Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza poetica beritica 2008 7-8-9 maggio 2008
LA SEQUENZA DEI RACCONTI EPICI DELLE ORIGINI …
Il primo grande tema che il testo del Libro della Genesi-In principio/Bereshìt mette di fronte alla lettrice e al lettore è il racconto della creazione. Nell’ultimo itinerario abbiamo puntato l’attenzione sul racconto mitico della creazione del mondo e dell’essere umano secondo la “fonte elohista” e a questo proposito [quindici giorni fa] abbiamo letto e commentato i 31 versetti del capitolo 1 e i primi quattro versetti del capitolo 2 del Libro della Genesi. La “fonte elohista” presenta il racconto della creazione del mondo [la cosmogonia] e della creazione dell’essere umano [l’antropogonia] in forma diversa rispetto alla “fonte jahvista” di cui dobbiamo occuparci nell’itinerario di questa sera.
Nel racconto di “fonte jahvista” al posto del caos acquatico [che troviamo nella “fonte elohista”] subentra un paesaggio desertico, dominato da una terra arida e secca. La creazione dell’essere umano – secondo la “fonte jahvista” – avviene mediante il modello del demiurgo, del vasaio: questo modo di creare lo si trova in numerosi racconti mitici dall’Africa alla Polinesia. Dopo che il demiurgo ha plasmato l’essere umano con la terra, con il fango [con la mollaccia, scrive Trilussa] gli insuffla un “soffio vitale” che non è l’anima intesa come principio immortale, tipica della tradizione orfica e poi platonica [quest’autunno, quando incontreremo Platone, avremo modo di approfondire questa idea].
Il racconto di “fonte jahvista” – come tutti sappiamo – è caratterizzato dalla creazione della donna dalla costola di Adamo. Anche questo racconto mitico rimanda a concezioni largamente diffuse, ruotanti intorno all’idea dell’androginia. Il termine “androgynòs” è formato da due parole greche: “anér andròs” che significa “uomo” e “gyné” che significa donna. Il primo Uomo è un essere che riunisce in sé la perfezione del maschile e del femminile. Il primo Uomo è, quindi, simbolo di pienezza e di totalità: soltanto un evento fatale ha portato alla separazione dei due sessi che – come insegna il mito platonico dell’androgino presente nel dialogo intitolato Simposio – da quel momento mirano a ricongiungersi per ricostituire la perfezione delle origini.
D’altro canto questo argomento – presente nella narrazione di “fonte jahvista” – si coniuga perfettamente col tema di fondo del racconto, che ben rientra nei miti del paradiso perduto, dell’età dell’oro. L’Uomo creato da Dio viene collocato nel giardino: in un luogo di delizie. Da questo giardino egli viene scacciato a causa di una trasgressione che distrugge irreparabilmente la situazione iniziale di beatitudine, per precipitare i malcapitati progenitori nella normalità della situazione umana.
In che cosa consiste, allora, la colpa che provoca questa espulsione dal giardino dell’Eden? Anche in questo caso vale la pena di sgombrare il campo da alcuni equivoci, il primo dei quali è dato da quel tipo di interpretazione che identifica la caduta con un peccato di concupiscenza: e questo, per il semplice motivo che nel testo non vi è traccia di questo tema. Il “senso della vergogna” che gli scrivani del codice Priester fanno emergere in questo racconto è prima di tutto un fenomeno sociale e culturale, più che individuale e psicologico. Lo conferma l’introduzione del tema dell’abito [ad un certo punto i progenitori si accorgono di essere nudi]: il “senso di vergogna” rimanda al passaggio da uno stato di natura ad uno stato di cultura, ad una situazione sociale, cioè, più complessa.
Qui s’insinua la “fonte deuteronomica [legislativa]” con la quale gli scrivani del codice Priester vogliono introdurre la Legge, vogliono imporre norme di condotta, con i relativi divieti, la cui violazione provoca il sorgere di un senso di colpa e facilita l’affermarsi di una “civiltà della vergogna”: un tema di grande attualità.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
La parola “vergogna” ne richiama altre come: turbamento, pentimento, ritegno, soggezione, timore, imbarazzo…
In quale occasione ti sei vergognata, ti sei vergognato, e hai provato turbamento, pentimento, ritegno, soggezione, timore, imbarazzo?…
Scrivi quattro righe in proposito…
Nel nostro racconto – di “fonte jahvista” con un’infiltrazione di “fonte deuteronomica [legislativa]” – questa vergogna è l’esito di una trasgressione, che viene provocata dall’intervento della figura mitica del serpente. Questo serpente – che entra in gioco nella “fonte jahvista” attraverso l’Epopea di Gilgamesh, di cui parleremo – non va identificato col diavolo della successiva tradizione cristiana e poi islamica perché nel testo non c’è nessuna traccia in proposito. Il “serpente” viene presentato come la creatura più astuta, ma è chiaramente una bestia creata da un Dio, il quale ritiene buona, senza eccezione, la sua creazione. Il “serpente” svolge, in questo contesto, una funzione analoga a quella che determinati animali hanno nei miti e nelle leggende primordiali: cioè la funzione di introdurre, mediante un “incidente” da essi provocato, la morte là dove essa non esisteva. Questa è la funzione del “serpente” anche nell’Epopea di Gilgamesh, di cui parleremo.
L’origine del male non va, dunque, ricercata nell’azione del “serpente” che, lungi dall’essere un nemico dichiarato di Dio [questa concezione del serpente nemico di Dio, probabilmente di origine iranica, si affermerà soltanto alcuni secoli dopo con la traduzione greca], piuttosto si configura come un indicatore che serve per rivelare l’Uomo a se stesso [è il serpente che dice all’Uomo: “guarda che hai delle possibilità”]. La responsabilità di aver dato retta al serpente non va individuata unicamente nell’azione della donna, perché il testo di “fonte jahvista” è molto chiaro: i progenitori mangiano insieme il frutto, partecipano insieme, responsabilmente, della stessa trasgressione [la donna apparecchia, già dalle origini].
Che cos’è che induce i progenitori alla trasgressione? Ciò che induce alla trasgressione pare essere, in ultima analisi, un desiderio di conoscenza, di una conoscenza assoluta che realizzerebbe la somiglianza divina presente nell’Uomo. In questo modo, il racconto sottolinea il valore della “conoscenza” come capacità distintiva dell’Uomo. La trasgressione mette in moto nel racconto un processo di tipo giuridico – e ancora una volta entra in gioco la “fonte deuteronomica [legislativa]” – con l’individuazione del colpevole, l’interrogatorio, l’ammissione di colpa, la sentenza di condanna e la sua esecuzione. Questo conferma ancora una volta l’impegno “costituzionale” degli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale]i quali vogliono mettere in luce che la vicenda ruota intorno alla violazione di una norma, al non rispetto della Legge. Da dove scaturisca questa colpa rimane un fatto misterioso ma non ha nessuna importanza perché agli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale]non interessa dare un’interpretazione al mistero della colpa presente nella “fonte jahvista” ma intendono ribadire un principio: il pricipio che la Legge va rispettata soprattutto se nasce da un patto concordato. La colpa originaria sta nel fatto di non aver rispettato le regole concordate.
