Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza di Socrate Platone Aristotele 29-30-31 ottobre 2008
SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, PLATONE E ARISTOTELE
C’È LA NUOVA ACCADEMIA FIORENTINA ...
Platone e Aristotele, insieme a Socrate (al quale ci siamo già avvicinati sull’Areopago di Atene) sono i tre principali personaggi (tre grandi apparati letterari) che caratterizzano il Percorso di studio che abbiamo intrapreso partendo, quattro settimane fa, da quella che è stata chiamata la via del rispetto della legge.
Socrate (morto nel 399 a.C.), Platone (morto nel 347 a.C.) e Aristotele (morto nel 322 a.C.) sono tre significativi indicatori culturali che, all’inizio del XVI secolo cioè del 1500, si trovano al centro del Pensiero intellettuale della cristianità (dell’identità culturale che ci è più prossima); la centralità culturale di queste figure si manifesta soprattutto nello straordinario affresco che s’intitola La Scuola di Atene che Raffaello comincia a dipingere, su mandato di papa Giulio II, nel 1508.
Per questo motivo – come sappiamo – il nostro Percorso in funzione della didattica della lettura e della scrittura avanza su due corsie: la corsia (moderna) che corre nello spazio rinascimentale dell’affresco e la corsia (antica) che attraversa il territorio orfico dell’Ellade.
Questa sera ci troviamo ancora sulla corsia (moderna) che corre nello spazio rinascimentale dell’affresco e la grande scena che, con La Scuola di Atene, abbiamo dinnanzi è divisa in due parti dalle figure di Platone e di Aristotele: naturalmente spicca anche la figura di Socrate, con il quale abbiamo cominciato a fare conoscenza. Vediamo che tutti i personaggi ritratti nell’affresco sono ben distinti nello spazio perché il racconto pittorico espresso da La Scuola di Atene segue un itinerario concettuale ben preciso che vogliamo percorrere in questo viaggio.
La scorsa settimana abbiamo fatto la conoscenza del committente, di papa Giulio II. Siccome Giulio II – alias il cardinale Giuliano Della Rovere – è partito con il suo esercito per la guerra (sappiamo che è un papa guerriero ma non sappiamo neppure contro chi è andato a guerreggiare questa volta) e allora, prima che torni a Roma, noi ne approfittiamo: per fare che cosa? Lo abbiamo già annunciato (sottovoce) alla fine dell’itinerario della scorsa settimana: noi approfittiamo della situazione favorevole data dall’assenza del papa (è una persona piuttosto invadente) per entrare in punta di piedi nell’ufficio di Giulio II. L’ufficio del papa è una specie di sgabuzzino (ci dorme anche, su una branda da campo, con un baule per comodino) perché tutto l’edificio dei Palazzi vaticani è in ristrutturazione ed è un grande cantiere, ma anche perché Giulio II, che è un francescano ed ha, e manterrà sempre, uno stile di vita molto frugale.
In questa perlustrazione ci facciamo accompagnare da un personaggio che è di casa nei Palazzi vaticani, questo personaggio è un fiorentino e si chiama Fedra Inghirami. E chi è costui? Chi è quest’uomo – ci siamo già domandati la scorsa settimana – che porta il nome di un significativo personaggio femminile della tragedia greca: Fedra? Noi sappiamo che lo spirito tragico di Euripide (lo abbiamo incontrato due settimane fa) aleggia in questi Palazzi.
Fedra Inghirami è il bibliotecario pontificio quindi è un personaggio importante (per giunta Giulio II è molto esigente nella scelta dei suoi consulenti) e di lui, strada facendo, dovremo parlare ampiamente, per ora possiamo solo dire che si chiama Tommaso e ci possiamo solo domandare: chi gli ha appioppato il nome del personaggio femminile della tragedia Ippolito di Euripide? Possiamo pensare che chi lo ha ribattezzato – visto che Tommaso Inghirami è passato alla storia con il nome di Fedra e tutti continuano a chiamarlo così – sia un personaggio molto importante: sia uno che incide profondamente nella vita delle persone e che in Vaticano sta molto in alto (forse più in alto di tutti) nella gerarchia, ma diamo tempo al tempo.
Perché ci siamo fatti accompagnare, di soppiatto, nell’ufficio del papa? Ci siamo fatti accompagnare da Fedra Inghirami nell’ufficio del papa (ma mai avrebbe acconsentito che ci andassimo per conto nostro) perché vogliamo dare un’occhiata ai libri che sono sul tavolo di Giulio II. Sul suo tavolo ci sono una serie di libri aperti: che cosa legge Giulio II e perché? Le risposte a queste domande sono molto importanti perché ci fanno capire in che modo il papa cura la sua formazione culturale.
Ciò che legge Giulio II si presume interessi anche al Bramante che è il suo sovrintendente, l’architetto che dirige i lavori, e si presume interessi anche a Raffaello che è il suo pittore preferito, e anche a Michelangelo che è il suo scultore di fiducia, e naturalmente anche a Fedra Inghirami che è il grande manovratore, il geloso dispensatore (la Fedra dell’Ippolito di Euripide è molto gelosa), il severo custode dei libri della ben fornita Biblioteca Vaticana: Fedra Inghirami dà mal volentieri in prestito i libri anche al papa.
Che libri ci sono nell’ufficio del papa? Prima di tutto c’è la Bibbia, ci sono i libri dell’Antico Testamento nella versione latina di Gerolamo (detta la Vulgata): Giulio II è molto interessato alle due parole ebraiche che rappresentano il filo conduttore della Letteratura biblica o beritica (molte e molti di noi siamo freschi di studi su questo argomento); queste due parole-chiave che (come ben sappiamo) costituiscono la struttura portante della Bibbia sono il termine “berit” che significa “patto da stipulare e da rispettare” e il termine “toràh” che significa la “legge uguale per tutti”.
Poi nell’ufficio del papa ci sono i ventisette libri della Letteratura dei Vangeli (i Vangeli canonici propriamente detti, le Lettere di Paolo commentate da Clemente Romano, gli Atti degli Apostoli, le altre Lettere apostoliche e l’Apocalisse di Giovanni). Giulio II sente il dovere di mettere in evidenza, di sottolineare, i due termini che in lingua greca sintetizzano lo spirito dei Vangeli: la parola “agape” e la parola “charis” che significano entrambe “amore solidale”.
Poi nell’ufficio del papa troviamo i trentasei Dialoghi di Platone e tre opere di Aristotele: la Fisica, la Metafisica e l’Etica. Giulio II sa che in queste opere ci sono quattro parole-chiave fondamentali per la Storia del Pensiero Umano su cui il papa deve riflettere: Logos (la parola e il pensiero), Polis (la città e la politica), Eros (l’attrazione per la conoscenza), Ethos (il comportamento morale).
Poi sul tavolo del papa troviamo un libretto intitolato Oracoli Caldaici, si tratta di una raccolta di frammenti attribuiti ai discepoli diretti di Zaratustra (un personaggio dell’Età assiale, di 2500 anni fa, che incontriamo spesso sui sentieri che percorriamo e che ha influenzato, in tutti tempi, la storia della cultura): e questo testo era stato tradotto dal greco e curato, circa settant’anni prima, nel 1436, a Costantinopoli, da Gemisto Pletone (un personaggio che incontreremo ancora tra poco). Questo libretto, Oracoli Caldaici, è da considerarsi la bibbia, o il manifesto, dei neoplatonici-bizantini (gli intellettuali che abitavano a Costantinopoli, l’antica Bisanzio, la capitale dell’Impero romano d’Oriente). In realtà il testo di quest’opera non è così antico (non risale a 2500 anni fa) ma è stato scritto, in esametri, nel II secolo d.C. e racconta le vicissitudini dell’anima prigioniera del corpo, documenta l’angoscia dello spirito prigioniero della materia.
