Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza poetica beritica 2008 20-21-22 febbraio 2008
UNA “SOCIETÀ SALVATA [ISAIA]”: IL RAPPORTO TRA “SOVRANITÀ” E “SERVITÙ” …
Il nuovo Stato giudaico costituitosi, dopo il 539 a.C., in virtù dell’Editto di Ciro nasce tra mille difficoltà. Nei ranghi della pubblica amministrazione di questo nuovo Stato – come sappiamo – ci sono gli scrivani della terza generazione degli ex esiliati a Babilonia che (dalla seconda metà del 1700) vengono denominati gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale]. Questi scrivani – come sappiamo – affrontano con grande determinazione (adoperandosi per investire in intelligenza) i gravi problemi di ordine sociale, politico, culturale, religioso che si presentano, da subito, nel momento della costituzione del nuovo Stato giudaico.
Il primo grave problema che gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] si trovano a dover affrontare – stiamo affrontando questo tema da qualche settimana – è quello del duro scontro tra le principali classi sociali (l’aristocrazia, la borghesia e il proletariato, per definirle in termini moderni) che dovrebbero formare la struttura portante della Nazione. Sappiamo che il ceto aristocratico-sacerdotale (l’aristocrazia) e il ceto produttivo (la borghesia) – le due classi sociali formate dagli eredi degli ex deportati che tornano a Gerusalemme da Babilonia – pensano di avere una missione da compiere secondo i dettami dell’Editto di Ciro: gli aristocratici devono assumere il ruolo di guide religiose e istituzionali del nuovo Stato, mentre il ceto produttivo deve assumere il ruolo di classe imprenditoriale in una Nazione quasi del tutto priva di strutture economico-mercantili adeguate. Sappiamo poi che, all’interno dei confini del nuovo Stato, ci sono gli “ebionim [i diseredati]”: gli eredi di quei “poveri” che cinquant’anni prima non sono stati deportati in Mesopotamia e sono rimasti a morir di fame su una terra, la terra di Canaan, desolata e abbandonata a se stessa dai Babilonesi.
In un primo momento gli “ebionim” [i diseredati]si rivoltano contro la nuova classe dirigente che li vuole sudditi, senza neppure prenderli in considerazione come membri attivi della nascente Nazione, e la ribellione degli “ebionim” [i diseredati]si rivela come una vera e propria emergenza. Di fronte a questa emergenza – che avrebbe potuto portare ad una sanguinosa guerra civile e ad un intervento di tipo repressivo da parte dei Persiani che avrebbe bloccato il processo costitutivo del nuovo Stato – si dimostra di grande efficacia la reazione intellettuale degli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale].
Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], infatti, fanno tesoro – e lo abbiamo già studiato – della tradizione culturale di cui sono eredi: utilizzano gli strumenti del sapere (si avvalgono della loro istruzione) e usano, in modo creativo e anche spregiudicato, tutti i dispositivi intellettuali che sono capaci di mettere in atto. Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] si assumono (memori del “proclama di Amos” redatto dagli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia di cui sono i figli) un compito difficile perché decidono di reagire di fronte ad una situazione di forte conflittualità usando gli strumenti della politica: la mediazione, la concertazione, il patteggiamento.
Con la costituzione del nuovo Stato giudaico tanto la classe aristocratica (che gestisce il potere istituzionale governando il culto che trova la sua collocazione all’interno delle mura del Tempio), tanto il ceto produttivo (che gestisce il potere economico governando il mercato che trova la sua collocazione fuori dalle mura del Tempio), quanto la massa degli “ebionim” [i diseredati](che, dispersi sul territorio, forniscono la “manodopera” e vogliono essere presi in considerazione non solo in quanto sudditi, in quanto “manovalanza”, ma come popolazione attiva) rivendicano un ruolo privilegiato: ciascuna di queste componenti sociali pretende di essere il “resto d’Israele”, il nucleo della Nazione.
Se a una di queste classi – abbiamo già detto la scorsa settimana – fosse stato concesso, a scapito delle altre, il privilegio di attribuirsi il ruolo di “radice”, di “ceppo”, di “sorgente”, di “germoglio” o di “virgulto” della nuova Nazione (queste parole, che noi troviamo soprattutto nel Libro dei Salmi, sono i termini che – secondo il movimento della “sapienza poetica beritica” – ciascuna classe sociale avrebbe voluto attribuirsi) l’aspirazione all’unità sarebbe stata compromessa per sempre e la Nazione giudaica non avrebbe mai potuto aspirare all’autonomia e alla piena indipendenza. Era quindi molto importante far sì che ciascun membro di queste classi sociali (i padroni del Tempio, i padroni del mercato e i sudditi del “popolo della terra”) prendesse atto di appartenere al “resto” di una parte che era sopravvissuta all’esilio e riconoscesse anche agli altri questo status.
Sappiamo (ce ne siamo già rese e resi conto) che gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] possiedono le competenze necessarie per utilizzare il patrimonio della Scrittura (che era stato trasportato da Babilonia a Gerusalemme), in modo da predisporre un nuovo “canone” in funzione dello scioglimento dei nodi che con la nuova situazione politica si erano venuti a creare. Possiamo dire che gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale]– a questo proposito – hanno maturato una mentalità “costituente” (lasciandola in eredità alla Storia del Pensiero Umano dell’età moderna) e, in virtù di questo fatto, pensano sia necessario mettere in evidenza (fissare per iscritto) le parole-chiave e le idee-cardine nelle quali ogni classe sociale (i padroni del Tempio, i padroni del mercato e i sudditi del “popolo della terra”) possa riconoscersi: con questo intento programmatico (costruire la rete delle parole-cardine – dei princìpi – in cui tutti i membri del nuovo Stato possano trovare la loro identità) intervengono sui testi della Scrittura, che avevano preso forma durante l’esilio, ridisegnandone la sagoma: nasce così, sulla base del “canone dell’esilio”, redatto dagli scrivani del tre generazioni deportate a Babilonia, il nuovo canone “giudaico-palestinese”.
Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] – e lo abbiamo già ribadito – conoscono bene il potere che la “scrittura” ha: la “scrittura” possiede (e tutti nella società ebraica ne sono consapevoli) la virtù, l’attitudine, la capacità, la facoltà, l’efficacia di far “esistere le cose” … ricordiamo sempre, a questo proposito, che, in ebraico, il termine “dabar” significa contemporaneamente “parola” e “cosa”.
Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] – come abbiamo già studiato negli itinerari precedenti a questo –, operano, prima di tutto, in modo da criticare severamente tutte le componenti della “società d’Israele” e, a questo proposito (come abbiamo studiato) utilizzano soprattutto la voce [il testo scritto] del profeta Geremia. Questa operazione di “distribuzione paritaria delle responsabilità” tra tutti i membri della varie classi sociali dà forma al procedimento (già iniziato – come sappiamo – durante l’esilio a Babilonia dagli scrivani della seconda generazione con l’invito pressante all’autocritica, alla presa di coscienza, all’assunzione di responsabilità) che porta alla codificazione del concetto di “popolo” che diventa l’oggetto unificante per poter aspirare all’unità della Nazione. Una volta costruita l’idea di “popolo”, gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], possono mettere per iscritto l’affermazione che «Dio fa ricadere la punizione sul suo popolo».
Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] codificano l’idea – per mezzo della Scrittura – che ciascun membro del nuovo Stato giudaico, indipendentemente dalla classe sociale di cui fa parte, sente di appartenere al “popolo eletto separato [eletto]” proprio nel momento in cui prende coscienza del fatto che “Dio punisce”;questo è il senso da dare all’espressione “Dio punisce il suo popolo” che ricorre continuamente soprattutto nel testo della Letteratura dei profeti e suona alla stregua di una tessera di riconoscimento:come dire “Dio riconosce il diritto a chi accetta la punizione [sotto forma di esilio o di miseria] e a chi si pente per gli errori commessi [per non avere rispettato i patti di solidarietà e per aver infranto la Legge uguale per tutti] di entrare a far parte del popolo separato [eletto]” .
Ma gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] sanno bene che non è possibile mettere in evidenza e calcare la mano solo sugli aspetti negativi (l’infedeltà, il peccato, la punizione, la sequela dei demeriti) perché questo fatto determinerebbe l’emergenza nella società (all’interno delle varie classi sociali) di una situazione di continuo sconforto e di persistente frustrazione.
Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] compiono, quindi, un significativo investimento in intelligenza quando mettono in evidenza (oggi diremmo mettono in rete) le parole-chiave rappresentative di ogni gruppo sociale (dell’aristocrazia, della borghesia, del proletariato) e le fissano nel “corpus” della Scrittura con l’obiettivo che tutti i membri di ogni classe, di ogni ceto ci si riconoscano. Questo fa sì che ciascun membro della comunità, vedendo riconosciuti i valori del proprio gruppo nel catalogo dei princìpi su cui si fonda lo Stato, possa sentire di appartenere al “popolo” di una Nazione. E, come sappiamo, utilizzando le parole-chiave “tempio”, “legge” e “servo” gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] hanno potuto elaborare, oltre alla “sequela dei demeriti”, anche quella che viene chiamata – dalle studiose e dagli studiosi di filologia biblica – la “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]”. Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] – come già sappiamo – cominciano a costruire la “sequenza dell’equilibrio dei meriti” dal testo del Secondo Libro dei Re e, per la precisione, dal capitolo 22 (un brano che abbiamo letto e riletto). Nel testo del capitolo 22 del Secondo Libro dei Re viene messa in risalto la figura del re Giosia (ve lo ricordate certamente) che – secondo la tradizione – è considerato un personaggio unificante ed è la figura di monarca più stimata del periodo precedente all’esilio babilonese (egli vuole dare alla Nazione una Legge che sia uguale per tutti, vuole avviare una riforma religiosa e morale, e conclude la sua esistenza morendo in battaglia per difendere la propria terra).
Il personaggio di Giosia è gradito soprattutto alle categorie subalterne del nuovo Stato giudaico, agli “ebionim” che sono materialmente “a servizio” delle altre classi. Il re Giosia (e questo è un dato fondamentale) viene presentato, nel capitolo 22 del Secondo Libro dei Re, con queste parole: «Giosia era il servo [‘ebed] del Signore (fece la volontà del Signore) e seguì l’esempio del suo antenato Davide, senza mai prendere una strada diversa».
Questo – come abbiamo studiato la scorsa settimana – rappresenta l’elemento più significativo del primo anello della “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]”: sappiamo che in lingua ebraica la parola “merito” e la parola “dovere” s’identificano e con questa dichiarazione – «Giosia era il servo [‘ebed] del Signore» – si vuole affermare che non solo la “manovalanza” è chiamata ad avere dei “doveri” nella società ma prima di tutto esistono i “doveri” del re il quale deve garantire il rispetto dei patti di solidarietà e il rispetto della Legge uguale per tutti. Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] vogliono dare pari dignità a tutte le classi sociali davanti alla Legge ma si pongono anche la domanda se sia possibile riconoscere pari dignità a tutte le classi sociali. Gli scrivani del “Codice Priester [del Codice sacerdotale]” pensano che quando una persona viene a trovarsi in alto nella scala gerarchica debba rendere un servizio maggiore alla società.
Nel secondo anello della “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]” – di cui questa sera ci dobbiamo occupare – gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] vogliono rafforzare, esaltare, autenticare il concetto di “servo del Signore” in cui tutti i membri della comunità si devono riconoscere: è “servo” il re, è “serva” la classe sacerdotale, è “serva” la classe produttiva e sono “servi” gli “ebionim”, è “servo” tutto il popolo nel suo insieme.
È proprio vero – sembrano domandarsi gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] – che per tutti i membri della società possano esistere pari opportunità? Gli scrivani del “Codice Priester [del Codice sacerdotale]” – nel rispondere a questo interrogativo – ritengono (e lo ripetiamo) che più una persona si trova in alto nella scala gerarchica e più debba rendere un servizio alla società. Queste riflessioni fanno sì che la figura del “servo” – nel momento in cui gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] si apprestano a costruire il secondo anello della “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]” – debba apparire in tutta la sua straordinaria potenza: il “servo” deve apparire (secondo le regole rituali delle antiche tradizioni pastorali) come la “vittima immolata”, attraverso il cui sangue [lo stile di vita] la Nazione sarà liberata.
In quale Libro gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] collocano il secondo anello della “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]”? Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale]inseriscono il secondo anello della “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]” nel Libro di Isaia.
