Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza poetica beritica 2008 14-15-16 maggio 2008
LA SEQUENZA DEI RACCONTI EPICI DEL DILUVIO: LA LINEA ADAMO NOÈ ABRAMO…
La scorsa settimana abbiamo puntato la nostra attenzione sulla “sequenza dei racconti epici delle origini” che possiamo leggere nei primi cinque capitoli del Libro della Genesi.
Questa sera ci occupiamo della sequenza successiva che gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale]hanno collocato dal versetto 5 del capitolo 6 al capitolo 10 del Libro della Genesi e che prende il nome di “sequenza dei racconti epici del diluvio”. L’idea di un “diluvio universale”, cioè della sommersione del mondo attraverso piogge torrenziali e persistenti provocate da uno o più dèi per punire gli esseri umani divenuti malvagi e irrispettosi e per far sorgere dai pochi scampati una nuova umanità, è comune a molte tradizioni culturali in aree diverse. Gli scrivani d’Israele hanno conosciuto la “saga del diluvio” in ambiente babilonese e sono proprio gli scrivani della seconda generazione dell’esilio a Babilonia a gettare le basi di questo grande racconto epico in chiave ebraica.
Da dove gli scrivani in esilio traggono ispirazione per scrivere i loro poemetti sul tema delle “origini” e sul tema del “diluvio”? Gli scrivani dell’esilio a Babilonia prendono spunto soprattutto da un’opera molto significativa che rappresenta il primo grande poema epico che si conosca: l’Epopea di Gilgamesh. Quest’opera – credo – sia nota a tutti [nei nostri Percorsi l’abbiamo incontrata più volte], tuttavia dobbiamo tornare a riflettere su di essa [non è detto che tutti la conoscano e, anche per chi sa già di che cosa si tratta, l’attività del ripasso è sempre utile] perché l’Epopea di Gilgamesh, in relazione alla Letteratura beritica, non investe solo il tema del “diluvio” ma interessa un’area di argomenti biblici molto più ampia.
Abbiamo detto che il tema del “diluvio” è comune a molte tradizioni culturali in aree diverse. Tra le versioni a noi più note figura il mito greco-orfico di Deucalione e di sua moglie Pirra, ripreso in lingua latina dal poeta Ovidio [43 a.C.-17 d.C.] nel Libro I e nel Libro VII delle Metamorfosi. Il mito greco-orfico di Deucalione e di sua moglie Pirra – c’informano le studiose e gli studiosi di filologia antica – è più recente rispetto ai miti mesopotamici sul “diluvio”, ma lasciamo che sia Ovidio, con i suoi versi, a raccontarci questo mito:
LEGERE MULTUM….
Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi (Libro I)
E già Zeus si accingeva a spargere folgori su tutta la terra, ma cominciò a temere che l’etere sacro s’incendiasse e facesse ardere il lungo asse celeste. Si ricordò anche che, per volere del Fato, si sarebbe giunti ad un’età in cui il mare e la terra sarebbero stati consumati dal Fuoco e poi sarebbe stata espugnata la reggia del cielo e la mirabile mole dell’universo sarebbe caduta in rovina. Mise così Zeus da parte le folgori fabbricate con abilità dai Ciclopi e scelse una differente pena: annientare sotto le onde la stirpe dei mortali e così fece scendere rovesci di pioggia da ogni plaga del cielo …
Disgustato dal cannibalismo degli empi Pelasgi, l’onnipotente Zeus lasciò che un’inondazione sommergesse la terra, intendendo distruggere tutta la razza umana, ma Deucalione, re di Ftia, avvertito da suo padre, il titano Prometeo, che era andato a visitare nel Caucaso, costruì un’arca, la calafatò e salì a bordo con Pirra, sua moglie, figlia di Epimeteo. Allora il vento del sud infuriò, la pioggia cadde e i fiumi ruggirono fino al mare che, alzandosi con velocità strepitosa, spazzò via ogni città dalle pianure e dalle coste, finché tutto il mondo fu sommerso, salvo poche alte cime montane, e tutte le creature mortali furono perdute, meno Deucalione e Pirra. L’arca navigò ancora per soli nove giorni finché le acque si acquietarono. E dove si fermò l’arca: sul monte Parnaso oppure sul monte Etna, sul monte Athos o sul monte Orthrys in Tessaglia? Deucalione fu rassicurato da una colomba che aveva mandato in esplorazione. Sbarcando al sicuro, gli ospiti dell’arca offersero un sacrificio al padre Zeus, protettore dei fuggitivi, e si inginocchiarono a pregare dinanzi all’ara della dea Temi, presso il fiume Cefiso; ora il tetto dell’arca era coperto da cortine di alghe e il suo altare era freddo. Essi pregarono umilmente perché l’umanità fosse rinnovata, e Zeus, sentendo di lontano le loro voci, mandò Ermes a rassicurarli, con la promessa che da quel momento qualsiasi loro richiesta sarebbe stata adempiuta.
Temi, la dèa, apparve di persona, dicendo: “Velate il vostro capo e gettate dietro di voi le ossa di vostra madre”. Siccome Deucalione e Pirra avevano madri diverse, morte entrambe, pensarono che la dea intendesse la madre Terra, le cui ossa erano le pietre che giacevano sulle rive del fiume. Allora, curvando la schiena e con mani ferme, sollevarono le pietre e le gettarono dietro le proprie spalle; esse si tramutarono in uomini e donne secondo che fossero gettate dalle mani di Deucalione o di Pirra. L’umanità venne dunque ripristinata e da allora un “popolo” [laos] e una “pietra” [laas] sono affini in diverse lingue. …
Negli ultimi due versi lo scrittore si diverte a fare il filologo e dopo aver colto l’occasione di citare Ovidio anche in questo Percorso [come succede puntualmente da circa venticinque anni a questa parte] torniamo alle versioni del “diluvio” attestate in ambiente mesopotamico.
Le versioni del “diluvio” attestate in ambiente mesopotamico sono quelle che c’interessano maggiormente perché sono anteriori e presentano precisi paralleli con le versioni del Libro della Genesi. Nell’Epopea di Gilgamesh il racconto del “diluvio” è contenuto nella tavola XI, dove però non è riportato il motivo che spinge gli dèi a provocare la catastrofe. Tale motivo è invece esplicitamente menzionato in un poema del periodo paleo-babilonese – che per alcuni aspetti è affine all’Epopea di Gilgamesh – e che s’intitola l’Epopea di Atrahasis. Nell’Epopea di Atrahasis la causa del diluvio viene individuata nell’eccessivo rumore prodotto sulla terra dagli esseri umani, moltiplicatisi a dismisura: il brusio degli umani infastidisce gli dèi [poi, in seconda battuta, si devono essere procurati i tappi per le orecchie visto che la confusione è aumentata ancora].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
La parola “diluvio” ricorda la pioggia, un fenomeno che può essere disastroso [il ricordo dell’alluvione è, per molte e molti di noi, sempre vivo] ma può anche essere benefico …
Era un giorno [o una notte] di pioggia … dove, quando, come, con chi?
Racconta, scrivi quattro righe in proposito [l’autobiografia ha anche i suoi lati umidi]…
Anche nell’Epopea di Atrahasis qualcuno si salva [altrimenti non saremmo qui] e tutto ricomincia da capo: in genere, il personaggio che scampa al diluvio viene considerato come un eroe e la sua figura viene anche divinizzata.
Gli scrivani d’Israele hanno certamente mutuato il racconto del “diluvio” dal mondo mesopotamico, in particolare dall’Epopea di Gilgamesh. Che cos’è l’Epopea di Gilgamesh? La “saga di Gilgamesh” è formata da una serie di racconti di origine sumera che hanno dato forma ad una composizione poetica unitaria che è diventata comune a tutto il mondo mesopotamico. L’Epopea di Gilgamesh è un poema eroico, con forti connotazioni liturgiche, di una sorprendente vitalità narrativa. Il nucleo originario di questa saga precede di circa un millennio e mezzo i poemi omerici e la Letteratura beritica, e questo fatto suscita la nostra curiosità e naturalmente ha suscitato soprattutto la curiosità delle studiose e degli studiosi di filologia antica.
Non è che si debba leggere l’Epopea di Gilgamesh perché è il poema più antico che si conosca: quest’opera merita di essere conosciuta – sebbene sia lacunosa e probabilmente incompleta – perché ci offre un’affascinante mistura di arcaicità e di raffinatezza di pensiero, ci offre episodi di grande bellezza e di forte intensità e, soprattutto, perché ci seduce la sua struttura: il testo dell’Epopea di Gilgamesh propone la ricerca della saggezza attraverso un viaggio avventuroso tanto nell’orrendo quanto nel meraviglioso.
