Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza poetica beritica 2008 22 (Don Milani)-23-24 aprile 2008
I QUATTRO MODELLI OPERATIVI UTILI PER RACCONTARE LA CREAZIONE …
La sequenza dei grandi racconti mitici contenuta nei Libri del Pentateuco si presenta come una narrazione coerente, volta a raccontare la storia del mondo e poi di Israele dalla creazione fino all’esilio babilonese [587 a.C.]. La sequenza dei grandi racconti epici – come sappiamo – è il risultato di una plurisecolare stratificazione di materiali letterari diversi, più volte rielaborati, in Laboratori di scrittura, da vari redattori in periodi successivi. Questa stratificazione risalta particolarmente nell’ultimo Libro che viene messo in ordine dagli scrivani del codice Priester per dare il via a tutta la sequenza dei grandi racconti epici contenuta nei Libri del Pentateuco: quest’opera è il Libro della Genesi-In principio/Bereshìt.
Se leggiamo il Libro della Genesi-In principio/Bereshìt ci rendiamo conto che alcuni degli avvenimenti più significativi – la creazione dei progenitori, la loro caduta, il diluvio – vengono narrati più di una volta con delle vistose variazioni. Questo dipende dal fatto che gli scrivani del codice Priester, nel momento in cui hanno cominciato a mettere in ordine il Libro della Genesi-In principio/Bereshìt, avevano a disposizione tre codici diversi – provenienti da Babilonia ed elaborati dagli scrivani dell’esilio – contenenti narrazioni simili ma scaturite da fonti diverse. Ebbene, gli scrivani del codice Priester hanno deciso di non eliminare [di non impoverire la tradizione] ma di includere le forme e i contenuti di tutte le fonti, quindi, in modo rapsodico hanno ricucito insieme, nei loro Laboratori di scrittura, i materiali dei vari codici conservando tutto il patrimonio culturale che era stato prodotto nei secoli.
Dobbiamo essere grati a questi anonimi scrivani perché il loro investimento in intelligenza è servito e serve a noi, persone moderne e contemporanee, per capire meglio da dove veniamo, chi siamo e dove abbiamo intenzione di andare. Peccato che questa significativa “riflessione culturale”, che emerge dalla sequenza dei grandi racconti mitici contenuti nel Libro della Genesi-In principio/Bereshìt, non sia mai stata [o quasi mai] presentata [a Scuola] in funzione della didattica della lettura e delle scrittura.
Gli studi linguistici, le ricerche filologiche e le analisi letterarie hanno rivelato che nel Libro della Genesi-In principio/Bereshìt si possono distinguere quattro codici [fonti, tradizioni] diversi: il codice jahvista, il codice elohista, il codice deuteronomico e il codice sacerdotale, vale a dire il codice Priester. Il codice Priester viene citato per ultimo ma – per motivi inerenti alla didattica della lettura e della scrittura – andrebbe citato per primo: perché va citato per primo così come abbiamo fatto? Perché sono proprio gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale][la seconda e la terza generazione] che, tra il 580 e il 520 a.C., mettono in ordine gli altri tre codici più antichi [jahvista, elohista e deuteronomico] e, ad arte, nelle loro officine del testo, li ricuciono insieme per costruire quell’opera straordinaria che è il Libro della Genesi-In principio/Bereshìt.
Naturalmente i codici [jahvista, elohista e deuteronomico] arrivano a Gerusalemme da Babilonia e contengono molto materiale narrativo che gli scrivani dell’esilio [soprattutto quelli della seconda generazione] hanno elaborato tenendo conto tanto di fonti più antiche legate alla tradizione ebraica dal tempo di Salomone quanto di fonti provenienti dalla cultura mesopotamica e dalla cultura egizia.
La “fonte jahvista” deriva la sua denominazione dal fatto di chiamare Dio con il suo nome proprio, Jahvé [Io sarò colui che sarò]: così si presenta Dio nella rivelazione a Mosè nell’episodio del roveto ardente. Questa fonte, e il relativo codice in cui è contenuta, si distingue per il suo carattere eminentemente narrativo [i materiali giuridici sono scarsi] e per il suo stile arcaico, ricco di antropomorfismi [Dio si presenta in forme umane, materiali]. Sembra che questa fonte sia radicata nella tradizione orale a partire dal tempo di Salomone e si sia sviluppata, con l’apporto degli scrivani di corte, con l’esplicito obiettivo apologetico e politico di legittimare teologicamente il regno di Davide.
La “fonte elohista” deriva invece la sua denominazione dal fatto di chiamare Dio non con il suo nome proprio, bensì con il suo nome comune [in ebraico “elohim” significa “dio”]. A questa fonte corrisponde un codice molto meno esteso di quello jahvista. Questa fonte è più recente ed è, in parte, una rielaborazione di materiali jahvistici di cui cerca di attenuare gli antropomorfismi molto vistosi: l’immagine di Dio è meno materiale, è più intellettuale. Il codice elohista contiene una teologia più elaborata ed esigente dal punto di vista morale e la sua elaborazione avviene nelle Scuole di costruzione del testo – intitolate ai profeti – degli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia.
La terza fonte, la “fonte deuteronomica” (che comincia a svilupparsi in connessione con la riforma politico-religiosa del re Giosia (640-609 a.C.) [di cui sappiamo molte cose] e che viene elaborata a Babilonia sotto l’impulso del diritto mesopotamico di Hammurabi) si concentra in massima parte nell’ultimo libro del Pentateuco, il Deuteronomio appunto, da cui prende il nome: la codificazione finale di questo codice – ne abbiamo già parlato indirettamente studiando il Libro del Deuteronomio – è opera dell’impegno costituzionale degli scrivani della prima generazione del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale]. Lo “stile deuteronomico” è caratteristico: è ricco di locuzioni giuridiche, di forme omiletiche cioè “esortative” [non fare questo, non fare quello, fai questo, fai quello].
Al ritorno dall’esilio (dal 538 a.C.) più di una generazione di scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], come sappiamo, nei loro laboratori di costruzione del testo rielaborano e fondono insieme – in funzione costituzionale – tutti questi materiali slegati e provenienti dalle diverse “fonti” costruendo la straordinaria sequenza dei grandi racconti epici.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
La parola “fonte” richiama altre parole: sorgente, fontana, pozzo, vena, polla, principio, provenienza, documento…
Certamente almeno una di queste parole invita all’esercizio autobiografico: scrivi quattro righe in proposito…
Tutte/tutti siamo consapevoli del fatto – anche se non abbiamo mai preso in mano questo testo – che la prima figura rilevante del Libro della Genesi-In principio/Bereshìt è il personaggio di Abramo, che però non compare subito sulla scena del Libro della Genesi-In principio/Bereshìt ma fa il suo ingresso al capitolo 12. Abramo rappresenta, secondo la tradizione, la persona scelta da Dio come capostipite di un popolo che ha il compito di costruire una “società salvata [Isaia]”. Per questo motivo Abramo è chiamato a mettersi in cammino e ad entrare nell’ottica della ricerca e questa metafora esistenziale fa di questo personaggio una figura essenziale nella Storia del Pensiero Umano. Se la persona aspira a diventare veramente “umana” deve mettersi alla ricerca di quegli strumenti che possano servire per costruire una “società salvata” e, a questo proposito, gli scrivani d’Israele hanno da proporre due dispositivi fondamentali che si concretizzano nelle parole-chiave: berit [il patto di solidarietà] e toràh [la Legge uguale per tutti].