Dobbiamo subito dire, come preambolo, che non è proprio corretto fare un’affermazione di questo genere, perché? Perché gli scrivani del “Codice Priester [del Codice sacerdotale]” non sono in possesso del testo del Libro di Isaia come noi lo possediamo oggi – e questo non è difficile da capire per chi, come noi, è in viaggio su questo Percorso da circa quattro mesi e mezzo e ha un po’ di dimestichezza con il movimento della “sapienza poetica beritica” – ma ne conoscono solo una parte: la parte che è stata trasportata a Gerusalemme da Babilonia – insieme con tutto il patrimonio della Scrittura composto in esilio – all’atto (in virtù dell’Editto di Ciro) della nascita del nuovo Stato giudaico, e gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale]considerano molto utile il testo di questa parte in funzione del programma politico che perseguono e nella prospettiva della codifica del primo canone cioè del “canone giudaico palestinese”.
Il Libro di Isaia è un testo straordinario, è un’opera strategica che viene considerata fondamentale nella Storia del Pensiero Umano e la Scuola deve consigliarne e propiziarne la lettura o la rilettura, anche se si tratta di un esercizio non facile, ma questo vale per tutti i Libri della Letteratura beritica.
Il Libro di Isaia è un’opera emblematica – per sviluppare tutte le tematiche contenute in essa ci vorrebbe un intero Percorso della durata di un anno scolastico – e noi utilizziamo l’incontro con questo testo per mettere meglio a fuoco una serie di concetti (di idee-guida in funzione della didattica della lettura e della scrittura) che abbiamo studiato strada facendo. Il Libro di Isaia è un’opera particolarmente complessa (ma quale Libro della Bibbia non è da considerarsi un’opera complessa?) perché per individuare le chiavi di lettura in essa contenute è necessaria una riflessione sui modi – sulla trafila letteraria che si dipana nel movimento della “sapienza poetica beritica” – in cui questo testo (nell’arco di circa tre secoli) è stato scritto.
Innanzi tutto, per procedere meglio sul sentiero del nostro itinerario, esplicitiamo la trafila letteraria che porta alla formazione del testo del Libro di Isaia così come noi, oggi, lo possediamo: il primo materiale, il nucleo più antico di questo Libro, è stato composto dagli scrivani della prima generazione in esilio a Babilonia, subito dopo il 587 a.C., con lo “stile della Lamentazione” (e sappiamo di che cosa si tratta).
Poi questo materiale è stato riscritto e ampliato, intorno al 560 circa a.C., da una Scuola di costruzione del testo intitolata “il Signore salva” (che, come sappiamo, corrisponde al termine “Isaia”) gestita da una delle correnti più autorevoli degli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia che operano secondo lo “stile del proclama di Amos” e introducono nel testo i concetti della “berit” [del patto di solidarietà] e della “toràh” [della Legge uguale per tutti] (conosciamo questo tema).
Poi, dopo l’esilio, dopo il 539 a.C., (come abbiamo detto un momento fa) questo materiale proveniente da Babilonia – che è stato denominato del Proto-Isaia – viene ampliato e ristrutturato per opera degli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale]i quali lavorano intellettualmente per l’attuazione del loro programma politico che prevede la codifica della “sequela dei demeriti” e della “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]” con l’obiettivo della formulazione del concetto di “popolo d’Israele” in vista della creazione di uno Stato giudaico unitario e indipendente.
Nell’itinerario di questa sera ci vogliamo occupare di questo tema, il tema dell’inserimento nel corpus del Libro di Isaia del secondo anello della “sequenza dell’equilibrio dei meriti” e, nel perseguire questo intento, gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale]compongono una seconda parte del Libro: quella che è stata chiamata del Deutero-Isaia (sapete che in greco “deuteros” significa “secondo, successivo”); ora dobbiamo subito ricordare che non tutto il testo di questa seconda parte (del Deutero-Isaia) è però opera degli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale]e poi dobbiamo anche dire che una parte del testo composto dagli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale]è stata collocata (e oggi si trova qui) nella terza parte del Libro, in quella che si chiama il Trito-Isaia. Ma, per non perderci nella complessità di quest’opera, andiamo con ordine.
Il testo del Libro di Isaia (quello che trovate, oggi, sulla vostra Bibbia e che siete invitate e invitati ad osservare) è formato da 66 capitoli. In quest’opera la divisione in capitoli è una scelta formale (successiva al III secolo a.C.) ed è stata fatta per dare unità canonica a un Libro che in realtà si compone di tre Libri diversi e che sono a loro volta divisi in parti che sono state scritte in momenti successivi, dal VI al III secolo a.C. da autori diversi. La terza parte [o il terzo Libro] di cui si compone il testo di Isaia è stata scritta dai cosiddetti scrivani delle Nuove Cronache tra il 330 e il 250 a.C. (che incontreremo a suo tempo) e prende il nome di Trito-Isaia: “trito” nel senso di “ripetuto”, di “risaputo”, di ribadito e riproposto. La sistemazione definitiva del testo di Isaia, così come oggi noi lo possediamo, è stata attuata nel corso della traduzione in greco dei Libri della Bibbia (con la formulazione del “canone ellenistico alessandrino” (siamo stati ad Alessandria, in autunno, durante le prime settimane del nostro viaggio, ricordate?). I traduttori della versione greca della Bibbia, detta dei Settanta, mettono in risalto le tre parti del Libro di Isaia e parlano esplicitamente di Proto-Isaia [capitoli 1-39], di Deutero-Isaia [capitoli 40-55] e di Trito-Isaia [capitoli 56-66] – “proto”, “deutero” e “trito” sono tre termini greci – ma questi scrivani, nell’assemblare le varie parti rimescolano un po’ le carte, soprattutto nel dare forma alla parte del Deutero-Isaia e alla parte del Trito-Isaia. Ma è meglio – come abbiamo già detto – procedere con ordine.
Intanto il primo esercizio da fare – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – è quello di andare ad osservare (utilizzando la Bibbia che possedete) la forma di quest’opera sul cui testo ora dovremo riflettere in funzione del tema che ci propone l’itinerario di questa: in che modo gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] inseriscono il secondo anello della “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]” nel Libro di Isaia? All’inizio della nostra riflessione dobbiamo dire ancora una volta che il nome di questo Libro è simbolico: il termine “Isaia” significa: “il Signore salva”, “il Signore invita a prendere l’iniziativa per costruire la salvezza” e questo nome (come sappiamo) enuncia il programma di una delle più importanti Scuole di composizione del testo fondate dalla seconda generazione di scrivani in esilio a Babilonia. Dobbiamo affermare che il termine “Isaia”, il quale contiene l’invito (e il programma di azione) a “prendere l’iniziativa per costruire la salvezza”, è di grande attualità: sono molte infatti oggi le cose (usiamo questo termine generico) che dobbiamo salvare perché non si perdano per sempre.
REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Quali sono le prime (due o tre) cose che, secondo te, è urgente salvare?
Enumerale e, se vuoi, scrivi quattro righe in proposito…
E ora riflettiamo sull’argomento che ci propone l’itinerario di questa sera: in che modo gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale]inseriscono il secondo anello della “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]” nel Libro di Isaia?
Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] – come già sappiamo – cominciano a costruire la “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]” dal testo del Secondo Libro dei Re e, per la precisione, dal capitolo 22 (un brano che abbiamo letto e riletto). Ricordiamo ancora una volta che nel testo del capitolo 22 del Secondo Libro dei Re viene messa in risalto la figura del re Giosia (ce lo ricordiamo bene). Il re Giosia viene presentato, nel capitolo 22 del Secondo Libro dei Re, dagli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] con queste parole: «Giosia era il servo [‘ebed] del Signore (fece la volontà del Signore) e seguì l’esempio del suo antenato Davide, senza mai prendere una strada diversa». Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] pensano che quando una persona viene a trovarsi sul gradino più alto della scala gerarchica debba rendere un servizio maggiore alla società. Se il re, che è al vertice della piramide del potere, è il primo ad avere uno “spirito di servizio” e a riconoscere a se stesso il ruolo di “servo” ecco che sarà capace a rispettare e a far rispettare la “Legge uguale per tutti” (la toràh) e a tener fede e a far tener fede al “patto di solidarietà” (alla berit) che deve cementare la società nel suo insieme perché il concetto dell’essere “popolo” si possa legare al concetto di avere uno Stato. Se il re, che si trova sul gradino più alto della scala gerarchica, è il primo a riconoscere a se stesso il ruolo di “servo” ecco che anche tutti i componenti delle varie classi sociali potranno sentirsi “servi”, dotati dello spirito di servizio necessario per ritenersi, nell’esercizio del loro ruolo, come se fossero equiparati al re.
Nel secondo anello della “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]” – di cui questa sera ci dobbiamo occupare – gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] vogliono rafforzare, esaltare, autenticare il concetto di “servo del Signore” nel quale tutti i membri della comunità si devono riconoscere. E allora gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] come collocano il secondo anello della “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]” nel corpus del testo del Libro di Isaia? Questa sera osserviamo le linee portanti del loro progetto.
Il materiale di cui si compone il cosiddetto Libro del Proto-Isaia (dal capitolo 1 al capitolo 39) è stato prodotto dagli scrivani della prima e soprattutto della seconda generazione durante l’esilio a Babilonia e, dopo l’esilio, questa prima versione è stata rivisitata e riordinata dagli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] i quali hanno anche trovato l’ispirazione per dare continuità a quest’opera scrivendone una seconda parte, un secondo (deuteros) Libro che è stato chiamato il Deutero-Isaia sul testo del quale (su alcuni brani significativi) dovremo riflettere prossimamente.
Chi legge il testo del Proto-Isaia (i primi 39 capitoli del Libro di Isaia) – facendo tesoro di ciò che abbiamo studiato negli ultimi itinerari che abbiamo percorso – si rende conto anche da dove gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] abbiano tratto lo spunto per costruire il loro programma politico: il testo del Libro del Proto-Isaia – così come abbiamo visto per il Libro di Geremia – fornisce i contenuti e le forme perché gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] possano perseguire la loro strategia politica che prevede la codifica della lunga “sequela dei demeriti [l’ingiustizia, la malvagità, l’idolatria]” e la ratificazione della “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]”: un itinerario che deve portare alla formulazione, e all’acquisizione da parte di tutti, del concetto di “popolo d’Israele” in funzione della creazione dello Stato giudaico, unito, autonomo e indipendente.
Quali sono i contenuti dei testi che gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] ricevono in eredità dai laboratori degli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia? Quali sono le forme [intellettuali, culturali e allegoriche] che gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] rivisitano, riordinano, completano e a cui s’ispirano per perseguire il loro programma politico-istituzionale?
Gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia che, nel loro laboratorio, compongono il testo del Libro del Proto-Isaia riflettono (siamo già informati su questo argomento) sulle cause della sconfitta e della deportazione e, di conseguenza, producono un testo in cui – con lo stile del “proclama di Amos” – vogliono protestare contro gli intrighi di potere attuati in passato dai governanti del Regno del Nord (del Regno d’Israele, poi sconfitto dagli Assiri) e poi vogliono protestare contro gli intrighi di potere attuati, in seguito, dai dirigenti di Gerusalemme (del Regno di Giuda e ci sono anche i loro padri coinvolti nel degrado istituzionale).
Gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia che, nel loro laboratorio, compongono il testo del Libro del Proto-Isaia inveiscono contro le costanti violazioni del diritto e della giustizia sociale da parte dei monarchi assoluti, si scagliano contro i sacerdoti e le pratiche religiose dietro le quali si nasconde l’oppressione dei poveri e imprecano contro le velleità di grandezza dei rappresentati della classe mercantile e tuonano contro tutte le forme di corruzione.
Gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia che, nel loro laboratorio, compongono il testo del Libro del Proto-Isaia hanno un occhio di riguardo verso le classi subalterne (i cui membri sono rimasti nella terra di Canaan, abbandonati a se stessi a morire di fame) ma alludono al fatto che, se avessero avuto il potere, lo avrebbero utilizzato in malo modo perché anche gli ebionim [i diseredati], gli ebedim [la manovalanza] sono attratti (sono ispirati da cattivo esempio che viene dall’alto) dalla malvagità, dall’ingiustizia, dall’idolatria.
Gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia che, nel loro laboratorio, producono il testo del Libro del Proto-Isaia invitano – utilizzando il nome del profeta [“Il Signore salva” - Isaia] a cui è intitolata la scuola – a conservare la fiducia nella “berit”, nel “patto di solidarietà” attraverso il quale Dio ha dato una Legge “uguale per tutti” al suo popolo. La fiducia nel patto (nella “berit”) – secondo gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia che producono la prima versione del testo del Libro del Proto-Isaia – deve tradursi sempre in atteggiamenti concreti tanto nel campo sociale e politico quanto in quello delle relazioni interpersonali.