A contatto con l’Epopea di Gilgamesh possiamo retrodatare il nostro essere di lettrici e di lettori intorno al 3000 a.C. o giù di lì e per questo siano lodati gli scribi mesopotamici che ci hanno lasciato questo testo – sebbene frammentario, ma questo non dipende da loro – in eredità.
La scoperta dell’Epopea di Gilgamesh – che va di pari passo con quella della civiltà sumerica – non manca di tratti bizzarri e anche comici, ed è una scoperta non ancora conclusa. Quando circa un secolo e mezzo fa si cominciò a scavare sotto la sabbia e dentro i cumuli di macerie della antica Mesopotamia alla ricerca di monumenti assiri e babilonesi, vennero alla luce decine di migliaia di tavolette d’argilla incise con caratteri cuneiformi e per il possesso di queste tavolette sono state compiute anche nefandezze piratesche. Nel 1853, nel sito di Ninive, scavavano i francesi e gli inglesi. La missione francese scoperse la biblioteca di Assurbanipal ma una notte, gli inglesi, avvertiti da un informatore, sottrassero dallo scavo quasi tutte le tavolette che finirono al British Museum. Il primo ad identificare frammenti dell’Epopea di Gilgamesh fu l’inglese George Smith, un appassionato e molto sagace topo di biblioteca, che decifrò un frammento della storia del “diluvio” nel 1872, e l’anno successivo s’improvvisò archeologo e andò a scoprire altre tavolette partendo per Ninive a spese del giornale Daily Tefegraph, che contava di far clamore rivelando al mondo i racconti che costituivano le fonti del Libro della Genesi.
Ma non sempre le tavolette più importanti per ricostruire la “saga di Gilgamesh” sono provenute dagli scavi: il primo testo paleo-babilonese del poema fu rinvenuto nel 1902 presso un antiquario di Bagdad, il quale aveva spezzato in due la tavoletta vendendone una parte a uno studioso inglese, e l’altra a uno tedesco. Soltanto nel 1964 i due frammenti sono stati riconosciuti quali componenti dello stesso testo.
Nella ricostruzione della “saga di Gilgamesh” sono state trovate molte notizie curiose, utili per capire il nostro passato, ma anche delle stranezze che contribuiscono a mantenere vivo il mistero. La decifrazione e l’identificazione delle tavolette con i segni cuneiformi ha permesso la conoscenza di una proto-storia mesopotamica nella quale i Sumeri spiccano quali primi civilizzatori della regione. Sumer era appunto il nome del territorio occupato da questo popolo ancora alquanto misterioso, né semita né indoeuropeo, al quale si deve l’invenzione della scrittura, dei caratteri cuneiformi incisi con lo stilo su molli tavolette d’argilla. Sebbene non abbiano inventato l’alfabeto, i Sumeri stabilirono una grafia fonetica basata sulla sillaba [hanno dato un simbolo non alle cose e alle idee come facevano gli Egizi ma ai suoni con cui viene pronunciata la parola]. Il territorio di Sumer, che significa «Terra coltivata», è la bassa Mesopotamia, la zona all’incirca compresa tra il Tigri e l’Eufrate dal Golfo Persico a poco oltre Bagdad.
Certamente all’origine della “saga di Gilgamesh” ci sono molti racconti indipendenti l’uno dall’altro, molte leggende orali, che si sono tramandate nel nome di questo eroe mitico, immaginato come sovrano della città-stato di Uruk. Il nome “Gilgamesh”, secondo le studiose e gli studiosi di filologia antica, significa «il vecchio diventa giovane», e questo significato [abbiamo parlato di stranezze] ha un rapporto strano e un po’ paradossale col testo, perché l’eroe non riesce affatto a recuperare la giovinezza e, se mai, è «un giovane che diventa inevitabilmente vecchio»: c’è una continuazione del poema che non conosciamo?
Allo stato attuale delle cose, le studiose e gli studiosi dispongono di cinque episodi sumerici, scritti tra il 2500 e il 2000 a.C., di una frammentaria composizione paleo-babilonese del tempo di Hammurabi [1800-1600 a.C.], di altri frammenti in varie lingue mesopotamiche, e di una tarda versione babilonese, la più ricca e organizzata, rinvenuta nella biblioteca di Assurbanipal, composta presumibilmente nel XII secolo a.C. da uno scriba o poeta riscrittore dal buffo nome di Sinleqiunnini. La “saga di Gilgamesh” si è dunque trasmessa per lunghissimo tempo, attraverso diverse redazioni e rifacimenti, in diverse lingue, senza che venisse mai cancellata la sua impronta numerica, e poi se n’è stata sepolta per millenni sotto la sabbia. Siccome gli archeologi continuano nelle loro ricerche e rinvengono ancora migliaia di tavolette, c’è da sperare che possano ritrovarsi altre redazioni, più complete, dell’Epopea.
Noi possiamo leggere il testo di questo poema reso in prosa e [diciamo così] “normalizzato” con l’aggiustamento dei passi oscuri e delle lacune, tutte modificazioni intese a rendere scorrevole il racconto. Il risultato di questa operazione è che il linguaggio epico originario si trasforma nel linguaggio della favola, creando meno emozioni ma facilitando la lettura. Ultimamente è stata realizzata un’edizione integrale della “saga di Gilgamesh”, tradotta verso per verso dall’originale cuneiforme dal professor Giovanni Pettinato. Questo lavoro ha tenuto conto di tutti i testi attualmente disponibili, in ordine cronologico rovesciato: si comincia con la tarda redazione babilonese attribuita allo scriba Sinleqiunnini, che è la più completa, poi seguono i brani e i frammenti delle redazioni precedenti [i brani ittiti e accadici sono stati tradotti dal professor Giuseppe Del Monte], infine troviamo gli episodi più arcaici del ciclo. Questo lavoro è diventato un testo, pubblicato col titolo La saga di Gilgamesh di Giovanni Pettinato [Rusconi Editore], che si trova facilmente in biblioteca e si rivolge prima di tutto alle specialiste e agli specialisti, ma non è detto che la lettrice e il lettore comune, come noi, non possa sfogliarlo, osservarlo e magari leggerne qualche pagina perché, oltre alle note puramente filologiche e quindi particolarmente tecniche, ci sono anche una serie di discorsivi commenti ai singoli episodi della saga e poi c’è un gustoso capitolo di Silvia Maria Chiodi sulla scoperta delle tavolette e la ricostruzione del testo con tanti aneddoti: alcuni li abbiamo ricordati.
Che cosa possiamo dire qui – col poco tempo che abbiamo a disposizione – di quest’opera così significativa: come possiamo farcene un’idea? Il sistema più utile – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – è quello di puntare l’attenzione sul protagonista.
Chi è Gilgamesh? Gilgamesh è un re destinato alla gloria dalla nascita, è per due terzi un dio e per un terzo è essere umano. In questo personaggio convivono, e forse si sciolgono alla fine, le tre “età” – l’età degli dèi, degli eroi e degli uomini – di cui ha parlato Giambattista Vico (1668-1744) nel suo famoso saggio La Scienza nuova, ed è davvero un peccato che Giambattista Vico sia morto prima delle scoperte archeologiche che avrebbero confortato le sue tesi. Gilgamesh è stato generato da esseri divini, è quindi un semidio, è un eroe destinato a soffrire e ad accettare la condizione umana. Elemento decisivo per la sua gloria è quello di essere “umano”, votato a memorabili imprese e al fallimento. Gilgamesh è uno straordinario eroe problematico perché è sospinto dall’angoscia e, quindi, lascia [diciamo così] in sospeso la propria epopea per fermarsi a riflettere e per porsi una serie incalzante di domande sulla sorte dell’essere umano nell’al di qua e nell’aldilà. Leggiamo il prologo del poema:
LEGERE MULTUM….