Adesso – tenendo conto degli elementi su cui abbiamo riflettuto – possiamo leggere il racconto della creazione dell’Uomo, il racconto della colpa e della caduta dei progenitori secondo la “fonte jahvista”. Questa narrazione comprende il capitolo 2 dal versetto 4b al versetto 25 e il capitolo 3 dal versetto 1 al versetto 24 del Libro della Genesi.
LEGERE MULTUM….
Libro della Genesi-In principio/Bereshìt 2, 4b-25 3, 1-24
4b [Sappiamo già che il versetto 4 del capitolo 2 del Libro della Genesi fa da tramite, congiunge insieme la fonte elohista con la fonte jahvista, difatti consta di due parti (a e b): la parte 4a è legata alla fonte elohista e la parte 4b alla fonte jahvista] Quando il Signore Dio fece la terra e il cielo,
5 nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata – perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra e nessuno lavorava il suolo
6 faceva salire dalla terra l’acqua dei canali per irrigare tutto il suolo –.
7 Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente. [Dio è qui presentato – secondo la fonte jahvista – come un vasaio che plasma il corpo umano. Uomo, in ebraico, corrisponde al termine adam (da adamah, che indica il suolo): di qui deriva il nome del primo uomo.].
8 Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. [Eden è un nome geografico che indica una regione piana e stepposa ed è il corrispettivo della parola sumera dilmun che definisce il giardino di delizie nell’Epopea di Gilgamesh. La radice ‘dn significa luogo di delizie: di qui il paradeisos della versione greca della Bibbia dei Settanta, e della successiva tradizione cristiana. Secondo i modelli mitologici sumero-accadici, in questo giardino fioriscono piante straordinarie e scorrono fiumi.].
9 Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male.
10 Un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino, poi di lì si divideva e formava quattro corsi.
11 Il primo fiume si chiama Pison: esso scorre intorno a tutto il paese di Avila, dove c’è l’oro
12 e l’oro di quella terra è fine; qui c’è anche la resina odorosa e la pietra d’onice.
13 Il secondo fiume si chiama Ghicon: esso scorre intorno a tutto il paese d’Etiopia.
14 Il terzo fiume si chiama Tigri: esso scorre ad oriente di Assur. Il quarto fiume è l’Eufrate.
15 Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse.
16 Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino,
17 ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti».
18 Poi il Signore Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile».
19 Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome.
20 Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma l’uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile.
21 Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto.
22 Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo.
23 Allora l’uomo disse: «Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa. La si chiamerà donna perché dall’uomo è stata tolta».
24 Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne [Classico intervento di carattere legislativo degli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] per regolamentare la famiglia].
25 Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna [Fase di regolamentazione dei rapporti coniugali].
1 Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio. [Il serpente: la presenza dell’articolo rimanda a un tipo particolare di serpente, noto ai lettori. In ambiente semitico esso era venerato come simbolo delle varie divinità della vegetazione, una guardia dei santuari e dei confini; a Ugarit il serpente appartiene alla corte del dio El, nell’Epopea di Gilgamesh è tra i protagonisti della saga sumera.]. Egli disse alla donna: «È vero che Dio ha detto non dovete mangiare di nessun albero del giardino?»,
2 rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare,
3 ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete».
4 Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto!
5 Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male» [Sappiamo che, secondo la tradizione, la conoscenza del bene e del male avviene dopo i 25 anni (5 volte 5) e chi scrive allude al fatto che i progenitori sono comunque ancora troppo giovani (sono stati appena creati) per poter pretendere di essere in grado, a breve, di discernere il bene dal male; per capire è necessario sapere che nella fonte deuteronomica (legislativa), utilizzata dagli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], il versetto 3 contiene una dicitura fondamentale che poi, con la traduzione greca, si è persa per strada; il versetto 3, secondo la fonte deuteronomica (legislativa), dice: «… ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare fino all’essenza di ciò che è chiamato il quinto e non lo dovete toccare, altrimenti morirete». Che cosa significa questo versetto così congegnato? Che cosa significa la dicitura: “fino all’essenza di ciò che è chiamato il quinto” ? Per rispondere a queste domande dobbiamo imbastire una riflessione, ma ora continuiamo la lettura],
6 allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò,
7 allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi [sprovveduti, di non aver imparato niente, ignoranti]; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.
8 Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno e l’uomo con sua moglie si nascosero dal Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino.
9 Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?».
10 Rispose: «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto».
11 Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che eri nudo [inadeguato a parlare con me]? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?».
12 Rispose l’uomo: «La donna che tu mi hai posta accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato».
13 Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato».
14 Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché tu hai fatto questo, sii tu maledetto più di tutto il bestiame e più di tutte le bestie selvatiche; sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita.
15 Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno» [le benedizioni e le maledizione del serpente provengono dalla liturgia ugaritica].
16 Alla donna disse: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà».
17 All’uomo disse: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero, di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare, maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita.
18 Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre.
19 Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!».
20 L’uomo chiamò la moglie Eva, perché essa fu la madre di tutti i viventi [Eva: il nome Hawwah è normalmente ricondotto alla radice hajah, vivere].
21 Il Signore Dio fece all’uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì.
22 Il Signore Dio disse allora: «Ecco l’uomo crede di essere diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male. Ora, egli non stenda più la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva sempre!».
23 Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto.
24 Scacciò l’uomo e pose ad oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada folgorante, per custodire la via all’albero della vita [I cherubini sono figure della mitologia ugaritica appartenenti alla corte del dio El e immaginati come mitici colossi alati, mezzo uomini e mezzo animali, guardiani dei templi e del palazzi e custodi dell’albero della vita.]…
Abbiamo detto che uno dei punti strategici del brano che abbiamo letto [punto strategico non solo di questo brano ma dell’intera Letteratura beritica] è il versetto 3 del capitolo 3 del Libro della Genesi. Abbiamo detto che per capire il significato di questo versetto è necessario imbastire una riflessione.
