Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza poetica beritica 2008 9-10-11 aprile 2008
LA VIA PER RISALIRE DAL LIBRO DELL’ESODO AL LIBRO DEI NOMI …
Il personaggio di Mosè, solitamente, non ci fa pensare al Libro del Deuteronomio, di cui la settimana scorsa abbiamo osservato alcuni aspetti significativi. La nostra conoscenza di Mosè [sia quando è stato raffigurato nella Storia dell’Arte, sia quando è stato presentato come personaggio cinematografico] dipende soprattutto dal Libro dell’Esodo.
Abbiamo affermato, durante lo scorso itinerario su indicazione delle studiose e degli studiosi di filologia biblica, che gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia – i quali hanno cominciato a mettere per iscritto il ciclo epico su Mosè – hanno legato la figura di questo personaggio all’idea di “autodeterminazione”. Sappiamo che Mosè, in quanto “servo del signore”, ha avuto il compito (e nella nostra mente ci sono le immagini di questo affascinante racconto) di guidare il popolo d’Israele, attraverso il deserto, fino al punto d’ingresso della “terra promessa” dopo aver ricevuto le tavole della Legge, che sono lo strumento di “autodeterminazione” di un popolo: se un popolo non sa rispettare la Legge – alludono gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia che, in stato di subalternità, compongono i racconti del ciclo di Mosè – non può aspirare ad avere una terra e non può ambire a costruire il proprio Stato.
Gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia scrivono, nei loro Laboratori di costruzione del testo, un grande racconto mitico [ambientato in Egitto con al centro il personaggio di Mosè] in cui alludono alla “liberazione” dalla schiavitù [in un passato remoto] pensando alla condizione presente, alla condizione dell’esilio che stanno vivendo prendendone coscienza e assumendosi, in proposito, delle responsabilità di carattere culturale. In questa situazione – pensano gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia – è necessario, prima di tutto, per aspirare all’autodeterminazione, darsi una Legge: un gruppo di persone si autodetermina come popolo quando si dà delle regole condivise e le rispetta.
Con la composizione di questo mitico racconto – che poi diventerà il Libro dell’Esodo – in cui si narra la marcia di avvicinamento nel deserto verso la “terra promessa” durante la quale Mosè riceve le tavole della Legge, gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia [i quarant’anni nel deserto sono la metafora degli anni dell’esilio] vogliono, quindi, rafforzare l’idea pratica della necessità dell’introduzione di una “Legge uguale per tutti, la torah” nella comunità dei deportati.
Questi scrivani sono consci del fatto che il destino di un popolo sta nelle Leggi che si dà e che è capace di darsi; qualunque terra è un “dono di Dio” quando il popolo che la abita si dota di un codice di buone e giuste Leggi in modo da poter affermare che ne è autore Dio stesso, e l’idea della “liberazione” – per gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia – coincide con l’idea di “autodeterminazione”: ci si libera quando ci si “autodetermina” mediante la Legge perché in una società c’è “libertà” solo quando c’è il rispetto delle regole da parte di tutti i membri che ne fanno parte.
È chiaro che gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia – in quanto prigionieri di guerra – devono essere molto cauti e non possono manifestare esplicitamente le loro idee, non possono esternare direttamente la loro esigenza di “autodeterminazione” perché questa aspirazione verrebbe interpretata come un gesto di ribellione nei confronti delle autorità babilonesi. Per questo motivo gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia, come atto di deferenza nei confronti della cultura mesopotamica [ma anche perché il modello che ricalcano è significativo e a questi scrivani, che hanno studiato a Babilonia, piace], costruiscono un personaggio che, come abbiamo detto, contiene la caratteristica fondamentale dei “legislatori” mesopotamici, quella di essere un “salvato dalle acque” come la figura di Utnapistim ne L’epopea di Gilgamesh e poi collocano questo personaggio [Mosé, “salvato dalle acque”] in un contesto logistico che non possa creare problemi di ordine censorio: Mosè – secondo i racconti creati dagli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia – compie dei gesti da “liberatore” dall’altra parte del mondo, dalla parte opposta di Babilonia, contro una superpotenza, l’impero Egiziano, in perenne competizione con l’impero Babilonese e questo personaggio opera in un tempo lontano, in un’epoca addirittura precedente a quella del re Hammurabi.
Il personaggio di Mosé – “salvato dalle acque”, “pastore”, “profeta”, “servo del Signore” – rappresenta il quadro della millenaria transumanza delle tribù canaanee, attraverso il deserto e i bassi fondali del mar Rosso, verso la valle del Nilo e viceversa, ma gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia, come sono soliti fare secondo lo “stile del proclama di Amos”, costruiscono in funzione del presente l’immagine di questo mitico personaggio del passato e operano in modo che la figura di Mosè, come strumento della liberazione dall’Egitto, possa anche diventare l’allegoria [che assume toni di carattere universale] di una potenziale [non sappiamo quanto sperata ed auspicata] liberazione da Babilonia.
Ma soprattutto, come sappiamo, il vero intento degli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia, nel creare gli straordinari racconti che costituiranno la materia di quello che sarà il Libro dell’Esodo, è quello di comporre – facendo tesoro degli elementi dello “stile del proclama di Amos” – il codice della Legge. Infatti, è mediante la Legge che la comunità deportata può aspirare all’autodeterminazione e gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia possono solo alludere alla “liberazione” [che, intorno al 560 a.C., si presenta come un’eventualità non realistica] mentre invece possono concretamente puntare sulla “autodeterminazione”, cioè possono agire – con un’azione di tipo culturale – in modo che lo Stato babilonese tolleri il fatto che le famiglie deportate possano vivere secondo le loro tradizioni, secondo le loro regole: dandosi una Legge che equivalga all’immagine del loro Dio, una Legge attraverso la quale la presenza del loro Dio si possa manifestare.
Gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia cominciano quindi a mettere per iscritto il ciclo epico su Mosè legando questo personaggio all’idea dell’introduzione di una mentalità di carattere legislativo all’interno del gruppo dei deportati: darsi delle regole e rispettarle innesca un processo di liberazione.
Come sono soliti fare, gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia utilizzano anche la figura di Mosè per attaccare la generazione precedente [quella dei loro padri], e conosciamo questa tematica. La prima generazione dell’esilio [quella delle Lamentazioni] era direttamente coinvolta nella responsabilità della sconfitta e della deportazione perché nel Regno di Giuda la classe dirigente era poco incline al rispetto della “Legge uguale per tutti” e poco propensa a stipulare “patti di solidarietà”: a Babilonia c’è una cultura giuridica superiore e gli scrivani della seconda generazione in esilio capiscono di aver molto da imparare e comprendono di dover cogliere questa occasione [non è che il Signore ci ha mandati in esilio proprio per questo motivo?] per elaborare un codice che possa racchiudere, in forma appropriata, il contenuto delle loro tradizioni.
Quando, nel 538 a.C., con l’Editto di Ciro, si conclude l’esperienza dell’esilio ecco che a Gerusalemme gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] hanno a disposizione tutto questo materiale proveniente da Babilonia [i testi dei racconti che vedono Mosè come protagonista e il codice della Legge] per compiere la loro operazione politico-istituzionale. In fondo il nuovo Stato giudaico – anche se dipende dall’impero Persiano – è come se fosse una nuova “terra promessa” in cui introdursi per poter costruire strumenti di “autodeterminazione”.
Per gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] il personaggio di Mosè rappresenta perfettamente tanto la cultura babilonese [soprattutto il patrimonio giuridico] ed evidenzia anche – come “liberatore dall’Egitto”, protagonista di un fantastico midrash – una straordinaria figura mitica da proporre agli ebionim [alle classi subalterne] come completamento della “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri] in modo che possano sentirsi rappresentati come eredi di tutti i transumanti verso la valle del Nilo e viceversa: questa operazione fa sì che il personaggio di Mosè ricalchi perfettamente anche la figura del re Giosia.