Sicuramente tutte voi e tutti voi conoscete e avrete visto i famosi Prigioni di Michelangelo, che sono conservati a Firenze nella Galleria dell’Accademia, e se riflettete – basta la conoscenza di questi pochi dati – capite subito in che modo si concretizzano le idee che entrano in circolazione all’inizio del XVI secolo: i Prigioni rappresentano il corpo che si dibatte per uscire fuori dalla materia in modo da acquisire un’anima per poterla “curare” attraverso lo “studio”. E pensare che queste quattro statue dovevano servire a comporre la grandiosa tomba di Giulio II ma in realtà Giulio II non vuole una tomba monumentale (non ama il culto della personalità e infatti, secondo la sua volontà, è sepolto nei sotterranei vaticani sotto una pietra qualsiasi) ma ha inventato questo pretesto per far lavorare Michelangelo e per spronarlo (condizionandolo) a dare concretezza alle idee attraverso le quali la Chiesa vuole affermare la supremazia dell’anima e dello spirito senza però tralasciare il corpo e la materia (Michelangelo – in perenne discussione con Giulio II – lo incontreremo ancora strada facendo).
Infine, aperti sul tavolo del papa, ci sono la Teologia platonica e il De vita di Marsilio Ficino, L’orazione sulla dignità dell’Uomo di Giovanni Pico della Mirandola e poi il commento al De Anima di Aristotele di Pietro Pomponazzi.
Queste sono le opere che Giulio II sta consultando proprio in questo momento, cioè poco prima di dare l’incarico a Raffaello di dipingere La Scuola di Atene: di che cosa parlano queste opere e chi sono gli autori di questi libri che abbiamo già nominato la scorsa settimana? Nell’itinerario scorso li abbiamo nominati con una metafora affermando che questi personaggi – Marsilio Ficino, Pico della Mirandola e Pietro Pomponazzi – sono i veri cannoni di papa Giulio II. Sono “cannoni da intelligenza” che mettono in risalto significative parole-chiave e fondamentali idee-cardine sulle quali dobbiamo documentarci.
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Il termine “cannone” rimanda anche alle parole: fuoriclasse, asso, campione, fenomeno, portento… Quale di queste parole metteresti per prima accanto alla parola “cannone”? Scrivila… C’è una persona che tu consideri un “cannone"? Qual è il suo merito e in quale campo?
Scrivi quattro righe in proposito…
L’incontro con queste figure eminenti della Storia del Pensiero Umano non può essere esaustivo (ciascuna e ciascuno di voi può approfondire con le proprie ricerche, e la Scuola auspica che questo avvenga): vogliamo fare un inventario, cioè vogliamo conoscere quali sono le forme e i contenuti che la sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele è stata capace di lasciare in eredità. Questo inventario stimola una domanda d’obbligo: avremmo avuto un Rinascimento così ricco se non avessimo potuto usufruire della traccia profonda lasciata dalla sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele? Per rispondere – naturalmente solo in parte, e in funzione della didattica della lettura e della scrittura – a questa domanda dobbiamo metterci in cammino.
Il primo personaggio a venirci incontro è Marsilio Ficino: sappiamo che due sue opere sono aperte sul tavolo del papa: chi è Marsilio Ficino? Per fare entrare in scena Marsilio Ficino dobbiamo fare un preambolo.
Nel 1462, Cosimo il Vecchio de’ Medici (1389-1464) – chi non lo ha sentito nominare? – concepisce l’idea di far rinascere a Firenze l’antica Accademia di Atene, di far rivivere l’Accademia di Platone. Noi, in questo momento, non sappiamo ancora nulla dell’Accademia fondata da Platone circa 1800 anni prima dell’iniziativa di Cosimo il Vecchio. Questo significa che è utile e doveroso fare l’inventario degli argomenti che, strada facendo – percorrendo la corsia (antica) che attraversa il territorio dell’Ellade – dovremo studiare. Anche Cosimo il Vecchio non sa molto dell’antica Accademia di Platone (ha altro a cui pensare); sa però – sulla scia di una tradizione che fiorisce soprattutto in Italia nel corso dell’Umanesimo (a partire da Francesco Petrarca, dal 1347) – che è stata un’istituzione importante, che ha contribuito a produrre cultura e a creare investimenti in intelligenza, ed è quindi convinto di dover sostenere economicamente le studiose e gli studiosi che intendono occuparsene. Non desidera però che la moderna Accademia diventi un’istituzione fine a se stessa (un carrozzone parassitario, lui diceva: “che non diventi una chiesa”), con tanto di statuti, di regolamenti, di cariche, ma vuole invece che si costituisca come un “gruppo informale” di intellettuali che si riuniscano in modo ufficioso per lavorare, per produrre cultura (Cosimo sa benissimo che la cultura è potere e non vuole creare una struttura di potere che potrebbe diventare alternativa al suo potere!). Perché Cosimo il Vecchio ha questi timori, non è abbastanza potente? Per capirlo è necessario conoscere che cosa è successo negli ultimi vent’anni del 1400.
Si deve sapere che nel 1439 si è tenuto a Firenze un Concilio ecumenico: il Concilio di Firenze, che è la prosecuzione di quello che si era aperto a Basilea (nel 1431) e che, poi, è stato spostato a Ferrara e infine a Firenze.
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Dobbiamo sapere che i padri conciliari e gran parte dei lavori si sono tenuti alla Certosa del Galluzzo: l’hai mai visitata?… Consulta, in proposito, una guida di Firenze …
Questa importante assemblea è stata convocata con un obiettivo strategico ben preciso: quello di riunificare la Chiesa latina di Roma e la Chiesa greca di Costantinopoli che si erano scisse (il cosiddetto scisma d’Oriente) per gravi divergenze dottrinali: la Chiesa d’Oriente contestava il primato del Vescovo di Roma sulle altre Chiese, riteneva eccessivo il ruolo attribuito alla figura del Figlio rispetto a quella dello Spirito Santo, lasciava libertà di scelta ai preti sul celibato. Le due Chiese, la greca d’Oriente e la latina d’Occidente, si dividono nel 1054 quando il papa Leone IX scomunica il patriarca di Costantinopoli Michele Cerulario, il quale, a sua volta, pronuncia l’anatema contro il papa.
Il progetto di riunificazione delle due Chiese, che dovrebbe realizzarsi con il Concilio di Basilea, poi di Ferrara e infine di Firenze, non è, in realtà, sostenuto da una vera volontà ecumenica (difatti le due Chiese ritireranno le scomuniche e gli anatemi reciproci ma continueranno a rimanere divise) ma il riavvicinamento nasce da un’urgenza politica perché i Turchi, nella loro avanzata verso nord-ovest, sono ormai vicini a Costantinopoli, e la conquisteranno nel 1453.
Il Concilio di Firenze non risolve i problemi dello scisma d’Oriente ma assume un valore notevole dal punto di vista culturale, perché? Perché, per l’occasione, – per partecipare al Concilio – arrivano in Italia da Costantinopoli tutti i più importanti sapienti e tutti gli intellettuali di spicco dell’Impero romano d’Oriente. Questi personaggi sono tutti studiosi di Platone o, per essere più precisi, sono tutti fedeli (più fedeli di Platone che di Gesù Cristo) del cosiddetto Platone-bizantino, dell’elaborazione in chiave mitica e religiosa del filosofo greco. Tra questi personaggi ricordiamo Gemisto Pletone (che abbiamo citato poco fa come traduttore degli Oracoli Caldaici, il manifesto di questa corrente di pensiero che divinizza Platone) e Giovanni Bessarione (di cui parleremo). Questi due personaggi introducono in Italia, a Firenze (dove trovano molti adepti), la religione di Platone, con tanto di culti magici basati su formule salvifiche estrapolate dalle opere di Platone, e anche di Plotino e di Proco, e lette in chiave esoterica.
Insomma in Italia, dal 1439, giunge un’immagine mitica e religiosa di Platone. Questa immagine del Platone-mitico (che si discosta da quello che era in realtà il filosofo ateniese vissuto circa 1800 anni prima, di cui noi ancora non sappiamo nulla, e quindi dovremo documentarci) è un’immagine di successo e acquisisce subito una grande visibilità attraverso liturgie spettacolari e misteriose molto affascinanti (lo spettacolo e il mistero attirano molto di più l’attenzione rispetto allo studio e alla ricerca), queste liturgie creano udienza e hanno un seguito (diventano anche un affare, perché non sono gratuite).