Noi sappiamo che, secondo la tradizione riportata dal movimento della “sapienza poetica beritica”, la conoscenza del bene e del male avviene dopo i 25 anni [5 volte 5] e gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale]r alludono al fatto che i progenitori sono comunque ancora troppo giovani [sono stati appena creati: sono belli robusti ma hanno l’esperienza di un neonato e di una neonata] per poter pretendere di essere in grado, a breve, di discernere il bene dal male. Abbiamo fatto questo ragionamento perché – come si è detto poco fa – nella “fonte deuteronomica [legislativa]” il versetto 3 del capitolo 3 del Libro della Genesi contiene una dicitura fondamentale che gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale]hanno utilizzato, legandola alla “fonte jahvista”, per perseguire nel loro intento di carattere “istituzionale”: anche nel raccontare le origini, il loro obiettivo è quello di dare una legislazione al nuovo Stato e di affermare che senza la fedeltà ai “patti di solidarietà” e alla “Legge uguale per tutti” non c’è possibilità di costruire una “società salvata”. Questa dicitura, presente nel versetto 3 del capitolo 3 del Libro della Genesi, è stata poi omessa nella traduzione greca, probabilmente per esigenze di tipo formale: per rendere più scorrevole il testo e poi perché i traduttori alessandrini non hanno la stessa mentalità “costituzionale” che avevano, circa duecento anni prima, gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale].
Il versetto 3 del capitolo 3 del Libro della Genesi, secondo la “fonte deuteronomica [legislativa]”, dice: «…ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare fino all’essenza di ciò che è chiamato il quinto e non lo dovete toccare, altrimenti morirete». Che significato ha – ci siamo chieste/chiesti – questo versetto? E soprattutto che cosa significa la dicitura: “fino all’essenza di ciò che è chiamato il quinto”? Se noi – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – non prendiamo atto [e questo è stato il nostro obiettivo principale] dell’intento “costituzionale istituzionale legislativo”, che hanno gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] nel comporre il canone giudaico-palestinese, si creano molti pericolosi malintesi. Il più grande malinteso creatosi nel corso del tempo è che i progenitori siano stati cacciati dal giardino dell’Eden per avere assaggiato il frutto dell’albero della conoscenza. Come è possibile che questo avvenga se l’albero della conoscenza è stato piantato proprio perché i progenitori potessero assaporarne il frutto? Eppure – alla lettura del testo – risulta chiaro che, avendo mangiato, sono stati scacciati: perché è avvenuto questo se l’albero della conoscenza è stato piantato proprio per loro? Il fatto è che i progenitori avrebbero dovuto mangiare il frutto dell’albero della conoscenza ma a tempo debito: lo hanno fatto troppo presto! Qui emerge tutta la mentalità legislativa [deuteronomica] degli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale]: i progenitori non sono stati condannati per aver colto un frutto proibito perché quel frutto era destinato a loro ma sono stati condannati per averlo preso ancora acerbo, da un albero appena piantato. E inoltre anche i progenitori erano ancora acerbi: erano ancora immaturi. Il brano della Genesi che abbiamo letto racconta che erano stati da poco differenziati l’uno dall’altra, essendo prima un solo individuo nello stato unitario primordiale.
Apriamo – brevemente – una parentesi per dire, a questo proposito, che sul Libro della Genesi [e su tutti i Libri della Letteratura beritica] hanno studiato con grande attenzione e impegno i medici che hanno codificato quella disciplina che si chiama “psicoanalisi”. Per diventare un essere integrale e acquisire un’individualità è necessaria la formazione di un Sé [di un’interiorità, di una Coscienza]. Il problema della “formazione del Sé”, come itinerario di un processo che porta verso l’autocoscienza, lo ha studiato Carl Gustav Jung (1875-1961) nell’opera Simbolica dello Spirito. Studi di fenomenologia psichica (1948) e lo ha chiamato “processo di individuazione”: il “processo di individuazione” consiste in una “via molto lunga” che non può essere abbreviata senza mettere in pericolo la conquista dell’integrità psichica e quella del discernimento [la capacità di formulare dei giudizi]: «La conoscenza prematura in un individuo impreparato è destinata ad accecare più che a illuminare e la conoscenza può essere dannosa per le persone che non siano pervenute a un’età più matura [la conoscenza può essere dannosa per le persone che non l’abbiano acquisita attraverso un graduale itinerario di studio]», così scrive Baruch Spinoza nel 1677, nella Lettera n. 9 dell’Epistolario, anticipando anche, in qualche modo, la psicoterapia freudiana e junghiana.
Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] intendono mettere in evidenza che l’Essere supremo non impedisce ai progenitori di nutrirsi da subito dell’albero della vita, e sono liberi di farlo, comanda però loro che aspettino un po’ a nutrirsi dell’albero della conoscenza in modo che il frutto possa raggiungere “il tempo e il luogo dell’essenza di ciò che è chiamato il quinto”: se avessero aspettato “il tempo e il luogo dell’essenza di ciò che è chiamato il quinto” i progenitori non sarebbero mai stati trascinati nell’abisso. Ma che cosa significa questa frase? Questa frase è tipica della “fonte deuteronomica” e della cultura legislativa a cui sono legati gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] e si riferisce alla proibizione [entra sempre in gioco l’importanza di rispettare la Legge, il Deuteronomio] di “mangiare i frutti dei nuovi alberi prima del quinto anno”: è di vitale importanza rispettare i tempi di maturazione che regolano i cicli della Natura. La frase che dice «l’essenza di ciò che è chiamato il quinto», che si legge nella “fonte deuteronomica”, rimanda alla “quint’essenza” e cioè al prodotto delle cinque distillazioni virtuali, che rappresentano le cinque stagioni della vita [neonatale, infantile, adolescenziale, matura, anziana], nel corso delle quali ci si avvicina gradatamente alla conoscenza: non si ha accesso alla conoscenza [a tutta la conoscenza] mangiando un frutto che non è maturo: il frutto si assapora a tempo debito, con gradualità, in un percorso in cui la meta è il percorso stesso.
Apriamo – e chiudiamo velocemente – un’altra parentesi per dire che il concetto della “quintessenza” diventa fondamentale per quella disciplina che precorre la chimica e che si chiama l’alchimia. La “quintessenza” è la metafora che designa la “conoscenza perfetta” perseguita dall’alchimista nella sua ricerca della Pietra Filosofale: la pietra che trasforma in oro qualunque cosa tocchi. Ma la Pietra Filosofale non è la meta bensì è il percorso conoscitivo stesso [ecco che cosa trasforma in oro le cose]: l’itinerario della conoscenza verso la meta è la meta stessa e la Pietra Filosofale è il percorso della ricerca.