I primi undici capitoli del Libro della Genesi-In principio/Bereshìt sono stati redatti/ordinati per ultimi e vanno letti come un’introduzione al ciclo narrativo sul personaggio di Abramo. Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale]compongono questa introduzione unendo – come sappiamo – tre tradizioni [tre fonti distinte provenienti da tre codici] e costruendo una “storia delle Origini” unitaria e coerente.
Abbiamo già detto che i codici provenienti da Babilonia, utilizzati dagli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], contenevano materiali antichi che sono stati trasmessi per vie oggi non più precisamente identificabili. La figura letteraria di Abramo, così come noi la conosciamo, è relativamente recente ed è stata plasmata dagli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia per puntualizzare alcuni aspetti del passato d’Israele e alcuni elementi del loro presente.
Prima di tutto, con la figura di Abramo [e forse gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia su questo personaggio mitico conoscono un’antica tradizione orale ma non ci sono le prove per poterlo affermare] vogliono rievocare la transumanza che, intorno al XII secolo a.C., portava gruppi tribali [questa è una situazione reale] a spostarsi, con i loro greggi, dall’area mesopotamica verso la terra di Canaan. Per gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia la figura di Abramo deve rappresentare un segnale [una presa di coscienza, una assunzione di responsabilità, secondo i dettami dello “stile del proclama di Amos”], come dire: anche i nostri antenati si sono mossi da questa terra nella quale ora siamo in esilio, come se il Signore avesse voluto farci tornare alle “origini” [Abramo siamo noi] per darci la possibilità di ricominciare, di rimetterci in cammino alla ricerca degli strumenti [culturali, intellettuali] che possano servire per costruire una “società salvata [Isaia]” e quindi si avvalora il fatto – confermato da tutte le studiose e gli studiosi di filologia biblica – che il personaggio di Abramo [il ciclo letterario di Abramo] prenda forma in una delle Scuole di scrittura intitolate ad Isaia e gestite dagli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia.
Inoltre, come già abbiamo studiato, gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia, nel creare le figure dei patriarchi [prima quella di Giacobbe e poi quella di Abramo] vogliono lanciare un messaggio di sfida ai loro padri, agli scrivani della prima generazione dell’esilio, i quali si perdono nelle Lamentazioni invece di riconoscere le loro responsabilità, la loro complicità con le classi dirigenti corrotte che ha portato alla sconfitta e alla deportazione. Gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia con la creazione delle figure dei patriarchi – dei “grandi padri” degni di questo nome come Giacobbe e Abramo – intendono fornire alla tradizione d’Israele una patente di nobiltà fuori dal comune.
Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] – nel comporre, dopo l’esilio, il Libro della Genesi-In principio/Bereshìt – utilizzano la figura di Abramo evidenziando le intuizioni degli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia. Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] utilizzano la figura di Abramo prima di tutto proprio per descrivere in modo mitico il ritorno dall’esilio: come, in un tempo antico ispirato da Dio, il patriarca Abramo si è mosso dalla Mesopotamia per andare verso la terra di Canaan così noi, dopo aver attinto a quel patrimonio culturale originario, abbiamo, oggi, di ritorno dall’esilio, percorso lo stesso tragitto. Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] – così come era successo agli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia – si sono identificati nella figura di Abramo [sappiamo che emerge sempre nella Letteratura beritica lo spirito autobiografico] e questa coincidenza intellettuale ha favorito il loro lavoro di costruzione del testo: con il personaggio di Abramo la sequenza dei grandi racconti epici veniva ad assumere una straordinaria coerenza e una formidabile potenza [tanto che tutta la Storia della cultura successiva ne ha usufruito].
Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] – nel comporre il Libro della Genesi-In principio/Bereshìt – collocano le origini del popolo d’Israele alle origini stesse del mondo e all’azione del suo creatore. Questa operazione – con l’invenzione dei patriarchi, dei “mitici padri fondatori” – può avvenire, si concretizza dal punto di vista letterario, attraverso una complessa serie di genealogie. La “genealogia” – sappiamo che cos’è una “genealogia”: tutte/tutti noi ne abbiamo una se no non potremmo essere qui... – è uno dei modi con cui viene rappresentata la creazione.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Fin dove arriva la conoscenza della tua genealogia?… Misurarsi con la “genealogia” è un po’ come misurarsi con la creazione…
Scrivi i nomi e le notizie che possiedi sui tuoi antenati a cominciare dai tuoi genitori, dai nonni, dai bisnonni: almeno fin lì dovremmo arrivarci tutte/tutti…
Nel Libro della Genesi-In principio/Bereshìt la “genealogia” – come forma letteraria che descrive la creazione – ha un posto centrale. L’elemento genealogico viene usato abbondantemente dagli scrivani d’Israele come un ponte gettato tra il mito e la storia e funziona bene per dare ai racconti epici una potenza straordinaria. A differenza delle genealogie divine, con cui iniziano e su cui si fondano i racconti delle origini di molte religioni primitive e antiche, le genealogie del Libro della Genesi-In principio/Bereshìt sono cataloghi di esseri umani, non di dèi: e questo, per l’evidente motivo che il Dio unico della fede ebraica non ha origine, dal momento che si presenta come “Colui che è e che sarà”. Queste genealogie, di conseguenza, perseguono lo scopo di raccordare, di legare insieme, ricalcando lo stile della “sequenza dell’equilibrio dei meriti, dei doveri” [sulla base di un computo cronologico, certamente fantasioso ma pur sempre fondato sul tempo umano] la storia dei patriarchi con quella del progenitore Adamo. Viene, così, dilatato un procedimento, caro alle tribù nomadi e alle società patriarcali, secondo il quale si cerca di fissare nell’archivio mobile della memoria collettiva, grazie a quel calcolatore vivente che è la tradizione orale, l’albero genealogico della propria stirpe come fattore fondamentale di identità sociale.
Da dove è preferibile cominciare a leggere il testo del Libro della Genesi-In principio/Bereshìt? Per cominciare a conoscere e a capire il Libro della Genesi-In principio/Bereshìt è necessario puntare l’attenzione, prima di tutto, sul capitolo 5, scritto dagli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] per fare il riassunto dei capitoli precedenti. Il capitolo 5 del Libro della Genesi-In principio/Bereshìt è una “genealogia”, è la prima genealogia, e racconta ancora una volta [perché già è stata raccontata più di una volta] la creazione dei progenitori. La genealogia del capitolo 5 del Libro della Genesi-In principio/Bereshìt unisce insieme il personaggio di Adamo con quello di Noè, [due personaggi che non passano inosservati] e ha dunque la funzione di raccordare la “sequenza del Principio”[i primi quattro capitoli del Libro della Genesi-In principio/Bereshìt], con la “sequenza del diluvio” [dal capitolo 6 al capitolo 11 del Libro della Genesi-In principio/Bereshìt]. Siete invitate/invitati a osservare sulla vostra Bibbia questa struttura formale: è il primo passo per poi passare alla lettura.