L’Epopea di Gilgamesh [Prologo]
Di Gilgamesh che vide ogni cosa voglio io narrare al mondo, / di colui che apprese ogni cosa rendendosi esperto di tutto. / Egli andò alla ricerca dei Paesi più lontani / e in ogni cosa raggiunse la completa saggezza. / Vide cose segrete scoprì cose nascoste, / riferì le leggende dei tempi prima del diluvio. / Percorse vie lontane finché, stanco e abbattuto, non si fermò / Egli fece incidere tutte le sue fatiche su una stele di pietra…
Se paragoniamo il prologo de L’Epopea di Gilgamesh con l’inizio dell’Odissea, oltre a qualche somiglianza, notiamo subito una radicale differenza. Il poema sumerico-babilonese annuncia la narrazione di un pellegrinaggio iniziatico alla ricerca di una conoscenza totale, delle cose ultime, mentre l’esordio dell’Odissea annuncia un viaggio romanzesco. Odisseo è l’uomo “multiforme [polytropon]”, ossia versatile, ingegnoso, pronto a misurarsi con le avversità, astutamente adattabile a qualsiasi circostanza. Gilgamesh, invece, è presentato come un grande costruttore e civilizzatore [ha edificato le mura di Uruk, ha aperto passi e ha scavato pozzi nei dirupi delle montagne]. Gilgamesh è un esploratore dei “confini del mondo” che va in cerca della vita eterna, è colui che è riuscito a raggiungere Utnapishtim [l’eroe sopravvissuto al Diluvio, l’unico uomo immortale] il “sopravissuto dalle acque di morte”. Gilgamesh diventa esperto di tutto compiendo fatiche, e perché queste siano tramandate ne fa incidere il racconto su una stele: è, dunque, il fondatore del poema, e, se non è il poeta vero e proprio, è l’ispiratore della poesia epica.
Le antichiste e gli antichisti pensano anche che le gesta dell’eroe mesopotamico, per alcuni tratti, abbiano ispirato i racconti delle famose fatiche di Eracle [o Ercole], il personaggio più popolare della mitologia greca: i parallelismi sono numerosi e l’epopea babilonese potrebbe essere giunta in Grecia dalla Fenicia.
Ma le affinità maggiori – come sappiamo – le troviamo tra l’Epopea di Gilgamesh e il Libro della Genesi. Il personaggio di Noè riprende la figura di Utnapishtim il quale racconta a Gilgamesh il mito del Diluvio. Quando gli dèi sumeri decidono di punire gli esseri umani e di mandare il diluvio, uno di loro, il dio della saggezza, avverte Utnapishtim con queste parole: «Abbatti la tua casa costruisci una nave, / abbandona la ricchezza, cerca la vita! / Disdegna i possedimenti, salva la vita! / fai salire sulla nave tutte le specie viventi!».
Alla narrazione del mito del diluvio si arriva attraverso una trama complessa in cui i personaggi hanno uno spessore enigmatico. Prendiamo, ad esempio, i rapporti tra Gilgamesh e il suo compagno di avventure Enkidu: all’inizio il re di Uruk è «uno scalpitante toro selvaggio», un capo possente, una «solida rete» a protezione dei suoi sudditi, però non ha limiti, non ha rivali e così comincia a opprimere il popolo chiamandolo continuamente a raccolta col suo tamburo per il piacere di vederlo correre, sottomesso ai suoi ordini. I lamenti dei cittadini di Uruk [che vorrebbero liberarsi di Gilgamesh] scuotono gli dèi, che incaricano la dea madre Aruru di creare un essere capace di contrastare l’ardore incontenibile di Gilgamesh e allora il poema racconta che «Aruru lavò le sue mani, / prese un grumo di creta e lo piantò nella steppa». Così nasce Enkidu, l’uomo primordiale e il poema lo descrive: «Tutto il suo corpo era coperto di peli, / la chioma era fluente come quella di una donna, / i ciuffi dei capelli crescevano lussureggianti come grano. / Egli non conosceva né la gente né il Paese; / indossava una pelle d’animale come Sumuqan [il dio del bestiame]. Con le gazzelle egli bruca l’erba, / con i bovini sazia la sua sete nelle pozze d’acqua. / Con le bestie selvagge, presso le pozze d’acqua, egli si soddisfa». Un cacciatore che lavora nella steppa catturando animali, lo vede e si spaventa, poi si consiglia col proprio padre, e questi lo manda in città da Gilgamesh, il quale affida al cacciatore la prostituta sacra Shamkhat, che seduce Enkidu e gli dona «l’arte della donna». Questo episodio è un capolavoro e non ha eguali nella tradizione della poesia pastorale. L’accoppiamento tra Enkidu e Shamkhat dura una settimana e non consiste solo in amplessi ma soprattutto è fatto di conversazione, e il selvaggio diventa intelligente, impara a mangiare il pane, e ad aiutare i pastori a difendere il gregge, così le bestie selvatiche impareranno a sfuggirlo.
Shamkhat conduce Enkidu da Gilgamesh e gli dice: «lo amerai come te stesso». I pastori, che vedono in lui un essere celeste disceso dalla montagna, trovano che «ha fattezze simili a quelle di Gilgamesh». E mentre Enkidu si avvia verso Uruk, il re sogna questo suo gemello come un «firmamento» che gli cade addosso, come un’ascia bipenne che si posa sulle strade della città, e nel sogno sente di amare tali presenze «come una moglie».
Enkidu sfida Gilgamesh, i due si affrontano sbuffando come tori; il testo in questo punto è un po’ lacunoso ma si capisce che la lotta è un rituale: tra i due, di colpo, nasce un’incomparabile amicizia. Gilgamesh ed Enkidu compiono insieme una serie di imprese straordinarie: conquistano la Foresta dei Cedri e uccidono il suo guardiano, un mostro che sputa fuoco di nome Khubaba [o Humbaba], poi abbattono il Toro del Cielo che la dea Ishtar [dea della guerra e dell’amore] ha aizzato contro di loro. La dea Ishtar è innamorata di Gilgamesh ma lui non la vuole sposare per la semplice ragione che lei ha trasformato i suoi precedenti mariti: uno in uccello a cui aveva spezzato le ali, uno in lupo a cui aveva spezzato i denti, uno in talpa a cui aveva cavato gli occhi. La dea Ishtar e tutta la corte divina punisce Gilgamesh facendo ammalare Enkidu.
La profonda relazione strutturale tra i due amici si rivela pienamente nel poema quando Enkidu muore e Gilgamesh, dopo averlo assistito amorevolmente, rimane solo. Il re si dispera e piange, Enkidu non lo ascolta più, il suo corpo è rigido: l’amico è entrato, come un sogno aveva predetto, nella Casa della polvere. Allora Gilgamesh è preso dall’angoscia, ha paura della morte, e intraprende il lungo viaggio verso il lontano Utnapishtim pronunciando queste parole: «Enkidu, l’amico mio che amo, è diventato argilla; / ed io non sono come lui? Non dovrò giacere pure io / e non alzarmi mai più per sempre?». Gilgamesh apprende da Utnapishtim di non essere destinato alla vita eterna. Perderà perfino la pianta della giovinezza, o dell’irrequietezza, che Utanapishtim gli permette di cogliere sotto le acque degli Inferi, perché un flessuoso serpente [lo stesso che ritroviamo nel giardino dell’Eden] gliela sottrarrà cambiando subito pelle.
Non resta al povero re di Uruk che pregare il dio della saggezza, il padre Ea, di riportargli Enkidu «trattenuto» dagli Inferi, perché almeno lo informi sulla sorte dell’essere umano nell’aldilà. Da una fessura, lo spirito di Enkidu esce come una folata di vento e «allora essi fecero per abbracciarsi, ma non vi riuscirono» e ci vengono in mente tanto il mancato abbraccio tra Odisseo e l’ombra della madre, quanto quello di Enea col fantasma della moglie Creusa. Ma nell’Epopea di Gilgamesh l’incontro ha una sconvolgente e cruda vitalità, non ha una pura valenza affettiva come nell’XI canto dell’Odissea e nel II libro dell’Eneide.
La “saga di Gilgamesh” ha tre conclusioni. Nella prima, l’eroe, dopo tante fatiche, torna a Uruk, si compiange per aver imparato come stanno le cose, ma gli resta la fierezza di governare la sua splendida città. La seconda conclusione prevede che Gilgamesh muore e diventa intermediario tra il mondo dei vivi e gli Inferi. La terza variante è la più spettacolare, è quella che fa terminare il poema col dialogo tra il re e lo spirito di Enkidu. In questo dialogo, teso per l’angosciosa curiosità di Gilgamesh, ci sono toni da commedia [è stato certamente scritto per essere recitato] come se l’antico autore sumerico [giacché il dialogo proviene dai testi più arcaici] avesse in mente un uditorio da ammonire, da far riflettere e da far divertire.
Che cosa ha visto Enkidu nella terra dei morti? Ha visto ricompense, castighi, rimpianti, ha visto l’eterna ripetizione della propria e dell’altrui sorte, ha visto anche qualcuno, che gli Inferi non trattengono, il cui spirito è volato in cielo. Insomma, nessuna novità: dai tempi dei Sumeri gli «ordinamenti» dell’aldilà sono tali e quali agli inconvenienti dell’al di qua.