Secondo gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] il desiderio verso la conoscenza comporta, innanzi tutto, la comprensione del proprio Sé, la cognizione della realtà più profonda dell’individuo dove si trova la motivazione interiore più efficace per imparare a rispettare la Legge: gli immaturi progenitori, andando a magiare il frutto acerbo [senza passare attraverso la quint’essenza], hanno messo in evidenza non il proprio Sé [l’essenza] ma il proprio Io [l’apparenza], cioè l’elemento che diventa un ostacolo alla comprensione, l’illusione che genera ignoranza perché quando si dice “Io” si crea sempre una spaccatura che allontana dalla consapevolezza. Questo impulso – nel mondo orfico [nella Ionia, a Efeso] – lo sta mettendo in evidenza, contemporaneamente agli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], anche Eraclito con il suo ammonimento: «conosci te stesso» [gnóthi seautón]. Per gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] il desiderio conoscitivo ha un carattere teologico e quindi l’essere umano deve dedicarsi alla conoscenza di Dio e, dal momento che è stato creato a «immagine e somiglianza del Creatore», alla conoscenza di Dio si perviene attraverso la conoscenza del Sé [della propria interiorità], e più l’essere umano procede sulla via della conoscenza di Dio più in lui aumenta la necessità di essere fedele alla Legge perché la Legge è radicata in Dio. Così anche nel Libro della Genesi incontriamo, al versetto 1 del capitolo 12, l’ordine dato ad Abramo di conoscere se stesso: «Vai verso di te [Lech lecha]» che equivale a «Diventa ciò che sei» pronunciato da Gotamo Siddharta nel Discorso di Benares e al «Tat tvam asi [tu sei Tutto, hai in te tutto l’Universo]» che troviamo nelle Upanishad dei Libri dei Veda [Libri della Sapienza] indiani. In tutte le culture dell’Età assiale il desiderio di conoscenza viene indirizzato verso la maturazione della coscienza di Sé attraverso un percorso di maturazione che dura per tutte le età della vita.
Il Libro della Genesi, posto all’inizio della Letteratura beritica, è caratterizzato da un motivo conduttore: il testo di quest’opera mette in evidenza, dalle prime battute, dai primi capitoli, l’importanza di seguire [«l’essenza di ciò che è chiamato il quinto»] un itinerario graduale, sequenziale, progressivo, metodico, ordinato per acquisire la conoscenza: i progenitori immaturi hanno preteso di ottenere tutta la conoscenza, in un colpo solo, mangiandone il frutto senza rendersi conto che la meta non è il frutto della conoscenza ma è il percorso che fa maturare il frutto della conoscenza. Il percorso della conoscenza – secondo gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] – porta l’essere umano tanto ad acquisire una sapienza di tipo trascendente che possa alleviare il peso delle contingenze e dalle contraddizioni della vita quanto a maturare la consapevolezza che le contingenze e le contraddizioni della vita possono essere attenuate con il rispetto della Legge.
Tutti i racconti mitici di cui è formato il Libro della Genesi contengono un ammonimento: è necessario, per costruire una “società salvata”, conoscere Dio [far maturare la coscienza di Sé] e conoscere la Legge [cogliere i frutti maturi]. Emblematica è, a questo proposito, l’affermazione contenuta nel versetto 6 del capitolo 4 del Libro di Osea: «Il mio popolo – dice il Signore – sarà sterminato per mancanza di conoscenza». La conoscenza è uno strumento di liberazione che permette di conquistare la saggezza il cui frutto è la felicità: cercare “momenti di felicità” è, secondo il pensiero del movimento della “sapienza poetica beritica”, oltre che una necessità di carattere anche teologico, un vero e proprio dovere. Per gli scrivani d’Israele la conoscenza è una virtù che va esaltata, mentre l’ignoranza è un peccato da condannare senza mezzi termini. Nel Libro di Daniele si legge: «I sapienti rifulgeranno come lo splendore della distesa celeste …e la conoscenza aumenterà, mentre chi non impara perde la propria vita …e un ignorante può essere stracciato come un pesce … perché la disgrazia viene soltanto a causa dell’ignoranza, e non dovremmo concedere nessuna misericordia a chi è privo di conoscenza: senza conoscenza, come possono raccogliere i frutti del discernimento?».
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Quasi tutti noi abbiamo avuto la fortuna [forse senza rendercene conto] di crescere attorniati da alberi da frutto e i frutti, acerbi o maturi, alimentano ricordi che vanno conservati [marmellate di parole]: scrivi quattro righe in proposito…
Il desiderio di conoscenza – che gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] fanno aleggiare “in principio” con lo Spirito di Dio nel testo del Libro della Genesi – è fonte di progresso spirituale e materiale e dal desiderio di conoscenza derivano anche tutti i presupposti per una convivenza armoniosa su un pianeta dove siamo tutti figure rappresentative, con pari dignità, della specie “homo sapiens sapiens” e quindi membri della stessa famiglia, pur conservando – sia a livello individuale che collettivo – le differenze proprie, anche tra sorelle e fratelli.
La parola “fratelli”, nel testo del Libro della Genesi, sale alla ribalta subito dopo la cacciata dei progenitori dal giardino in Eden. Il capitolo 4 del Libro della Genesi vede come protagonisti Caino e Abele, i due fratelli più famosi del mito antico, insieme ad Atreo e Tieste che, a suo tempo, abbiamo incontrato nella cultura orfica. Qualcuno e qualcuna, dall’interno della tradizione ebraica, si è domandato o domandata, provocatoriamente: e se fossero state due sorelle – Caina e Abela – le cose sarebbero andate lo stesso così?
E, appunto, prima di occuparci di Caino e Abele dobbiamo prendere in considerazione un altro elemento fondamentale che propone la “fonte jahvista” del Libro della Genesi: la creazione della “Donna”. La “Donna”, ultima creatura creata, creata per pro-creare, risulta essere il coronamento della creazione. Bisogna precisare bene, ancora una volta, che il termine “adamo” non è un nome proprio, ma è un termine generico che designa un “essere umano” ed è quindi totalmente neutro, né maschile né femminile. Nell’ebraico un nome diventa di genere maschile solo quando è preceduto dal suffisso “ben” che significa “figlio di”. In sostanza il nome “Eva” rimanda alla vita [il nome Eva ha la sua radice nel verbo “vivere”] mentre il termine “adamo” rimanda solo alla terra [“adamà” significa “zolla di terra”] che è, a sua volta, un simbolo femminile, come per dire – e tutti gli scrivani d’Israele vogliono ribadire questo concetto – che è l’uomo che nasce dalla donna e non viceversa. Non è quindi casuale il fatto che di fronte all’albero della conoscenza sia Eva a capire che il frutto dell’albero è “buono da mangiare …piacevole agli occhi …e desiderabile perché rende sapienti”. Gli scrivani d’Israele attribuiscono così a Eva, prima ancora che a Adamo, la pienezza di tre qualità principali: la facoltà di discernere i sapori, il godimento estetico della bellezza, e il desiderio della conoscenza.