Dobbiamo sapere però che in Italia dal III secolo d.C. (dai tempi dei Padri della Chiesa) c’è invece una tradizione culturale (che si rafforza con l’Umanesimo, dopo l’anno mille) la quale coltiva il pensiero del Platone storico e laico: una tradizione che non vuole produrre formule magiche e liturgie esoteriche ma vuole produrre, attraverso lo studio, ricerca e investimento in intelligenza. Questa tradizione coltiva un interesse filologico per Platone e vuole catalogarne le parole-chiave e le idee-cardine che emergono dai testi originali dei Dialoghi di Platone, che sono stati introdotti in Occidente in traduzione araba. Questa tradizione filologica (lo studio sulle parole-chiave effettivamente dette da Platone) vuole costruire un itinerario di carattere etico (non magico): questa tradizione vuole cercare negli scritti di Platone le linee per costruire un progetto educativo che possa dare una solida dirittura morale, in senso laico, alla vita della persona.
Cosimo il Vecchio vuole che l’Accademia si faccia carico di questa seconda impostazione, e vuole fare in modo che la nuova Accademia venga gestita non da quegli intellettuali che sostengono il Platone religioso, mitico, bizantino ma da coloro che coltivano e conservano la tradizione del Platone politico, laico e ateniese. Cosimo è schierato con quei pensatori che non elaborano una religione intorno a Platone perché la sacralità appartiene a Gesù Cristo, e se mai il percorso intellettuale-etico di Platone deve servire per avvicinarsi a Cristo, non per sostituirlo.
Per attuare il progetto che ha in mente Cosimo il Vecchio deve trovare la persona giusta che lo possa realizzare e, nel 1462, questa persona la individua: è il figlio di Diotifeci di Figline che è il medico personale di Cosimo il Vecchio. Il dottor Diotifeci di Figline ha un figlio che si chiama Marsilio detto Ficino come diminutivo del nome (Diotifeci) di suo padre.
Marsilio nasce nel 1433 a Figline Valdarno e studia con grande impegno a Firenze, a Pisa, a Bologna: si dedica, come suo padre, allo studio delle scienze e della medicina, ma è attratto soprattutto dalla cultura umanistica, dallo opere di Platone e di Aristotele. Marsilio è quindi, a ventinove anni, un giovane molto preparato quando, per volontà di Cosimo il Vecchio, l’Accademia Platonica Fiorentina coincide con lui stesso, con la sua persona. Sappiamo che Cosimo vuole che la nuova Accademia non sia un’istituzione ma corrisponda ad una persona, ad un coordinatore (senza però alcuna carica ufficiale) intorno al quale si riuniscono studiosi ed esperti che formano un gruppo informale di intellettuali. Cosimo il Vecchio, naturalmente, mette a disposizione le strutture: la villa di Careggi e la villa di Camaldoli (per l’estate).
Marsilio Ficino vive con grande inquietudine gli ultimi anni della sua vita: infatti è stato attratto dalla predicazione del Savonarola e ha subito il fascino di questo personaggio alternativo che si scaglia contro la vanità. Marsilio Ficino, chiuso nella villa di Careggi, vive la frustrazione della drammatica conclusione del caso Savonarola e il 1° ottobre 1499 muore mentre iniziava a commentare le Lettere di Paolo di Tarso.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Utilizzando l’enciclopedia o la guida di Firenze o della Toscana, oppure la rete, fai una visita alla villa di Careggi e alla località di Camaldoli… Noi abbiamo anche la possibilità di raggiungere questi luoghi facendo poca strada, buon viaggio…
Quali personaggi fanno parte della Accademia Platonica Fiorentina? Dobbiamo ricordare, prima di tutti, Cristoforo Landino (1424-1498) che è nato a Firenze ma ha sempre mantenuto la residenza, fino alla sua morte, a Borgo alla Collina, una località dalla quale sarete sicuramente passate o passati per andare in Casentino. Cristoforo Landino è stato un grande umanista e un grande latinista ma a lui dobbiamo anche un corposo commento alla Commedia di Dante in chiave neoplatonica. Cristoforo Landino ha diretto una scuola chiamata “Lo Studio Fiorentino” nella quale ha insegnato soprattutto il latino. Ma questo personaggio passa alla storia della cultura perché è stato in pratica (anche se non ufficialmente, nessuno ha ruoli ufficiali) il segretario dell’Accademia Platonica Fiorentina perché tiene i verbali degli incontri e delle riunioni. A lui, infatti, dobbiamo il prezioso materiale delle conversazioni camaldolesi, le Disputationes Camaldulenses, pubblicate, nel 1473, in quattro libri scritti in latino e in volgare.
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Con l’enciclopedia, in biblioteca, sulla rete – o andando in visita a Borgo alla Collina – puoi approfondire la conoscenza di Cristoforo Landino…
Oltre a Cristoforo Landino, lavorano per la nuova Accademia Fiorentina Pico della Mirandola, Leon Battista Alberti, Giuliano e Lorenzo de’Medici ma la figura fondamentale in cui l’Accademia s’incarna è quella di Marsilio Ficino. Il merito maggiore di Marsilio Ficino è quello di essere stato un grande traduttore, e quindi un grande mediatore culturale. Nel 1477 Marsilio termina la traduzione dei trentasei Dialoghi di Platone (dal greco in latino), e nei vent’anni successivi li commenta. Nel 1486 termina la traduzione delle Enneadi di Plotino (un’opera molto importante che probabilmente incontreremo da vicino) e ne sviluppa un commentario. Ma aveva cominciato il suo lavoro nel 1463 traducendo due opere molto particolari, il Corpus Ermeticus e il Dionigi Areopagita (probabilmente ne parleremo, per ora sappiate che queste opere esistono) e poi aveva tradotto (sempre dal greco in latino) i frammenti di Orfeo e le opere di Alcinoo, di Pitagora, di Proclo, di Porfirio, di Giamblico, di Sinesio (di questi personaggi, strada facendo, ne sentiremo ancora parlare).
Marsilio Ficino coltiva anche un suo pensiero filosofico e lo manifesta in due opere intitolate: Teologia platonica e Sulla vita: i libri contenenti queste due opere di Marsilio Ficino li abbiamo visti aperti sul tavolo nell’ufficio di papa Giulio II.
Qual è il pensiero di Marsilio Ficino e perché la sua riflessione interessa a Giulio II e agli intellettuali che gravitano intorno al papa (Bramante, Fedra Inghirami, Raffaello, Michelangelo)?
Marsilio Ficino (1433-1499) si propone di conciliare il Cristianesimo con il Platonismo, cioè la dottrina cristiana con l’itinerario filosofico laico di Platone. Come facciamo, adesso, a capire questa operazione culturale se non conosciamo bene né la dottrina teologica del Cristianesimo né conosciamo ancora il pensiero filosofico di Platone?
Cominciamo, intanto, ad impossessarci di alcuni tasselli seguendo una riflessione. Marsilio Ficino scrive che la storia dell’Umanità coincide con la storia della Rivelazione divina. Di conseguenza se Cristo è il Logos – come si legge nel testo del Prologo del Vangelo secondo Giovanni (Logos Logos in greco significa Parola e Pensiero), cioè se Cristo è la Parola rivelata, se Cristo è il Pensiero divino che si traduce in realtà umana questo significa che tutte le volte in cui le persone hanno pensato (e pensano) il bene è come se avessero incarnato il Logos, il Cristo. La storia della Rivelazione si è quindi già espressa, prima di Cristo, sebbene incompiutamente, nel Pensiero dei filosofi greci e latini, tutte le volte che hanno costruito la via del bene, la via del rispetto della legge. Quindi Socrate e Platone e Aristotele, che hanno elaborato un pensiero filosofico per dare un senso alla vita delle persone, sono funzionali alla storia della salvezza che poi nel Cristianesimo ha trovato la sua manifestazione più piena.