Leggiamo il loro dialogo finale tra Gilgamesh e lo spirito di Enkidu:
LEGERE MULTUM….
L’Epopea di Gilgamesh [Dialogo finale tra Gilgamesh e lo spirito di Enkidu]
«Io non te li posso dire, amico mio, non te li posso dire! / Se io infatti ti dicessi gli ordinamenti degli Inferi che ho visto, / allora tu ti butteresti giù e piangeresti». / «Io mi voglio buttare giù e piangere». / «Il mio corpo, che tu potevi toccare e del quale il tuo cuore gioiva, / il mio corpo è mangiato dai vermi come un vecchio vestito. / Il mio corpo che tu potevi toccare e del quale il tuo cuore gioiva, / è come una crepa del terreno, piena di polvere inattiva».
«Hai visto colui che ebbe un solo figlio, l’hai visto?». «Sì, l’ho visto: egli piange amaramente vicino al chiodo piantato nel muro».
«Hai visto colui che ebbe due figli, l’hai visto?». «Sì, l’ho visto: egli siede su due mattoni e mangia pane».
«Hai visto colui che non ha eredi, l’hai visto?». «Sì, l’ho visto: come fosse mattone egli mangia pane».
«Hai visto il sovrintendente di Palazzo, l’hai visto?». «Sì, l’ho visto: come un incompetente capo operaio egli grida: Al lavoro! mentre se ne sta nell’ombra».
«Hai visto il giovane uomo che dopo le nozze non ha più corteggiato sua moglie, l’hai visto?». «Sì, l’ho visto: tu offri a lui una corda di salvataggio ed egli si lagna sopra di essa».
«Hai visto la giovane donna che lava le mutande a suo marito, unico gesto d’amore rimasto dopo le nozze, l’hai vista?». «Sì, l’ho vista: tu offri a lei una corda di salvataggio e lei piange su di essa».
«Hai visto colui che è morto prematuramente, l’hai visto?». «Sì, l’ho visto, egli giace in un letto e beve acqua pura».
«Hai visto colui il cui spirito non ha nessuno che si curi di lui, l’hai visto?». «Sì, l’ho visto: è costretto a mangiare i resti della ciotola, i rimasugli del cibo buttati per strada». …
Insomma che cosa vuole comunicare lo spirito di Enkidu a Gilgamesh? Che «gli ordinamenti» dell’aldilà si assomigliano agli inconvenienti dell’al di qua? Lo spirito di Enkidu fa solo delle allusioni a proposito degli «ordinamenti» dell’aldilà e a Gilgamesh non resta altro da fare che misurarsi sugli inconvenienti dell’al di qua. Come di re che è necessario migliorare le condizioni di vita nell’al di qua perché migliorino anche nell’al di là.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Qual è l’inconveniente, il disturbo, la seccatura, la grana, la rogna… che ti disturba di più in questo periodo?…
Scrivi quattro righe in proposito…
Ma torniamo all’inconveniente del “diluvio” che, tuttavia, si pone come un nuovo inizio del tempo e come un nuovo principio della storia, entrambi ormai distinti da un tempo e da una storia precedenti.
I racconti biblici del “diluvio” si presentano con il carattere di “seconda creazione” e gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] vogliono – come ormai sappiamo – utilizzare questa narrazione per mettere in evidenza il concetto della “berit”, l’idea del “patto di solidarietà” in modo da dare a questo principio, su cui si fonda l’unità dello Stato, un passato epico, un antecedente mitico. La creazione può essere anche buttata all’aria e sostituita con un’altra per il semplice motivo che c’è comunque un filo conduttore che tiene unito il divino con l’umano: è il “patto di solidarietà” sempre rilanciato dall’Essere divino verso quegl’esseri umani che si sono opposti a deturpare materialmente e moralmente la creazione rimanendo fedeli al patto solidale. Questo aspetto di rinnovamento del tempo e della storia riflette certamente anche l’idea di un fallimento dell’opera divina nella prima creazione che, dimostratasi incapace di funzionare, deve lasciare il posto ad una creazione nuova.
Gli scrivani d’Israele hanno mutuato il racconto del “diluvio” dall’Epopea di Gilgamesh ma naturalmente hanno reinterpretato profondamente questa narrazione rispetto al pensiero mesopotamico. Il motivo del diluvio è semplicemente indicato – dagli scrivani d’Israele – nella diffusione della malvagità e della corruzione del genere umano in seguito alla trasgressione dei progenitori nel giardino dell’Eden. In Noè – il “salvato dalle acque” – e nei suoi figli, Dio vuole fondare una nuova umanità. Per questo egli rivolge loro lo stesso invito che aveva rivolto alla prima coppia umana: «Siate fecondi e moltiplicatevi, e riempite la terra», questo invito lo troviamo nel Libro della Genesi tanto nel capitolo 1 al versetto 28 della “sequenza delle Origini” quanto nel capitolo 9 al versetto 1 della “sequenza del diluvio”.
Per gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale]tutto questo racconto deve fare da cornice al concetto della berit, del patto di solidarietà, la cui stipula troviamo descritta nel Libro della Genesi al capitolo 9 dal versetto 9 al versetto 17. Per gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] il “patto” – e lo ripetiamo – è uno dei due principi che reggono il Codice delle norme su cui si fonda l’unità dello Stato.
In questo racconto [fra un po’ lo leggiamo] troviamo anche l’episodio dell’impudenza di Cam, e della sua mancanza di rispetto nei confronti del padre Noè [Libro della Genesi capitolo 9 versetti 18-29]: questo episodio indica che il male continua ad essere presente anche nella nuova umanità scampata al castigo del “diluvio”.
Il racconto del “diluvio” rivela molto chiaramente la compresenza dei due classici strati di narrazione, uno più antico, di tradizione jahvista, composto in esilio a Babilonia dagli scrivani della seconda generazione e uno più recente, di tradizione elohista, rimaneggiato dagli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale]. La prima differenza più evidente tra i due racconti la si trova nel numero degli animali che Noè è invitato ad introdurre nell’arca: sette paia di ogni animale puro in un racconto, e due animali soltanto – una coppia – per ogni specie nell’altro racconto. L’altra differenza evidente la si trova nella durata del diluvio che è fissata in 40 giorni e 40 notti in un racconto e in 150 giorni nell’altro racconto.
Per quanto riguarda l’evento storico di un diluvio universale, si sono sempre rivelati vani i tentativi di metterlo in relazione con i periodi di disgelo di vaste proporzioni che si sarebbero verificati al termine delle ere glaciali. In realtà, l’obiettivo di questi racconti [l’obiettivo degli scrivani della sequenza dei grandi racconti epici], come quello di ogni mito, non è certo di riferire giornalisticamente un avvenimento storicamente identificabile. I racconti del diluvio conservano sicuramente l’eco di grandi disastri naturali verificatisi localmente, in regioni particolarmente esposte ma – come sappiamo – servono da cornice per mettere in evidenza l’idea del “patto” su cui fondare la Legge dello Stato.
E ora leggiamo il testo della sequenza del diluvio:
LEGERE MULTUM….
Libro della Genesi-In principio/Bereshìt 6, 5 9, 29
6.
5 Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male.
6 E il Signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo.
7 Il Signore disse: «Sterminerò dalla terra l’uomo che ho creato: con l’uomo anche il bestiame e i rettili e gli uccelli del cielo, perché sono pentito d’averli fatti».
8 Ma Noè trovò grazia agli occhi del Signore.
9 Questa è la storia di Noè. Noè era uomo giusto e integro tra i suoi contemporanei e camminava con Dio.
10 Noè generò tre figli: Sem, Cam e Iafet.
11 Ma la terra era corrotta davanti a Dio e piena di violenza.
12 Dio guardò la terra ed ecco essa era corrotta, perché ogni uomo aveva pervertito la sua condotta sulla terra.
13 Allora Dio disse a Noè: «È venuta per me la fine di ogni uomo, perché la terra, per causa loro, è piena di violenza; ecco, io li distruggerò insieme con la terra.
14 Fatti un’arca di legno di cipresso [il cipresso è la metafora del “potere civile”]; dividerai l’arca in scompartimenti e la spalmerai di bitume dentro e fuori.
15 Ecco come devi farla: l’arca avrà trecento cubiti di lunghezza, cinquanta di larghezza e trenta di altezza [Il cubito corrisponde a circa 45 cm.].