La “fonte jahvista” – che racconta per la seconda volta la creazione dell’uomo e della donna – porta alla ribalta un tema molto interessante: visto che i racconti della creazione sono due, si deve parlare di una prima donna o di due prime donne? Sì perché corre voce – nella vasta tradizione orale dell’ebraismo – che essendo due le “fonti”: siano due anche le prime donne. Questa significativa questione ce la facciamo raccontare – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – da un autore che tutti conosciamo e che abbiamo incontrato più volte: Primo Levi. Però, questa storia, ce la facciamo raccontare in conclusione, alla fine di questo itinerario: non vorrei che il personaggio mitico [piuttosto pericoloso] che dobbiamo evocare ci confondesse le idee.
E ora puntiamo l’attenzione sul racconto che narra la famosa vicenda di Caino e Abele. Questa vicenda presenta la tradizionale contrapposizione tra fratelli con la conseguente lotta sanguinosa – come nel caso di Atreo e Tieste o di Romolo e Remo – che costituisce un tema mitico ricorrente nel quale l’antropologia culturale legge, in genere, il passaggio verso strutture familiari e sociali più complesse. Da una lite tra fratelli che sfocia in un fratricidio – secondo il mito – nasce la città di Roma: non è un buon inizio! Meno male che si tratta di un mito e che c’è il poeta Alberto Cavaliere, con la sua ironia, a smorzare i toni in Storia di Roma in versi.
Il brano che narra la vicenda di Caino e Abele va letto tenendo conto dell’affermazione che troviamo al versetto 2 del capitolo 4 del Libro della Genesi: «Ora Abele era pastore di greggi e Caino lavoratore del suolo». Questo è sicuramente un racconto che deriva dall’antica tradizione orale ma nel testo della Genesi – ordinato dagli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] – questa contrapposizione tra “Abele pastore” e “Caino agricoltore” non va letta sullo sfondo dello scontro, spesso aspro, tra “popoli nomadi allevatori” e “popoli sedentari agricoltori”, che accompagna e contraddistingue, fin dalla rivoluzione del neolitico, le culture del Vicino Oriente antico. “Caino” e “Abele” non simboleggiano un contrasto tra stirpi o tra categorie ma essi rappresentano un conflitto individuale in cui diventano protagonisti di un apologo che – secondo il pensiero degli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] – deve avere una funzione sul piano dell’Educazione civica. Lo “stile del proclama di Amos” è stato costruito dagli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia per stimolare una riflessione in chiave esistenziale, per favorire una presa di coscienza e l’assunzione di responsabilità; dopo l’esilio, nelle mani degli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], lo “stile del proclama di Amos” assume toni di carattere politico in funzione della stesura della Legge. “Caino” e “Abele” simboleggiano un conflitto individuale che non si presenta come la metafora della lotta tra il bene e il male: è infatti una vicenda di rivalità tra fratelli, ma non tra un fratello cattivo e un fratello buono. Caino, fino al compimento del sacrificio, non dimostra per nulla la sua pretesa malvagità, e, per quanto riguarda Abele, la sua supposta bontà non trova nel testo alcun riscontro.
Ciò che decide tutta la faccenda è il gradimento del sacrificio da parte di Dio. Il testo ci presenta una dimensione religiosa di carattere arcaico e il sacrificio in questione è la tipica offerta di primizie, che non conosce ancora il rituale ufficiale con i suoi luoghi pubblici [l’altare, il tempio] e i suoi mediatori istituzionali [sacerdoti]. Già questo è un primo elemento in cui emerge il modo di pensare normativo, e culturale, degli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale]: se intanto ci fossero state le Istituzioni a mediare sull’offerta, a fare da tramite, forse non sarebbe successo quel che è successo. Il racconto presenta una concezione del lavoro e una struttura socioculturale in cui è “naturale” offrire al dio protettore le primizie del proprio lavoro, per averne in cambio garanzie di protezione e di abbondanza, secondo la regola magico-religiosa del “do ut des” [io do affinché tu mi conceda].
Perché, all’interno di questa dinamica, sia stato preferito Abele, non è dovuto né a un motivo etico [Abele non ha una migliore intenzione di Caino nel fare la sua offerta e Caino non ha una cattiva intenzione: di ciò il testo non dice nulla], né alla violazione di determinate regole rituali, tutti e due fanno gli stessi gesti, dicono le stesse parole. Viene preferito Abele per una scelta imperscrutabile di Dio. E qui ancora una volta si scatena – nei commentatori meno accorti – l’elemento misterioso: ma non c’è proprio nulla di misterioso. La responsabilità – e se la assumono esplicitamente – è degli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] i quali vogliono creare – come nel caso dei progenitori – una situazione per dare spazio al loro modo di pensare in chiave costituzionale, in chiave legislativa: la Legge prescrive che non bisogna uccidere per nessun motivo, neppure se si subisce [o se si crede di aver subito] un torto incomprensibile. La pena di morte è indice non di forza ma di debolezza dello Stato. Se mai, nei confronti dei rapporti con Dio, è necessario stabilire delle regole, accordarsi sui tempi e sui modi, patteggiare delle normative per non creare disguidi, dissapori, guerre di religione.
Come di fronte alla trasgressione dei progenitori, anche in questo caso gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] fanno agire l’Essere supremo come un giudice: e questo è il loro obiettivo. In questo caso l’Essere supremo è giudice di un delitto di sangue, di un delitto, cioè, largamente diffuso presso le tribù di nomadi e la “costituzione”, la “legislazione” del nuovo Stato vorrebbe estirpare la consuetudine della vendetta, la pratica della faida. Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale]vogliono ribadire l’idea che è necessario, nella società, un diritto codificato, un tribunale garantito dalle Leggi.
Come avviene in certe tragedie di Eschilo, il sangue di Abele, di un consanguineo, grida vendetta dalla terra, e grida, appunto, verso l’Essere supremo che, come ha messo in moto il processo, così lo conclude non giustificando la vendetta ma comminando una pena esemplare. Caino, in seguito al delitto commesso, è ora diventato un oggetto impuro, è contaminato dalla macchia della colpa, è portatore di un contagio socialmente pericoloso che lo rende intoccabile, maledetto, tabù: “nessuno tocchi Caino” [è già condannato all’isolamento e all’abominio] perché le faide familiari, tribali, devono interrompersi in nome della Legge, uguale per tutti, garantita dallo Stato. Ancora una volta gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] operano con una coerenza esemplare per ribadire la sacralità delle Istituzioni.
LEGERE MULTUM….
Libro della Genesi-In principio/Bereshìt 4, 1-16
1 Adamo si unì a Eva sua moglie, la quale concepì e partorì Caino e disse «Ho acquistato un uomo dal Signore».
2 Poi partorì ancora suo fratello Abele. Ora Abele era pastore di greggi e Caino lavoratore del suolo.
3 Dopo un certo tempo, Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al Signore;
4 anche Abele offrì primogeniti del suo gregge e il loro grasso. Il Signore gradì Abele e la sua offerta,
5 ma non gradì Caino e la sua offerta. Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto. 6 Il Signore disse allora a Caino: «Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto?