Come è fatta la Realtà secondo Marsilio Ficino? Formulando questa domanda è un po’ come se entrassimo nella mente di Giulio II, di Bramante, di Fedra Inghirami, di Michelangelo, di Raffaello. Secondo Marsilio Ficino l’intera Realtà è come una scala, formata da una serie di gradini. E questi gradini sono, salendo dal basso verso l’alto: i corpi, le qualità dei corpi, l’anima, le intelligenze metafisiche (gli angeli) e Dio. Il gradino fondamentale di questa scala è l’Anima. L’Anima – secondo la definizione di Marsilio Ficino – è “copula mundi”: il punto di incontro di tutta la Realtà. L’Anima compendia, riassume l’Universo perché è in grado di volgersi tanto verso il sensibile quanto verso l’intelligibile. L’Anima – scrive Marsilio Ficino – è il punto di contatto tra i sensi e l’intelligenza, e quindi, è il punto di comunione tra il corpo e Dio. Per questa sua posizione di privilegio l’Anima deve avere la caratteristica di essere eterna, di essere autonoma, di essere infinita, e quindi l’Anima può passare da una cognizione all’altra senza mai soddisfarsi: l’Anima eterna, autonoma e infinita è sempre tesa, sempre in tensione verso il conoscere, verso il sapere. L’Anima si identifica col Bene – scrive Marsilio Ficino – proprio perché possiede la tensione verso la conoscenza e dona la tensione verso il sapere. Il Bene quindi è la tensione verso il sapere, è la spinta che invoglia a conoscere.
Nel ragionamento di Marsilio Ficino vediamo conciliarsi la dottrina del Cristianesimo con la sapienza di Socrate (il concetto della maieutica), di Platone (il concetto dell’Anima) e di Aristotele (il concetto della Metafisica) e naturalmente questi argomenti – che ancora non conosciamo – li andremo a studiare, strada facendo, a suo tempo, percorrendo la corsia (antica) che attraversa il territorio dell’Ellade.
L’Anima – scrive Marsilio Ficino – è un Microcosmo (è il Mondo in piccolo) e questo significa che contiene tutto l’Universo; inoltre l’Anima è la grande Armonica, cioè lo strumento armonizzatore della Realtà: per questo, ad esempio, quando ci troviamo immersi nella Natura – scrive Marsilio Ficino – stiamo bene perché, attraverso l’Anima (il Microcosmo), entriamo in armonia con il mondo esterno (il Macrocosmo).
Marsilio Ficino fa corrispondere la forza di armonizzazione che possiede l’Anima con il concetto che Platone chiama Eros. Quindi – secondo il ragionamento di Marsilio – anche l’Eros platonico, anche l’Amor platonico cioè la tensione verso la conoscenza emana dal Dio cristiano è un dono dello Spirito Santo. È evidente che queste riflessioni sono dolci come il miele per il papa Giulio II, ed è chiaro perché i due libri intitolati Teologia platonica e De vita di Marsilio Ficino sono aperti sul tavolo nell’ufficio del papa.
E qui – scrive Marsilio – sta la grandezza di Platone perché il concetto platonico dell’Eros corrisponde alla forza per la quale Dio ha creato (in questo caso si tratta di Dio-Padre) e corrisponde alla forza per la quale Dio si prende cura dell’Umanità (e in questo caso si tratta del Dio-Figlio) e corrisponde alla forza con la quale Dio vivifica e attira verso di sé la persona (in questo caso si tratta del Dio-Spirito Santo).
Marsilio Ficino, in veste di teologo platonico, dà forma alla figura del Dio cristiano: che caratteristiche ha il Dio cristiano in versione neoplatonico-rinascimentale? Dio – scrive Marsilio in Teologia platonica – è trascendente, ed è causa e principio di tutte le cose, ed è assolutamente disgiunto da esse, ma attraverso l’Eros, attraverso la forza di armonizzazione che emana, Dio è anche, pur distinto da esse, inevitabilmente interno a tutte le cose, quindi è anche immanente. Come Platone aveva utilizzato il linguaggio mitico per spiegare i concetti laici della sua filosofia così Marsilio Ficino gioca con le metafore per spiegare i concetti religiosi del suo pensiero. Dio – scrive Marsilio – è interno a tutte le cose come se il falegname fosse nel legno, come se il sarto fosse nella stoffa, come se il cuoco fosse nella farina, come se il contadino fosse nella terra. Marsilio Ficino cerca di risolvere, utilizzando una serie di metafore poetiche (con una serie di giochi di parole), un problema che ha diviso il mondo della cultura dall’Età assiale in avanti e che, durante il Medioevo, è stato causa di grandi (e non indolori) contrasti e studieremo a suo tempo questi argomenti.
Dio è trascendente ed è separato dalle cose oppure è immanente e sta dentro alle cose? Marsilio non vuole scegliere perché, come intellettuale eclettico (versatile), è affezionato ad entrambe le posizioni e quindi concilia: Dio – scrive Marsilio – è trascendente, pungola alla fede e stimola la ricerca di Lui al di là delle cose, ma Dio è anche immanente e stimola la magia (dovremo spiegare quale significato ha questo termine nel Rinascimento) e spinge alla ricerca di Lui dentro le cose.
Nei ragionamenti di Marsilio Ficino si manifestano alcune contraddizioni che saltano subito all’occhio e si capisce perfettamente che Marsilio sviluppa il suo pensiero teologico non tanto per esigenze di carattere religioso ma soprattutto per una necessità di tipo filosofico in chiave umanistica: in teoria parla di Dio ma in pratica al centro della sua riflessione c’è l’essere umano e l’Anima corrisponde alla Persona e le caratteristiche di Dio sono le qualità specifiche della Persona che sa osservare le cose che la circondano (la Fisica) e contemporaneamente pensa di poter volgere lo sguardo anche al di là delle cose (la Metafisica).
Marsilio Ficino vuole soprattutto orientare il suo pensiero verso il tema della bellezza (un tema rinascimentale per eccellenza): se Dio, trascendente (in chiave cristiana) ma anche immanente (secondo la cultura orfica) porta in sé i connotati dell’Eros di Platone ed è depositario dell’idea suprema della Bellezza vuol dire che anche tutte le cose hanno una loro bellezza (il riflesso della bellezza di Dio) e il compito dell’Uomo, creatura di Dio, è quello di imitare, usare, trasformare le cose per produrre bellezza perché è la bellezza che salva l’Umanità.
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Per capire meglio (in pratica) i concetti neoplatonici espressi dalle opere di Marsilio Ficino è utile osservare, in una delle più importanti sale del museo degli Uffizi, le opere di Filippo Lippi (1406 circa-1469) e poi, nella grande sala successiva, le opere del suo allievo Sandro Botticelli (1445-1510)…
Il tema della bellezza ha sempre avuto una vasta eco nella Storia del Pensiero Umano a partire dai Dialoghi di Platone, in particolare da quello che s’intitola Simposio. Se leggiamo un famoso frammento dal Simposio di Platone – tratto dal grande discorso di Socrate (il maggior protagonista di quest’opera) che dialoga con la sacerdotessa Diotima di Mantinea – possiamo capire meglio il ragionamento di Marsilio Ficino perché è proprio studiando il Simposio che lo costruisce. Platone nel Simposio attribuisce al fenomeno della bellezza un ruolo oggettivo: una cosa è bella perché l’idea della bellezza la contiene in sé ed è necessario imparare a rinvenire questa idea nella sua relazione con l’Eros perché rinveniamo la bellezza se in noi c’è una tensione verso la conoscenza non verso il possesso.
Leggiamo questo frammento:
LEGERE MULTUM….