Nel Libro del Deuteronomio – lo abbiamo studiato la scorsa settimana – Mosè viene presentato dagli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] come uno statista dotato di eloquenza che parla a loro nome dei temi riguardanti la costruzione dello Stato. Se avete fatto un’incursione [consigliata dalla Scuola] sul testo del Libro del Deuteronomio avete potuto constatare che quest’opera si presenta come il resoconto di tre discorsi pronunziati da Mosè per ricordare agli Israeliti, nel momento in cui stanno per entrare nella “terra promessa”, i punti salienti del “patto di solidarietà, della berit” che il Signore ha stipulato con ciascuno di loro ai piedi del monte Sinai. Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], nel momento in cui stanno per presentare – per leggere pubblicamente – il codice della Legge ai membri della nuova Nazione, mettono in primo piano la figura del leggendario statista Mosè [ben disegnato dagli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia] e mediante la voce di questo straordinario personaggio vogliono ricordare agli Israeliti i principi costitutivi [il catalogo delle parole-chiave] del nuovo Stato giudaico.
Il Libro del Deuteronomio è un’opera che, nella Storia del Pensiero Umano, ha messo in primo piano l’azione del “deliberare”, con tutte le azioni che ne derivano, vale a dire: il decidere, lo stabilire, il provvedere, l’ordinare, l’imporre, l’impartire, l’ingiungere, il disporre, il decretare.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Rifletti su queste azioni: decidere, stabilire, provvedere, ordinare, imporre, impartire, ingiungere, disporre, decretare…
Quali episodi della tua vita passata o presente ti ricordano queste azioni?…
Scrivi quattro righe in proposito…
L’azione del “deliberare”, sulla scia del Libro del Deuteronomio, è penetrata nelle opere della Letteratura moderna e contemporanea. A questo proposito fare una scelta in funzione della didattica della lettura e della scrittura non è facile perché sono tante le opere che esprimono il concetto del “deliberare”. La decisione presa tiene conto anche del fatto che il libro, famosissimo, su cui puntiamo l’attenzione ha celebrato, nel 2007, i cento anni e così, come atto celebrativo, ho anche colto l’occasione per rileggerlo.
I ragazzi della via Pàl non è propriamente un libro per ragazzi: l’avete mai letto? … Da quanto tempo non lo rileggete? I ragazzi della via Pàl è l’opera più famosa dello scrittore ungherese Ferenc Molnàr (1878-1952), ed è stata pubblicata a Budapest nel 1907. Questo romanzo è stato subito accolto con grande favore in tutto il mondo, tanto da essere annoverato tra i classici della Storia della Letteratura. Tutti conoscono la storia di questo gruppo di scolari budapestini i quali, di fronte al pericolo di perdere il loro campo di giochi, minacciato dalla banda rivale delle camicie rosse che si trova troppo a disagio in un isolotto dell’Orto botanico, costituisce un piccolo esercito interamente composto di ufficiali con un solo soldato: il soldato semplice Ernesto Nemecsek, un biondino gracile e timido che deve soltanto obbedire e che risulta essere il vero protagonista di quest’opera. Nemecsek, per riscattarsi da questa posizione di inferiorità, va due volte a spiare le camicie rosse nel loro rifugio e, scoperto, è costretto a gelidi bagni fuori programma. Così, quando i due eserciti stanno per scontrarsi sul campo della via Pàl, il piccolo Nemecsek è a letto con la polmonite ma nell’ora della battaglia si alza, fugge di casa e con la sua presenza dà un contributo decisivo alla lotta. Dopo la vittoria i compagni vanno a trovarlo per riparare alle passate ingiustizie e a riconoscere finalmente i suoi meriti dettati da un forte spirito del dovere che lui sente, ma giungono appena in tempo per vederlo morire. In questo romanzo emergono con grande evidenza le principali parole-chiave del movimento della “sapienza poetica beritica” e la Scuola ne consiglia la lettura.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Da bambina, da bambino hai fatto parte di una “banda”?…
Scrivi quattro righe in proposito…
Se si legge I ragazzi della via Pàl si può anche seguire l’attività [clandestina] della “società dello stucco” che si distingue anche nell’azione del “deliberare”. Il capitolo 9 di questo romanzo – che ora leggiamo – è molto significativo perché contiene alcune pagine del libro dei verbali della società dello stucco.
LEGERE MULTUM….
Ferenc Molnàr, I ragazzi della via Paal (1907)
Seguono alcune pagine del libro verbali della società dello stucco.
V e r b a l e
Nella assemblea generale di oggi è stata adottata la seguente deliberazione, che qui si riporta.
N. 1
A pagina 17 del libro verbali si trova la seguente annotazione: ernesto nemecsek, in lettere minuscole. Quella annotazione viene annullata, perché dovuta a un errore: pertanto l’assemblea dichiara che il socio suddetto è stato ingiustamente offeso dalla società e che egli lo ha tollerato dignitosamente, e poi ha preso parte eroicamente alla guerra, il che è un fatto storico. Perciò la società dichiara che la suddetta nota è stata un errore della società stessa, e delibera di scrivere qui di seguito il nome del socio in lettere maiuscole.
N. 2
Quindi ora lo scrivo tutto in lettere maiuscole: ERNESTO NEMECSEK
firmato: Leszik, cancelliere.
N. 3
La società dello stucco, all’unanimità, presenta un vivo ringraziamento al generale Giovanni Boka per aver guidato la battaglia come uno dei condottieri del libro di storia e, in segno di omaggio, decide che ogni membro della società dello stucco a pagina 168 riga quarta del libro di storia, accanto al titolo «Giovanni Hunyadi» (Celebre eroe ungherese), debba scrivere in inchiostro «e Giovanni Boka». Lo abbiamo deciso perché il generale se lo merita; infatti, se egli non ci avesse guidato così bene, le camice rosse ci avrebbero sconfitto. E ognuno, nel capitolo «La strage di Mohàcs», vicino al nome del vescovo Tomori, deve scrivere a matita il nome di Cecco Ats, perché tutti e due sono stati sconfitti.
N. 4
Poiché il generale Boka, con la forza e malgrado la nostra opposizione ha confiscato la cassa della società (24 soldi) perché tutti dovettero dare quel che possedevano per finanziare la guerra e poi non è stata comperata che una trombetta da 1 fiorino e 40 soldi, mentre nel bazar Röser si sarebbe potuto comprarla per 60 o 50 soldi eppure egli ha voluto comprare la più cara perché aveva un suono più forte e, siccome abbiamo conquistato la tromba delle camice rosse, adesso ne abbiamo due mentre non ce ne serve più neppure una e se anche ci fosse bisogno una sarebbe più che sufficiente, abbiamo deciso di chiedergli di restituirci la cassa della società (24 soldi), e se mai il generale venda la trombetta, ma noi abbiamo bisogno del nostro danaro (24 soldi), come anche lui ha promesso.
N. 5
Il presidente della società Paolo Kolnay viene biasimato dai soci per aver lasciato seccare lo stucco della società. E poiché la discussione deve essere riportata a verbale, la trascrivo:
Presidente: Non ho masticato lo stucco, perché ero occupato nella guerra.
Socio Barabàs: Non è una buona ragione.
Presidente: Barabàs continua a provocare e io lo richiamo all’ordine; io mastico volentieri lo stucco, perché conosco il mio dovere, sono il presidente e perciò devo masticare lo stucco secondo lo statuto, ma non permetto che mi si provochi.
Socio Barabàs : Io non provoco nessuno.
Presidente: Mi provochi, sì.
Socio Barabàs: Ma no!
Presidente: Ma si! .
Socio Barabàs: Ma no!
Presidente: Va bene; l’ultima parola sia la tua.
Socio Richter: Spettabile società, propongo di mettere a verbale una nota di biasimo al presidente, perché ha trascurato i suoi doveri.
I soci: Giusto, giusto!