7 Se agisci bene, non dovrai forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, Rōbēs [il peccato] è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dominalo» [Il nome Rōbēs corrisponde al nome accadico Rabisu che è un demone il quale, secondo una credenza diffusa, si accovacciava dietro le porte per far del male agli abitanti della casa…].
8 Caino disse al fratello Abele: «Andiamo in campagna!». Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise.
9 Allora il Signore disse a Caino: «Dov’è Abele tuo fratello?». Egli rispose: «Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?».
10 Riprese: «Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!
11 Ora sii maledetto lungi da quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo fratello.
12 Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra».
13 Disse Caino al Signore: «Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono?
14 Ecco, tu mi scacci oggi da questo suolo e io mi dovrò nascondere lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere».
15 Ma il Signore gli disse: «Però chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!». Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse qualunque l’avesse incontrato.
16 Caino si allontanò dal Signore e abito nel paese di Nod, ad oriente di Eden. [Stando alle regole tribali, Caino, umiliato, è costretto ad entrare, attraverso il segno tribale del fratello, nella cerchia dei pastori]…
Il capitolo 5 del Libro della Genesi lo conosciamo già: lo abbiamo letto la scorsa settimana ed è stato il primo testo del Libro della Genesi su cui abbiamo puntato l’attenzione. Abbiamo detto, infatti, che per cominciare a conoscere e a capire il Libro della Genesi è necessario puntare l’attenzione, prima di tutto, sul capitolo 5. Il capitolo 5 del Libro della Genesi è stato proprio scritto ex novo dagli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] per fare il riassunto dei capitoli precedenti. Il capitolo 5 del Libro della Genesi è una “genealogia”, è la prima genealogia che s’incontra, e racconta ancora una volta [perché già – come abbiamo studiato – è stata raccontata due volte] la creazione dei progenitori. La “genealogia” del capitolo 5 del Libro della Genesi lega insieme il personaggio di Adamo con quello di Noè [due personaggi che non passano inosservati], e ha dunque la funzione di raccordare la “sequenza del Principio” [i primi quattro capitoli del Libro della Genesi che abbiamo letto e commentato], con la “sequenza del diluvio” [che si sviluppa dal capitolo 6 al capitolo 10 del Libro della Genesi].
Il capitolo 6 del Libro della Genesi – lì dove comincia il racconto del diluvio – ha però inizio con un brano molto interessante contenuto nei primi quattro versetti. Questo brano, che presenta diversi punti oscuri – dovuti anche ad obiettive difficoltà di traduzione – risulta nella sua forma attuale piuttosto enigmatico [è possibile che sia stato composto con maggior dovizia di particolari e che fosse un brano più lungo, più articolato e più comprensibile]. La funzione di questo brano, nel contesto in cui si trova, sembra essere quella di fornire una spiegazione alla terribile decisione presa da Dio di sterminare tutto ciò che esiste sulla terra: questo brano sembra essere come un’introduzione per la sequenza che viene raccontata subito dopo, la sequenza del diluvio. Perché Dio ha scatenato il diluvio ammettendo di avere sbagliato tutto? La ragione di questo evento catastrofico viene individuata nella crescente corruzione del genere umano e chi ha propiziato la corruzione del genere umano?
Il brano su cui stiamo puntando l’attenzione, e che fa da introduzione alla “sequenza del diluvio”, mette in evidenza che alla corruzione degli esseri umani partecipano anche esseri divini. All’origine di questo racconto – che è stato intitolato “La caduta degli angeli” –, giunto a noi in questa forma molto rimaneggiata e condensata, c’è senza dubbio un antico mito, tramandato nella terra di Canaan, che narra la storia dell’unione di certi dèi con certe donne mortali [qui ci vengono in mente i famosi “adultéri di Zeus” che conosciamo bene attraverso le Metamorfosi di Ovidio]. Questo mito narra che, da tale unione, sono nati degli esseri eccezionali, degli eroi, che qui vengono identificati con i giganti [qui ci vengono in mente i Titani – su cui scrive anche Esiodo – e la lotta cruenta tra Zeus e i Titani]. Il motivo dell’unione tra dèi e mortali è abbastanza diffuso nelle religioni del mondo antico: basta pensare alla figura del “faraone” nel mondo egizio, al personaggio di Gilgamesh nella mitologia mesopotamica [un personaggio che dobbiamo incontrare], e poi alle figure degli eroi del mondo orfico, della mitologia greca, come, per esempio, Ercole. Ma al di là del suo significato originario, questo episodio, apparentemente minore, della storia delle origini, deve la sua importanza alla fortuna che ha avuto all’interno della tradizione del pensiero ebraico nel periodo dell’Ellenismo.
Dobbiamo sapere che, dal III secolo a.C., ad Alessandria – in contemporanea con la traduzione in greco dei Libri della Bibbia – vengono scritti centinaia di testi che sono stati chiamati “apocrifi della Bibbia” dove “apocrifo” significa “privo dei requisiti per entrare nel canone ufficiale della Scrittura”. Molti di questi Libri sono andati perduti e sono spariti dalla circolazione, di altri rimangono solo i titoli e una serie di frammenti perché sono stati citati in altre opere. Un certo numero di “Libri apocrifi della Bibbia” si sono conservati perché hanno avuto diverse riscritture e diverse ristampe. Queste opere, spesso di grande valore letterario [e, ancora una volta, dobbiamo ribadire quanto sia vasto e complesso il territorio del movimento della “sapienza poetica beritica”], prendono spunto da un episodio, da un personaggio, da un mito o da un tema della “Letteratura beritica canonica” e lo sviluppano ulteriormente.