Platone, Simposio
La giusta maniera di procedere da sé o di essere condotti da un altro nelle cose dell’amore è questa: prendendo le mosse dalle cose belle di quaggiù, al fine di raggiungere il Bello, salire sempre di più, come procedendo per gradini, da un solo corpo bello a due, e da due a tutti i corpi belli, e da tutti i corpi belli alle belle attività umane, e da queste alle belle conoscenze, e dalle conoscenze procedere fino a che non si pervenga a quella conoscenza che è conoscenza di null’altro se non del Bello stesso, e così, giungendo al termine, conoscere ciò che è il bello in sé. …
Il tema della bellezza come fenomeno oggettivo ha sempre avuto – abbiamo detto – una vasta eco nella Storia del Pensiero Umano e adesso, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, come abbiamo già fatto altre volte avvicinandoci a questo argomento (per esempio durante il Percorso nel territorio del Romanticismo titanico) è d’obbligo ricordare un romanzo breve intitolato La morte a Venezia pubblicato dallo scrittore Thomas Mann nel 1912. Tutte e tutti noi abbiamo sentito nominare questo testo (è probabile che molte e molti di noi abbiano visto il film di Luchino Visconti tratto da quest’opera) ma è possibile che non tutte e non tutti lo abbiano letto o non lo rileggano da molto tempo.
La prima idea di scrivere questo libro nasce nella mente di Thomas Mann dallo choc provocatogli da un doloroso caso familiare: il suicidio di una delle sue sorelle. La riflessione poi si allarga, come sempre succede per questo scrittore, fino a comprendere temi generali che investono il senso stesso della vita e del destino dell’essere umano, e, in modo particolare, di quella persona speciale che è l’artista (e nel percorso di quest’anno siamo destinati ad incontrare molti artisti).
Thomas Mann affronta in La morte a Venezia il tema del conflitto inconciliabile tra l’arte e la vita, e si sforza di riflettere sul tema dell’isolamento dell’artista che è condannato a non poter vivere “come gli altri” perché tormentato dalla ricerca dell’idea della bellezza che si annida nelle situazioni più impensate e lo attrae inesorabilmente.
Il protagonista di questo breve romanzo è uno scrittore famoso che Thomas Mann chiama Gustav von Aschenbach. Questo personaggio racchiude in sé, oltre alla figura di Thomas Mann stesso, due figure che gli interessano molto: la figura di Goethe e quella del musicista Gustav Mahler (1860-1911) autore, tra l’altro, di dieci – quasi – famose Sinfonie. Il personaggio di Gustav von Aschenbach, da come Thomas Mann lo descrive, assomiglia, fisicamente, a Gustav Mahler.
Gustav von Aschenbach decide di recarsi a Venezia per un breve periodo di riposo e qui, mentre soggiorna al Lido, scopre all’improvviso, come per una rivelazione folgorante, di essersi invaghito, di essere stato preso dalla bellezza soave, benevola e contemporaneamente beffarda e provocatoria di un adolescente: Tadzio. Gustav von Aschenbach rimane invischiato nel conflitto tra la contemplazione della bellezza che stimola la sua intelligenza creativa e lo scatenamento del torbido gioco dei sensi, e ne resta letteralmente sconvolto tanto che è incapace di reagire ed egli rimane nella città anche quando ha la certezza che essa è stata investita da un’epidemia, e così si avvia, vittima cosciente, verso la morte, verso l’annientamento totale.
Thomas Mann riscrive il Simposio di Platone alla luce dell’esperienza delle correnti “romantiche” ma il risultato è quello di contribuire a creare un pensiero che porta il romanticismo fuori dal territorio del romanticismo stesso, in uno spazio attiguo ma diverso chiamato territorio del “decadentismo”: ma questa è un’altra storia e probabilmente, in futuro, in questo territorio ci entreremo anche per viaggiarci dentro.
Ora leggiamo un breve brano da La morte a Venezia tenendo conto del frammento del Simposio di Platone che abbiamo letto e anche della riflessione che abbiamo fatto su Marsilio Ficino i cui libri – Teologia platonica e De vita – sono aperti sul tavolo nell’ufficio di papa Giulio II.
LEGERE MULTUM….
Thomas Mann, La morte a Venezia (1912)
…Oppure (Tadzio) se ne stava sulla battigia, lontano dai suoi, vicinissimo ad Aschenbach, diritto, le mani incrociate dietro la nuca, oscillando lento sugli alluci, e fantasticava assorto nell’azzurro, mentre minuscole onde scorrevano a lambirgli le dita dei piedi. I capelli color del miele gli si inanellavano sulle tempie e sulla nuca, il sole rivelava la peluria della cervice, il fine disegno delle costole, la simmetria del torace trasparivano attraverso lo scarso rivestimento del torso, le ascelle erano ancora lisce come in una statua, l’incàvo delle ginocchia era traslucido e le venature azzurrine facevano apparire il suo corpo di sostanza ancor più diafana. Quale disciplina, quale precisione dell’idea si esprimeva in quell’organismo agile, giovane e perfetto!
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Avete senza dubbio colto le affinità tra la scrittura di Platone e quella di Thomas Mann e adesso leggiamo una pagina (quella che sta leggendo anche Giulio II?) da Teologia platonica di Marsilio Ficino: è una scrittura ricca di enfasi che a noi serve per riflettere e per prepararci ad affrontare i prossimi itinerari...
LEGERE MULTUM….
Marsilio Ficino, Teologia platonica Libro I (1482)
Il Logos è universale e prima di farsi carne in Cristo ha comunicato la sua luce a tutte le creature, ispirando, in varietà di modi e di tempi, i grandi pensatori di tutti i popoli. Sopra ogni altro Platone e i suoi figli. Per primo il sublime Plotino di cui il maestro dice: “Questi è il mio figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto, ascoltatelo”.
Platone e i suoi figli sono ispirati perché hanno posto l’idea del Logos al centro del loro veder la vita e del loro vedere il mondo.
Prima, un tempo, è avvenuto che una certa pia filosofia nascesse presso i Persiani sotto Zoroastro e presso gli Egizi sotto Mercurio Ermetico, in ambedue i luoghi conforme a se stessa, e si nutrisse poi presso i Traci con Orfeo, crescesse ben presto sotto Pitagora presso i Greci e gli Italici e finalmente trovasse il proprio compimento ad Atene, per opera del divino Platone.
E continua il cammino, il Logos, nella nostra Anima che perciò può essere definita a buon diritto il centro della natura e il contenitore dell’universo, la catena del mondo, il volto del tutto, il legame tra i sensi e l’intelligenza e il vincolo di tutte le cose. …
Marsilio Ficino, in questo denso frammento, fa un inventario di personaggi attraverso i quali il Logos (la parola, il pensiero di Dio), prima di incarnarsi nella persona di Gesù di Nazareth, si è manifestato. Questo elenco di personaggi sembra abbozzare ad uno degli schemi che, un quarto di secolo dopo, prenderanno forma ne La Scuola di Atene di Raffaello e quindi non è difficile pensare che sul tavolo dell’ufficio di Giulio II la Teologia platonica di Marsilio Ficino sia aperta su questa pagina. L’idea del Logos (o dello Spirito) che viaggia da un personaggio all’altro fa anche pensare al Percorso sulla Fenomenologia dello Spirito di Hegel: molte e molti di voi c’erano e se lo ricordano. Infine il breve brano che abbiamo letto contiene, nelle righe finali, un altro inventario – sul quale, probabilmente, anche Giulio II sta riflettendo – che riguarda le parole-chiave che possono accompagnarsi con la parola “anima”.
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Marsilio Ficino – da eclettico – vuole definire l’anima utilizzando tutte le formule che conosce: l’anima, secondo lui, è centro della natura, contenitore dell’universo, catena del mondo, volto del tutto, legame tra i sensi e l’intelligenza, vincolo di tutte le cose… Ma questi termini non sono uguali e quindi invitano ad operare una scelta …
Che cos’è l’anima secondo te: è il centro, è il contenitore, è la catena, è il volto, è il legame, è il vincolo ? Definiscila con una sola di queste parole …
Poi sul tavolo nell’ufficio di papa Giulio II abbiamo visto aperto un altro libro importante intitolato L’orazione sulla dignità della Persona di Giovanni Pico della Mirandola. Pico della Mirandola è, di nome, un personaggio molto conosciuto, ma la maggior parte degli italiani non sa nulla di lui. Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494) arriva a Firenze nel 1484 quando ha vent’anni: lo invita Marsilio Ficino. Giovanni Pico è un conte e, come possiamo constatare dal suo nome, arriva dalla provincia di Modena, da Mirandola.
