. La trama si è venuta sviluppando in un lungo romanzo e, mi sembra, sarà alquanto buffa In questo romanzo vorrei mostrare tutta quanta la Russia, almeno da un certo lato». È noto che l’idea prima del romanzo (tratta da un fatto di cronaca) era proprio stata suggerita a Gogol’ da Puškin.

     Gogol’, nella prima parte del romanzo-poema Le anime morte, vuole mettere in evidenza – attraverso i personaggi esemplari – i difetti e i vizi delle persone che vivono nella Russia del suo tempo. Nella seconda parte descrive il passaggio dal mondo negativo a quello positivo che avrebbe dovuto condurre all’esaltazione dei valori spirituali, secondo il modello del ciclo dantesco dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso.

     Nel romanzo si narrano le vicende di un piccolo possidente nobile, Čičikov, che si è prefisso di far fortuna. Per raggiungere questo obiettivo egli lascia il suo modesto impiego alle dogane e inventa un trucco per ingannare gli sciocchi e per fregare la finanza. Čičikov pensa di comperare a bassissimo prezzo quei contadini-servi della gleba che sono morti dopo l’ultimo censimento, e che, quindi, risultano ancora vivi ai fini delle tasse (le cosiddette anime morte), in modo da trasferirli, sulla carta, in un governatorato in cui vengono concesse vaste terre a chi possiede un certo numero di servi. Čičikov – a tale scopo – percorre la provincia russa e la trama della narrazione consiste nelle sue peregrinazioni in cerca di anime morte e quindi nelle sue avventure vissute con i piccoli e grandi proprietari rovinati dalla carestia e dal colera, i quali, tutti più o meno furbi o ingenui, – di fronte alla proposta indecente e illegale di Čičikov – vengono a patti con la propria coscienza: tutti sono disposti a frodare il fisco accampando, naturalmente, delle giustificazioni.

     Leggiamo l’incipit de Le anime morte:

LEGERE MULTUM….

Nikolaj Vasil’evič Gogol’,  Le anime morte  (1841-1842)

Nel portone della locanda della città di N. N., capoluogo di governatorato, entrò un carrozzino abbastanza bello, con le molle, di quelli che ci viaggiano gli scapoli: tenenti colonnelli in congedo, capitani in seconda, proprietari di campagne con un centinaio d’anime di contadini, insomma tutti coloro che sono chiamati signori di mezza tacca. Nel carrozzino era seduto un signore, non bello, ma nemmeno di brutto aspetto, né troppo grasso, né troppo magro; non si poteva dire che fosse vecchio, ma nemmeno che fosse troppo giovane. Il suo ingresso non fece nessunissima impressione in città, né fu accompagnato da alcun che di speciale; solo due contadini russi che stavano sulla porta di una bettola dirimpetto alla locanda fecero alcune osservazioni, le quali del resto si riferivano più al veicolo che a colui che v'era sopra. «Uh, guarda! – disse il primo al secondo: – Guarda che razza di ruota! Che pensi tu: in caso di bisogno, ci arriverebbe fino a Mosca, quella ruota, o non ci arriverebbe?». «Ci arriverebbe», rispose l’altro. «A Kazan’ però non ci arriverebbe, penso»«A Kazan’ non ci arriverebbe…», rispose l’altro. E con questo il dialogo ebbe termine. Poi ancora, quando il carrozzino s’avvicinò alla locanda, passò un giovanotto che portava calzoni bianchi di tela a righe, molto stretti e corti, e una marsina che aveva la pretesa di seguire la moda e lasciava scorgere un pettino chiuso da un bottone di Tuia con una pistola di bronzo. Il giovanotto si voltò indietro, guardò il legno, trattenne con la mano il berretto che per poco il vento non gli portava via, e se ne andò per la sua strada.                          

Quando la carrozza entrò nel cortile, il signore fu ricevuto dal servo della locanda, ossia dal polovoj – come sono chiamati nelle locande russe, – uomo vivace e d’una tale mobilità, che non si riusciva neppure a vedere che faccia avesse. Costui corse fuori con un tovagliolo in mano, tutto frettoloso, lungo lungo, con indosso un lungo soprabito di cotonina il cui dorso gli montava su fin quasi alla nuca, scrollò i capelli e accompagnò lesto il signore su per tutta la galleria di legno, per mostrargli la stanza concessagli da Dio. La stanza era delle solite, in quanto anche la locanda era delle solite, cioè precisamente tale e quale come tutte le locande dei capoluoghi di governatorato dove per due rubli al giorno i viaggiatori ottengono una camera tranquilla, piena di blatte che fanno capolino, simili a prugne secche, da tutti gli angoli, e con una porta di comunicazione sempre barricata da un cassettone, verso la camera adiacente, nella quale prende alloggio un vicino, uomo tranquillo e taciturno, ma straordinariamente curioso, che s’interessa di tutti i fatti minuti del viaggiatore.