16 Farai nell’arca un tetto e a un cubito più sopra la terminerai; da un lato metterai la porta dell’arca. La farai a piani: inferiore, medio e superiore [Questa descrizione non corrisponde a quella di un’imbarcazione vera e propria, con tanto di prua, poppa e ponte. L’arca ha la stessa architettura di un tempio (ricorda anche gli ziqqurat babilonesi e la radice mesopotamica del racconto), quindi l’arca è fatta di cipresso e ha forma di un tempio in modo che il potere civile e il potere religioso siano affiancati: questi sono interventi da “codice deuteronomico” che gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] legano al “codice elohista”].
17 Ecco io manderò il diluvio, cioè le acque, sulla terra, per distruggere sotto il cielo ogni carne, in cui è alito di vita; quanto è sulla terra perirà.
18 «Ma con te io stabilisco la mio patto di solidarietà (la berit). Entrerai nell’arca tu e con te i tuoi figli, tua moglie e le mogli dei tuoi figli.
19 Di quanto vive, di ogni carne, introdurrai nell’arca due di ogni specie, per conservarli in vita con te: siano maschio e femmina.
20 Degli uccelli secondo la loro specie, del bestiame secondo la propria specie e di tutti i rettili della terra secondo la loro specie, due d’ognuna verranno con te, per essere conservati in vita.
21 Quanto a te, prenditi ogni sorta di cibo da mangiare e raccoglilo presso di te: sarà di nutrimento per te e per loro».
22 Noè eseguì tutto; come Dio gli aveva comandato, così egli fece.
7.
1 Il Signore disse a Noè: «Entra nell’arca tu con tutta la tua famiglia, perché ti ho visto giusto dinanzi a me in questa generazione.
2 D’ogni animale puro prendine con te sette paia, il maschio e la sua femmina; degli animali che non sono puri un paio, il maschio e la sua femmina.
3 Anche degli uccelli puri del cielo, sette paia, maschio e femmina, per conservarne in vita la razza su tutta la terra [Nel capitolo precedente gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] pensano di assicurare la sopravvivenza di tutte le specie viventi, per cui è sufficiente una coppia di animali per ciascuna specie, per il racconto jahvista, invece il numero di animali da introdurre nell’arca deve essere maggiore perché alcuni di essi saranno più tardi offerti – quelli puri – in sacrificio].
4 Perché tra sette giorni farò piovere sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti; sterminerò dalla terra ogni essere che ho fatto».
5 Noè fece quanto il Signore gli aveva comandato.
6 Noè aveva seicento anni, quando venne il diluvio, cioè le acque sulla terra.
7 Noè entrò nell’arca e con lui i suoi figli, sua moglie e le mogli dei suoi figli, per sottrarsi alle acque del diluvio.
8 Degli animali puri e di quelli immondi, degli uccelli e di tutti gli esseri che strisciano sul suolo
9 entrarono a due a due con Noè nell’arca, maschio e femmina, come Dio aveva comandato a Noè.
10 Dopo sette giorni, le acque del diluvio furono sopra la terra;
11 nell’anno seicentesimo della vita di Noè, nel secondo mese, il diciassette del mese, proprio in quello stesso giorno, eruppero tutte le sorgenti del grande abisso e le cateratte del cielo si aprirono [Qui ci ricorda il racconto del diluvio nella Metamorfosi di Ovidio che riprende il mito greco il quale a sua volta si rifà alla mitologia fenicia.].
12 Cadde la pioggia sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti.
13 In quello stesso giorno entrò nell’arca Noè con i figli Sem, Cam e Iafet, la moglie di Noè, le tre mogli dei suoi tre figli:
14 essi e tutti i viventi secondo la loro specie e tutto il bestiame secondo la sua specie e tutti i rettili che strisciano sulla terra secondo la loro specie, tutti i volatili secondo la loro specie, tutti gli uccelli, tutti gli esseri alati.
15 Vennero dunque a Noè nell’arca, a due a due, di ogni carne in cui è il soffio di vita.
16 Quelli che venivano, maschio e femmina d’ogni carne, entrarono come gli aveva comandato Dio: il Signore chiuse la porta dietro di lui.
17 Il diluvio durò sulla terra quaranta giorni: le acque crebbero e sollevarono l’arca che si innalzò sulla terra.
18 Le acque divennero poderose e crebbero molto sopra la terra e l’arca galleggiava sulle acque.
19 Le acque si innalzarono sempre più sopra la terra e coprirono tutti i monti più alti che sono sotto tutto il cielo.
20 Le acque superarono in altezza di quindici cubiti i monti che avevano ricoperto.
21 Perì ogni essere vivente che si muove sulla terra, uccelli, bestiame e fiere e tutti gli esseri che brulicano sulla terra e tutti gli uomini.
22 Ogni essere che ha un alito di vita nelle narici, cioè quanto era sulla terra asciutta morì.
23 Così fu sterminato ogni essere che era sulla terra: con gli uomini, gli animali domestici, i rettili e gli uccelli del cielo; essi furono sterminati dalla terra e rimase solo Noè e chi stava con lui nell’arca.
24 Le acque restarono alte sopra la terra centocinquanta giorni.
8.
1 Dio si ricordò di Noè, di tutte le fiere e di tutti gli animali domestici che erano con lui nell’arca. Dio fece passare un vento sulla terra e le acque si abbassarono.
2 Le fonti dell’abisso e le cateratte del cielo furono chiuse e fu trattenuta la pioggia dal cielo; 3 le acque andarono via via ritirandosi dalla terra e calarono dopo centocinquanta giorni.
4 Nel settimo mese, il diciassette del mese, l’arca si posò sui monti dell’Ararat [I monti dell’Ararat (in babilonese Urartu) indicano le catene montuose che si estendono a nord dell’Assiria e nella parte meridionale del Caucaso.].
5 Le acque andarono via via diminuendo fino al decimo mese. Nel decimo mese, il primo giorno del mese, apparvero le cime dei monti.
6 Trascorsi quaranta giorni, Noè aprì la finestra che aveva fatta nell’arca e fece uscire un corvo per vedere se le acque si fossero ritirate.
7 Esso uscì andando e tornando finché si prosciugarono le acque sulla terra.
8 Noè poi fece uscire una colomba, per vedere se le acque si fossero ritirate dal suolo;
9 ma la colomba, non trovando dove posare la pianta del piede, tornò a lui nell'arca, perché c’era ancora l’acqua su tutta la terra. Egli stese la mano, la prese e la fece rientrare presso di sé nell’arca [Secondo la tradizione babilonese vengono rilasciati successivamente tre uccelli: il corvo, la colomba e la rondine. Nel racconto beritico, il corvo perde molta dell’importanza che riveste nel racconto babilonese a favore della colomba, simbolo di fecondità].
10 Attese altri sette giorni e di nuovo fece uscire la colomba dall’arca
11 e la colomba tornò a lui sul far della sera; ecco, essa aveva nel becco un ramoscello di ulivo. Noè comprese che le acque si erano ritirate dalla terra.
12 Aspettò altri sette giorni, poi lasciò andare la colomba; essa non tornò più da lui.
13 L’anno seicentouno della vita di Noè, il primo mese, il primo giorno del mese, le acque si erano prosciugate sulla terra; Noè tolse la copertura dell’arca ed ecco la superficie del suolo era asciutta.
14 Nel secondo mese, il ventisette del mese, tutta la terra fu asciutta [Secondo il racconto del codice elohista, il diluvio, iniziato il 17° giorno del secondo mese, con le acque che restano alte sulla terra per 150 giorni, si conclude un anno e dieci giorni dopo, il 27° giorno del secondo mese. Secondo il racconto del codice jahvista, invece, esso dura solo 40 giorni: gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] hanno voluto includere tutte le tradizioni conosciute e le hanno magistralmente intersecate interpolando, ogni tanto, un tassello dal codice deuteronomista, perché il loro intento – come sappiamo – è fondamentalmente di carattere legislativo].
15 Dio ordinò a Noè:
16 «Esci dall’arca tu e tua moglie, i tuoi figli e le mogli dei tuoi figli con te.
17 Tutti gli animali d’ogni specie che hai con te, uccelli, bestiame e tutti i rettili che strisciano sulla terra, falli uscire con te, perché possano diffondersi sulla terra, siano fecondi e si moltiplichino su di essa».
18 Noè uscì con i figli, la moglie e le mogli dei figli.
19 Tutti i viventi e tutto il bestiame e tutti gli uccelli e tutti i rettili che strisciano sulla terra, secondo la loro specie, uscirono dall’arca.