Presidente: Chiedo alla società di perdonarmi per questa volta, se non altro perché ieri ho combattuto come un leone e io ero l’aiutante di campo e in mezzo al pericolo più grave mi sono lanciato nella trincea e sono stato gettato a terra dal nemico e ho sofferto per il nostro territorio: e adesso dovrei soffrire ancora perché non ho masticato lo stucco?
Socio Barabàs: Questa è un’altra cosa.
Presidente: No!
Socio Barabàs: Si!
Presidente: No!
Socio Barabàs: Si!
Presidente: Va bene; l’ultima parola sia la tua.
Socio Richter: Chiedo che venga approvata la mia proposta.
Soci: Approviamo! Approviamo!
Da sinistra: No, non approviamo!
Presidente: Ai voti.
Socio Barabàs: Chiedo la votazione per appello nominale!
Presidente: Votazione per appello nominale.
Segue la votazione.
Presidente: La società ha deliberato con tre voti di maggioranza di infliggere una nota di biasimo al presidente Paolo Kolnay. Questa è una porcheria.
Socio Barabàs: Il presidente non ha diritto di offendere la maggioranza.
Presidente: Invece ce l’ha!
Socio Barabàs: No!
Presidente: Si!
Socio Barabàs: No!
Presidente: Va bene; l’ultima parola sia la tua.
Non essendovi altri argomenti all’ordine del giorno, il presidente toglie la seduta.
Firmato: Leszik, cancelliere.
Kolnay, presidente
sostengo ancora che è una porcheria.
Dopo l’esilio gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] hanno a disposizione un ciclo di favolosi racconti costruiti dagli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia e quindi decidono di ordinarli nel testo della prima grande narrazione epica e compongono quello che, in greco, è stato intitolato il Libro dell’Esodo. Se dovessimo occuparci del Libro dell’Esodo in modo approfondito ci vorrebbe un intero Percorso, è quindi necessario ripetere ancora una volta che l’obiettivo del nostro viaggio di studio – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – è quello di mettere in evidenza le categorie più rappresentative degli scrivani del movimento della “sapienza poetica beritica”; di mettere in evidenza gli stili letterari più significativi e le sequenze narrative strategiche. Sempre con questo obiettivo – quello di acquisire delle competenze formali – ci avviciniamo al Libro dell’Esodo di cui si consiglia la lettura: la trama di questo testo è molto nota e facciamo ad essa solo alcuni riferimenti.
Il Libro dell’Esodo è formato da 40 capitoli e si divide in tre parti.
I primi 20 capitoli raccolgono quella straordinaria sequenza narrativa nota a tutti che racconta l’oppressione a cui gli Israeliti sono sottoposti in Egitto, la nascita di Mosè [“salvato dalle acque”], lo scontro con il Faraone, i famosi castighi [le cosiddette piaghe] nei confronti degli Egiziani perché lascino partire gli Ebrei, l’attraversamento del Mar Rosso e poi del deserto fino al Monte Sinai dove viene stipulato il patto di solidarietà con Dio, la berit primordiale, che si concretizza con la consegna della Legge, la toràh [i comandamenti]. Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], con la messa in ordine del Libro dell’Esodo, fanno risalire sempre più verso le origini i concetti che gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia hanno codificato con lo stile del proclama di Amos.
La seconda parte del Libro dell’Esodo, dal capitolo 20 [il capitolo dei dieci comandamenti] al capitolo 34, contiene legislazione, regole per la liturgia ma anche la prima rottura del patto [la costruzione del vitello d’oro].
La terza parte, dal capitolo 35 al capitolo 40, descrive la creazione di una serie di istituzioni per la realizzazione del culto.
Dobbiamo dire che la descrizione delle regole per il culto continua poi nel Libro del Levitico, mentre il Libro dei Numeri racconta di nuovo, ripete con altri materiali narrativi, la storia degli Israeliti nel deserto del Sinai e nella terra di Moab riportando anche molti elenchi di dati e di censimenti, da qui il nome greco di “Numeri”.
Con il Libro del Deuteronomio e con il Libro dell’Esodo abbiamo fatto il nostro ingresso nella prima sezione del canone giudaico-palestinese. Sappiamo che questa prima sezione, in lingua greca, ha poi assunto il nome di Pentateuco che significa “cinque Libri”. Dobbiamo ancora una volta – prima di camminare, per breve tratto, sulla via dell’Esodo – fare una riflessione sulle lingue in rapporto ai titoli dei Libri, in particolare ai titoli dei Libri del Pentateuco. Noi naturalmente usiamo i titoli nel modo in cui sono stati tradotti nella lingua greca: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio.
Il passaggio della Letteratura beritica dallo scalo di Alessandria d’Egitto [dove, in autunno, abbiamo soggiornato per qualche settimana – un tempo che per noi, in termini diacronici, è corrisposto a qualche secolo – e ci siamo trattenuti ad Alessandria anche per assistere alla traduzione in greco dei Libri della Bibbia] ha creato dei problemi di comprensione nei confronti di questo grande apparato culturale: certamente la traduzione dei Settanta ha complicato le cose in funzione della comprensione dell’antico testo scritto in ebraico, anche se questa straordinaria operazione letteraria è stata una tappa decisiva per lo smistamento nel mondo di quella che chiamiamo la Letteratura dell’Antico Testamento. In questo Percorso – come lettrici e come lettori – stiamo cercando di comprendere meglio le differenze fondamentali dei due canoni principali: quello giudaico-palestinese e quello ellenistico-alessandrino.
Stavamo parlando dei titoli dei Libri del Pentateuco che in italiano sono diversi da quelli originali del canone giudaico-palestinese perché dipendono dalla lingua greca. I Libri del canone giudaico-palestinese prendono il titolo dalla parola ebraica con cui cominciano. Noi diamo il nome greco di “Esodo” ad un libro che in ebraico s’intitola “Nomi [Shmot]”. I primi cinque titoli della Bibbia, chiamati in greco “Pentateuco”, in ebraico corrispondono al termine “Toràh” [la Legge uguale per tutti]. Il libro che in greco s’intitola Genesi, nella lingua ebraica s’intitola “In principio”, e il Levitico s’intitola “E chiamò”, mentre il libro dei Numeri in ebraico s’intitola “Nel deserto” e il libro del Deuteronomio s’intitola “Parole”. Anche il termine “Bibbia” è ovviamente un nome greco, e in ebraico l’insieme dei Libri del canone viene chiamato “Mikrà” un termine che significa “Lingua sacra” ma soprattutto significa “Lettura”, mettendo in evidenza il valore di uso pubblico e corale che ha la Scrittura.
All’epoca in cui avvenne la grandiosa traduzione in greco [tra il terzo e il primo secolo a.C.] detta dei Settanta, gli Ebrei avevano dimenticato la lingua dei loro antenati, come noi abbiamo dimenticato il latino. Le numerose comunità lontane dalla Palestina chiedevano una traduzione nella lingua che prevaleva allora: il greco della koiné, dell’Ellenismo. Bisogna dire – come dicono le studiose e gli studiosi di filologia biblica – che la lingua ebraica, magra ed esatta, è uscita sfigurata, colonizzata, interpretata dal colto vocabolario della lingua greca, abituato a considerare inferiore ogni altro modo di esprimersi. Evidentemente non era propriamente adatta al monoteismo una lingua sviluppatasi cantando la pluralità degli dèi. Il greco – come abbiamo potuto constatare nei Percorsi precedenti a questo sul territorio della cultura orfica – vedeva carri alati nel sole, fabbri nei vulcani, il numero 3,14 nelle circonferenze, e Dio era un nome comune, scritto con la minuscola.
Quando s’intraprende un viaggio di studio sui sentieri del movimento della “sapienza poetica beritica” – anche a grandi linee e in funzione della didattica della lettura e della scrittura come stiamo facendo noi – a poco a poco viene fuori una certa nostalgia per l’originale ebraico, e si capisce perché un certo numero di persone si sono messe a studiare questa lingua che, prima ancora del greco e del latino, dà forma alla nostra identità culturale. Risalire alle origini del canone giudaico-palestinese mette in evidenza – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – temi [parole, idee, pensieri] inaspettati. Su alcuni di questi temi inaspettati, meno convenzionali vogliamo puntare la nostra attenzione.