Ma ora leggiamo il capitolo 5 del Libro della Genesi-In principio/Bereshìt in cui troviamo il riepilogo – scritto dagli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale]– della “creazione dell’uomo” e poi l’elenco dei “discendenti del primo uomo”. Qui troviamo un catalogo di nomi di personaggi mitici che tutte/tutti noi abbiamo spesso sentito menzionare: questi personaggi sono molto probabilmente protagonisti di saghe antiche tramandate oralmente [filastrocche, ballate, canzoni di gesta] che gli scrivani non possono riportare perché hanno troppo materiale a disposizione. Salvano il dato, sproporzionato, dell’età ma sappiamo che gli “archi di tempo” sono uno strumento genealogico fondamentale che rappresentano una dimensione temporale mitica. C’è una tesi molto accreditata di un gruppo di studiosi di Storia della lingua i quali sostengono che la “genealogia”, assumendo la forma di una “filastrocca” [ricordiamoci che la Letteratura beritica viene scritta innanzi tutto per essere cantata oltre che per essere letta], utilizzi i numeri in senso poetico, in funzione del ritmo da dare al verso.
LEGERE MULTUM….
Libro della Genesi-In principio/Bereshìt 5, 1-32
Quando Dio creò l’uomo, lo fece simile a sé. Lo creò maschio e femmina, li benedisse, e quando furono creati pose loro il nome Uomo [gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale]utilizzano il termine “geber” che significa “uomo adulto, capo famiglia” e, per estensione, significa anche “famiglia nucleare, coppia”].
Questo è l’elenco dei discendenti del primo uomo [qui compare il termine “Adamà” che significa “terra”].
Adamo all’età di centotrent’anni generò un figlio simile a lui, a sua immagine. Lo chiamò Set [Set significa “concesso al posto”]. Dopo la nascita di Set, Adamo visse altri ottocento anni ed ebbe ancora figli e figlie. Adamo visse novecentotrent’anni, poi morì.
Set all’età di centocinque anni generò Enos. Dopo la nascita di Enos, Set visse altri ottocentosette anni ed ebbe ancora figli e figlie. Set visse novecentododici anni, poi morì.
Enos all’età di novant’anni generò Kenan. Dopo la nascita di Kenan, Enos visse altri ottocentoquindici anni ed ebbe ancora figli e figlie. Enos visse novecentocinque anni, poi morì.
Kenan all’età di settant’anni generò Maalaleel. Dopo la nascita di Maalaleel, Kenan visse altri ottocentoquarant’anni ed ebbe ancora figli e figlie. Kenan visse novecentodieci anni, poi morì.
Maalaleel all’età di sessantacinque anni generò Iared. Dopo la nascita di Iared, Maalaleel visse altri ottocentotrent’anni ed ebbe ancora figli e figlie. Maalaleel visse ottocentonovantacinque anni, poi morì.
Iared all’età di centosessantadue anni generò Enoc. Dopo la nascita di Enoc, Iared visse altri ottocento anni ed ebbe ancora figli e figlie. Iared visse novecentosessantadue anni, poi morì.
Enoc all’età di sessantacinque anni generò Matusalemme. Enoc visse sempre come piace a Dio. Dopo la nascita di Matusalemme, Enoc visse altri trecento anni ed ebbe ancora figli e figlie. Enoc dunque visse come piace a Dio per trecentosessantacinque anni, poi scomparve perché Dio lo portò via con sé.
Matusalemme all’età di centottantasette anni generò Lamech. Dopo la nascita di Lamech, Matusalemme visse altri settecentottantadue anni ed ebbe ancora figli e figlie. Matusalemme visse novecentosessantanove anni, poi morì.
Lamech all’età di centottantadue anni genero un figlio che chiamò Noè. «Questo figlio, – disse, – ci consolerà [il termine “noè” in ebraico richiama il verbo “consolare”] nella durissima fatica di lavorare la terra maledetta dal Signore».
Dopo la nascita di Noè, Lamech visse altri cinquecentonovantacinque anni ed ebbe ancora figli e figlie. Lamech visse settecentosettantasette anni, poi morì.
All’età di cinquecento anni Noè generò Sem, Cam e Iafet…
I racconti della Letteratura beritica possiedono le caratteristiche fondamentali del mito e il mito è, appunto, un “racconto”: questa constatazione, a prima vista, può sembrare banale, ma è necessario tenere ben presente questo fatto perché siamo stati condizionati [e tuttora il condizionamento è forte a causa dell’imperversare delle letture fondamentaliste] a considerare questo “racconto” come un “dato di fatto” piuttosto che come un mito. Ma è proprio il “racconto mitico” che possiede una sua logica, una sua unità, una sua coerenza intrinseca, una sua intenzione narrativa, che occorre cogliere e rispettare.
I racconti del Libro della Genesi-In principio/Bereshìt sono redatti da scrivani che sanno ben usare la narrazione mitica [appresa a Babilonia] e sanno dare alla loro Scrittura un tono concreto, ricco di echi leggendari e fiabeschi. L’intenzione del racconto – nella “sequenza del Principio” [nei primi quattro capitoli del Libro della Genesi-In principio/Bereshìt] – è semplice ed evidente: l’uomo creato da Dio è collocato nel giardino ma questo stesso uomo alla fine ne è scacciato in seguito ad una trasgressione. Questo racconto risponde a un’esigenza tipica del mito: spiegare la situazione esistenziale in cui vive l’essere umano in questo momento: gli scrivani d’Israele – con la sequenza dei racconti mitici – vogliono prendere atto che l’essere umano vive distante dal Dio che l’ha creato a sua immagine e somiglianza.
Il racconto, come i miti dell’età dell’oro dell’Età assiale della storia, fissa i contorni di una situazione iniziale dell’umanità caratterizzata dalla perfezione e dalla pienezza, ma introduce una doverosa spiegazione per chiarire l’attuale situazione di decadenza in cui l’Umanità si trova a vivere. Dobbiamo prendere atto del fatto che il racconto mitico ha una sua particolarità perché a differenza della fiaba, narrata per il puro gusto del raccontare, o della favola, che persegue un intento moralistico, il mito è un racconto sacro, che rimanda ad una realtà di ordine superiore, che determina la vita del singolo essere umano e il comportamento del gruppo. Per questo i protagonisti del mito sono dèi o sono eroi o, comunque, personaggi dotati di capacità eccezionali. Come nelle fiabe, questi personaggi violano con noncuranza le leggi dello spazio e del tempo ma, a differenza delle fiabe, fanno questo per fondare una determinata realtà culturale o naturale: le “creazioni” non si possono raccontare se non con il mito.
In un certo senso, tutti i miti sono racconti delle Origini, e quello del Libro della Genesi-In principio/Bereshìt non costituisce un’eccezione. Questo mito narra le Origini non soltanto del cosmo, ma anche dell’ordine temporale, culminante nel giorno del riposo: il sabato. Questo mito narra le Origini non soltanto dell’uomo, ma anche del rapporto tra l’uomo e la donna, del matrimonio, della generazione. Questo mito narra le Origini anche dei beni materiali, come l’abito, e questi beni trovano nel “racconto” la loro ragione “culturale” di essere.
Le radici di questi straordinari racconti mitici – lo sappiamo – affondano nelle tradizioni mitologiche del Vicino Oriente antico, e in tradizioni ancora più arcaiche, anche se storicamente non documentabili. Gli scrivani d’Israele, tuttavia, sono stati capaci di dare a questi racconti una loro originalità e questa originalità consiste nel modo in cui questi materiali tradizionali sono stati ripresi e riletti in una nuova ottica, che, come abbiamo studiato, è un’ottica di carattere costituzionale: adeguata alla costruzione di un’entità statale.