20 Allora Noè edificò un altare al Signore: prese ogni sorta di animali puri e di uccelli puri e offrì olocausti sull’altare.
21 Il Signore ne odorò la soave fragranza e pensò: «Non maledirò più il suolo a causa dell’uomo, perché l’istinto del cuore umano è incline al male fin dalla adolescenza; né colpirò più ogni essere vivente come ho fatto.
22 Finché durerà la terra, seme e messe, freddo e caldo, estate e inverno, giorno e notte non cesseranno».
9.
1 Dio benedisse Noè e i suoi figli e disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite la terra.
2 Il timore e il terrore di voi sia in tutte le bestie selvatiche e in tutto il bestiame e in tutti gli uccelli del cielo. Quanto striscia sul suolo e tutti i pesci del mare sono messi in vostro potere.
3 Quanto si muove e ha vita vi servirà di cibo: vi do tutto questo, come già le verdi erbe.
4 Soltanto non mangerete la carne con la sua vita, cioè il suo sangue [Nel pensiero dei popoli antichi c’è un rapporto strettissimo tra la vita e il sangue (in ebraico c’è una sola parola per definire “vita” e “sangue”. Il divieto di cibarsi del sangue o di carni non perfettamente dissanguate costituisce ancora oggi una delle regole alimentari fondamentali dell’ebraismo.].
5 Del sangue vostro anzi, ossia della vostra vita, io domanderò conto; ne domanderò conto ad ogni essere vivente e domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello.
6 Chi sparge il sangue dell’uomo dall’uomo il suo sangue sarà sparso, perché ad immagine di Dio Egli ha fatto l’uomo.
7 E voi, siate fecondi e moltiplicatevi, siate numerosi sulla terra e dominatela».
8 Dio disse a Noè e ai suoi figli con lui:
9 «Quanto a me, ecco io stabilisco il mio patto (berit) con voi e con i vostri discendenti dopo di voi;
10 con ogni essere vivente che è con voi, uccelli, bestiame e bestie selvatiche, con tutti gli animali che sono usciti dall’arca.
11 Io stipulo il mio patto (berit) con voi: non sarà più distrutto nessun vivente dalle acque del diluvio, né più il diluvio devasterà la terra».
12 Dio disse: «Questo è il segno del patto (berit), che io pongo tra me e voi e tra ogni essere vivente che è con voi per le generazioni eterne.
13 Il mio arco pongo sulle nubi ed esso sarà il segno dell’alleanza tra me e la terra.
14 Quando radunerò le nubi sulla terra e apparirà l’arco sulle nubi
15 ricorderò il patto (berit) che è tra me e voi e tra ogni essere che vive in ogni carne e non ci saranno più le acque per il diluvio, per distruggere ogni carne.
16 L’arco sarà sulle nubi e io lo guarderò per ricordare l’alleanza eterna tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne che è sulla terra».
17 Disse Dio a Noè: «Questo è il segno dell’alleanza che io ho stabilito tra me e ogni carne che è sulla terra» [Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] connotano i diversi patti che Dio ha stipulato con gli umani con un segno, con un simbolo: l’arcobaleno per Noè; la circoncisione per Abramo; le tavole della legge per Mose.].
18 I figli di Noè che uscirono dall’arca furono Sem, Cam e Iafet; Cam è il padre di Canaan. [La tradizione jahvista collega Canaan a Cam, figlio di Noè, ma la parola Canaan è uno dei nomi dell’Egitto (Kemet) che dominò questa regione dal XVI al XII secolo a.C.].
19 Questi tre sono i figli di Noè e da questi fu popolata tutta la terra.
20 Ora Noè, coltivatore della terra, cominciò a piantare una vigna [Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] vogliono far intendere che l’umanità con Noè passa dallo stadio nomade, caratterizzato da un’economia prevalentemente basata sulla pastorizia, a quello sedentario, con l’inizio dell’attività agricola].
21 Avendo bevuto il vino, si ubriacò e giacque scoperto all’interno della sua tenda.
22 Cam, padre di Canaan, vide il padre scoperto e raccontò la cosa ai due fratelli che stavano fuori.
23 Allora Sem e Iafet presero il mantello, se lo misero tutti e due sulle spalle e, camminando a ritroso, coprirono il padre scoperto; avendo rivolto la faccia indietro, non videro il padre scoperto.
24 Quando Noè si fu risvegliato dall’ebbrezza, seppe quanto gli aveva fatto il figlio minore;
25 allora disse: «Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà per i suoi fratelli!».
26 Disse poi: «Benedetto il Signore, Dio di Sem, Canaan sia suo schiavo!
27 Dio conceda spazio a Iafet e questi dimori nelle tende di Sem, Canaan sia suo schiavo!» [Questa condanna di Canaan, figlio di Cam, che ha visto la nudità di Noè, è un espediente letterario messo in atto dagli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] per preparare l’entrata in scena dell’importante personaggio, discendente di Sem che sarà il capostipite del popolo di Israele: Abramo.].
28 Noè visse, dopo il diluvio, trecentocinquanta anni.
29 L’intera vita di Noè fu di novecentocinquanta anni, poi morì…
Il capitolo 10 del Libro della Genesi – confezionato dagli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] – è simile al capitolo 5 [il capitolo 5 contiene l’elenco dei patriarchi da Adamo a Noè ed è il punto strategico da cui bisogna cominciare a leggere il testo del Libro della Genesi, e così abbiamo fatto due itinerari fa], il capitolo 10 del Libro della Genesi contiene “l’elenco dei popoli della terra”, riformatisi dopo il diluvio, ed è, in pratica, una “genealogia” dei discendenti di Noè e noi sappiamo già quale importanza ha questo termine nel movimento della “sapienza poetica beritica”: la “genealogia” è uno dei modi con cui si attua la creazione.
Nel capitolo 11 troviamo il famoso racconto de “La torre di Babele”. I temi legati a questo racconto sono due: quello della “città” e quello della “torre”. Entrambi questi temi sono presentati sotto una luce negativa, come tentativi messi in atto dalla nuova umanità, scampata al diluvio, per vanificare, ancora una volta, il progetto divino. Il vedere nella città di Babele – che qui rappresenta la metropoli di Babilonia – un male è un richiamo fatto dagli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] perché non ci si dimentichi dell’esilio ed è un ammonimento a non sottovalutare il rischio, sempre presente, di perdere anche quel po’ di autonomia acquisita dopo l’Editto di Ciro. Questo racconto conserva l’eco delle difficoltà connesse con la costruzione del nuovo Stato giudaico: un argomento che abbiamo studiato e che ci permette – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – di accostarci alla Letteratura beritica con maggiore cognizione di causa.
Con il tema della “torre” gli scrivani d’Israele riprendono certe tradizioni arcaiche, secondo le quali determinati esseri privilegiati [antenati, eroi, re, sacerdoti] salivano in cielo servendosi di un albero, di una lancia, di una corda o di una catena di frecce. Nelle leggende, però, questa possibilità di ascensione s’interrompe con la fine dell’epoca mitica primordiale, o è comunque votata al fallimento.
Non è facile – per le studiose e gli studiosi – stabilire con precisione da quali testi, da quali oggetti, gli scrivani d’Israele abbiano attinto i materiali che utilizzano in questo racconto. Certo, per quanto riguarda la provenienza geografica, la torre di Babele [di Babilonia] è uno ziqqurat babilonese, e poi la menzione dell’uso di mattoni cotti e di bitume invece della calce coincide perfettamente con quanto la moderna indagine archeologica ha potuto appurare a proposito delle civiltà mesopotamiche. Si riteneva che lo ziqqurat avesse le fondamenta nell’ombelico della terra e la punta in cielo e quindi, salendo i piani di uno ziqqurat, il re o il sacerdote raggiungevano ritualmente, vale a dire simbolicamente, allegoricamente, le regioni celesti. Gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia hanno inserito questo materiale leggendario nella sequenza in cui narrano la storia delle origini dell’umanità: hanno reinterpretato questa saga per ammonire la comunità dei deportati a restare unita. Nessuno della comunità in esilio – molti erano tentati e molti avevano ceduto – doveva salire sulle torri dei nemici [dovevano fare carriera] per acquisire privilegi rispetto agli altri perché questo fatto creava incomunicabilità, dava addito all’incomprensione e rompeva l’unità tra gli esiliati mettendo in rilievo le differenze tra le categorie. Così gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], dopo l’esilio, hanno utilizzato questo materiale come un ammonimento ai singoli e alle varie classi sociali – come abbiamo studiato – a non mettere in atto forme di prevaricazione in modo da costruire attraverso “patti di solidarietà” l’unità dello Stato.