Per esempio: il Libro dell’Esodo-Nomi è pieno di kolòt, che in ebraico significa “voci”. Gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia e poi gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] ci fanno ascoltare la voce incerta di Mosè [veniamo a sapere che è anche balbuziente], ci fanno sentire la voce fragorosa del popolo e soprattutto la voce misteriosa del liberatore divino, colui che fa uscire gli Israeliti dalla terra d’Egitto, dalla casa dei servi: un primo motivo [visto che la trama del Libro dell’Esodo-Nomi è conosciuta, per lo meno nelle sue grandi linee, da tutti] per dedicarsi alla lettura di questo Libro è quello di esercitarsi a catturare le “voci”, un tema che diventerà anch’esso preponderante nella Letteratura moderna e contemporanea. La parola kolòt indica anche i suoni prodotti da un corno d’ariete, dai sonagli di un vestito sacerdotale, dai tuoni, dal vento; quindi il testo del Libro dell’Esodo-Nomi propone questa sola parola per indicare una pluralità di situazioni mentre le traduzioni, a cominciare da quella greca, smembrano questo termine – kolòt, voci – secondo la logica della costruzione del testo in definizioni, in suoni, in tuoni.
Gli scrivani d’Israele, nella semplicità di una parola sola che dice tante cose, vogliono custodire un concetto: coltivano l’idea che la loro “lingua sacra” è capace di affermare che il creato sa parlare incessantemente ed è necessario imparare ad ascoltarlo, nelle voci del gregge [il suono del corno], nelle voci sul monte [i boati dei tuoni], nelle voci nel tempio [il tintinnio dei sonagli delle vesti dei sacerdoti], nelle voci della valle [il sospiro della brezza], nelle voci del fuoco [Dio che parla]. Molto spesso gli scrivani d’Israele usano una parola sola che dice una pluralità di cose quasi come se volessero manifestare un’umiltà e un limite: è come se ammettessero di sentire quelle voci ma di non saperne intendere pienamente il significato. Emerge in questa idea [in questo richiamo all’interpretazione] come una nostalgia per il tempo delle origini [del principio] – che gli scrivani sentono il dovere e la responsabilità di raccontare – in cui, probabilmente, i progenitori erano capaci di intendere alla lettera il creato [ecco perché sentono l’esigenza di creare le figure dei progenitori nel racconto, per trovare la linfa necessaria ad un’impresa così ardua come quella di rappresentare la creazione]. Ecco che quando gli scrivani d’Israele insistono nel voler rappresentare con una sola parola le molte kolòt, le molte “voci” del Libro dell’Esodo-Nomi si sentono lusingati [si sentono “soddisfatti” come Dio quando ha terminato la creazione] per aver restituito a quelle cose la loro voce: una voce che poi verrà attutita dallo stile dettagliato delle traduzioni a cominciare da quella greca.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Nella Letteratura beritica - in particolare nel Libro dell’Esodo-Nomi – emergono le voci della natura oggi sommerse dai rumori della civiltà…
Quali sono le voci della natura a cui sei più affezionata/affezionato e che meglio si sono inserite nella tua autobiografia?…
Scrivi quattro righe in proposito…
Inoltre nel Libro dell’Esodo-Nomi troviamo concentrata una quantità di “segni miracolosi” superiore a quella presente negli altri Libri della Letteratura beritica. I più famosi di questi segni [che sono stati replicati innumerevoli volte nella Storia dell’Arte, della Musica, del Teatro, nel cinema e, naturalmente, nella Storia della Letteratura] sono: le dieci [piaghe] catastrofi d’Egitto, il guado asciutto del Mar Rosso, la manna mattutina e molti altri grandiosi fenomeni. Questi segni sono come un preludio tanto agli straordinari racconti della creazione [che, procedendo a ritroso, stanno prendendo forma] quanto alla narrazione dei quaranta giorni che Mosè trascorre tra le nuvole del Sinai.
Questi grandiosi fenomeni [con le loro kolòt, le loro “voci”] devono anche fare – secondo gli scrivani d’Israele che costruiscono la “sapienza poetica beritica” – da cornice a un dubbio che assume i contorni del paradosso. Gli scrivani d’Israele – e lo si percepisce dalla durezza, dalla stringatezza, dalla concisione, dall’essenzialità del testo del Libro dell’Esodo-Nomi – sanno che le lettrici e i lettori da subito non possono fare a meno di coltivare un dubbio: ma Mosè, sul Sinai, ha davvero ricevuto le tavole dal Signore oppure se le è dovute scolpire da solo? Perché se il Signore si fosse davvero manifestato nel sua pienezza, Mosè da quel monte non sarebbe più potuto scendere. Sopra il monte, nel deserto, è il dito divino che scalpella il Codice o è lo stilo di Mosè che compone la Legge e si assume la responsabilità di interpretare il disegno di Dio con l’afflizione di non essere stato all’altezza di questo compito? Formidabile è, nel testo del Libro dell’Esodo-Nomi, la presenza di questo dubbio che aleggia e investe le coscienze degli scrivani che riversano sulla figura mitica di Mosè la stessa responsabilità che si sono assunti perché – una cosa è certa – è il loro stilo, in realtà, che costruisce il testo della Legge. Gli eventi straordinari che si manifestano nel Libro dell’Esodo-Nomi vengono descritti dagli scrivani d’Israele con un disordine prestabilito, e l’energia che scaturisce da questi prodigi si condensa d’improvviso e a volte salva, altre volte demolisce, a volte soccorre e altre volte stermina con una frequenza inaudita.
Gli scrivani d’Israele – con il loro spiccato senso dell’ironia – alludono al fatto che i miracoli corrispondono a una “illegalità della natura” che fa da contrasto all’azione di Mosè: Dio può permettersi di trasgredire alle regole della natura, Mosè invece [come gli scrivani d’Israele autori di questo significativo testo] non può fare i miracoli [tutt’al più può compiere qualche gioco di prestigio col suo bastone] ma deve essere realista in modo da costruire la legalità nella società.
Oggi, da lettrici e da lettori, di fronte a questa situazione narrativa ricca di segni straordinari ci si comporta come di fronte agli epici duelli che si svolgono fuori dalle mura di Troia nell’Iliade di Omero senza tenere conto del fatto che tanto la Letteratura orfica quanto quella beritica devono indurre alla riflessione. Dal secolo scorso sono diminuiti i credenti ma non sono aumentati gli “spiriti riflessivi”, bensì sono aumentati i creduloni, bendisposti verso i maghi, verso i negromanti e anche verso un surrogato di Dio che si manifesterebbe come un prestigiatore.
Gli scrivani d’Israele nel testo del Libro dell’Esodo-Nomi ritengono sia necessario riflettere sul significato del miracolo, che si presenta come illegalità della natura, il quale ha bisogno di essere creduto per sospensione dell’incredulità, ma soprattutto ritengono sia necessario riflettere sul valore della Legge, l’unico strumento che possa garantire la giustizia nella società, che ha bisogno di essere rispettata per merito e per dovere: l’autentico “miracolo” è che tutti rispettino la Legge uguale per tutti. Il testo del Libro dell’Esodo-Nomi mette in evidenza – con uno straordinario paradosso – che il Miracolo [illegalità della natura] e la Legge [strumento per affermare la giustizia nella società] sono in contrasto tra loro: Dio che fa i miracoli è troppo buono, e l’essere umano non è adeguato per sostenere tutta questa bontà.