È evidente che, dopo l’esilio, gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] – nel momento in cui vogliono dare alla Scrittura il senso di una “costituzione” su cui fondare il nuovo Stato giudaico – sono particolarmente interessati a questi argomenti (contenuti e forme) che richiamano tutti i membri della comunità, indipendentemente dalla classe sociale a cui appartengono, ad assumersi la responsabilità di essere fedeli al “patto di solidarietà” e alla “Legge uguale per tutti. In primo luogo vogliono richiamare, vogliono indirizzare e vogliono educare tutti i membri della Nazione a comportarsi con spirito di “servizio” in modo da abbattere, nella società, il tasso di malvagità, di ingiustizia e di idolatria. Per perseguire nel loro intento – come sappiamo – vogliono esaltare la figura del “servo” elevandola fino al gradino più alto della scala sociale: al re. Se il re (il buon esempio deve venire sempre dall’alto, altrimenti Dio che cosa ci sta a fare? Pensano gli scrivani d’Israele) si comporta con “spirito di servizio” ecco che tutti i membri della società (aristocrazia-sacerdotale, ceto produttivo, manovalanza) sono chiamati a seguirne l’esempio in un circolo virtuoso [la sequenza dell’equilibrio dei meriti, dei doveri] che realizza l’idea sintetizzata nell’espressione “il Signore salva” che traduce il termine “Isaia”. Una società nella quale ciascuno fa il proprio “dovere” (a cominciare da chi ha più responsabilità e più potere) e una società che riconosce a ciascuno il “merito” di fare il proprio dovere (soprattutto a coloro che sono più in basso nella gerarchia sociale) è – secondo il pensiero degli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia e poi, successivamente, degli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale]– una “società salvata [Isaia]”.
REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
L’idea di una “società salvata” a quale parola ti fa pensare?…
Quale di queste parole - (ma rappresentano solo un esempio) la pace, la salute, il lavoro, il mercato, l’istruzione, l’ordine pubblico, l’ambiente, l’immigrazione, la giustizia, la cultura, la fede - metteresti per prima (o in ordine d’importanza) accanto al concetto di “società salvata”?…
Rifletti, scegli, scrivi…
In che modo e dove, nel testo del Libro di Isaia, vengono dette le parole e le idee che prefigurano lo scenario di una “società salvata”? Diciamo subito che nel Libro di Isaia – nelle tre parti [Proto, Deutero e Trito] in cui è diviso – spicca particolarmente lo “stile allusivo” che gli scrivani d’Israele utilizzano con grande abilità letteraria nella costruzione del testo. Le persone (le studentesse e gli studenti: molti siete qui questa sera) che hanno viaggiato negli anni precedenti (dal 2005 al 2007) nei due Percorsi in compagnia di Erodoto conoscono bene il valore letterario che possiede lo “stile allusivo [ichoné]” nella costruzione della “storia”: non è tanto importante sapere come si sono svolti gli avvenimenti ma – scrive Erodoto in tutti i Libri delle sue Storie – è importante conoscere ciò che i fatti c’insegnano, capire il valore allegorico degli avvenimenti [La storia è maestra di vita].
Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] nel testo del Libro del Proto-Isaia colgono una serie di circostanze sulle quali possono imbastire alcune allusioni utili per continuare a tessere la loro trama, vale a dire a costruire il secondo anello della “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]”. Una di queste circostanze li colpisce in particolare e, quindi, la assecondano traendo ispirazione e apportando, con l’uso dello “stile allusivo”, – come affermano le studiose e gli studiosi di filologia biblica – delle modifiche significative al testo del Proto-Isaia: di che cosa si tratta? Il tema è complesso e dobbiamo procedere con ordine.
Qual è l’obiettivo che gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] si prefiggono con la costruzione del secondo anello della “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]”? A questa domanda, ormai, sappiamo rispondere senza difficoltà perché abbiamo parlato quasi esclusivamente di questo argomento, finora, nell’itinerario di questa sera (e il procedimento è stato volutamente ripetitivo per favorire la comprensione). Il piano di intervento degli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] prevede di attribuire alla “figura del re” il titolo di “servo del Signore”. Questa operazione intellettuale è di grandissima importanza per le conseguenze che avrà in futuro sul piano politico: noi abbiamo già più volte ribadito che nella Letteratura della “sapienza poetica beritica” – così come in quella della “sapienza poetica orfica” – troviamo le radici della modernità e della nostra identità culturale.
Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], nel portare a compimento questa operazione intellettuale – l’equiparazione della figura del “re” a quella del “servo” –, alludono alla “storia” (compaiono, infatti, sulla scena personaggi e avvenimenti storici in concomitanza con personaggi letterari) con l’obiettivo di costruire una straordinaria “metafora” che entrerà in tutte le Costituzioni dell’età moderna. Se il “re” [che non è né un dio né una dea ma è un uomo o una donna come tutti gli altri] acquisisce la qualifica di “servo del Signore” perché ha il merito di onorare il “patto di solidarietà” e di rispettare la “Legge uguale per tutti” così qualunque altra persona che – indipendentemente dal suo status sociale – compie il proprio dovere onorando il “patto di solidarietà” e rispettando la “Legge uguale per tutti” è da considerarsi, a pieno titolo, “serva del Signore” e possiede le stesse prerogative del “re”. In virtù di questo fatto [di questa allusione allegorica] ciascuna e ciascun componente della società – secondo l’ottica della “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]” – è materialmente, concretamente, realmente depositario della “sovranità”. Una “società salvata [Isaia]” è una società in cui il popolo è “sovrano” [“La sovranità appartiene al popolo” lo afferma anche la nostra Costituzione, che ha compiuto sessant’anni], e il popolo (dal re fino all’ultimo degli ebionim) risulta essere un “sovrano” quando ciascun individuo che ne fa parte ha il “merito” di fare il proprio “dovere”: se uno sbaglia – secondo il pensiero degli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] – contamina tutta la società in cui vive, e se sbaglia chi sta più in alto nella scala gerarchica, il suo errore – secondo il pensiero degli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] – rallenta maggiormente il processo che porta verso l’edificazione di una società “salvata [sottratta al pericolo, curata, guarita, liberata, protetta, tutelata, redenta, salvaguardata]”.