L’insediamento in una città – nel racconto della torre di Babele – viene inteso come una disobbedienza al comandamento divino che imponeva di popolare tutta la terra [ai progenitori prima, a Noè e ai suoi figli dopo], e questo atteggiamento, ad arroccarsi nella propria potenza, viene punito con la dispersione e con la confusione delle lingue. Così – secondo gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] – il Signore seminerà dispersione e confusione se nel nuovo Stato, in via di costituzione, ognuno non riconoscerà la Legge uguale per tutti, da diffondere su tutto il territorio.
Il racconto della costruzione della torre viene presentato anche come una hybris [una sostituzione] imperdonabile, vale a dire come il tentativo da parte dell’essere umano di mettersi al posto della divinità.
Il racconto della costruzione della torre di Babele – nell’ottica politica degli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] – rimanda alla “sequenza dell’esodo”, che è già stata predisposta, in cui Mosè non sale su una torre per mettersi al posto di Dio, ma sale sul monte [si assume una responsabilità], a nome di tutto il popolo, non per mettere in atto una gloriosa celebrazione di potenza ma per ricevere il fardello della Legge. E la Legge serve – innanzi tutto – per dare dei limiti, dei perimetri, ai poteri fondamentali che ha lo Stato e per diffondere, nei membri della comunità, lo spirito di servizio e il senso del dovere. Quando nella comunità umana non ci sono regole che perimetrano i poteri [è la separazione dei poteri che li rendende strumenti di servizio] si genera la dispersione e la confusione, mentre lo spirito di servizio e il senso del dovere sono i presupposti per costruire una “società salvata”. Questo concetto è sottolineato nel racconto – dagli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] – mediante la caratteristica formula contenuta nel versetto 9 del capitolo 11 del Libro della Genesi: «Per questo la città fu chiamata Babele, perché è lì che il Signore confuse la lingua di tutta la terra», in questo versetto c’è un significativo gioco di parole, non rilevabile in italiano, tra il nome della città [bbl] e la radice bll che significa “mescolare, confondere”.
E ora leggiamo il racconto de “La torre di Babele”:
LEGERE MULTUM….
Libro della Genesi-In principio/Bereshìt 11, 1-9 …
11.
1 Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole.
2 Emigrando dall’oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono.
3 Si dissero l’un l’altro: «Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco». Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento [Gli scavi archeologici hanno confermato che, nell’antica Mesopotamia, l’uso di mattoni fatti di terra argillosa e poi cotti o fatti essiccare al sole e cementati con bitume era molto diffuso per le costruzioni al posto della pietra, non molto abbondante. Con questo materiale erano costruite le grandi torri a gradinate, dette ziqqurat (collina del cielo, montagna degli dèi), cui il racconto fa qui indirettamente allusione. Sulla terrazza più alta di queste torri, che si riteneva toccasse il cielo, era situata la dimora degli dèi.].
4 Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome per non disperderci su tutta la terra» [Questo versetto vuole esprimere il pensiero degli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] che vogliono assicurare l’unità al nuovo Stato giudaico scongiurando forme di chiusura individualistica, tribale e corporativa. ].
5 Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo.
6 Il Signore disse: «Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile.
7 Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro».
8 Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città.
9 Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra [in questo versetto gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale]collegano per assonanza il nome della città (ebraico babel) con la radice ebraica balal, che, appunto, significa “confondere, mescolare”.]…
Il capitolo 11 del Libro della Genesi non contiene solo il racconto dell’episodio della torre di Babele, che si sviluppa per 9 versetti, ma dal versetto 10 al versetto 32, riporta – confezionata dagli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] –una terza genealogia: l’elenco dei discendenti di Sem fino ad Abramo. Questa terza genealogia serve per introdurre il capitolo 12 e per far entrare in scena un personaggio chiave: Abramo.
Il ciclo dei racconti relativi ad Abramo e alla sua discendenza è costituito da tradizioni differenti [già elaborate nelle Scuole di costruzione del testo della seconda generazione di scrivani in esilio a Babilonia], che sono state riunite insieme dagli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], dopo l’esilio, con l’intento di costruire una storia unitaria intorno a quello che doveva apparire come l’evento principale: la berit, il “patto” stipulato tra il Signore e l’antenato fondatore. Un patto – secondo i racconti mitici – suggellato dalla promessa di molte benedizioni e della terra di Canaan.
Nel momento in cui il testo del ciclo dei racconti epici relativi ad Abramo era, per mano degli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], in via di messa in ordine, si stava costituendo – in virtù dell’Editto di Ciro – il nuovo Stato giudaico e questo fatto [come sappiamo] condiziona la costruzione del Libro della Genesi e di tutta la Letteratura beritica. Quindi “l’operazione Abramo” e “l’invenzione dei patriarchi” ha come obiettivo quello di esaltare il concetto della berit, del “patto di solidarietà”, che conduce al concetto della Torah, della “Legge uguale per tutti”, perché è su queste due idee fondamentali che gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] vanno componendo la Scrittura come se fosse la “costituzione” del nuovo Stato giudaico.
Se la “sequenza dei racconti sui progenitori” narra, in modo leggendario, come si sono costituite le antiche comunità tribali, la “sequenza dei racconti su Abramo” narra, in modo mitico, su che cosa si fonda l’idea dell’unità dello Stato [che rispecchia l’idea dell’unicità di Dio]. Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] utilizzano la figura di Abramo come un faro che deve illuminare tutta la trafila successiva [tutto il lungo itinerario che, come sappiamo, è stato costruito a ritroso]: una trafila che – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – abbiamo osservato, nelle sue grandi linee, strada facendo in questi otto mesi.
Gli scrivani dell’esilio e del post-esilio – in questa lunga sequenza di sequenze che dà forma al canone giudaico-palestinese della Bibbia – hanno voluto affermare [e lo abbiamo studiato] che l’unità dello Stato [che si rispecchia nell’unicità di Dio] è conforme all’idea della “sovranità”, ma hanno voluto ribadire che la “sovranità” può esistere soltanto in concomitanza con il concetto della “servitù”. La “sovranità” può esistere solo se in ciascun membro della comunità umana si manifestano lo “spirito di servizio” e il “senso del dovere” e perché questo avvenga – secondo lo stile del proclama di Amos [che è anche uno stile letterario ma soprattutto è uno stile di vita] – bisogna che la persona impari a prendere coscienza di se stessa [a fare patti di solidarietà] e ad assumersi delle responsabilità [a rispettare la Legge uguale per tutti]: bisogna che la persona impari a “tornare a se stessa”, impari ad “andare verso se stessa”, impari a “risalire alla propria interiorità”.
Ebbene, il personaggio di Abramo è chiamato, prima di tutto, a rappresentare la figura del “capostipite” proprio secondo questa linea. Abramo, secondo gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], rappresenta la luce che deve rischiarare la coscienza individuale perché la “terra promessa” corrisponde a “l’interiorità della persona”. E l’interiorità della persona è il luogo della presa di coscienza e dell’assunzione di responsabilità, che sono gli elementi attraverso i quali si manifesta lo “spirito di servizio [la berit]” e il “senso del dovere [la Torah]” cioè i principi per cui esiste il concetto della “sovranità” nel quale si conforma l’idea dell’unità dello Stato [e dell’unicità di Dio]. Abramo, quindi, è il motore di questo percorso ed è il simbolo della persona che impara a “tornare a se stessa”, che impara ad “andare verso se stessa”, che impara a “risalire alla propria interiorità”. Questo è il senso che gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] vogliono dare ai racconti del ciclo di Abramo e a tutta la sequenza dei patriarchi, difatti il personaggio di Abramo viene fatto entrare sulla scena con questa prerogativa.
E, a questo punto, per capire la riflessione che abbiamo fatto, è necessario leggere un solo versetto: il primo – famosissimo – versetto del capitolo 12 del Libro della Genesi. Il ciclo di Abramo va dal capitolo 12 alla metà del capitolo 25 del Libro della Genesi e la Scuola consiglia la lettura di questi episodi molto conosciuti. Il testo in ebraico del primo versetto del capitolo 12 del Libro della Genesi è la chiave che apre la porta alla comprensione del significato del canone giudaico-palestinese. Quali sono le parole ebraiche con cui Abramo viene chiamato a mettersi in cammino? Queste parole contengono il senso di ciò che abbiamo detto.