Poi nel Libro dell’Esodo-Nomi troviamo il deserto [midbār e, nella traduzione greca, èremos]. Il deserto rappresenta già, in questo testo, anche una grande metafora [che continuiamo a coltivare]: il deserto è un luogo di rischio e di avventura, un oceano fatto di polvere in cui il vento scombina le piste e l’orizzonte. Il deserto ricorda il “labirinto” della cultura orfica ma è uno spazio diverso dal labirinto in cui si sono addentrati i Greci a passi cauti e pesanti. I Greci hanno percorso il labirinto come un enigma, lo hanno attraversato per risolverlo [ricordate i nostri viaggi in compagnia di Erodoto?]. I labirinti – abbiamo studiato a suo tempo – rispondono a due diverse architetture dello smarrimento: una di queste architetture vuol confondere l’orientamento con percorsi a spirale, a zig-zag, fino alla perdita dell’equilibrio fino a far venire le vertigini; l’altra architettura invece impedisce l’uscita con biforcazioni e vicoli ciechi. Il primo labirinto si trasferisce nei sensi di chi lo attraversa, il secondo invece gli si accampa intorno come una trappola [usciamo in un labirinto per entrare in un altro]: questi labirinti sono luoghi che prevedono dei passi obbligati. Il deserto, invece, si presenta come un luogo di passaggi spalancati, è come se fosse un labirinto raso al suolo. La sua pista è scritta in cielo, costringe ad alzare gli occhi, insegna a dipendere dall’orientamento: il labirinto costringe spesso a tornare sui propri passi, il deserto spinge ad andare avanti. Nel testo del Libro dell’Esodo-Nomi una “colonna di fuoco” durante la notte e una “colonna di nuvola” durante il giorno guidano il percorso al popolo di Mosè.
Da questa idea – da questa grande immagine mitica – nasce l’esigenza del pellegrinaggio [un’esperienza che continuiamo a fare tanto per motivi religiosi quanto con spirito decisamente laico]. Il labirinto dei Greci induce a riflettere per dotarsi di una chiave, il deserto degli Ebrei induce a riflettere per capire se si possa postulare un Dio.
Nel Libro dell’Esodo-Nomi troviamo alcuni elementi fondamentali: l’investitura, il viaggio vagabondo, i prodigi e la terra promessa. Questi elementi vengono ricalcati da innumerevoli opere letterarie: tantissimi romanzi sono costruiti con questo schema! Non possiamo ora non puntare l’attenzione – seppure brevemente – su un’opera [che abbiamo incontrato più di una volta sui nostri Percorsi, ne abbiamo anche celebrato i quattrocento anni] nella quale questo schema [investitura, vagabondaggio, prodigi e terra promessa] appare evidente per la prima volta nell’età moderna: quest’opera s’intitola El ingegnoso hidalgo Don Quijote de la Mancha [Il fantastico cavaliere don Chisciotte de la Mancha]. Chi non conosce Don Chisciotte e Sancho Panza? Dietro a questi primi due personaggi del romanzo moderno c’è uno scrittore che tutti conosciamo, almeno di nome: Miguel de Cervantes Saavedra, nato ad Alcalà de Henares nel 1547 e morto a Madrid nel 1616. Cervantes è un personaggio dalla vita movimentata: dal 1568 è in Italia per sfuggire a una condanna nel suo paese. Intraprende la vita militare e partecipa a diverse famose battaglie [Lepanto, Navarino, Biserta, Tunisi] nelle quali viene ferito più volte. Viene anche catturato dai pirati Barbareschi e vive prigioniero a Tunisi per cinque anni prima di essere riscattato: torna in Spagna dove finisce ancora due volte in prigione. Negli ultimi anni della sua vita è oppresso da difficoltà economiche e familiari, ma riesce a trovare un po’ di consolazione dandosi ad una intensa vita letteraria.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Puoi conoscere meglio Miguel de Cervantes Saavedra utilizzando l’enciclopedia, la biblioteca o la rete…
Cervantes scrive una delle più importanti opere della Storia del Pensiero Umano e quest’opera, intitolata Il fantastico cavaliere don Chisciotte de la Mancha, viene considerata il primo romanzo moderno: la prima parte è stata pubblicata nel 1605, la seconda nel 1615. Cervantes concepisce questo romanzo con lo stile della satira letteraria e avendo nella mente gli elementi fondamentali [investitura, vagabondaggio, prodigi e terra promessa] del Libro dell’Esodo-Nomi.
Il romanzo di Cervantes – come sappiamo – racconta la storia tragicomica di un oscuro cavaliere di un borgo della Mancha. Questo oscuro cavaliere è un vorace lettore di romanzi cavallereschi, legge mai tanto che s’immedesima completamente nel personaggio del “cavaliere errante”: un puro, coerente cavaliere errante, che persegue con tenacia ideali d’amore, di onestà [il patto di solidarietà] e di giustizia [la Legge che tutela tutti]. Ma la sua purezza cavalleresca contrasta con la realtà: la realtà in cui vive è triviale, è volgare, è ipocrita, è violenta, e gioca senza pietà con la dolorosa follia di questo “candido” personaggio. L’unico sollievo per lui viene dal popolare buon senso del suo scudiero Sancho Panza, che è la sua spalla premurosa.
Il Don Chisciotte è un’opera che riflette non solo sulla decadenza e la crisi di una società: la società dell’aristocrazia spagnola del suo tempo. Ma è un’opera che – come tutto il movimento della “sapienza poetica beritica” – fa una riflessione più ampia: sulla crisi dei valori, sul senso tragico che ha una società che non è capace di costruire la solidarietà, l’accoglienza, la giustizia sociale, la condivisione. Quando non ci sono questi valori la vita finisce per avere un senso tragico, doloroso. Don Chisciotte è diventato un personaggio universale perché Cervantes ha saputo porre attraverso questa straordinaria figura una domanda fondamentale: sono un po’ pazzi coloro i quali vogliono lottare perché l’amore, l’onestà e la giustizia abbiano un ruolo nel mondo? Sono solo dei visionari, costoro? Cervantes, in periodo di Contoriforma [non può certamente dire che sta riscrivendo il Libro dell’Esodo-Nomi in lingua corrente], costruisce un personaggio da romanzo apparentemente “innocuo”. Ma Don Chisciotte non è un personaggio innocuo e solo comico [la sua comicità è involontaria]: Don Chisciotte è una figura dolorosa e tragica, e si rivela come una persona molto seria che fa le cose con un grande impegno intellettuale, morale e civile, e ha poca voglia di scherzare. Leggere il romanzo che racconta le avventure de El ingegnoso hidalgo Don Quijote de la Mancha, è una bella impresa [la Scuola consiglia di leggerne due pagine al giorno] perché ci fa capire che il pazzo non è Don Chisciotte, ma il pazzo – insegna Cervantes – è chi calpesta i grandi valori dell’Umanesimo. Don Chisciotte [legato a Sancho Panza] sarà sempre un personaggio tra i più suggestivi della Storia della Letteratura di tutti i tempi, e lo si ama anche per la malinconia e la nostalgia che ci regala.
Abbiamo detto che nel Libro dell’Esodo-Nomi troviamo alcuni elementi fondamentali: l’investitura, il viaggio vagabondo, i prodigi e la terra promessa che rappresentano lo schema del Don Quijote de la Mancha di Cervantes. Don Chisciotte l’investitura la riceve [non in un palazzo reale, non in una cattedrale] in una Biblioteca e gli proviene dai romanzi di cavalleria, storie di soprusi riparati da salvatori erranti. Questo eroe intrepido e inadatto esegue una missione secondo regole prescritte, ci sono le tavole di una Legge nel suo cuore. I cavalieri come Don Chisciotte vengono spediti allo sbaraglio in un viaggio verso una meta che non è in linea retta e così imparano l’arte del vagabondaggio. In ogni luogo Don Chisciotte incontra un prodigio, ma questo prodigio avviene solo nella sua mente. Nel Libro dell’Esodo-Nomi c’è un’energia che sovverte il mondo [le regole della natura], nel Don Quijote de la Mancha di Cervantes l’energia sovverte i sensi dell’eroe che attraversa il mondo e a lui soltanto svela mostri fantastici e avventure straordinarie [come faremmo a sopravvivere se anche noi, ogni tanto, non immaginassimo avventure straordinarie: ne avete qualcuna da raccontare?].