     La trama della narrazione è un mirabile quadro realistico, visto però con la lente del grottesco che scatena la comicità (una lente che Gogol’ sa usare alla perfezione) e su cui spiccano una serie di figure tipiche che rimangono impresse (che hanno lasciato il segno nella storia della Letteratura) come esemplari unici dell’umanità mostruosa che Gogol’ sa rappresentare alla perfezione. In questo romanzo-poema, di notevolissimo valore sono le digressioni dell’autore, nelle quali si alternano l’elemento lirico e quello filosofico-morale. Queste digressioni (liriche, filosofiche e morali, alla maniera gogolianacome si suol dire) ricordano la Letteratura dei profeti. 

     Il valore de Le anime morte, come requisitoria contro la servitù della gleba, come denuncia dell’ingiustizia, come analisi sui vizi e sul degrado morale, è stato compreso lentamente: oggi, quest’opera, è ancora di grande attualità e ce lo dice Leone Tolstoj interrogandosi: «Che cosa sono Le anime morte di Gogol’? Né un romanzo né un racconto. Sono qualche cosa del tutto originale che ci invita a riconoscere le nostre responsabilità»

     Leggiamo le ultime due pagine [troviamo alcune lacune nel testo che non ne pregiudicano il significato]:

LEGERE MULTUM….

Nikolaj Vasil’evič Gogol’,  Le anime morte  (1841-1842)

Nella sala grande della casa del governatore generale si adunò tutta la classe impiegatizia della città, a cominciare dal governatore fino al consigliere titolare: i direttori di cancelleria e degli affari, i consiglieri, gli assessori, quelli che arraffavano, quelli che non arraffavano, chi faceva raggiri, chi faceva mezzi raggiri e chi non ne faceva punti. Tutti costoro non senza turbamento e inquietudine aspettavano l’uscita del governatore generale.  

Il principe usci, con faccia né buia né chiara: il suo sguardo era fermo e così il passo. Tutta l’accolta dei funzionari s’inchinò, il principe cominciò:

– Dovendo partire per Pietroburgo, ho stimato conveniente d’incontrarmi con voi e di spiegarvene in parte la ragione. Qui da noi è scoppiata una faccenda molto scandalosa. Suppongo che molti dei presenti sappiano di quale faccenda io parlo. Questa faccenda ha portato con sé la scoperta di altre ancora, non meno disoneste, nelle quali si trovano implicate alla fine anche persone che io finora consideravo oneste. Mi è stato anche noto lo scopo segreto d’ingarbugliare tutto in modo che ne risulti l’assoluta impossibilità di risolvere la questione secondo le regole formali. So anche chi è l’agente principale e per la segreta di chi , sebbene egli abbia molto abilmente nascosto la sua partecipazione. Ma qui sta il punto, che io intendo indagare questo affare non con un’inchiesta formale sulla carta, bensì con rapido giudizio militare, come in [tempo] di guerra, e spero che il Sovrano mi darà questo diritto, quando gli avrò esposto tutta questa faccenda. In simili casi, quando non c’è possibilità di risolvere la questione in via civile, quando s’incendiano gli scaffali con le [carte] e finalmente con una quantità di testimonianze menzognere di privati e di menzognere delazioni si cerca di oscurare la faccenda già di per sé abbastanza oscura, io giudico che il tribunale militare sia l’unico mezzo e desidero di conoscere la vostra opinione.

Il principe si fermò come [per] aspettare una risposta. Tutti stavano con gli occhi fissi a terra. Molti erano pallidi.

– Mi è noto anche un altro fatto, sebbene coloro che lo hanno commesso siano perfettamente convinti che nessuno ne possa aver cognizione. Questo processo non si svolgerà per via burocratica, perché accusatore e parte civile sarò io stesso, e porterò prove evidenti.

Qualcuno trasalì nell’assemblea degli impiegati; taluni più paurosi si turbarono pure.                                                – S’intende da sé che ai principali colpevoli debba toccare la perdita dei gradi e degli averi, agli altri la rimozione dal posto. S’intende da sé che fra essi dovrà soffrire anche un gran numero d’innocenti. Che fare? La cosa è troppo disonesta e invoca giustizia. Sebbene io sappia che ciò non sarà neppure una lezione per gli altri, giacché al posto degli scacciati ne verranno altri, e quegli stessi che finora sono stati onesti diventeranno disonesti, e quegli stessi che saranno onorati di fiducia inganneranno e tradiranno, ad onta di tutto ciò io debbo agire con crudeltà, perché il fatto invoca giustizia, so che mi accuseranno di crudele durezza, ma so anche che quelli saranno ancora accus io debbo trasformarli solo in un’arma insensibile di giustizia che deve cadere sul capo

Un fremito trascorse involontariamente su tutti i visi.

Il principe era tranquillo. Il suo volto non esprimeva né ira né turbamento interno.