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Sei stata, sei stato in visita a questa cittadina nella quale ci sono ancora i resti del castello dei Pico?…
Puoi fare un’escursione a Mirandola con l’enciclopedia, con una guida dell’Emilia-Romagna o sulla rete, buon viaggio…
Giovanni Pico della Mirandola è uno studente ben preparato, si è formato a Padova, a Pavia e a Parigi alla facoltà delle Arti (un posto che molte e molti di noi ricordano volentieri e nel quale, prima o poi, torneremo a studiare). Nel suo piano di studi c’è Platone, c’è Aristotele, c’è Averroè, c’è la filosofia islamica ed ebraica. Giovanni Pico della Mirandola ha imparato l’arabo e l’ebraico in modo da leggere i testi religiosi e filosofici nella lingua originale: capisce tra i primi che la convivenza pacifica e la fattiva cooperazione nel mondo dipendono dalla conoscenza delle culture, le quali non possono essere usate come strumenti di divisione ma bensì come dispositivi di armonizzazione tra i popoli. L’esigenza che Giovanni Pico della Mirandola sente di conoscere le lingue antiche e moderne e di comprendere le varie culture è stata denominata enciclopedismo e questo termine avrà un suo sviluppo nei secoli futuri.
Pico della Mirandola pensa che sia importante armonizzare il Cristianesimo con tutte le tradizioni culturali dell’Umanità accessibili in questo momento, e lui si interessa a le filosofie gnostiche dei Greci, a quelle caldaiche di Zaratustra, a quelle magiche del Platone-bizantino, a quelle cabalistiche dell’Ebraismo e a quelle averroistiche dell’Islam.
Pico della Mirandola entra sulla scena del suo tempo per una polemica che esplode alla fine del XV secolo sul valore della cultura medioevale. Questa polemica è stata sostenuta da Pico con un intellettuale veneziano che si chiama Ermolao Barbaro (1454-1493) e che è stato, da laico, un valente ambasciatore della Serenissima repubblica veneziana e poi, da ecclesiastico, patriarca di Aquileia. Di questa polemica rimangono due famose Lettere, una di Ermolao (1485) in cui sostiene che gli Scolastici medioevali sono barbari, incolti, grezzi, incomprensibili perché mancano di finezza letteraria e quindi di acutezza speculativa. Pico risponde che bisogna studiare la filologia (le parole e le idee) per leggere con cognizione di causa i testi degli autori medioevali e che quindi bisogna distinguere: una cosa è l’eloquenza-retorica (il parlar bene, eloqui multa, per dirla in latino) e altra cosa è il ragionamento filosofico (loqui multum). I filosofi della Scolastica medioevale (noi torneremo su questo argomento a suo tempo, con un Percorso specifico), dice Pico, ci hanno lasciato in eredità le tesi essenziali e necessarie sulle quali costruire le sintesi di oggi.
E a proposito di sintesi, Pico ha un progetto: quello di convocare una grande conferenza dei sapienti di tutto il mondo a Roma per l’Epifania dell’anno 1487 e per questo avvenimento prepara Novecento tesi su cui discutere. Ma molti cardinali preoccupati di perdere il potere e il papa Innocenzo VIII – il genovese Giovanni Battista Cybo, personaggio scialbo, senza acume e poco preparato culturalmente – contrastano questo progetto. Il Sant’Uffizio condanna come eretiche tredici delle Novecento tesi di Pico perché accolgono il sincretismo cioè l’unione del Cristianesimo con idee e teorie di origine diversa come se la dottrina del Cristianesimo non si appoggiasse in modo decisivo e palese al pensiero orfico...
Questa grande conferenza mondiale, questo grande dibattito internazionale non si realizzò mai ma Pico della Mirandola ci ha lasciato in eredità una grande idea ancora da realizzare e soprattutto la relazione introduttiva intitolata Oratio de hominis dignitate, Orazione sulla dignità della persona del 1487, che è da considerarsi il manifesto del Rinascimento, una delle opere importanti della Storia del Pensiero Umano. Quali idee contiene l’Orazione sulla dignità della persona di Giovanni Pico della Mirandola? Giovanni Pico della Mirandola inizia la sua riflessione affermando che l’Essere umano è un microcosmo, è l’Universo in piccolo ed è il prodotto migliore del creato in quanto dotato di tutti i Beni già distribuiti da Dio singolarmente alle varie creature. In base a questa posizione di privilegio l’Essere umano è libero di scegliere tra la vita dei bruti e la rigenerazione in Dio che si ottiene attraverso un viaggio intellettuale. Il viaggio di rigenerazione è un itinerario a forma di scala che si sviluppa attraverso vari gradi di sapienza. Il contenuto dei gradini di questa scala è il contenuto stesso della Storia della cultura dell’Umanità, a cominciare dal Pensiero di quelli che Pico chiama i filosofi antichi. Il viaggio di formazione, di crescita, di redenzione trova, quindi, nella Storia del Pensiero Umano i suoi contenuti e la Scuola (la nostra esperienza scolastica) cerca di farsi carico di questa tradizione, ne sente la responsabilità, l’onere ma anche l’onore.
Pico individua nella Commedia di Dante (“fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza”) e nel Canzoniere del Petrarca un modello del viaggio di rigenerazione: la Commedia di Dante e il Canzoniere del Petrarca non sono solo due splendide opere di poesia ma sono soprattutto due percorsi di formazione utili per la cura del proprio corpo e della propria anima.
La dignità della Persona sta nella sua volontà di percorrere itinerari di studio: il desiderio di studiare (l’Eros platonico) è l’elemento fondamentale, capace di dare un senso alla vita della Persona. Il percorrere un itinerario di studio – afferma Pico – crea responsabilità e la responsabilità si manifesta ogni qualvolta la Persona tenta una sintesi che contiene l’eredità di saggezza accumulata dall’Umanità. Questa esigenza della saggezza universale, da perseguire investendo in intelligenza, deve condurre – afferma Pico – al bene contingente per eccellenza: la pace. Perché – si domanda Pico, e continuiamo a domandarcelo anche noi – tutti i grandi apparati culturali indicano la pace come il bene maggiore per l’Umanità e poi la guerra continua ad insanguinare il mondo? La guerra – afferma Pico – continua ad insanguinare il mondo e ad avvelenare i rapporti personali perché si istruisce alla divisione, all’acquisizione del potere e dell’utile individuale: se si vuole la pace – scrive Pico – bisogna educare alla pace.
Il tema dell’educazione con Pico della Mirandola – sulla scia della sapienza di Socrate, Platone e Aristotele – diventa strategico in funzione della dignità della Persona e, secondo questo ragionamento, la Legge 133 (che annienta l’Educazione Permanente in Italia) è contro la dignità della persona.
Pico della Mirandola non riesce – è un’impresa troppo grande per le sue sole forze – a fondere in una sintesi coerente tutti gli apporti culturali così eterogenei che conosce: cristiani, ebraici, islamici, greci, latini, però ci prova e indica una via, e il concetto di “apporto culturale”, con lui, ha cominciato a maturare. La Persona acquisisce la propria dignità con la crescita culturale (la dignità e la cultura sono direttamente proporzionali tra loro: più aumenta la cultura più aumenta la dignità umana) e la crescita culturale dell’Umanità consiste in un processo di evoluzione e di trasformazione. A questo proposito, Pico della Mirandola si oppone al determinismo cioè all’idea che il destino di una persona sia già scritto da qualche parte e che l’Essere umano quindi non sia in grado di costruire l’avvenire perché il futuro è già determinato.
Pico della Mirandola – in relazione al tema del determinismo – sceglie di fare chiarezza su due grandi temi: l’Astrologia e la Magia. Si schiera contro l’Astrologia divinatoria o giudiziale praticata dai Platonici Bizantini affermando che il corso degli astri non determina nulla, ma è solo un’idea mitica di cui ci si deve liberare. Gli astri sono belli – scrive Pico – e hanno ispirato e ispirano la creazione di grandi racconti che costituiscono una ricchezza dal punto di vista poetico ma non condizionano la vita degli Esseri umani. Se affidiamo agli astri la realizzazione del nostro destino, se prevale in noi il determinismo, cessiamo di essere responsabili e perdiamo la dignità. Mentre, quella che chiama, l’Astrologia matematica o speculativa cioè l’Astronomia, è un utile oggetto di comprensione e di descrizione delle leggi che regolano l’Universo ed è una disciplina che va perseguita perché incide sulla formazione degli Esseri umani.