Infine Don Chisciotte ha una meta: un’isola [una terra] promessa al suo popolo formato da una persona sola, lo scudiero [forse meriterebbe il titolo di “servo del Signore”] Sancho, l’incredulo, il duro di cervice ma tenace in fedeltà, in spirito di servizio e in senso del dovere. Cervantes ricalca l’epico racconto del Libro dell’Esodo-Nomi per nostalgia di quelle storie grandiose che richiamano gli esseri umani allo spirito di servizio e al senso del dovere. Leggiamo una pagina [la nostra razione giornaliera] dal Don Chisciotte.
LEGERE MULTUM….
Miguel de Cervantes, Don Chisciotte (1605)
In quello stesso tempo Don Chisciotte si mise a circuire un contadino del vicinato; un uomo dabbene (seppure si può dare questo nome a un povero) ma con molto poco sale nella zucca.
In conclusione tanto disse, tanto lo persuase e tante promesse gli fece, che il pover’uomo si decise a partire con lui e a fargli da scudiero.
Gli diceva fra l’altro Don Chisciotte che lo seguisse volentieri, perché poteva capitargli qualche avventura da guadagnarsi in quattro e quattr’otto un’isola, di cui allora lo avrebbe nominato governatore.
Con queste e altre simili promesse, Sancho Panza, così si chiamava il contadino, lasciò la moglie e i figliuoli, e si collocò come scudiero presso il suo vicino; poi Don Chisciotte si mise a far quattrini, e vendendo una cosa, impegnandone un'altra, ma tutte con molto scapito, mise insieme una discreta sommetta.
Si provvide anche di uno scudo rotondo che chiese in prestito ad un amico, e rabberciata meglio che poté la celata rotta, avvisò il suo scudiero Sancho del giorno e dell'ora che pensava di mettersi in cammino, perché anche lui si provvedesse del necessario, e gli disse di portar delle bisacce.
Il contadino rispose che l’avrebbe portate, e che pensava anche di portare con sé un suo asino bravissimo, perché lui di camminare a piedi non era buono. Su questo affare dell’asino Don Chisciotte stette un po’ perplesso, cercando di ricordarsi se c’era stato mai un cavaliere errante che si fosse menato dietro uno scudiero montato all’asinesca, e non gliene venne in mente punti; tuttavia gli disse di portarlo, col proposito di sistemar poi il suo scudiero su una più onorevole cavalcatura alla prima occasione in cui potesse togliere il cavallo a qualche poco cortese cavaliere in cui s’imbattesse.
Si provvide di camicie e di quante altre cose poté, conforme al consiglio che gli aveva dato l’oste, e fatti tutti questi preparativi, una bella notte, senza nemmeno dire addio, Sancho alla moglie e ai figliuoli, Don Chisciotte alla nipote e alla governante, uscirono dal paese senza essere visti da nessuno, e camminaron tanto che all’alba si tennero sicuri che, se anche li avessero cercati, non li avrebbero trovati.
Andava Sancho Panza sulla sua cavalcatura come un patriarca, con le bisacce, con l’otre e con una gran voglia di vedersi governatore dell'isola che il suo padrone gli aveva promessa.
Don Chisciotte prese la medesima strada che aveva preso nel primo viaggio, cioè attraverso la pianura di Montiel, ma procedeva con minore oppressione della prima volta, perché era di mattina presto, e i raggi del sole, venendo di traverso, non davano tanta noia.
Sancio Panza intanto a un certo punto disse: “Guardi bene, signor cavaliere errante, di non dimenticarsi dell’isola che mi ha promesso, perché io la saprò governare benissimo, per quanto grande possa essere.”
“Amico Sancho” gli rispose Don Chisciotte “tu devi sapere che fu un uso molto comune tra gli antichi cavalieri erranti quello di nominare i loro scudieri governatori delle isole e dei regni che conquistavano, ed io sono deciso a impedire che un uso così lodevole, vada perduto per colpa mia.
Anzi penso di andar più in là, perché gli antichi molte volte, e forse le più, aspettavano che i loro scudieri fossero vecchi, e quando erano stanchi di servire e di passare giorni cattivi e peggiori notti, davan loro qualche titolo di conte, o tutt’al più di marchese, di qualche valle o provincia più o meno importante; ma se Dio ci dà vita, potrebbe essere benissimo che prima di sei giorni io conquistassi un regno, da cui ne dipendessero degli altri, in modo che l’occasione si prestasse proprio bene per darne uno a te.
E non credere che questa sia cosa straordinaria, perché accadono ai cavalieri erranti cose e casi mai visti e così impensati, che facilmente ti potrei dare anche di più di quel che ti prometto.”
“Allora” rispose Sancho Panza “se per qualche miracolo di quelli che dice lei, io diventassi re, la mia donna, Giannina Gutierrez, verrebbe per lo meno ad essere regina, e i miei figliuoli principi ereditari.”
“E chi lo mette in dubbio?” rispose Don Chisciotte.
“Io, lo metto in dubbio” replicò Sancho Panza “perchè io credo che se anche Iddio facesse piovere regni sulla terra, in capo a Maria Gutierrez non ce ne starebbero punti. Lei deve sapere che come regina non vale due soldi; contessa andrebbe un po’ meglio, e magari volesse Iddio!”
“Lascia fare a Dio, Sancho” rispose Don Chisciotte “e lui le darà quel che conviene di più, ma non ti umiliare tanto da contentarti d’essere di meno che governatore.”
“Oh, no! non dubiti” rispose Sancho “tanto più che lei è un padrone così buono e così potente, che mi saprà dare tutto quello che mi starà bene a mano, e che sarò capace di reggere.” …
Don Chisciotte de La Mancia è un stupenda parafrasi del Libro dell’Esodo/Nomi: la più riuscita tra tutte quelle che sono state scritte...
E ora facciamo conoscenza del testo del Libro dell’Esodo-Nomi così come lo hanno composto gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia e come lo hanno riveduto, dopo l’esilio, gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale]. Facciamo l’esperienza della traduzione letterale del Libro dell’Esodo-Nomi leggendo e commentando i primi due capitoli e l’inizio del terzo. È solo un frammento ma tanto basta perché possiate fare – usando la vostra Bibbia che riporta la traduzione della versione greca – un confronto tra il linguaggio ellenistico-alessandrino dei Settanta saggi filotraduzionisti e quello ebraico degli scrivani dell’esilio e degli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale].
LEGERE MULTUM….
Libro dell’Esodo-Nomi 1, 1-22 2, 1-25 3, 1-4
E [Molti Libri della Letteratura beritica, molte frasi di questi Libri cominciano con la congiunzione “e”, in ebraico “vav”. Come ogni grande opera dell’Età assiale la Letteratura beritica è stata a lungo tramandata a voce e un residuo di questa trasmissione è attaccare le frasi con una congiunzione che fa da aggancio con la narrazione precedente. La parola “vav”, a sé stante, significa “gancio”] questi i nomi dei Figli d’Israele [la parola “nomi-shmot” dà il titolo al Libro] entrati in Egitto [Qui nel testo c’è un segno di cesura detto “atnàh” che separa in due la frase: è un segno forte di stacco e viene reso con un punto. Ne consegue che non si legge: “entrati in Egitto con Giacobbe”, ma “entrati in Egitto. Con Giacobbe …” perché gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia vogliono distinguere tra la “transumanza” che ha realmente portato le tribù cananee in Egitto e la figura mitica di Giacobbe che la descrive metaforicamente]. Con Giacobbe [Ia’acòv] ognuno e la sua casa entrarono. Reuvèn, Shim’on, Levi e Giuda. Issascàr, Zevulùn e Beniamino. Dan e Naftalì, Gad e Ashèr. [Sono i nomi di undici figli di Giacobbe: naturalmente manca Giuseppe il quale è già in Egitto]. E fu ogni persona uscita di coscia [Uscire di coscia vuol dire: nascere] di Giacobbe, (del numero di) settanta persone [Giacobbe è colui che esce sciancato, fuori di coscia, dalla lotta con un angelo al guado del fiume Iabbòk: questo famoso episodio lo troviamo nel Libro della Genesi al capitolo 32 dove si legge “e lo sconosciuto batté l’attaccatura di coscia di Giacobbe”. In ebraico Iabbòk e Giacobbe hanno le stesse lettere, ma nel nome di Giacobbe vi è anche la lettera ‘ain il cui valore numerico – le lettere in ebraico sono anche numeri – è 70, che è il numero dei figli a lui attribuiti]. E Giuseppe era (già) in Egitto.