Per capire questo bisogna rimuovere certe interpretazioni teologiche che si sono accumulate nel corso dei secoli, per esempio quella del cosiddetto “peccato originale”. Gli scrivani d’Israele – quelli dell’esilio e quelli dopo l’esilio – non hanno nessuna intenzione di raccontare “il peccato originale” che è una concezione storicamente documentata soltanto nei secoli a cavallo dell’era cristiana tra il primo secolo a.C. e il primo secolo d.C.. Per gli scrivani il “serpente” [mutuato, come vedremo, dai miti mesopotamici] non è una potenza nemica di Dio, tanto meno la “donna” appare come una tentatrice diabolica e l’elemento femminile non appare impuro di per se stesso ma nell’ambito di una serie di norme igieniche che riguardano anche – se non soprattutto – i maschi. Il “peccato” è piuttosto la violazione di una norma, l’infrazione della “Legge”, è piuttosto la rottura di un “patto di solidarietà” che mette in moto un tipico processo giudiziario. Non vi è alcun collegamento, quindi, tra questa colpa e una supposta concupiscenza, e nella logica del racconto, le origini del male, sono iscritte nella sfera della responsabilità umana, ma rimangono vaghe, insondabili, perché non è facile per nessuno rispondere alle domande: come mai c’è il male? E come mai Dio, se era in grado di farlo, non lo ha estirpato?
Il Libro della Genesi-In principio/Bereshìt si apre su di uno scenario caotico e informe, caratteristico delle cosmogonie antiche e arcaiche, in cui l’azione plasmatrice di un Essere supremo – che agisce come un demiurgo-artefice [un artigiano, un vasaio] – si esercita nei confronti di una materia primordiale, la quale viene identificata con le acque del caos, dominate dalle tenebre. Su questa materia informe e disordinata aleggia lo “spirito di Dio” con la sua potenza plasmatrice, ordinatrice. La creazione, dunque, non avviene “ex nihilo”, dal nulla. La concezione che fa pensare ad una “creazione del nulla” entra in gioco soltanto verso la meta del II secolo a.C. con la traduzione in greco dei Settanta. Nel Libro della Genesi-In principio/Bereshìt l’atto della creazione si presenta come un ordinamento [come la messa in ordine] di una materia caotica e tenebrosa: le “tenebre” coesistono, insieme alla materia, con l’artefice divino.
Gli scrivani che [prima a Babilonia durante l’esilio e poi dopo l’esilio] hanno raccolto e coordinato questa tradizione mitologica dandole unità e coerenza, hanno compiuto un’operazione intellettuale straordinaria che tende, ancora una volta, a mettere in evidenza quali sono i loro obiettivi “costituzionali”: l’Essere supremo mette in ordine le cose – che già esistono, avvolte dalle tenebre – agendo per “fare luce” sulle regole, sulle norme di buona convivenza, sull’assetto istituzionale in modo che l’essere umano possa avere gli strumenti per costruire una società “salvata” che è già, in origine, insidiata dalle “tenebre”, da forme di prevaricazione, di disonestà, di corruzione.
“In principio” gli scrivani d’Israele raccolgono – visto che il Libro della Genesi-In principio/Bereshìt è l’ultimo ad essere composto – le parole-chiave e le idee-cardine che il movimento della “sapienza poetica beritica” ha già elaborato in modo che la matassa possa dipanarsi con coerenza dalle origini: l’Essere supremo, nell’atto della creazione, dà “luce” ad uno scenario in cui (a cominciare da Lui stesso) emerge la necessità dello “spirito di servizio” [del patto di solidarietà] e del “senso del dovere” [della Legge uguale per tutti]. L’obiettivo degli scrivani d’Israele – all’atto della composizione del racconto mitico sulla creazione – è quindi di carattere normativo. Questo spirito giustifica il fatto che gli scrivani raccolgono e riportano tutti i tratti tipici delle cosmogonie antiche.
I racconti mitici sulla “creazione” si sviluppano – e questo è utile da sapere in funzione della didattica della lettura e della scrittura – secondo quattro modelli operativi: la creazione attraverso la nascita, cioè la “discendenza”; la creazione in seguito ad una lotta tra dèi o tra un dio e un mostro primordiale; la creazione per opera di un demiurgo [di un vasaio che plasma], e infine la creazione mediante la parola. Nessuno di questi motivi è estraneo al testo del Libro della Genesi-In principio/Bereshìt, anche se, apparentemente, non è facile individuarli perché questi elementi sono stati combinati e fusi insieme per sottolineare l’unicità e la potenza dell’azione creatrice dell’Essere supremo.
Del primo modello troviamo riscontro nel capitolo 2 del Libro della Genesi al versetto 4a, dove [poi andiamo a verificare] il testo ebraico parla, letteralmente, di “tôledôt”: parola ebraica che significa “genealogia”, “discendenza”. Il fatto che il mondo sia frutto di una catena di generazioni divine [di “tôledôt”] è un tema comune tanto ai miti sumeri quanto a quelli orfici raccolti nella Teogonia di Esiodo: abbiamo già affrontato questo argomento, lo scorso anno, in viaggio con Erodoto. In Egitto, poi, il mito della creazione è visto come un succedersi ciclico di generazioni divine.
Del secondo modello [la creazione in seguito ad una lotta tra dèi o tra un dio e un mostro primordiale] troviamo riscontro nel capitolo 1 del Libro della Genesi al versetto 2 là dove lo “spirito di Dio” aleggia sulle acque [poi andiamo a verificare sul testo]. L’esempio più noto e significativo di questo modello si ritrova nel poema babilonese sulla creazione intitolato Enuma elish [Lassù, nell’alto dei cieli]. Gli scrivani in esilio a Babilonia [soprattutto quelli della seconda generazione] sono certamente venuti a contatto con questo testo letterario: l’hanno studiato con interesse e, con perizia, l’hanno utilizzato tanto nella forma quanto nel contenuto. Quindi nel momento in cui ci si accinge a leggere il testo del Libro della Genesi non si può fare a meno – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – di osservare il materiale che possediamo del poema sumero Enuma elish [Lassù, nell’alto dei cieli]: anche in questo poema c’è una prima fase della creazione impostata sul tema genealogico che si conclude con la vittoria della generazione più giovane di dèi, guidata da Ea, su Apsu. Poi c’è una seconda fase [la più famosa] che ruota intorno alla lotta del dio Marduk contro Tiamat, la divinità femminile dell’abisso. Questa lotta cruenta si conclude con la sconfitta di Tiamat e il suo cadavere viene diviso in due e questa “divisione” dà origine al cielo e alla terra. Questo tema della separazione degli elementi è proprio di molte cosmogonie e ricorre puntualmente [poi andiamo a verificare sul testo] anche nel capitolo 1 del Libro della Genesi al versetto 7 [e “Dio separò la luce dalle tenebre, separò le acque dall’asciutto” e via dicendo...] e, in questo modo, la creazione del cosmo è concepita come l’effetto della lotta tra un dio demiurgo e un altro dio o mostro dell’abisso.