Leggiamo il primo versetto del capitolo 12 del Libro della Genesi secondo la versione del canone giudaico-palestinese.
LEGERE MULTUM….
Libro della Genesi-In principio/Bereshìt 12, 1
Il Signore disse ad Abram: «Lascia la tua terra, la tua tribù, la casa di tuo padre e [lekh-lekha] torna a te stesso [nella traduzione greca abbiamo: “vai nella terra che io ti indicherò” e secondo il pensiero ellenistico-alessandrino il concetto di “terra promessa” corrisponde all’idea de “l’interiorità della persona”]»…
In questo versetto risalta lo straordinario ammonimento “Torna a te stesso [lekh-lekha]”. Siamo sul ramo dell’Età assiale della storia dove si concentrano pensieri comuni: l’ammonimento “Torna a te stesso [lekh-lekha]” dato ad Abramo nella terra di Canaan corrisponde a quello dei sacerdoti di Menfi, in Egitto, che scrivono: “Ascolta il tuo cuore”, corrisponde a quello di Eraclito, nella Ionia orfica, che sussurra: “Conosci te stesso”, corrisponde a quello di Siddarta, in India, a Benares, che bisbiglia: “Diventa ciò che sei”, corrisponde a quello di Zaratustra, sull’altopiano iraniano, che mormora: “Fai luce nella tua interiorità”, corrisponde a quello di Confucio, in Cina, che brusisce: “La regola è dentro di te”.
Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] si pongono [insieme a quelli che abbiamo citato] indirettamente ma inequivocabilmente una domanda fondamentale dell’Età assiale della storia: “Che cos’è l’essere umano?”.
Questo versetto è speculare al versetto 9 del capitolo 3 del Libro della Genesi dove troviamo l’inquietante domanda: “Adamo, dove sei?”, rivolta da Dio ai progenitori che si sono nascosti. Dio, che è onnisciente, sa benissimo dove si nascondono i progenitori e questa domanda allegorica ha un senso perché è posta a ogni persona, in ogni tempo e in ogni luogo, è posta alla persona che nascondendosi, cerca di nascondersi a se stessa. L’essere umano per la sua crescita, e per raggiungere l’autenticità, deve – secondo gli scrivani d’Israele e tutti i saggi dell’Età assiale – innanzitutto “tornare a se stesso: lekh-lekha, va’ verso te stesso”, quindi deve ritrovare se stesso, deve raggiungere il proprio destino, deve risalire alla fonte della sua coscienza. Quindi la persona – secondo gli scrivani d’Israele – deve fare della sua vita un “cammino”, rispondendo alla domanda: “Dove sei?” senza tentativi di nascondimento o affermazioni di impotenza. Davanti alla persona sta una via particolare, sta una strada sua propria e nessun tentativo di imitazione di ciò che è già stato percorso è possibile – sarebbe una sterile ripetizione – e non c’è pericolo che la propria via escluda ad altri la loro via perché non c’è una via unica, e quindi occorre scegliere la propria, e scegliere – secondo gli scrivani d’Israele e i saggi dell’Età assiale – significa anche rinunciare. Qualunque sia la via scelta, se essa è la propria via e se la si persegue con fedeltà e perseveranza, alla fine si conosce la gioia, la bellezza, la pienezza, e quindi il cammino percorso può aprirsi agli altri, ed è aprendosi agli altri che – secondo gli scrivani d’Israele e dei saggi dell’Età assiale – si realizza il comandamento riassuntivo del Deuteronomio: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutto il tuo essere, con tutte le tue forze, amerai il prossimo tuo come te stesso”.
Ed è necessario allora, per compiere la grande opera sul modello di Abramo, iniziare da se stessi, percorrere il cammino della “teshuvà”, del “ritorno” [in greco è epistrophέ l’epistrophé – il viaggio di ritorno verso l’Uno – di Ammonio e di Plotino], e quindi affiancare le altre persone con la coscienza che si può contribuire alla trasformazione del mondo solo attraverso la propria trasformazione. “Torna a te stesso” dice – secondo gli scrivani d’Israele – Dio ad Abramo, perché il conflitto con gli altri, che mette a repentaglio l’unità dello Stato, ha sempre la radice in se stessi e solo nel capovolgimento, nel ritorno, nella “teshuvà”, risiede la possibilità dell’autentica apertura della relazione io-tu.
Secondo gli scrivani d’Israele: ritornare a se stessi, abbracciare il proprio cammino personale, perseguirlo con risolutezza, unificare il proprio essere non sono cose finalizzate alla propria salvezza individuale [sarebbe sublime egocentrismo] ma – come sappiamo – sono finalizzate alla salvezza della società [Isaia].
Dalla domanda iniziale: “Dove sei?” gli scrivani d’Israele giungono quindi alla domanda finale: “Dov’è la terra promessa?” con la rivelazione che la terra promessa è là dove ci si trova, è là dove c’è l’essere umano. E l’essere umano può entrare nella terra promessa mediante lo svolgimento fedele del suo compito, cioè se vive le relazioni con le persone, con gli esseri viventi e con le cose, mediante l’applicazione della berit e della Torah.
Il movimento della “sapienza poetica beritica” non crea una Letteratura edificante e pia ma compone un’opera pedagogica che riguarda la persona e il suo cammino. I Libri della Bibbia – a cominciare dal Libro della Genesi – non consentono facili evasioni ma interpellano ogni persona e la inducono a domandarsi se la sua vita è diventata davvero un “cammino”. Abramo sente nell’intimo una voce che dice: “Vai verso te stesso”.
Oggi l’andare verso noi stesse, verso noi stessi, presuppone di mettersi in viaggio su un Percorso di studio: ed è bene consigliarlo a tutti! Dedicare un po’ del proprio tempo allo studio significa imparare a investire in intelligenza, e investire in intelligenza significa imparare ad utilizzare le azioni dell’apprendimento.
Attenzione!
Avete ricevuto [e lo riconsegnerete, senza piegarlo, in forma anonima, prima della fine di maggio] – come è tradizione – i due questionari su cui potete fare una scelta in modo da dare una “forma” al vasto territorio che abbiamo attraversato.
Sono decine le parole importanti che abbiamo incontrato durante gli itinerari di questo Percorso ma il catalogo, sulla pagina contrassegnata dall’immagine delle “pecorine”, su cui dobbiamo scegliere le parole che preferiamo – scrivendone non più di tre – ne contiene ventuno perché ci rifacciamo solo a quei termini che sono maggiormente inseriti nella cultura del movimento della “sapienza poetica beritica”.
PER INVESTIRE IN INTELLIGENZA
parola per parola …
Leggete con attenzione le parole del catalogo della sapienza poetica beritica …
il patto l’accordo il testamento
la traduzione la falsificazione l’ispirazione
il profeta il pastore il proclama
l’esilio la lamentazione il ruggito
la legge l’autobiografia il popolo
il servo il tempio il resto
il germoglio la voce il deserto
Scegliete non più di tre parole-chiave e scrivetele qui …
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Ora potete scegliere – dando non più di due risposte – a quali categorie di scrivani voi avreste voluto appartenere.
PER INVESTIRE IN INTELLIGENZA
idea per idea …
In quale categoria di scrivani del movimento della “sapienza poetica beritica” avreste voluto svolgere la vostra opera ? …
□ Gli antichi scrivani di corte del tempo di Salomone …
□ Gli scrivani dissidenti soprannominati pastori-profeti …
□ Gli scrivani della prima generazione in esilio a Babilonia detti delle Lamentazioni …
□ Gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia detti dello stile del proclama di Amos …
□ Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] dello stile di Geremia …
□ Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] dello stile di Isaia …
□ Gli scrivani filotraduzionisti del ciclo ellenistico alessandrino …
□ Gli scrivani controtraduzionisti del ciclo ellenistico alessandrino …
Scegli non più di due frasi facendo una crocetta nel riquadro …
La “scelta, la selezione, il discernimento” è un esercizio che fa parte dell’itinerario di apprendimento. Le azioni dell’apprendimento – conoscere, capire, applicarsi, analizzare, sintetizzare e valutare – accompagnano la persona nell’itinerario di ritorno verso se stessa. L’itinerario di ritorno della persona verso se stessa è un viaggio virtuale e virtuoso che si può realizzare a Scuola. La Scuola è qui e il viaggio di quest’anno scolastico non si è ancora concluso: sono ancora due gli itinerari che ci separano dal nostro punto d’arrivo.
Quale sarà il nostro punto di arrivo?
Ogni punto di arrivo assume subito l’aspetto di un nuovo punto di partenza...