E morì [La costruzione abituale della frase ebraica prevede il verbo in apertura prima del soggetto] Giuseppe e tutti i suoi fratelli e tutta quella generazione. E i Figli d’Israele fruttificarono e brulicarono [è il verbo del quinto giorno della creazione ed esprime il brulichio di esseri che popolano le acque] e si moltiplicarono e si rinforzarono di moltissimo. E fu piena la terra di loro. E si levò un re nuovo sopra l’Egitto, che non aveva conosciuto Giuseppe.
E disse al suo popolo: “Ecco, il popolo dei Figli d’Israele è numeroso e forte più di noi [Per la prima volta nella Storia delle Letterature incontriamo espresse delle preoccupazioni strategiche di una nazione potente che ospita una forte minoranza straniera: gli scrivani parlano dell’Egitto ma alludono ad una situazione che si pone a Babilonia]. Su, mostriamoci saggi verso di esso: perché non si moltiplichi e sia quando sarà dichiarata una guerra e si aggiunga anch’esso accanto a quelli che ci odiano e ci combatta [Ci sono delle preoccupazioni di carattere militare prima ed economiche poi, per il danno di perdere manodopera a buon mercato] e salga dalla terra” [Salire dalla terra significa “partirsene”. L’andare verso la terra che Dio ha promesso, sarà sempre espresso con il verbo “salire” perché non c’è terra promessa se non salendo sul monte per ricevere le tavole della Legge: non c’è la Terra se non c’è la Legge]. E misero sopra di esso sorveglianti alle fatiche [la parola “fatiche” corrisponde alla parola “missìm” che significa “fare la corvée”, il lavoro pesante inflitto agli sconfitti, ai prigionieri e, in certi casi, anche al proprio popolo] per opprimerlo con i loro fardelli. Ed esso costruì città deposito per Faraone [Faraone, in ebraico, si esprime con il termine “Par’o” che significa anche “chioma o capigliatura”. questo termine è sempre senza articolo], Pitom e Ra’amses [Due nomi esemplificativi].
E quanto lo opprimeranno tanto si moltiplicherà e si spanderà. Ed ebbero ansia a causa dei Figli d’Israele. E asservirono, gli Egiziani, i Figli d’Israele con asprezza.
E amareggiarono le loro vite con duro servizio con argilla e con mattoni e con ogni servizio nella campagna: con ogni loro servizio per il quale li asservirono con asprezza.
E disse il re d’Egitto alle levatrici Ebree, delle quali il nome della prima è Shifrà [Bellezza] e il nome della seconda Pu’a [Gridata, e la radice di questo termine la troviamo nel Libro di Isaia quando il profeta “grida”]. E disse: “Nel vostro far partorire le Ebree vedrete sulle due pietre [è una rudimentale sedia dove si sedevano le partorienti]: se è un figlio quello lo farete morire, e se è una figlia quella che viva”.
Ed ebbero timore di Elohìm le levatrici e non fecero come aveva detto loro il re d’Egitto. E fecero vivere i bambini.
E chiamò il re d’Egitto le levatrici e disse loro: “Perché avete fatto questa cosa? E avete fatto vivere i bambini?” E dissero le levatrici a Faraone: “Perché non sono come le donne Egiziane le Ebree. Perché sono animali [Le traduzioni di solito ammorbidiscono la crudezza di questo termine, ma qui le levatrici devono giustificarsi per aver trasgredito un ordine e riescono a farlo senza denigrare le donne Egiziane che apparirebbero altrimenti meno forti di quelle Ebree. Dicono perciò “animali” giustificando il loro ritardo e per omaggio alla grande vitalità di un popolo che si moltiplicava in maniera formidabile] quelle, prima che venga da loro la levatrice hanno partorito”.
E fece del bene Elohìm alle levatrici. E si moltiplicò il popolo e si rinforzarono molto.
E fu poiché le levatrici ebbero timore di Elohìm, che egli fece loro delle case [si può intendere sia la prosperità delle loro famiglie, sia concretamente il procurar loro delle case in muratura, un privilegio forse raro in un popolo probabilmente male alloggiato]. E ordinò Faraone a tutto il suo popolo dicendo: “Ogni figlio nato al Nilo lo getterete e ogni figlia farete vivere” [La strage viene comandata pubblicamente all’intero popolo Egiziano, ed è così che la colpa ricade su tutta la nazione che verrà perciò colpita con la morte dei primogeniti].
E andò un uomo dalla casa di Levi [Secondo la tradizione Mosè e suo fratello Aaron discendono dalla stirpe di Levi, alla quale spetterà la prerogativa di essere sacerdoti] e prese (in moglie) una figlia di Levi. E concepì la donna e partorì un figlio e vide che era buono [tranquillo, non piangeva e dunque poteva essere nascosto] e lo nascose tre mesi. E non poté più nasconderlo e prese per lui una cesta di papiro e la impiastrò di bitume e di catrame [La cesta è “tevà” lo stesso nome dell’arca che Dio fece costruire a Noè. I termini tecnici sono qui come altrove non del tutto certi “chemar” è bitume, i cui più antichi giacimenti stavano sulle rive del Giordano e del Mar Morto; “zafèt” potrebbe essere catrame di tipo vegetale, che si ricava dalla combustione del legno]. E mise in essa il bambino e mise nella giuncaia presso un labbro del Nilo [Come se questo bambino fosse una parola pronunciata dalla bocca del fiume: ed è l’annuncio che si vuole metaforicamente giocare con le parole, infatti qui comincia un rapporto tra Mosè e l’acqua che procurerà prima di tutto un nome al bambino: Moshè è voce che viene dai verbi “salvare” o “tirare fuori”. Le lettere che formano il suo nome, mem shin he, se vengono lette al contrario formano la parola “hashèm”, che significa il “nome”. Ricordiamoci che questo libro in ebraico si chiama: “Nomi” e gli scrivani sono poeti e amano giocare con le parole]. E si fermò sua sorella [Si passa dalla madre alla sorella senza avvertire] di lontano: per conoscere cosa sarebbe stato fatto a lui. E scese la figlia di Faraone a lavarsi al Nilo e le sue giovani andavano presso una mano [sta per una sponda del Nilo: in pochi versi due pezzi del corpo umano vengono prestati al fiume] del Nilo. E vide la cesta in mezzo al giunco e mandò una sua serva e la prese. E aprì e lo vide, il bambino, ed ecco il piccolo piangente. Ed ebbe pietà di lui e disse: “Dai [specifica la provenienza e non il possesso perché i servi non possedevano neanche i figli] bambini Ebrei è questo”.
E disse sua sorella alla figlia di Faraone: “Andrò io e chiamerò per te una donna che allatta tra le Ebree e allatterà per te il bambino?”