E ora apriamo una parentesi in funzione della lettura e della scrittura perché questa riflessione, che abbiamo fatto con la complicità del Libro di Isaia, fa venire in mente un libro di recente pubblicazione che mette insieme il concetto della sovranità (nel senso che la protagonista principale è la regina) e l’esercizio della lettura: il libro di cui stiamo parlando s’intitola “La sovrana lettrice” (lo trovate in biblioteca) ed è stato scritto nel 2007 da Alan Bennett, un autore contemporaneo, soprattutto di testi per il teatro, maestro di ironia e di comicità.
Il testo di Bennett racconta come, per un semplice disguido dovuto ai suoi cani, la regina fa il suo ingresso in un biblo-bus, in una biblioteca circolante parcheggiata di fronte alle cucine reali e fa conoscenza con il solerte bibliotecario (al quale concederà – con il disappunto della corte e del suo segretario privato Sir Kevin – una piccola onorificenza per “aver reso un servizio alla regina”) ed entra in contatto con l’unico utente della biblioteca che è un giovanissimo lavapiatti della cucina reale (Norman) il quale verrà assunto – sempre con il disappunto della corte e di Sir Kevin – come consulente librario dalla sovrana. Questo testo mette bene in evidenza come possa succedere davvero qualcosa di imprevisto se, per un inconveniente, la regina scopre quegli strani oggetti che sono i libri e di conseguenza non può più farne a meno, e cerca di trasmettere il contagio della lettura a chiunque incontri sul suo cammino: questo fatto (visto che la lettura è un esercizio trasgressivo...) crea delle imprevedibili ripercussioni sull’entourage della sovrana lettrice (la regina perde tempo a leggere?), sui suoi sudditi (“tutti sanno leggere – afferma sir Kevin – ma so per certo che pochissimi si dedicano alla lettura e allora si chiederanno: perché la regina dovrebbe leggere?”), sui servizi di sicurezza (un libro trovato sotto un cuscino della carrozza reale fa scattare gli allarmi), e poi le lettrici e per i lettori c’è una divertente ripercussione perché l’autore ha preparato un significativo colpo di scena finale che non si può e non si deve rivelare: se qualcuna o qualcuno di voi ha già letto questo libro non ne riveli il finale perché va scoperto, buona lettura!
Leggendo questo libro si possono cogliere una serie di considerazioni sul tema dell’esercizio della lettura [l’atto del leggere è un esercizio “democratico” per eccellenza: il popolo è “sovrano” quando legge] e una considerazione sul termine “servitù”: la parola “servo” non ci è indifferente e poi [lo dice il Libro di Isaia] non esiste il concetto della “sovranità” senza l’idea della “servitù”: la “sovranità” è un dovere ed esiste solo quando ha uno stretto rapporto con lo “spirito di servizio” contrariamente diventa “oppressione”.
Leggiamo alcuni frammenti, scompaginati tra loro, da La sovrana lettrice (2007):
LEGERE MULTUM….
Alan Bennett, La sovrana lettrice (2007)
A Windsor quella sera c’era il banchetto ufficiale, e mentre il presidente francese si affiancava a Sua Maestà la famiglia reale si schierò alle loro spalle, e la processione si avviò lentamente verso la sala Waterloo.
«Adesso che possiamo parlarle a quattrocchi,» disse la regina sorridendo a destra e a sinistra mentre avanzavano fra gli ospiti sfolgoranti «vorremmo tanto chiederle la sua opinione sullo scrittore Jean Genet».
... continua la lettura ...
REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
“Il ragguaglio [afferma ad un certo punto la regina in questo libro di Alan Bennett] esaurisce la questione, la lettura la apre”: non lasciatevi solo ragguagliare!… Aprite la questione leggendo almeno dieci minuti al giorno…
E ora torniamo sul nostro impervio itinerario...
Noi sappiamo che non è facile trovare tra i re d’Israele e di Giuda figure dotate di spirito di servizio: la maggior parte dei monarchi del Regno d’Israele e del Regno di Giuda passano alla storia soprattutto per i loro demeriti piuttosto che per i loro meriti (anche gli antichi mitici re – Saul, Davide, Salomone – hanno molti peccati da scontare), tuttavia due re, che possono essere considerati degni del titolo di “servo del Signore”, sono identificabili, e questi due personaggi sono sufficienti perché gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] possano costruire il loro racconto allegorico.
Uno di questi due re lo abbiamo già incontrato e lo conosciamo bene: è il re Giosia. Per gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale]la figura del re Giosia è fondamentale perché – come sappiamo – è il depositario del “Libro della Legge” scoperto nel Tempio e diventa quindi la chiave del rapporto che s’instaura tra le parole-cardine: “tempio”, “legge” e “servo” che determinano l’idea dell’unità del popolo d’Israele. Il re Giosia è “servo” quando impone, a se stesso e al popolo, che la Legge “uguale per tutti” venga rispettata (sappiamo che l’obiettivo ultimo degli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] è proprio quello di scrivere il codice delle regole in modo che venga accettato da tutti): nel momento in cui la Legge viene riscoperta [quando s’instaura nel popolo lo “spirito di servizio”] il Signore va ad abitare realmente nel Tempio e la sua presenza vivifica lo Stato e crea l’unità della Nazione.
La figura di Giosia [il re “servo del Signore”], come sappiamo, viene posta dagli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] al centro del Secondo Libro dei Re e rappresenta – come abbiamo studiato – il primo anello della “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]”. Sappiamo che il re Giosia – proprio per aver proclamato che la “Legge è uguale per tutti” – è un personaggio particolarmente amato dagli ebionim [dalle classi subalterne più soggette a patire l’ingiustizia] e quindi gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] pensano di dover creare un collegamento tra il testo del Secondo Libro dei Re (che stanno componendo) dove spicca la figura di Giosia, caro alle masse dei diseredati, e il testo del Libro del Proto-Isaia (che stanno riordinando) dove gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia hanno messo in luce la figura di un altro re, degno di essere considerato “servo del Signore”: un re ben visto dall’aristocrazia sacerdotale e soprattutto dal ceto produttivo il quale, se fosse legato al personaggio di Giosia, potrebbe essere ben voluto anche dalle classi subalterne. Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] operano, quindi, per creare un legame tra questi due personaggi regali che possa garantire l’unità tra le diverse classi sociali e possa dare efficacia al concetto contenuto nella parola “servo”: è “servo del Signore” chi onora il “patto di solidarietà” e rispetta la “Legge uguale per tutti”.