Pico della Mirandola si schiera, poi, contro la Magia che vuole evocare i Demòni, la considera una pratica esecranda: non perché funzioni, ma perché è un’ideologia che incatena l’Essere umano alla superstizione e all’ignoranza. C’è poi una Magia positiva sulla quale Pico punta l’attenzione ed è la Magia che si basa sulla “simpatia” (in greco: “sin sin” significa “insieme” e “pathos pathos” significa “sentimento”) che lega tra loro tutti gli elementi dell’Universo. La simpatia è un’energia positiva con la quale è utile entrare in contatto e il Mago media affinché la persona possa mettersi in armonia con gli elementi dell’Universo in modo da guidare la natura secondo i propri progetti e quindi il ruolo del Mago rinascimentale è molto diverso da quello che è il ruolo dei maghi oggi. La figura del Mago rinascimentale – descritta da Marsilio Ficino e da Pico della Mirandola – è quella di un mediatore culturale che si identifica spesso con la figura dell’artista, ma il Mago è la persona stessa quando diventa un’artefice responsabile della propria vita e la Magia è la capacità di penetrare nell’essenza delle cose riconoscendo in esse la valenza culturale che possiedono.
Anche Pico della Mirandola – come Marsilio Ficino – ha vissuto gli ultimi sette anni della sua vita in modo burrascoso (attraversando un’inquietante crisi esistenziale): nel 1494 rinuncia al suo titolo nobiliare e alle sue rendite e si fa monaco domenicano, lo stesso anno muore.
Leggiamo adesso un frammento dall’Orazione sulla dignità della persona:
LEGERE MULTUM….
Giovanni Pico della Mirandola, Oratio de hominis dignitate (1487)
Alla fine l’ottimo Autore stabilì che a colui al quale non poteva essere dato nulla di proprio, fosse comune tutto ciò che era stato dato ai singoli in particolare.
Prese dunque l’Essere umano, opera dalla figura indistinta, e postolo nel mezzo del mondo, così gli parlò: “O Uomo, noi non ti abbiamo dato né una sede determinata, né un aspetto proprio, né alcun dono particolare, affinché tu possa avere e possedere quella sede, quell’aspetto, quei doni che tu abbia coscientemente bramati, secondo il tuo desiderio e secondo il tuo sentimento. La natura degli altri viventi già definita è costretta entro leggi da noi prescritte: tu, non limitato da alcuna costrizione, potrai, secondo il tuo arbitrio, al cui potere io ti affidai, definire la tua natura.
Noi non ti abbiamo fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, affinché tu, quasi arbitrario ed onorario plasmatore e fondatore di te stesso, possa collocarti in quella forma che tu avrai preferita.
Potrai degenerare verso i gradi inferiori che sono bruti; potrai rigenerarti nei gradi superiori che sono divini, secondo la decisione del tuo animo”. …
Marsilio Ficino e Giovanni Pico della Mirandola lavorano con impegno a definire la Realtà e l’Essere umano. La sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele – che è l’argomento principale del nostro viaggio di studio – è il loro modello di riferimento. Il prototipo di Realtà che Marsilio Ficino e Giovanni Pico della Mirandola propongono è rappresentato – come abbiamo visto – da una “scala di valori” che, dal basso verso l’alto, contiene: i corpi, le qualità dei corpi, l’anima, le intelligenze metafisiche (gli angeli o le persone che studiano), Dio.
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Che cosa ti ricorda la parola “scala”: una particolare “sequenza” di avvenimenti, una “serie” di tappe faticose, una “gradazione” di colori, una “gerarchia” da rispettare, una “graduatoria” per accedere al lavoro, una “scalinata” particolare, oppure che cosa ?…
Scegli e scrivi quattro righe in proposito facendo riferimento alla tua autobiografia…
Ne La Scuola di Atene di Raffaello – che è l’argomento parallelo del nostro viaggio di studio – non è casuale il fatto che il palcoscenico sia formato da una scalinata: è una citazione che rappresenta l’Accademia Platonica Fiorentina di cui questa sera, a grandi linee, abbiamo conosciuto i dati essenziali del Pensiero che ha elaborato, un pensiero che è nella mente (e sul tavolo da lavoro) del committente dell’affresco, di Giulio II.
La Scuola di Atene di Raffaello sembra essere un grande quadro di rappresentanza che riporta le più importanti posizioni ideologiche del momento. Ė piuttosto sconvolgente il fatto che, al centro dell’affresco, Platone e Aristotele stiano lì a braccetto sotto il medesimo arco, e che questo lo abbia voluto un papa. Questa scelta è rinascimentale nella forma, ma nel contenuto è un profondo omaggio alla grande tradizione della Scolastica, dalla Scuola di Toledo in avanti (ma, nel vasto territorio della Scolastica medioevale, entreremo a suo tempo: cominciamo col capire che esiste questo territorio).
Perché è sconvolgente il fatto che ne La Scuola di Atene Platone e Aristotele stiano fianco a fianco al centro dell’affresco? Dobbiamo sapere che, dalla metà del 1400 fino alla fine del 1500, all’interno del mondo della cultura occidentale avviene un epocale e straordinario scontro intellettuale che produce Pensiero perché stimola un grande investimento in intelligenza. È uno scontro complesso, fatto di continue sovrapposizioni e difficile da descrivere e da inquadrare didatticamente, noi ci proveremo nel prossimo itinerario.
In questa polemica la sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele è sempre al centro dell’attenzione e noi sappiamo che, aperto sul tavolo nell’ufficio di papa Giulio II, oltre alla Teologia platonica di Marsilio Ficino e a L’orazione sulla dignità della Persona di Giovanni Pico della Mirandola, c’è anche un altro libro: il Commento di Pietro Pomponazzi al De anima di Aristotele. Se, in questo momento, Marsilio Ficino e Pico della Mirandola mettono Platone sul gradino più alto della scala dei valori, ci sono altri, come Pietro Pomponazzi, che mettono Aristotele sul gradino più alto e dobbiamo ascoltare anche la loro voce. Giulio II – nel bel mezzo della polemica – vuole che Platone e Aristotele stiano fianco a fianco sullo stesso scalino, ed è questa l’immagine che ha imposto e che ci rimane negli occhi: sul gradino più alto (un gradino celeste e non terreno) – allude il papa – c’è il Santissimo Sacramento.
E ora, per concludere, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, cambiamo registro, ma senza uscire dal nostro Percorso.
La scorsa settimana abbiamo commemorato Mario Rigoni Stern il quale ci ha ricordato che “al mondo siamo tutti paesani”, questa sera cogliamo l’occasione per procedere ad un’altra commemorazione: i cento anni dalla nascita di Cesare Pavese che è nato a Santo Stefano Belbo nella Langa piemontese il 9 settembre 1908. Tutte noi e tutti noi abbiamo sentito nominare Cesare Pavese, è infatti un personaggio che ha una vasta risonanza (europea, mondiale), peccato che gli Italiani non sanno leggere e quindi (a parte un’esigua minoranza) non conoscono le opere di questo scrittore nelle quali (in particolare al nord) potrebbero e dovrebbero riconoscersi.
Per commemorare Pavese abbiamo scelto un romanzo (l’ultimo) intitolato La luna e i falò dove la memoria, la storia, la politica, l’etnologia (lo studio delle culture umane) e il mito orfico si fondono insieme in una specie di corale sul quale aleggia una domanda inquietante che Pavese non formula esplicitamente perché sta sotto traccia nascosta nel mistero dell’esistenza: ma l’essere umano è degno di vivere a questo mondo o fa di tutto per non esserlo? Marsilio Ficino e Pico della Mirandola (insieme a molte altre e altri intellettuali) si sono posti, a loro modo, all’inizio dell’età moderna – sulla scia della sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele – la stessa domanda. E la dignità – allude Cesare Pavese, ponendo una seconda domanda inquietante – appartiene solo alle persone che sanno sacrificarsi, che sanno offrire in sacrificio la propria vita? Ce n’è abbastanza per riflettere, anche sul modo “sacrificale” in cui, il 26 agosto 1950, Pavese è morto.