– Ora, colui che ha nelle mani la sorte di tanti, e cui nessuna preghiera ha avuto il potere d’impietosire, quello stesso prega ora voi tutti. Ogni cosa sarà dimenticata, accomodata, perdonata: io mi faro garante per tutti, se voi adempirete la mia richiesta. Eccola: so che con nessun mezzo, nessuna minaccia, nessun castigo si può sradicare il male: esso è già troppo profondamente radicato. La disonestà di prender lo sbruffo (la bustarella, la tangente) è diventata necessità e bisogno anche per gente che non era nata ad essere disonesta. So che andare contro la corrente universale è diventato ormai quasi impossibile per molti. Ma io ora debbo, in questo momento decisivo e sacro, quando si tratta di salvare la patria, quando ciascun cittadino sopporta tutto e sacrifica tutto, io debbo fare appello almeno a coloro che hanno ancora in petto un cuore russo e comprendono, comunque, il senso della parola nobiltà d’animo. A che discutere chi sia fra noi il più colpevole? Io forse sono più colpevole di tutti; forse vi ho accolti troppo ruvidamente all’inizio; forse, con una diffidenza eccessiva, ho allontanato da me coloro fra voi che volevano essermi sinceramente utili, sebbene anch’io da parte mia avrei potuto fare Se essi amavano realmente la giustizia e il bene della loro terra, non avrebbero dovuto adontarsi neppure della freddezza del mio contegno, avrebbero dovuto reprimere in sé l’ambizione e sacrificare la loro personalità.

Non avrei potuto non notare la loro abnegazione e l’alto amore al bene e avrei accolto finalmente da parte loro degli utili e saggi consigli. Pur tuttavia tocca piuttosto al subalterno adattarsi al carattere del superiore, che al superiore a quello del subalterno. Ciò è per lo meno più legittimo e più facile, giacché i subalterni hanno un sole superiore, mentre il superiore ha un centinaio di subalterni. Ma lasciamo da parte ora chi sia il più colpevole. Si tratta di questo, che è venuto il tempo per noi di salvare la nostra terra; che la terra nostra non perirà ormai per l’invasione di venti stirpi straniere, ma per colpa di noi stessi; che ormai, accanto all’ordinamento legale si è formato un altro ordinamento assai più forte di tutti quelli legali. Si sono stabilite delle condizioni, tutto è stato valutato e anche i prezzi sono ormai di dominio pubblico. E nessun uomo di governo fosse anche più saggio di tutti i legislatori e gli uomini di governo avrebbe la forza di rimediare al male, per quanto limitasse l’attività dei cattivi impiegati mettendo altri impiegati a sorvegliarli. Tutto sarà vano, finché ciascuno di noi sentirà che, come al tempo della rivolta dei popoli si è armato contro , così deve insorgere contro l’iniquità. Come russo, come uomo legato a voi da una parentela di sangue, dal medesimo sangue, io ora mi rivolgo [a] voi. Mi rivolgo a coloro tra voi che hanno una certa conoscenza di ciò che sia la nobiltà dei pensieri. Vi invito a ricordarvi del dovere che incombe ad ognuno, qualunque sia il posto che occupa. Vi invito a considerare da vicino il vostro dovere e gli obblighi del vostro ufficio terreno giacché essi si manifestano a noi tutti in modo confuso, e noi ben difficilmente

     Qui s’interrompe il testo de Le anime morte, romanzo-poema incompiuto, di cui, questa sera, abbiamo letto la prima e le ultime due pagine: se ne consiglia la lettura integrale perché tra la prima e le ultime due pagine la scrittura di Gogol’ ci presenta molteplici spunti su cui riflettere e i significativi temi che Gogol’ affronta in quest’opera sono di grande attualità secondo lo stile di Geremia.

     Fino ad ora gli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale] – nella prima e nella terza parte del Libro di Geremia – mettono in evidenza la trafila delle responsabilità (la separazione, la corruzione morale, la pratica dell’ingiustizia) che vengono distribuire, in eguale misura, tra le varie classi sociali fino alla codificazione del concetto di popolo che diventa l’oggetto unificante su cui far ricadere prima la punizione di Dio e poi il perdono e la redenzione. E gli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale], in modo molto accorto, sanno che non possono mettere in evidenza solo gli aspetti negativi (l’infedeltà, il peccato, la punizione) che creerebbero nella società (nelle varie classi sociali) una situazione di continuo sconforto e di persistente frustrazione.

     Gli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale] compiono una vera e propria operazione geniale elaborando, oltre alla sequela dei demeriti, anche quella che viene chiamata – dalle studiose e dagli studiosi di filologia biblica – la sequenza dell’equilibrio dei meriti.

     In che cosa consiste la trama e come si dipana il filo di questa, cosiddetta, sequenza dei meriti? La prossima settimana cercheremo di sbrogliare questa matassa contando sull’aiuto reciproco e procedendo lentamente: non sono cose che si fanno né da soli né di fretta...

     Direbbe, a questo proposito, un personaggio gogoliano (che ha letto il Libro di Geremia): Se si vuole andare veloci è meglio camminare da soli, ma se si vuole andare lontano è meglio camminare insieme agli altri ...

     La Scuola è qui, accorrete affrettandovi lentamente: il viaggio continua e dobbiamo andare  lontano...

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Febbraio 8, 2008