Il poema Enuma elish è stato materia di studio in più di una volta nei nostri Percorsi, tuttavia è necessario ripetere un serie di dati significativi perché è probabile che un certo numero di persone non abbiano mai trattato questo argomento. Già nel 1876 – dalle studiose e dagli studiosi di archeologia – sono state trovate e pubblicate parecchie versioni epiche sulla creazione scritte in lingua accadiana [cioè in babilonese e in assiro: tradotte dalla lingua accadica, che è la lingua dei Sumeri], e la più lunga di queste versioni epiche sulla creazione è appunto l’Enuma elish. Si suppone che la prima versione di quest’opera sia stata scritta all’inizio del secondo millennio a.C.. Una buona parte del testo di questo poema è stato ritrovato, nel 1873, in sette tavolette scritte con caratteri cuneiformi di circa centocinquantasei righe ciascuna, tra le rovine della biblioteca di Assurbanipal nella città di Ninive. Questa scoperta non ha destato sorpresa nelle studiose e negli studiosi perché un’altra versione della stessa epopea, scritta tanto in babilonese quanto in sumero, era già stata scoperta qualche anno prima a Sippar, su una tavoletta del sesto secolo a.C.. Su questa tavoletta c’è un “prologo alle formule per la purificazione del tempio” e, naturalmente, si presume che tutto questo materiale sia stato conosciuto dagli scrivani in esilio a Babilonia [soprattutto da quelli della seconda generazione]. Che cosa c’è scritto su questa tavoletta: la Tavoletta di Sippar? Che cosa riporta il testo di questo “prologo alle formule per la purificazione del tempio”? Leggiamone un passo e riflettiamo:
LEGERE MULTUM….
Enuma elish, Tavoletta di Sippar [VI sec. a.C.]
La santa casa, la casa degli dèi, in un santo luogo non era ancora stata fatta;
nessuna canna era spuntata, nessun albero germogliato; nessun mattone era stato posato,
nessuna costruzione era stata eretta; nessuna dimora era stata costruita, nessuna città era stata fondata;
nessuna creatura era stata concepita;Nippur, Ekur, Erech, Eana non erano ancora state fondate;
l’abisso non era stato fatto, Eridu non era ancora sorta. Della santa casa, la casa degli dèi,
la dimora non era stata fatta. Tutte le terre erano mare. Poi vi fu un moto che scosse
il centro del mare, allora fu fatta Eridu e fu costruita Essagil, dove, tra le nebbie dell’abisso abita il dio Lugal-du-kuda;
la città di Babilonia fu stabilita ed Essagil fu compiuta. E Marduk in quel momento fece gli dèi e gli spiriti della terra,
la città santa, la dimora sognata dai loro cuori, essi proclamarono suprema.
Marduk pose una canna sulla superficie dell’acqua, formò la polvere e la sparse intorno alla canna;
per invogliare gli dèi a vivere sul luogo che avevano sognato, plasmò l’essere umano.
Da esso la dea Aruru trasse il seme dell’umanità.Il seme formò gli animali del campo e le cose che vivono nel campo.
Egli creò il Tigri e l’Eufrate e stabilì il loro posto e proclamò i loro nomi in modo adeguato.
Le erbe, l’impetuoso affiorare delle paludi, il canneto e la foresta egli creò, e creò l’erba verde del campo, le lande,
gli stagni e le marcite; la mucca selvatica e i suoi eredi, il vitello selvaggio, l’agnello e il suo agnellino,
la pecora dell’ovile. Orti e foreste; e il caprone e la capra dei monti …
Marduk, il Signore, costruì una diga a fianco del mare.
Diede forma alle canne, creò gli alberi tutti; posò i mattoni, eresse le case;
costruì le dimore e fondò le città: portò gli esseri umani alla luce. …
Abbiamo letto questo brano per capire da dove scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia abbiano attinto il linguaggio epico utile per costruire il loro mito, il loro midrash. La Tavoletta di Sippar costituisce una fonte importante per la composizione dei materiali che, poi, vanno a dare forma al Libro della Genesi.
A questo punto – visto che, per analizzare questo modello di creazione fondato sulla lotta tra dèi e mostri, siamo entrati in contatto con il poema Enuma elish – è interessante leggere anche un brano tratto dalle sette Tavolette di Ninive dove troviamo il mitico racconto della cruenta lotta tra Marduk e Tiamat da cui viene fuori il pensiero dei Sumeri, degli Assiri, dei Babilonesi sulla creazione del Cielo, della Terra e dell’Uomo: un pensiero che è stato assimilato sapientemente dagli scrivani d’Israele in esilio a Babilonia e che è penetrato nel testo del Libro della Genesi.
LEGERE MULTUM….
Enuma elish, Tavolette di Ninive [VI sec. a.C.]
Quando lassù, in alto, i cieli ancora non avevan nome, Apsu, il genitore, e Tiamat,
la genitrice, si congiunsero nel caos, e diedero vita a una stirpe di mostruosi draghi.
Passarono parecchie ère prima che nascessero nuove generazioni di dèi giovani e belli.
Uno di questi, Ea, dio della saggezza, provocò e uccise Apsu. Tiamat allora
sposò il proprio figliolo Kingu e con lui concepì altri mostri, e preparò la vendetta contro
Ea. L’unico dio che osò opporsi a Tiamat fu il figlio di Ea, Marduk.
Alleati di Tiamat erano i suoi undici mostri. Marduk si affidò ai sette venti,
alla sua faretra e ai suoi archi e, salendo sul carro della tempesta, si protesse
con una formidabile corazza di maglia, e si spalmò sulle labbra un protettivo unguento vermiglio,
dopo essersi legato al polso un’erba che lo rendeva invulnerabile
da ogni veleno; e si cinse il capo di fiamme. Prima del combattimento,
Tiamat e Marduk si scambiarono maledizioni, sfide ed incantesimi.
Quando vennero alle mani, Marduk subito imprigionò Tiamat nella sua rete,
le fece penetrare nel ventre uno dei suoi venti perché le strappasse le viscere, poi le spezzò
il cranio e scaricò su di lei tutte le sue frecce. Legò il corpo con catene e, vittorioso,
si eresse sopra la nemica vinta. Poiché aveva incatenato anche gli undici mostri,
e li aveva gettati in una cupa prigione dove divennero gli dèi delle tenebre, strappò
dal petto di Kingu le tavolette del destino, le legò sopra le sue, e sezionò il corpo
di Tiamat in due parti, come si separano le valve di un mollusco.
Una di quelle parti usò per formare il firmamento, e impedire che le acque superiori cadessero sulla terra;
e l’altra per creare le fondamenta della terra e del mare. Creò anche il sole, la luna,
i cinque pianeti minori e le costellazioni, che affidò alla custodia della sua gente;
e, finalmente, creò l’Uomo con il sangue di Kingu, condannato a morte
come primo istigatore della cruenta ribellione di Tiamat. …
Di sicuro la figura tragica di Tiamat – sconfitta, uccisa e spezzata – è l’immagine più significativa di tutto il poema ed è la metafora della condizione di degrado in cui si trova la Terra già dal momento della sua creazione.
Non possiamo non ricordare il corrispondente mito orfico [greco], in cui Gea, la madre terra, genera il gigante Tifone. Con l’avvento del terribile gigante gli dèi olimpici fuggono in Egitto, finché Zeus, coraggiosamente, lo uccide insieme alla sua mostruosa sorella Delfina, con un fulmine lanciato alla perfezione: così Zeus assume il ruolo di divinità suprema.
Secondo il poema Enuma elish il cosmo nasce dunque dalle spoglie del mostro Tiamat, e in questo modo partecipa di una duplice natura: una “materia” demoniaca, fondamentalmente cattiva, e una “forma” divina buona, che consiste nell’opera demiurgica di Marduk. Il mondo si rivela dunque essere il risultato di un miscuglio tra un elemento primordiale caotico e demoniaco, da un lato, e la creatività, l’azione e la sapienza divina dall’altro. La stessa ambivalenza ricompare nella creazione dell’Uomo, costituito da una materia demoniaca, il sangue di Kingu, capo dei mostri e dei demoni creati da Tiamat [di qui deriva un tragico pessimismo di fondo, che vede l’essere umano condannato per le sue stesse origini], e da una forma divina, opera della dea Ea, che l’ha plasmato.