Ha scritto Italo Calvino che ogni romanzo di Pavese ruota intorno a un tema nascosto, a una cosa non detta che è la vera cosa che egli vuol dire e che si può dire solo tacendola o alludendo (il pensiero va a Erodoto). La luna e i falò è il romanzo di Pavese più fitto di segni emblematici, di motivi autobiografici e anche di enunciazioni sentenziose. Ma l’obiettivo dello scrittore è quello – senza dirlo esplicitamente – di mettere in scena un argomento specifico: il tema dei sacrifici umani collegato ai rituali del fuoco, un tema orfico per eccellenza. Non è questo un interesse momentaneo di Pavese: lui ha sempre ambito a collegare l’etnologia e la mitologia greca alla sua autobiografia esistenziale e alla sua costruzione letteraria.
Il tema dei sacrifici umani e delle feste del fuoco viene sviluppato anche nelle rievocazioni mitologiche di un’altra opera significativa di Pavese che s’intitola Dialoghi con Leucò (1947), le cui pagine sui riti agricoli e sulle morti rituali preparano la stesura de La luna e i falò che è stato pubblicato nell’aprile del 1950, quattro mesi prima che l’autore si togliesse la vita, con un colpo di pistola in una camera dell’albergo Roma a Torino, dopo aver ricordato in una lettera i sacrifici umani degli aztechi.
Ne La luna e i falò il personaggio che narra, che dice «io», torna ai vigneti piemontesi del paese natale dopo aver fatto fortuna in America: ciò che egli cerca non è soltanto il ricordo o il reinserimento in una società o la rivincita sulla miseria della sua giovinezza, ma egli cerca il perché un paese è un paese, egli cerca il segreto che lega i luoghi, i nomi e le generazioni. Non è un fatto casuale che questo personaggio sia un «io» senza nome, è difatti un trovatello d’ospizio che è stato allevato da agricoltori poveri come garzone, come mano d’opera a bassissimo salario e si è fatto uomo emigrando negli Stati Uniti, un posto dove il presente ha meno radici, dove ognuno è di passaggio e non ha da render conto del suo nome. Ora, tornato al mondo immobile delle sue campagne, all’indomani della Liberazione, vuole, in compagnia dell’amico Nuto, ripercorrere i luoghi della sua infanzia e della sua adolescenza facendo un viaggio nel tempo alla ricerca di una sostanza (è una parola che incontreremo con Aristotele), cioè alla ricerca di antiche e sofferte radici. La luna e i falò è un romanzo che racconta una storia semplice e lirica insieme, costruita con un continuo andirivieni tra il piano del passato e quello del presente, Pavese recupera i temi civili della guerra partigiana, la cospirazione antifascista, la lotta di liberazione, e li lega a problematiche private dove giocano un ruolo importante l’amicizia, la sensualità, la morte, in un intreccio spesso drammatico.
La zona collinosa del Basso Piemonte dove Pavese è nato (la Langa) è famosa non solo per i vini e i tartufi, ma anche per le crisi di disperazione che colgono in modo endemico le famiglie contadine. Pavese annota che non c’è settimana in cui i quotidiani di Torino non riportino la notizia d’un agricoltore che s’è impiccato o si è buttato nel pozzo, oppure (come nell’episodio che è al centro di questo romanzo) ha dato fuoco al casolare con dentro lui stesso e le bestie e la famiglia. Certamente non è solo nel mito che Pavese cerca la chiave di questa disperazione autodistruttiva ma anche nello sfondo sociale che emerge nel racconto. Forse, a questo proposito, i capitoli più belli del libro (sono un po’ lunghi e noi non li possiamo leggere ora ma leggeteli o rileggeteli voi...) raccontano due giorni di festa: il primo vissuto dal ragazzo disperato rimasto a casa perché non ha le scarpe, e il secondo dal giovane che deve guidare la carrozza delle figlie del padrone. La carica esistenziale che nella festa si celebra e si sfoga e l’umiliazione sociale che cerca la sua rivalsa, animano queste pagine in cui si fondono i vari piani di conoscenza su cui Pavese svolge la sua ricerca. Ed è proprio un bisogno di conoscenza (un Eros, per dirla con Platone) che ha spinto il protagonista a tornare al paese, e potremmo distinguere almeno tre piani su cui la sua ricerca si svolge: il piano della memoria, il piano storico-politico-etnologico e il piano del mito. Questi tre piani si unificano nel personaggio che fa da guida a colui che narra come se fosse Virgilio per Dante nella Commedia, perché anche per Pavese – come per Marsilio Ficino – la Commedia di Dante è un itinerario di formazione.
Il personaggio che fa da guida a colui che narra è il falegname Nuto, il suonatore di clarino nella banda civica. Nuto è il marxista del paese, colui che conosce le ingiustizie del mondo e sa che il mondo può cambiare, ma Nuto è anche colui che continua a credere nelle fasi della luna come condizione alle varie operazioni agricole e nei fuochi di San Giovanni che «svegliano la terra».
La storia sociale e politica e l’antistoria mitico-rituale hanno in questo libro la stessa faccia, parlano con la stessa voce, la voce di Nuto, e la sua è una voce che si esprime come un brontolio tra i denti: Nuto è una figura che più chiusa e taciturna ed evasiva non si potrebbe immaginare, Nuto non spreca inutilmente le parole perché sono preziose, e il romanzo – e questa è una chiave di lettura che dobbiamo conoscere – consiste soprattutto negli sforzi del protagonista per cavare a Nuto le parole di bocca, vale a dire nello sforzo che Pavese fa per cavare le parole di bocca a se stesso. C’è qualcosa di Socrate in questo modo di fare maieutico che definiremo strada facendo percorrendo la corsia (antica) che attraversa il territorio dell’Ellade.
Ma è solo così che Pavese parla veramente: parla poco, ma quello che dice è significativo e fa riflettere e invita a studiare, e oggi abbiamo più che mai bisogno di studiare e di riflettere sui temi del nostro passato più lontano e sulla nostra memoria più recente che viene deturpata sistematicamente dall’invadenza e dall’insipienza di un potere mediatico che fa aumentare l’ignoranza e allontana inesorabilmente dalla cultura. «La luna e i falò – scrive Pavese – è il libro che mi portavo dentro da più tempo e che ho più goduto a scrivere. Tanto che credo che per un pezzo – forse sempre – non farò più altro. Non conviene tentare troppo gli dei». Chissà se pensava ad Apollo e ad Atena che sovrastano la scalinata del palcoscenico sulla quale Raffaello dispone La Scuola di Atene?
E ora leggiamo l’incipit, l’inizio del romanzo:
LEGERE MULTUM….
Cesare Pavese, La luna e i falò (1950)
C’è una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli, a Barbaresco o in Alba. Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c’è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch’io possa dire «Ecco cos’ero prima di nascere». Non so se vengo dalla collina o dalla valle, dai boschi o da una casa di balconi. La ragazza che mi ha lasciato sugli scalini del duomo di Alba, magari non veniva neanche dalla campagna, magari era la figlia dei padroni di un palazzo, oppure mi ci hanno portato in un cavagno da vendemmia due povere donne da Monticello, da Neive o perché no da Cravanzana. Chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione.
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Con la risata di Nuto – probabilmente molto contenuta ma sincera – ci salutiamo chiedendoci: in che cosa consiste la polemica, che si sviluppa in pieno Rinascimento, tra Platonici e Aristotelici? Il tema è molto complesso ma noi cercheremo di acquisire gli elementi necessari per poter continuare il nostro viaggio: accorrete la Scuola è qui e anche se siamo tornati in condizione di “illegalità” il viaggio continua...