Le fonti documentano che, a partire dal II secolo a.C., l’episodio de “La caduta degli angeli”, raccontato nel Libro della Genesi nei primi quattro versetti del capitolo 6, viene ripreso e commentato da parte delle cosiddette “correnti apocalittiche alessandrine” formate da gruppi di intellettuali della comunità ebraica che cercano di trovare una risposta all’origine del male nel mondo e, a questo proposito, riscrivono, interpretano, commentano i racconti della creazione. Uno dei testi apocrifi della Bibbia più famosi è il Libro di Enoc [o di Henoch]. Questo Libro è stato composto da autori diversi tra il II e il I secolo a.C. e poi riscritto ancora nel II secolo d.C.. In questo Libro c’è un respiro compositivo di circa quattrocento anni, secondo la tradizione della Letteratura beritica. Il personaggio a cui il Libro è dedicato lo abbiamo incontrato leggendo il capitolo 5 del Libro della Genesi che contiene la prima genealogia, l’elenco dei dieci patriarchi da Adamo a Noè. Di nove di questi patriarchi il testo ci dice quanto tempo hanno vissuto e poi ne certifica la morte: di uno di questi, il settimo, che si chiama Enoc – figlio di Iared e padre di Matusalemme – il testo dice una cosa diversa: «Enoc dunque visse come piace a Dio per trecentosessantacinque anni, poi scomparve perché Dio lo portò via con sé». Sono due i personaggi che, nella Letteratura beritica, invece di morire “scompaiono, portati via da Dio”: uno è il profeta Elia e l’altro è il patriarca Enoc.. È evidente che questi due personaggi hanno attirato l’attenzione degli scrittori, delle scrittrici e degli esegeti. Il Libro di Enoc è un testo apocalittico e, siccome in greco “apocalisse” significa “rivelazione”, quest’opera rivela ciò che Enoc avrebbe visto, essendo stato portato da Dio in paradiso: primo uomo dopo Adamo che, da vivo, sarebbe entrato nel giardino dell’Eden. Dobbiamo anche dire che tutte le versioni del Libro di Enoc contengono molte interessanti nozioni di astronomia antica che danno a questo testo un connotato anche “scientifico”.
La parte più antica del Libro di Enoc indica precisamente nell’illecita unione degli “angeli vigilanti” con le “figlie degli uomini”, l’origine [il “peccato originale”] di tutte le sventure e le sofferenze degli esseri umani. Dall’illecita unione degli “angeli vigilanti” con le “figlie degli uomini” sarebbero nati gli eroi che avrebbero dato inizio delle varie arti e ai vari mestieri ma questi eroi sono dei mostri e quindi le attività umane sono contaminate dal male. Le straordinarie visioni mitologiche che gli scrivani dei testi apocrifi della Bibbia riportano sul Libro di Enoc sono davvero singolari, leggiamone alcuni frammenti:
LEGERE MULTUM….
Libro di Enoc [II secolo a.C. - II secolo d.C.]
Enoc vede l’albero della vita, sotto la cui ombra Dio spesso ha scelto di riposare. Per la sua bellezza, d’oro e di vermiglio, quest’albero ha un potere che supera tutte le cose create; le sue fronde coronano l’intero giardino e quattro fiumi, uno di latte, uno di miele, uno di vino e uno di olio, scaturiscono dalle sue radici. Un coro di trecento angeli cura questo paradiso, che non è posto sulla terra, ma nel terzo cielo.
Poi Enoc vede l’albero della conoscenza sotto la cui ombra Adamo ed Eva hanno preferito riposare perché hanno desiderato la sapienza piuttosto che l’immortalità: è forse un albero di fico o un’immensa spiga di grano più alta di un cedro, o una vite o un limone i cui frutti si usano nella festa dei tabernacoli? Enoc vede l’albero della conoscenza e si tratta di una palma da datteri. …
La stirpe di Adamo, alla decima generazione, era enormemente cresciuta. Mancando il sesso femminile gli angeli, noti come “figli di Dio”, trovarono le mogli fra le splendide “figlie dell’uomo”. I nati da tali connubi avrebbero dovuto ereditare vita eterna dai loro padri, ma Dio aveva decretato: «Il mio spirito non rimarrà nella carne per sempre. Quindi gli anni degli uomini saranno limitati a centoventi».
Ma i nati da tali connubi erano nuove creature, erano giganti, conosciuti come “i ribelli”, le cui malvagie usanze Dio decretò che avrebbe cancellato dalla faccia della terra per sempre, con lo sterminio di tutti gli uomini e le donne, con i loro giganteschi corruttori. …
I “figli di Dio”, gli angeli, erano stati mandati in terra per insegnare all’umanità verità e giustizia; per trecento anni, infatti, confidarono a Enoc, figlio di Caino, i segreti del cielo e della terra. Ma più tardi furono presi da passione per le donne mortali e contaminarono se stessi con rapporti sessuali. Enoc ha lasciato traccia non soltanto dell’istruzione divina ricevuta da loro, ma anche della loro successiva degradazione; alla fine, essi giacevano indiscriminatamente con vergini, matrone, uomini e animali. Alcuni dicono che Shemhazai e Azael, due angeli che godevano la fiducia di Dio, gli chiesero: «Signore dell’universo, non ti avevamo forse messo in guardia, il giorno della creazione, che l’essere umano sarebbe stato indegno del tuo mondo?». E Dio rispose: «Ma se distruggo l’uomo, che ne sarà del mio mondo?». Dissero ancora gli angeli: «Potremmo abitarlo noi». Ma il Signore replicò: «Forse che, discesi sulla terra, non pecchereste peggio degli uomini?». Essi lo pregarono: «Lasciaci vivere là per un poco, e santificheremo il tuo nome». Dio permise loro di discendere, ma furono subito attratti dalla bellezza delle figlie di Eva; Shemhazai ebbe due figli mostruosi, Hiwa e Hiya, ognuno dei quali mangiava ogni giorno un migliaio di cammelli, un migliaio di cavalli e un migliaio di buoi. Azael inoltre inventò gli ornamenti e i cosmetici usati dalle donne per sedurre gli uomini. Dio allora minacciò di liberare le acque superiori e distruggere tutti gli uomini e le bestie; e Shemhazai pianse amaramente, temendo per i suoi figli che, pur non potendo annegare data la loro altezza, sarebbero tuttavia morti di fame. …
Il Libro di Enoc interpreta, in età ellenistica, il brano che troviamo nei primi quattro versetti del capitolo 6 del Libro della Genesi [intitolato “La caduta degli angeli”]. Questo brano – che fra un minuto leggeremo – rappresenta, in un certo senso, l’autentica versione dell’episodio mitico del “peccato originale”. La colpa, con la conseguente caduta dei progenitori [che abbiamo studiato nel capitolo 3 del Libro della Genesi], non ha i requisiti perché possa essere considerata un “peccato originale”: in definitiva i progenitori hanno preferito la sapienza all’immortalità, hanno scelto di cavarsela da soli e, siccome non erano ancora maturi [in questo hanno peccato di leggerezza], hanno commesso degli errori anche gravi ma convenzionali [rimediabili – secondo il pensiero degli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] – con l’introduzione della Legge] ma i progenitori – né nel giardino né fuori dal giardino – non hanno generato mostri portatori di una insuperabile sofferenza [il ricordo qui va ai miti orfici e, per esempio, alla figura del Minotauro]. Il “peccato originale” – secondo i primi quattro versetti del capitolo 6 del Libro della Genesi, che fra un minuto leggeremo – più che i progenitori umani sembra investire un gruppo di esseri celesti di natura divina. Questa interpretazione – presente nel Libro di Enoc – tende a sollevare l’essere umano dalla responsabilità di avere introdotto nel mondo il dolore, la sofferenza e la morte, caratteristici della vita delle persone sulla terra, trasferendo questa responsabilità su esseri celesti incoscienti, scriteriati, insensati, stolti.