Le Letterature mitologiche della Mesopotamia – con cui gli scrivani d’Israele in esilio a Babilonia vengono a contatto – sono state composte per essere realizzate nel culto: sono opere liturgiche. Il carattere delle letterature mitologiche della Mesopotamia e di Canaan, composte per essere realizzate nel culto, indica che la creazione era considerata un evento ciclico, che si ripeteva annualmente seguendo il periodico succedersi della vita e della morte della vegetazione. In realtà, le vicende che avevano visto contrapposti al tempo delle origini Marduk e Tiamat si ripetevano ogni anno nel ciclo vegetativo, e venivano riattualizzate nel rito della festa del Nuovo Anno.
Nel racconto della creazione che troviamo all’inizio del Libro della Genesi gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale]– proprio per la motivazione politico-istituzionale da cui sono animati – compiono un tentativo di storicizzare il mito. La creazione, nel testo del Libro della Genesi, diventa chiaramente un evento accaduto una volta per tutte, dopo il quale l’Essere supremo si riposa. Non c’è posto per una ripetizione ciclica della creazione nella morte e rinascita periodica della vegetazione, né di una sua riattualizzazione rituale. La creazione – nel primo capitolo del Libro della Genesi secondo la “fonte elohista” – avviene mediante la “parola” [“Dio disse …”], senza alcuna concessione alla spettacolarità del combattimento tra divinità contrapposte. Non ci sono elementi “pessimistici”: il mondo – secondo gli scrivani d’Israele – è buono e benedetto da Dio, e l’essere umano ne è il coronamento. Se, nonostante tutto, il male continua ad essere presente nel mondo, è perché esso è il risultato di una serie di errori e di colpe commessi dall’Uomo stesso nel tempo delle origini.
Nonostante questo sforzo di storicizzazione, tuttavia, gli scrivani d’Israele non possono fare a meno di utilizzare un’impalcatura linguistica e concettuale di carattere mitologico. La struttura del mondo descritta nel Libro della Genesi si ritrova tale e quale nelle altre letterature del Medio Oriente antico. La terra consiste di un disco che galleggia su di un abisso d’acqua senza limiti. Sopra di essa c’è un altro abisso acquoso dal quale scende la pioggia. Il disco è coperto da una semisfera rovesciata, sulla quale sono fissati il sole, la luna e le stelle.
Un richiamo esplicito alla creazione raccontata in forma di lotta tra divinità e mostri è presente in tutta la Letteratura beritica e, a questo proposito, c’era senza dubbio non solo una ricca tradizione orale ma anche una memoria scritta, purtroppo a noi sconosciuta. Il fatto è – e ne abbiamo già parlato – che tutti i documenti degli antichi scrivani di corte [dal tempo del re Salomone] sono andati perduti o sono stati intenzionalmente soppressi, però in diversi Libri della Bibbia rimane un’eco di queste opere e dei loro titoli. Per esempio ci sono due testi intitolati Il libro delle guerre di Jahvé e Il libro di Jahvé che rimandano esplicitatamene al tema della creazione come lotta tra divinità e mostri che stiamo trattando. In particolare Il libro di Jahvé era, molto probabilmente, un trattato sugli animali mitologici e viene citato dagli scrivani del Libro del Proto-Isaia [come contenitore di messaggi] nel versetto 16 del capitolo 34.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Vai in ricognizione, ora che hai un punto di riferimento: contrariamente questi elementi – utili in funzione della didattica della lettura e della scrittura – sfuggono all’attenzione mentre hanno un valore per comprendere la dinamica della costruzione del testo…
In un certo numero di Libri della Letteratura beritica si conservano riferimenti al mito delle origini raccontato in forma di lotta tra divinità e mostri. “Jahvé ha diviso il mare, ha schiacciato le teste dei draghi, ha spezzato le teste del Leviathan” così si legge nel Salmo 74 ai versetti 13-14. “Egli [Jahvé] ha punito il Leviathan, serpente guizzante, serpente tortuoso; con la sua spada grande, possente e forte, ha ucciso il drago [il mostro marino] che sta in mezzo al mare” così si legge nel Libro di Isaia al capitolo 27 versetto 1. “Jahvé ha fatto a pezzi Rahab, ha trafitto il drago e prosciugato il mare, le acque del grande abisso” così si legge ancora nel Libro di Isaia al capitolo 51 versetti 9-10. Queste allusioni al momento della creazione presuppongono un combattimento tra Jahvé e i suoi avversari, che ci riporta nel cuore dei miti mesopotamici e cananei. È significativo che questi accenni non siano stati censurati e si siano conservati all’interno del movimento della “sapienza poetica beritica”, anche se in forma frammentaria. Questo dimostra che gli scrivani d’Israele hanno considerato l’idea mitica della vittoria di Jahvé sui mostri demoniaci del caos come un’idea utile dal punto di vista letterario, per dare più incisività ai loro testi.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Vai – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – a verificare sul Libro dei Salmi e sul Libro di Isaia la presenza di questi elementi mitici: questo esercizio [osservare le citazioni nel contesto in cui si trovano] è utile perché favorisce la capacità di mettere ordine nella nostra mente di lettrici e di lettori…
Il terzo modello di creazione lo troviamo applicato nel Libro della Genesi al capitolo 2 versetto 7 nel momento in cui viene plasmato il primo uomo: il dio artefice, come un abile vasaio che lavori l’argilla, plasma un essere che è formato a sua immagine [su questo tema ci soffermeremo prossimamente].
Il quarto modello, infine, il più importante per la comprensione del testo del Libro della Genesi, si basa sulla creazione mediante la “parola”. Questo dotto modello di creazione è stato elaborato dai sacerdoti della Scuola egizia di Menfi, i quali coltivano il culto della potenza magica della parola e soprattutto si dedicano allo studio della medicina, in particolare della chirurgia. Più di 3500 anni fa, i sacerdoti della Scuola di Menfi, una delle città più importanti dell’Egitto antico, hanno scritto un testo molto significativo che era conosciuto in tutta l’area mediorientale. Questo testo prende il nome di “Papiro Smith”, ed esattamente si chiama Il papiro chirurgico-teologico Edwin Smith: anche su questo oggetto abbiamo puntato l’attenzione più di una volta sui nostri Percorsi. Il contenuto di questo testo – come possiamo capire dal titolo – è molto interessante e parla contemporaneamente di medicina, di chirurgia e di teologia. Edwin Smith è l’archeologo che ha scoperto, acquistato [nel 1862] e cercato di tradurre questo antico papiro. Che cosa racconta questo testo fondamentale per la Storia del Pensiero Umano e utile per il nostro incontro con il testo del Libro della Genesi? Il “Papiro Smith” racconta la storia delle origini del mondo e di un dio che si chiama Ptath [o Toth], che equivale al “cuore”, e questo nome divino è una rappresentazione [che cosa c’è di più vitale?] del battito del cuore [ptat-ptat-ptat …toth-toth-toth].