Chi è questo secondo re, degno di essere considerato “servo del Signore”, gradito soprattutto alla classe aristocratico-sacerdotale e al ceto produttivo, che troviamo nel testo del Libro del Proto-Isaia? Questo re si chiama Ezechia e, se consultate la vostra Bibbia, lo potete incontrare negli ultimi capitoli, 36-37-38-39, del Libro del Proto-Isaia, ma lo stesso testo di questi capitoli (con poche variazioni) lo trovate anche nei capitoli 18-19-20 del Secondo Libro dei Re: gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] hanno effettuato un travaso (e con questa operazione intellettuale cominciano a comporre il secondo anello della “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]”) per creare un legame tra la figura di Giosia e di Ezechia: un binomio che possa ottenere il gradimento di tutte le componenti della società e possa far concentrare l’attenzione di tutto il popolo sulla necessità di costruire la berit [il patto di solidarietà] e di rispettare la torah [la Legge uguale per tutti].
Chi è Ezechia? Ezechia – secondo i dati che le studiose e gli studiosi di storia hanno catalogato confrontando i testi biblici [il Secondo Libro dei Re e il Libro del Proto-Isaia] con i reperti archeologici – risulta essere il tredicesimo monarca del Regno di Giuda ed è vissuto tra il 716 e il 687 circa a.C., quindi prima di Giosia e circa un secolo prima dell’esilio a Babilonia. Ezechia è il figlio e il successore del famigerato re Acaz, un personaggio equivoco del quale Ezechia non eredita le qualità [i demeriti]: difatti lui, al contrario del padre, si dimostra molto saggio e molto pio, anche perché – come dicono i testi che stiamo prendendo in considerazione – “fin dal suo avvento segue i consigli del profeta Isaia”. Con questa allusione, di carattere allegorico, gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia e poi gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale]vogliono affermare che Ezechia ha governato per costruire una “società salvata [il nome e il personaggio di Isaia ha questa funzione allegorica]”.
Ezechia – che probabilmente si circonda di scrivani di corte che sono ottimi consiglieri – elimina gli idoli venerati dal padre, estirpa il triviale consumismo religioso di carattere superstizioso che pone anche il re nel panteon delle divinità, e fa elaborare un calendario liturgico delle feste religiose ebraiche in onore del Dio unico d’Israele, fa abbellire il Tempio e fa celebrare i riti con grande solennità: per questo motivo è ben visto dalla classe aristocratico-sacerdotale. Incentiva anche il lavoro degli scrivani, e la tradizione dice che li abbia invitati a raccogliere tutti quei “detti sapienziali” che sono entrati poi a fare parte del Libro dei Proverbi, un Libro che abbiamo incontrato ad Alessandria qualche mese fa e penso che qualcuna o qualcuno di voi lo abbia anche letto.
Ezechia è un politico che vara una riforma agraria: tende quindi a dare sviluppo all’agricoltura e anche all’artigianato. Incentiva, poi, il commercio, le attività mercantili e il dinamismo imprenditoriale: per questo motivo ha buona fama presso il ceto produttivo. Ezechia – per quanto riguarda l’archeologia – è passato alla storia per il famoso canale che porta il suo nome: il canale di Ezechia è un tunnel lungo 550 metri, fatto scavare nella viva roccia della collina di Sion, verso l’anno 700 a.C.. Questo canale serviva per congiungere la fonte di Ghihon, posta sul margine esterno dei contrafforti di Gerusalemme, alla piscina di Siloe, all’interno della città, per provvedere l’acqua potabile anche in caso di assedio: questo canale funziona ancora oggi.
Per quanto riguarda la politica estera Ezechia è molto prudente soprattutto con la superpotenza del momento: gli Assiri. Quando capisce che non è possibile competere militarmente con l’impero assiro preferisce, molto realisticamente (per non creare sofferenza al suo popolo), intavolare trattative e versare un tributo al prepotente re assiro Sennacherib per garantire al suo Regno la pace e l’autonomia.
Se ci vogliamo dedicare alla lettura (e la Scuola lo consiglia) scopriamo che gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia nel testo del Libro del Proto-Isaia [nei capitoli 36 e 37: andate a leggerli] – poi ripresi quasi integralmente dagli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] nel testo del Secondo Libro dei Re (ai capitoli 18 e 19) – compongono una vera e propria epopea (un midrash epico) sullo scontro tra Ezechia (che chiama in causa il Dio d’Israele) e Sennacherib (che oltraggia il Dio d’Israele e ha la peggio) dove il vero protagonista è, appunto, “il Signore che salva”, è il personaggio di “Isaia - il Signore salva” il quale conferisce ad Ezechia il titolo di “servo del Signore”. Questo conferimento avviene con una significativa allusione allegorica [la si trova nel capitolo 38 del Libro del Proto-Isaia o nel capitolo 20 del Secondo Libro dei Re che si presenta simile, con poche variazioni]: dopo la morte di Sennacherib (ucciso dai suoi stessi figli) Ezechia si ammala gravemente, pensa di dover morire ma il Signore – con la mediazione di Isaia [il Signore salva] – lo guarisce nel momento in cui Ezechia dichiara di essere “servo”, di aver vissuto animato da uno “spirito di servizio”.
Leggiamo questo brano significativo del capitolo 38 del Libro del Proto-Isaia facendolo precedere dagli ultimi otto versetti del capitolo 37 dove si narra l’episodio della morte di Sennacherib: il gioco dell’alternarsi della “sequela dei demeriti [dell’arroganza]” con la “sequenza dei meriti [dei doveri]” è una costante nell’opera di costruzione del testo degli scrivani d’Israele.
LEGERE MULTUM….
Libro di Isaia [del Proto-Isaia] 37, 30-38 38, 1-8
Poi Isaia disse al re Ezechia: «Ecco un segno di quel che accadrà: quest’anno mangerete il grano cresciuto dalle spighe rimaste sul campo, l’anno prossimo il frutto dei semi caduti fuori del campo. Ma l’anno dopo seminate e mietete pure, piantate vigne e mangiate l’uva. I superstiti del regno di Giuda saranno di nuovo come piante con profonde radici e porteranno ancora frutto. Perché è certo che a Gerusalemme ci saranno superstiti e sul monte Sion sopravvissuti. L’amore ardente del Signore farà questo!».