E disse a lei la figlia di Faraone: “Vai”. E andò la ragazza e chiamò la madre del bambino. E disse a lei la figlia di Faraone: “Conduci questo bambino e fallo allattare per me e io darò il tuo salario”. E prese la donna il bambino e lo allattò. E crebbe il bambino e lo portò alla figlia di Faraone e fu per lei come un figlio. E chiamò il suo nome Mosè [Con questo modo di dire gli scrivani continuano a giocare con le parole: l’espressione “chiamò il suo nome Mosè” spiega che c’è una differenza tra la persona e il nome perché lui non è Mosè, Mosè è una metafora ed esiste solo il suo nome con tutta la gamma dei suoi significati allegorici. Nel nome Mosè si riconosce il termine “meshitìu” che significa “io l’ho salvato”, dal verbo “mashà”, “salvare” e rispetto a questo verbo il nome Moshè è un participio presente e significa “colui che salva”. Abbiamo già detto che le lettere che formano Moshè (mem, shin, he) in ordine inverso formano “hashem”, il “nome”, che è anche uno degli attributi di Dio. Inoltre il termine “Moshè” è vicino alla parola “Mizraìm”, che significa “Egitto”, ma questa parola con un’altra vocalizzazione si può leggere anche “dal mare ostile”. Quindi Mosè ha nel nome il compito: salva, fa uscire dall’Egitto, fa salire dal mare ostile] e disse: “Perché dalle acque lo feci uscire”.
E fu in quei giorni ed era cresciuto Mosè e uscì verso i suoi fratelli e vide i loro fardelli. E vide un uomo Egiziano che colpisce un uomo Ebreo fra i suoi fratelli. E si volse di qua e di qua e vide che non c’è alcuno: e colpì l’Egiziano e lo seppellì nella sabbia.
E uscì nel secondo giorno ed ecco due uomini Ebrei litiganti. E disse all’empio: “Perché colpirai il tuo compagno?” E (quello) disse: “Chi ti ha messo come uomo di comando e giudice sopra di noi, forse per uccidermi tu parli come hai ucciso l’Egiziano?” Ed ebbe timore Mosè e disse: “Certo è conosciuta la cosa”.
E ascoltò Faraone questa cosa e cercò di uccidere Mosè. E fuggì Mosè via da Faraone e abitò in terra di Midiàn [a sud, sud-est della Palestina] e abitò presso Il Pozzo [Il Pozzo è una località, è nome proprio di un luogo nella terra di Moàv].
A un sacerdote di Midiàn (erano) sette figlie [La lingua ebraica non ha il verbo avere, la costruzione è perciò: a un sacerdote erano sette figlie ma in questa frase gli scrivani fanno mancare anche il verbo essere]. E andarono e attinsero e riempirono i canali per abbeverare il gregge di loro padre. E vennero i pastori e le scacciarono. E si levò Mosè e dette loro scampo e abbeverò il loro gregge.
E vennero da Re’uèl [Re’uèl è un nome che compare solo qui e in un versetto del Libro dei Numeri. Il nome con cui ritornerà questo personaggio è Ieter e Itrò o Ietro] loro padre. E disse: “Perché vi siete affrettate a venire oggi?” E dissero: “Un uomo Egiziano ci ha liberato dalla mano dei pastori. E anche attingere [in ebraico il verbo che si vuole rafforzare di significato viene ripetuto ponendolo all'infinito] ha attinto per noi e ha abbeverato il gregge”. E disse alle sue figlie: “E dov’è lui? Perché avete lasciato quest’uomo, chiamatelo e che mangi del pane” [Il pane è l’ospitalità].
E cominciò Mosè ad abitare con l’uomo. E dette Tzipporà [Tzipporà significa “passero” in ebraico] a Mosè. E partorì un figlio e chiamò il suo nome Ghershòm. Perché disse: “Straniero sono stato in terra sconosciuta” [“Gher” significa straniero, mentre le altre due lettere con cui è formato il nome Ghershòm, cioè “shin” e “mem”, compongono sia l’avverbio di luogo “là”, sia la parola “nome” e sono due delle tre consonanti del termine “Mosè”. I nomi che i genitori Ebrei mettevano ai figli non provenivano da un calendario, né da un uso precedente: erano coniati per l’occasione, per contenere in una sigla un riassunto di avvenimenti].
E fu in molti di quei giorni e morì il re d’Egitto e si lamentarono i Figli d’Israele per la servitù e gridarono. E salì la loro supplica a Elohìm dalla servitù. E ascoltò Elohìm il loro gemito. E ricordò Elohìm il suo patto con Abramo, con Isacco e con Giacobbe.
E vide Elohìm i Figli d’Israele. E seppe Elohìm [La ripetizione di tutti questi “Elohìm” fa parte dì quella che le studiose e gli studiosi di filologia biblica chiamano: “la chiusura monumentale del secondo capitolo del Libro dei Nomi”. Nelle traduzioni non vengono mantenuti tutti gli Elohìm originali. Forse che senza supplica Elohìm non avrebbe visto né saputo? La scrittura qui insegna che le invocazioni muovono l’azione, sono la condizione di un intervento, fanno sì che il vedere e il sapere di Elohìm agiscano nel mondo e questo è lo stile del proclama di Amos].
E Mosè fu pastore [Sappiamo che Mosè non avrebbe potuto non fare l’esperienza del pastore] con il gregge di Itrò suo suocero sacerdote di Midiàn. E guidò il gregge oltre il deserto e venne al monte di Elohìm, al Chorev (Sinai).
E apparve un angelo a lui in fiamma di fuoco in mezzo al roveto [l’espressione “in fiamma di fuoco”, “belabbàth esh”, e l’espressione “roveto”, “senè” non si ripeteranno in altri luoghi della Scrittura e conservano qui la loro qualità di evento unico]. E vide ed ecco il roveto brucia nel fuoco e il roveto non è lui stesso consumato. E disse Mosè: “Mi sposterò e vedrò questa grande apparizione [hammarè haggadòl]. Perché non brucerà il roveto?”
E vide Elohìm che lui si spostava per vedere. E chiamò verso di lui Elohìm in mezzo al roveto e disse: “Mosè, Mosè”, e disse “Eccomi [hinneni]”. …
Questa risposta è molto bella e molto efficace proprio per la sua semplicità. Sarebbe interessante continuare la lettura del Libro dell’Esodo-Nomi sul testo del canone giudaico-palestinese: voi potete continuare la lettura sulla vostra Bibbia nella versione ellenistico-alessandrina che non è meno interessante.
La cesta di papiro dentro la quale Mosè diventa il “salvato dalle acque” abbiamo detto che in ebraico corrisponde al termine “tevà” che è lo stesso nome dell’arca che Dio fece costruire a Noè in vista del diluvio universale. Per concludere lasciamo che sia ancora una volta il poeta Carlo Alberto Salustri (1871-1950), detto Trilussa, a raccontarci in versi – dalla sua raccolta Lupi e Agnelli (1915-1917) – un salvataggio in extremis:
LEGERE MULTUM….
Trilussa, Noè e er pollo (10 maggio 1917)
Quanno venne er Diluvio Universale Noè schiaffò le bestie drento all’arca
pe’ protegge l’industria nazzionale.
Più ce se mise lui co’ li tré fiji sui e quattro donne pe’ scopa la barca.
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Gli scrivani d’Israele sintetizzano tutta la Legge in un comandamento fondamentale: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore con tutta la tua anima e con tutta la tua mente e amerai il prossimo tuo come te stesso”. Questo principio fondamentale – che fa onore all’essere umano – crea un contrasto con il rigore che la Legge spesso deve avere.
Si possono riconoscere così, nel movimento della “sapienza poetica beritica”, due significativi elementi: l’Halachah/la Norma e l’Aggadah/la Leggenda. Il volto della Halachah/della Norma è severo, pedante, grave, duro come il ferro. Il volto della Aggadah/della Leggenda invece è sorridente, indulgente, lieve, tenero come il burro. La Norma è l’espressione del rigore, la Leggenda è l’espressione della misericordia. Nel movimento della “sapienza poetica beritica” la Halachah/la Norma e la Aggadah/la Leggenda sono davvero due, ma finiscono per essere un’unica cosa, due volti della stessa creatura. Che fisionomia hanno questi volti? Con questa domanda si affaccia all’orizzonte il Libro intitolato In principio/Bereshìt, quello che, con la traduzione in greco, chiamiamo Genesi.
E con lo sguardo rivolto verso “Il principio” questo Percorso comincia ad avviarsi verso la fine.
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