LEGERE MULTUM….
Libro della Genesi-In principio/Bereshìt 6, 1-4
1 Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nacquero loro figlie,
2 i figli di Dio [L’espressione figli di Dio indica non tanto una filiazione fisica, quanto piuttosto l’appartenenza ad un gruppo. L’espressione, quindi indica genericamente esseri appartenenti al mondo divino. La versione greca dei Settanta e il Libro apocrifo di Enoc, traduce l’espressione figli di Dio con il temine angeli nel tentativo di eliminare la possibile connotazione politeistica dell’espressione ebraica che raccoglie l’eco di miti antichi] videro che le figlie degli uomini erano belle e ne presero per mogli quante ne vollero.
3 Allora il Signore disse: «Il mio spirito non resterà sempre nell’uomo, perché egli è carne e la sua vita sarà di centoventi anni» [In definitiva il senso di questo versetto non è molto chiaro, si capisce che sullo sfondo emerge la contrapposizione tra lo spirito di Dio che dà la forza e la vita all’essere umano (lo stesso spirito che viene accordato al servo del Signore e che dà la capacità di governare e di giudicare) e la carne dell’uomo, che significa debolezza e fragilità. La menzione dei 120 anni della vita dell’uomo può essere intesa come un limite (non più di 120 anni) oppure come una scadenza (solo più 120 anni, ancora 120 anni), dopo di che il diluvio avrebbe distrutto ogni cosa].
4 C’erano sulla terra i giganti a quei tempi – e anche dopo – quando i figli di Dio si univano alle figlie degli uomini e queste partorivano loro dei figli: sono questi gli eroi dell’antichità, uomini famosi. [I giganti – secondo la tradizione mitica – abitavano nella regione di Hebron: a questo proposito c’è una citazione nel Libro dei Numeri al capitolo 13 versetto 33. Anche gli Egiziani attribuivano una statura eccezionale agli abitanti di questa regione, e probabilmente il mito dei giganti arriva nella terra di Canaan dall’Egitto. Il termine giganti rimanda ai mitici eroi dell’antichità – su cui si sofferma il Libro di Enoc – scomparsi dalla faccia della terra in seguito al diluvio].
Abbiamo letto: “I figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e ne presero per mogli quante ne vollero”. Questa è la premessa per un atteggiamento di superiorità, settario, violento, non paritario nei confronti delle donne che ha innescato una comprensibile reazione.
E ora avviamoci alla conclusione riprendendo, appunto, il tema che abbiamo lasciato in sospeso. Abbiamo detto che la “fonte jahvista” – che racconta per la seconda volta la creazione dell’uomo e della donna – porta alla ribalta un tema molto interessante: visto che i racconti della creazione sono due, si deve parlare di una prima donna o di due prime donne? Difatti corre voce – nella vasta tradizione orale dell’ebraismo – che essendo due le “fonti”: siano due anche le prime donne. Questa significativa questione ce la facciamo raccontare – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – da un autore che tutti conosciamo e che abbiamo incontrato più volte: Primo Levi. Primo Levi ha scritto dal 1975 una serie di brevi racconti che nel 1981 sono stati raccolti in un volume che s’intitola Lilìt ed altri racconti. Queste narrazioni sono state riunite in tre gruppi: nel primo gruppo, che riprende i temi di Se questo è un uomo e de La tregua, troviamo il racconto che s’intitola Lilìt. In queste storie, condensate ognuna in poche pagine, Primo Levi riesce a trasmettere alla lettrice e al lettore, un ricordo puntuale, uno stato d’animo, o anche solo una trovata originale. Scrive Primo Levi nell’introduzione: «In questo libro ci sono racconti allegri e tristi, perché i nostri giorni sono allegri e tristi. Non ci sono, che io sappia, né messaggi né profezie fondamentali; se la lettrice e il lettore ce li trova, è bontà sua». Primo Levi ha ragione: in questo libro non ci sono né messaggi di capitale importanza né profezie fondamentali, ma ci sono tante significative riflessioni delle quali possiamo fare tesoro. Chi è Lilìt? Lilìt è il personaggio mitico che vogliamo incontrare: lasciamo che sia Primo Levi a narrare, a farci riflettere e a farci conoscere – attraverso la voce di una persona che lui vuole commemorare – un gustoso frammento della sterminata tradizione orale dell’ebraismo che, più di ogni altra cosa, ha sostenuto tanti esseri umani nella prigionia.
LEGERE MULTUM….
Primo Levi, Lilìt ed altri racconti (1981)
Nel giro di pochi minuti il cielo si era fatto nero ed aveva cominciato a piovere. Poco dopo, la pioggia crebbe fino a diventare un acquazzone ostinato, e la terra grassa del cantiere si mutò in una coltre di fango profonda un palmo; non solo lavorare di pala, ma addirittura reggersi in piedi era diventato impossibile. Il Kapò interrogò il capomastro civile, poi si volse a noi; che ognuno andasse a ripararsi dove voleva. C’erano sparsi in giro diversi spezzoni di tubo di ferro, lunghi cinque o sei metri e del diametro di uno. Mi infilai dentro uno di questi, ed a metà tubo mi incontrai col Tischler, che aveva avuto la stessa idea ed era entrato dall’altra estremità.
... continua la lettura ...
In questo libro – che trovate in biblioteca – ci sono altri 35 racconti di queste dimensioni: la Scuola consiglia di leggerne uno al giorno secondo la regola del LEGERE MULTUM: così la lettura dura – più o meno – quanto è durato il “diluvio”. Ma il testo biblico, su quanto tempo dura il “diluvio”, è piuttosto contraddittorio e lo racconta in due modi diversi.
Per occuparci del “diluvio” la prossima settimana dovremo, per breve tempo, tornare a Babilonia, in biblioteca, perché dobbiamo consultare un libro con le pagine di argilla che racconta una famosa “Epopea” che, per prima nella Storia del Pensiero Umano, narra la storia del “diluvio”. Anche la storia del diluvio – come scrive Primo Levi per ricordare il falegname che non è tornato dalla deportazione – è una “favola pia ed empia, intessuta di poesia, di ignoranza, di acutezza temeraria, e della tristezza non medicabile che cresce sulle rovine delle civiltà perdute”. Ebbene anche la civiltà narrata nei primi cinque capitoli del Libro della Genesi è una “civiltà perduta”: ma, per fortuna, tutto, dopo il diluvio, ricomincia da capo: con che cosa, qual è il nuovo scenario?
Lo scopriremo la prossima settimana, e non dimenticate l’ombrello e le galoscie, ma non abbiate timore: la Scuola è un’arca, e di un’arca oggi avremmo bisogno, forse...