Gli argomenti di studio dei sacerdoti egizi della scuola di Menfi, riportati in questo testo, ci fanno capire il loro pensiero. Essi pensano che il “cuore” [che assicura la vita] è come se fosse “dio”, e studiare la medicina, la chirurgia [il funzionamento del corpo umano] è come studiare la teologia: è cercare di capire come è fatto dio. Il dio Ptath, il Cuore, crea tutte le cose per mezzo della “parola”, e per i sacerdoti di Menfi la parola “crea le cose” quando “viene dal cuore”; e il dio Ptath, alla fine della sua opera di creazione “è soddisfatto”, perché ha “messo in ordine [maat]” il mondo, ha “introdotto la giustizia, la Legge nel mondo”.
Qui troviamo – e la trovano anche gli scrivani d’Israele che coltivano questo pensiero – l’idea che la creazione sia l’esercizio del “mettere in ordine” con lo strumento della parola, e questa idea è strettamente legata al concetto dell’emanare le Leggi. Emanare le Leggi scritte significa tradurre in parole la voce del Cuore [di Dio], e questo è il presupposto su cui si basa l’idea della giustizia: non c’è ordine senza giustizia, non c’è giustizia senza il rispetto della Legge uguale per tutti. Queste parole-chiave le troviamo non solo nel Libro della Genesi ma in tutta la Letteratura beritica e, in particolare, nei Libri dei profeti.
Ora possiamo leggere insieme un frammento da Il papiro chirurgico-teologico Edwin Smith.
LEGERE MULTUM….
Il papiro chirurgico-teologico Edwin Smith
Ptath [il Cuore] è la fonte di ogni concetto, è la fonte dell’ordine e la parola annuncia il pensiero di Ptath [del Cuore]. L’ordine è sorto dal pensiero di Ptath e da ciò che la sua parola ha ordinato. Così è resa giustizia a chi esegue quel che c’è di bene e punizione a chi fa quel che c’è di male. Così si dona la vita a chi ha in sé la pace e si reca la morte a chi ha in sé il peccato.
Così furono create tutte le opere e tutte le arti, l’azione delle braccia, il movimento delle gambe e l’attività di ogni organo del corpo secondo il comandamento che Ptath [il Cuore] aveva concepito, che era uscito attraverso la sua parola e che aveva determinato il valore di tutte le cose. Perciò Ptath è detto: colui il quale ha creato ogni cosa. Alla fine Ptath fu soddisfatto poi che ebbe messo in ordine ogni cosa. …
Analizzando i quattro tradizionali modelli della creazione – tutti presenti nel Libro della Genesi – abbiamo incontrato, di conseguenza, due importanti oggetti culturali, il poema sumero Enuma elish [Lassù, nell’alto dei cieli] e Il papiro chirurgico-teologico Edwin Smith. La conoscenza – anche parziale – che abbiamo fatto di queste due opere significative è propedeutica alla comprensione della Letteratura beritica.
Non è un fatto casuale – si tratta piuttosto di un procedimento di trasmissione culturale – che il testo del Libro della Genesi ponga l’accento sulla “azione ordinatrice” dell’Essere supremo che sovrintende alla creazione. Questa “azione ordinatrice” ha, tra le altre conseguenze, quella di togliere valore sacro agli elementi naturali: il cielo, il mare, il vento, la terra stessa, ad esempio, vengono ridotti a pure entità naturali, cessano di avere un ruolo divino. Così come l’azione ordinatrice dell’Essere supremo nel Libro della Genesi ha come conseguenza quella di dispiegarsi in un tempo cadenzato secondo una precisa divisione: la settimana, che culmina e ruota intorno al giorno del sabato. Il tema del dio “ordinatore” che, terminata la sua attività cosmogonica, si riposa [deus otiosus: l’otium, in latino, è l’attività di riflessione che viene prima e dopo il momento creativo], determina una concezione del tempo non più ciclica ma lineare, destinata ad influenzare in modo profondo, successivamente anche con la mediazione cristiana, la concezione occidentale del tempo.
Dal versetto 26 al versetto 30 del capitolo 1 del Libro della Genesi [poi andiamo a verificare sul testo] troviamo il racconto della creazione dell’Uomo secondo la “fonte elohista” che gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] hanno utilizzato per prima perché la considerano più dotta, più poetica e anche più “moderna”. Il racconto della creazione dell’Uomo, secondo la “fonte elohista” [che troviamo nel capitolo 1 del Libro della Genesi], non presenta i tratti arcaici e antropomorfici della redazione jahvista che troviamo, successivamente, nel capitolo secondo. Il racconto della creazione dell’Uomo secondo la “fonte elohista” termina con la famosa affermazione: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona».
In questa fonte si riscontra un ottimismo profondo, che si distingue dal pessimismo di altre cosmogonie del Vicino Oriente antico come quelle mesopotamiche. L’ottimismo, secondo la “fonte elohista”, domina il racconto della creazione: il mondo è fondamentalmente «buono» ed è benedetto da Dio [e, comunque, Dio non è responsabile della presenza delle tenebre]. La caduta sarà l’effetto di un errore, di una colpa dei progenitori. Questa idea si collega anche al pensiero indiano dei Libri dei Veda [i Libri della Sapienza] secondo cui l’essere umano è il risultato dei suoi propri atti.1
Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] nel mettere in ordine i primi quattro capitoli del Libro della Genesi hanno in mente un’idea fondamentale e la vogliono proclamare “in principio”: se non si rispetta la Legge uguale per tutti, in quanto nata da un accordo, da un patto di solidarietà, la società non si salva.
E ora dopo aver messo insieme tutti questi elementi possiamo leggere e commentare l’inizio del Libro della Genesi-In principio/Bereshìt. Leggiamo i 31 versetti del capitolo 1 e i primi quattro del capitolo 2. Questo testo contiene il racconto della creazione del mondo e dell’Uomo secondo la “fonte elohista”: è la cosiddetta “cosmogonia e antropogonia elohista”.
LEGERE MULTUM….
Libro della Genesi-In principio/Bereshìt 1, 1-31 2, 1-4°
1 In principio [Corrisponde alla parola ebraica “bereshìt” che dà il nome al Libro] Dio mise in ordine il cielo e la terra.
2 Ora la terra era informe e deserta [tōhû wābōhû] e le tenebre [stn] ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio [rūha 'elohim] aleggiava sulle acque. [in questo versetto si afferma letteralmente, che la terra era tōhû wābōhû. Questa espressione problematica rimanda, più che al caos dei Greci, a una concezione della terra già formata, ma priva ancora di esseri viventi e coperta di tenebre (stn). Qui c’è una radice mitologica ben precisa che ci siamo preparati a capire: tōhû è collegato a tehōm (letteralmente mare del caos) e questa parola è connessa con il nome Tiamat, la mostruosa figura primordiale della cosmogonia babilonese dell’Enuma elish; quanto a bōhū, è probabilmente collegato a Baau, il nome di una dea madre notturna della mitologia fenicio-ugaritica (come dire “la Terra era Tiamat e Baau). L’espressione ebraica rūha 'elohim – che traduciamo lo spirito di Dio letteralmente significa vento impetuoso: infatti rūha significa vento, e il temine ‘elohim che significa dio come nome comune ha, nella grammatica ebraica, un valore di rafforzativo: di qui il significato di vento impetuoso].
3 Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu. [Inizia l’attività ordinatrice di Dio per mezzo della parola secondo il pensiero della Scuola egizia di Menfi che abbiamo conosciuto studiando il testo del Papiro Smith; questa attività ordinatrice è durata sei giorni, ed essa si esplica in due serie di azioni: nella prima si preparano gli ambienti (i primi tre giorni), nella seconda vi vengono collocati gli esseri corrispondenti (gli ultimi tre giorni).].