Ecco quel che dice il Signore contro il re d’Assiria: «Non entrerà mai in questa città, non vi lancerà contro una sola freccia, non l’attaccherà con i soldati armati di scudi e contro di lei non alzerà terrapieni. Tornerà per la strada da dove è venuto, senza entrare in città, io, il Signore, ho parlato! Difenderò Gerusalemme, io la salverò; lo farò per me e per Davide mio servo».
Quella stessa notte un angelo del Signore fece morire centottantacinquemila uomini dell’esercito assiro. Al mattino quando gli altri si alzarono, non videro altro che cadaveri. Allora Sennacherib re d’Assiria, tolse l’accampamento, tornò a Ninive e si trattenne in quella città. Un giorno, due dei suoi figli, Adram-Melech e Sarezer, lo uccisero con la spada e fuggirono nella regione di Ararat. Un altro figlio, Assarhaddon, regnò al suo posto.
Un giorno Ezechia fu colpito da una malattia mortale. Il profeta Isaia, figlio di Amoz, andò a trovarlo e gli riferì questo messaggio da parte del Signore: «Comunica alla tua famiglia le tue ultime disposizioni, perché non hai più molto tempo da vivere».
Allora Ezechia si voltò verso la parete e rivolse al Signore questa preghiera: «Ti prego, Signore, ricordati che mi sono sempre comportato lealmente davanti a te, senza falsità: sono sempre stato il tuo servo». Poi scoppiò a piangere.
Allora il Signore ordinò a Isaia di ritornare da Ezechia a dirgli: «Così dice il Signore, Dio del tuo antenato Davide: Ho udito la tua preghiera, ho visto le tue lacrime; ti concederò altri quindici anni di vita. Salverò te e Gerusalemme dal re d’Assiria, continuerò a proteggere questa città».
Poi Isaia ordinò a Ezechia di prendere una schiacciata di fichi. Fu applicata sulla parte malata perché guarisse. Ezechia chiese a Isaia: – Quale segno mi assicura che potrò salire di nuovo al tempio?
Isaia rispose: – Il Signore ti darà un segno per assicurarti che farà quel che ha promesso. Sulla scala costruita da Acaz (si tratta di una meridiana, un orologio solare), il Signore farà indietreggiare l’ombra del sole di dieci passi. E l’ombra indietreggiò di dieci passi…
Se per curiosità andate in ricognizione – usando la vostra Bibbia – potete osservare che il capitolo 38 del Libro del Proto-Isaia continua, dal versetto 9 al versetto 20, con “Il canto di ringraziamento di Ezechia per la sua guarigione”: questo brano, che non compare nel Secondo Libro dei Re, – come ci suggeriscono le studiose e gli studiosi di filologia biblica – non è stato scritto né dagli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia (anche se chi scrive cerca di imitarne lo stile) né dagli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] ma bensì dagli autori del Trito-Isaia (gli scrivani delle Nuove Cronache) i quali, quando hanno, a loro volta, ristrutturato il Libro nel suo insieme, hanno voluto lasciare qua e là la loro impronta.
REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Leggi questo canto di lode…
Nell’itinerario di questa sera abbiamo preso atto di come gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale]siano stati capaci di creare un collegamento tra il testo del Secondo Libro dei Re (che gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] stanno componendo) dove spicca la figura di Giosia, il re, “servo del Signore”, gradito alle masse dei diseredati, e il testo del Libro del Proto-Isaia (che gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] stanno riordinando) dove gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia avevano messo in luce la figura del saggio re Ezechia, gradito all’aristocrazia-sacerdotale e al ceto produttivo, anch’esso degno di essere considerato il “servo del Signore”. Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] operano, quindi, per creare un legame tra questi due personaggi regali – Ezechia e Giosia – che possa garantire l’unità tra le diverse classi sociali e possa dare efficacia al concetto contenuto nella parola “servo”, dando rilievo al fatto che è “servo del Signore” chi onora il “patto di solidarietà” e rispetta la “Legge uguale per tutti”.
Nel testo del Libro del Proto-Isaia il personaggio di Ezechia risalta particolarmente: ma come può crearsi concretamente il legame tra Ezechia e Giosia se la figura di Giosia non compare, o, per lo meno, sembra non comparire nel Libro del Proto-Isaia? E allora da brave indagatrici e da bravi indagatori dobbiamo domandarci: ma siamo proprio sicuri che il personaggio di Giosia non compaia nel testo del Proto-Isaia? Una cosa è certa: il nome di Giosia non emerge esplicitamente nel testo del Proto-Isaia ma possiamo anticipare che gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], ancora una volta, sulla scia di una coincidenza testuale (di una allusione), sono capaci di costruire una significativa allegoria che crea il virtuoso binomio “Ezechia-Giosia”. Di quale coincidenza testuale si tratta lo scopriremo la prossima settimana.
Ora, per concludere, possiamo dire che con il virtuoso binomio “Ezechia-Giosia” – che costituisce il primo momento della costruzione del secondo anello della “sequenza dell’equilibrio del meriti [dei doveri]” – gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] vogliono mettere in evidenza – lo ripetiamo ancora una volta – il rapporto che intercorre tra il concetto della “sovranità” e quello della “servitù” inteso come “spirito di servizio”: condizione necessaria per edificare una società che possa considerarsi “salvata [Isaia]”. E l’espressione “società salvata” traduce il termine “Isaia” [Ne avremmo bisogno di una “società salvata”].
La scorsa settimana abbiamo annunciato che, forse, avremmo incontrato ancora Alain-René Lesage (non lo abbiamo incontrato ma non ci sfuggirà, lo incontreremo prossimamente): nell’itinerario scorso abbiamo appena citato questo scrittore presentando la sua commedia intitolata Turcaret in cui domina il personaggio dell’astuto servo Frontino: poco dotato di spirito di servizio.
Inoltre la scorsa settimana abbiamo preannunciato anche che avremmo incontrato ancora il personaggio di Figaro, creato da Pierre de Beaumarchais: il personaggio di Figaro è maggiormente dotato di spirito di servizio (è addetto ai servizi), tuttavia non siamo riusciti ad intercettarlo, ma sapete come è fatto Figaro: tutti lo vogliono, tutti lo cercano, Figaro qua, Figaro là, Figaro su, Figaro giù...
Comunque Figaro, prossimamente, saprà servirci a dovere!
A proposito di “spirito di servizio”: frequentare un Percorso di studio significa rendere un buon servizio al proprio intelletto. E allora: siate sovrane, siate sovrani, accorrete, la Scuola è qui, è il posto adatto per investire in intelligenza…