4 Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre
5 e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: primo giorno. [Qui ha inizio l’opera di separazione come metodo di creazione: questa idea – come sappiamo – rimanda all’Enuma elish, alla lotta tra Marduk e Tiamat e alla divisione di Tiamat. Il racconto della Genesi si diversifica per il suo ottimismo rispetto al pessimismo del pensiero mesopotamico].
6 Dio disse: «Sia il firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque». [Il firmamento era considerato come una volta solida, che separa le acque superiori da quelle inferiori].
7 Dio fece il firmamento e separò le acque, che sono sotto il firmamento, dalle acque, che sono sopra il firmamento. E così avvenne.
8 Dio chiamò il firmamento cielo. E fu sera e fu mattina: secondo giorno. [Sappiamo che nell’Enuma elish le due parti in cui viene divisa Tiamat diventano l’una il Cielo e l’altra la Terra].
9 Dio disse: «Le acque che sono sotto il cielo, si raccolgano in un solo luogo e appaia l’asciutto». E così avvenne.
10 Dio chiamò l’asciutto terra e la massa delle acque mare. E Dio vide che era cosa buona.
11 E Dio disse: «La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto, che facciano sulla terra frutto con il seme, ciascuno secondo la sua specie». E così avvenne:
12 la terra produsse germogli, erbe che producono seme, ciascuna secondo la propria specie e alberi che fanno ciascuno frutto con il seme, secondo la propria specie. Dio vide che era cosa buona.
13 E fu sera e fu mattina: terzo giorno.
14 Dio disse: «Ci siano luci nel firmamento del cielo, per distinguere il giorno dalla notte; servano da segni per le stagioni, per i giorni e per gli anni
15 e servano da luci nel firmamento del cielo per illuminare la terra». E così avvenne:
16 Dio fece le due luci grandi, la luce maggiore per regolare il giorno e la luce minore per regolare la notte, e le stelle.
17 Dio le pose nel firmamento del cielo per illuminare la terra
18 e per regolare giorno e notte e per separare la luce dalle tenebre. E Dio vide che era cosa buona.
19 E fu sera e fu mattina: quarto giorno.
20 Dio disse: «Le acque brulichino di esseri viventi e uccelli volino sopra la terra, davanti al firmamento del cielo».
21 Dio creò i grandi mostri marini e tutti gli esseri viventi che guizzano e brulicano nelle acque, secondo la loro specie, e tutti gli uccelli alati secondo la loro specie. E Dio vide che era cosa buona.
22 Dio li benedisse: «Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei mari; gli uccelli si moltiplichino sulla terra».
23 E fu sera e fu mattina: quinto giorno.
24 Dio disse: «La terra produca esseri viventi secondo la loro specie: bestiame, rettili e bestie selvatiche secondo la loro specie». E così avvenne:
25 Dio fece le bestie selvatiche secondo la loro specie e il bestiame secondo la propria specie e tutti i rettili del suolo secondo la loro specie. E Dio vide che era cosa buona.
26 E Dio disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». [Facciamo: non è un plurale maiestatis (una forma che è ignota alla grammatica ebraica); Dio si comporta come se parlasse alla sua corte celeste, come se non fosse solo.].
27 Dio fece l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò.
28 Dio li benedisse e disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra».
29 Poi Dio disse: «Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo.
30 A tutte le bestie selvatiche, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde». E così avvenne.
31 Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona. E fu sera e fu mattina: sesto giorno.
Così furono portati a compimento il cielo e la terra e tutte le loro schiere. [Qui comincia il secondo capitolo e ci sono delle precise puntualizzazioni fatte dagli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] i quali vogliono mettere in evidenza il valore normativo del sabato: il sabato non è semplicemente il giorno di riposo ma – secondo la fonte deuteronomica (legislativa) – è un concetto che deve regolare la vita dell’individuo, della famiglia e dello Stato; la festività del sabato serve per riflettere sulla necessità dello spirito di servizio (del patto di solidarietà) e del senso del dovere (della Legge uguale per tutti).].
2 Allora Dio nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro.
3 Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli aveva fatto per mettere in ordine.
4a Questo è il racconto [il midrash tôledôt] delle origini del cielo e della terra, quando vennero messi in ordine…
Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] utilizzano l’espressione midrash tôledôt perché vogliono puntualizzare, prima di tutto, che si tratta del racconto mitico (midrash) della creazione, e poi con la parola tôledôt, che significa genealogia, vogliono che siano rappresentati i modelli fondamentali con cui il mito delle origini è stato rappresentato. Il valore della Scrittura sta nel fatto che è un patrimonio culturale ed è proprio raccogliendo e utilizzando strumenti culturali che si può risalire a Dio, all’Ordinatore dell’Universo; la persona che, investendo in intelligenza si impegna a mettere in ordine i modelli culturali con cui si cerca di interpretare la realtà, crea le condizioni per poter entrare in sintonia con l’Ordinatore divino. Infine dobbiamo notare che il versetto 4 del secondo capitolo del Libro della Genesi è diviso in due parti (a e b) proprio perché questo versetto fa da tramite, fa da collegamento (è l’anello di una sequenza mitica) tra il racconto della fonte elohista che abbiamo letto e quello della fonte jahvista che segue subito dopo.
Questa sera ci siamo occupati di come gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] hanno utilizzato la “fonte elohista” per raccontare la creazione del mondo [la cosmogonia] e dell’essere umano [l’antropogonia]. Nel prossimo itinerario ci occuperemo di come hanno utilizzato la “fonte jahvista” per raccontare una seconda volta la storia della creazione e il suo immediato fallimento.
È significativo il fatto che gli scrivani d’Israele abbiano scelto di “includere” tutto ciò che hanno ritenuto culturalmente valido per dare potenza alla loro Scrittura e per non perdere nulla di una tradizione intellettuale che si era andata formando nei secoli a contatto con altre tradizioni intellettuali.
E, per concludere, anche noi includiamo ancora una volta – oramai è diventata una tradizione – una “favola moderna” del poeta Carlo Alberto Salustri (1871-1950) detto Trilussa che anticipa, con i suoi versi, alcune riflessioni che dovremo fare nel prossimo itinerario sulla “cosmogonia e antropogonia jahvista”:
LEGERE MULTUM….
Trilussa, L’Omo (da Favole moderne, 1922)
Prima che Adamo se magnasse er pomo,
er Cane, che sapeva er dietroscena già preparato pe’ frega er prim’omo, pensò:
– Povero Adamo, me fa pena: giacché purtroppo j’ho da fa’ l’amico, adesso je lo dico. –
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La Scuola dovrebbe esistere perché “non c’è gusto a vivere senza capire”. La Scuola dovrebbe esistere perché non è bene “avere un cervello che non vede giusto”. La Scuola deve esistere proprio perché “Dio ce fabbricò co’ la mollaccia [col fango]”, proprio come diceva il contadino egizio – si legge in un altro papiro di Menfi – “è nel fango che io butto il seme, è col fango che mi sfamo e cresco con maggior giudizio”.
Per riflettere su queste importanti allegorie, la Scuola è qui, nella “mollaccia”, ma, forse, è proprio questo il suo posto, a stretto contatto con l’Umanità.
È in questa prospettiva che il 25 aprile e il 1° maggio assumono il loro significato ideale: resistere! Resistere proprio e anche perché siamo nella “mollaccia” …