Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza di Socrate Platone Aristotele 2008 19-20-21 novembre 2008
SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, PLATONE E ARISTOTELE
CI SONO I RITUALI ORFICO-DIONISIACI ...
Il viaggio di studio che abbiamo intrapreso ha come obiettivo quello di farci conoscere e capire le parole e le idee più significative che caratterizzano la sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele. Per questo motivo sette settimane fa siamo partiti da quella che è stata chiamata: la via del rispetto della legge, che abbiamo individuato sull’Areopago di Atene.
Socrate (vissuto fino al 399 a.C.), Platone (vissuto fino al 347 a.C.) e Aristotele (vissuto fino al 322 a.C.) sono tre significativi indicatori culturali che – come abbiamo potuto costatare negli itinerari precedenti – all’inizio del XVI secolo, del 1500, si trovano al centro del Pensiero intellettuale della cristianità (dell’identità culturale che ci è più prossima) e la centralità culturale di queste figure si manifesta soprattutto nello straordinario affresco che s’intitola La Scuola di Atene che Raffaello comincia a dipingere su mandato di papa Giulio II nel 1508.
Per questo motivo – come ormai ben sappiamo – il nostro Percorso in funzione della didattica della lettura e della scrittura avanza su due corsie: la corsia (moderna) che corre nello spazio rinascimentale dell’affresco e la corsia (antica) che attraversa il territorio orfico dell’Ellade.
La scorsa settimana siamo entrate, entrati in contatto, su proposta di Giulio II (al quale abbiamo ubbidito senza discussione), con un trattato, intitolato De medicina animae, La medicina dell’anima, scritto prima del 1140 dal monaco benedettino (e suo malgrado anche cardinale) Hugone de Folieto. In questo trattato abbiamo studiato la Tetra-chymia, cioè il sistema dei quattro umori che determinano l’equilibrio dell’anima, del corpo e del mondo. (Sarebbe interessante che nel tradizionale questionario, che compileremo a fine Percorso per dare una forma ai territori che abbiamo attraversato, potessimo scegliere come si modella, oggi, secondo noi, il sistema degli umori). Ma soprattutto abbiamo capito che il De medicina animae di Hugone de Folieto si presenta, in pieno medioevo, come una cattedrale del Pensiero che ha le sue fondamenta nella cultura orfico-ellenistica e che papa Giulio II utilizza come spunto per progettare la realizzazione de La Scuola di Atene.
La Scuola di Atene deve essere – con al centro la sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele – una nuova summa (in immagini) del Pensiero greco sul quale ha trovato solido appoggio la tradizione del Cristianesimo e la dottrina della Chiesa. È Raffaello – circondato da un gruppetto di consiglieri del quale fanno parte lo stesso Giulio II (che ha sempre l’ultima parola su tutto), l’architetto Bramante e il bibliotecario Fedra Inghirami –, aiutato da Gian Antonio Bazzi detto il Sodoma, che riceve la commissione per realizzare La Scuola di Atene. Raffello lo abbiamo incontrato la scorsa settimana e di lui, del suo mondo, e delle sue opere abbiamo imparato un po’ di cose. Abbiamo imparato anche che l’opera preparatoria de La Scuola di Atene – come avviene quasi sempre quando si tratta di un affresco – è stata eseguita da Raffaello su cartoni e le studiose e gli studiosi si sono esercitati molto su questi cartoni. Sappiamo anche che Raffaello, alla fine dell’affrescatura de La Scuola di Atene si accorda con l’incisore bolognese Marcantonio Raimondi per la realizzazione di alcune stampe tratte dai cartoni preparatori: infatti pensa che questi suoi affreschi sarebbero rimasti sconosciuti a tutti, meno a quelli che frequentavano la ristretta cerchia della corte pontificia; Raffaello non pensa – e non lo pensa nessuno nel 1511 – che questo Palazzo sarebbe diventato un museo e che la Stanza della Segnatura sarebbe stata sempre molto affollata di pubblico: Raffaello, per primo, ha promosso la diffusione delle sue opere in cartoline.
La scorsa settimana, giunti alla fine dell’itinerario, ci siamo chiesti: dopo aver predisposto lo scenario, quale cartone preparatorio de La Scuola di Atene Raffaello disegna per primo? Da dove dobbiamo cominciare a leggere La Scuola di Atene? Ebbene non dal centro anche se è il centro ad attirare lo sguardo.
Il primo cartone che Raffaello disegna e che sottopane all’attenzione dei suoi consiglieri (lo fa con tutti i cartoni e lo si capisce dal fatto – ci suggeriscono le studiose e gli studiosi – che ha sempre apportato diverse modifiche alle varie scene), il primo cartone che Raffaello disegna è intitolato: La colonna orfica. Nessuna e nessuno di noi – che abbiamo una certa esperienza di studio – prova meraviglia di fronte a questo fatto: sappiamo bene che senza Orfeo, senza la cultura orfico-dionisiaca (Orfeo e Dioniso sono due concetti simili) la sapienza di Socrate, di Platone, di Aristotele e tutta la sapienza ellenistica non sarebbe concepibile. Quindi la prima parola significativa, il primo nome importante ed eloquente, da cui parte la lettura de La Scuola di Atene, è il nome di Orfeo.
A questo proposito, per proseguire il nostro viaggio, dobbiamo anche utilizzare la corsia (antica) che attraversa il territorio dell’Ellade, ma ora procediamo ancora sulla corsia (moderna) che attraversa lo spazio dell’affresco. Se osserviamo con attenzione l’immagine de La Scuola di Atene: che cosa possiamo vedere? Possiamo vedere la sintesi (il basamento) di una colonna greca dalla quale emergono elementi di stile dorico: sono raffigurati l’abaco e l’echino. Sopra il basamento di questa colonna c’è un Libro (la colonna vera e propria è un Libro) e intorno al libro ci sono (da sinistra verso destra) quattro personaggi: un bambino, un vecchio, un giovane e un uomo maturo. Questo significa che troviamo unite intorno a questo Libro le quattro età della vita e di fronte a questo particolare la nostra mente non può non ricordare la Tetra-chymia, il sistema degli umori che abbiamo studiato la scorsa settimana incontrando (e non è stato un incontro casuale) il trattato De medicina animae di Hugone de Folieto, e allora ci domandiamo: potrebbe essere questo trattato il libro che fa da colonna? Dalla copertina non si riesce a capire di che libro si tratta: il bello – per l’intelletto – è poter fare delle ipotesi. (Intanto questa immagine potrebbe essere un bel manifesto – forse troppo intellettuale – per invogliare alla lettura).
La figura che ha maggior risalto in questo primo quadro è quella dell’uomo maturo, che regge e sembra leggere il libro per gli altri. Questo personaggio ha in testa ha una corona di pampini (un tralcio di vite): è Bacco, è Orfeo, è Dioniso? Questo simbolo (la vite) ci invita a fare delle ipotesi interpretative. Che cosa rappresenta questo gruppo? È una raffigurazione ricca di mistero (i quadri di quest’opera sono tutti ricchi di mistero), ma ci sono degli elementi allusivi ed emblematici che ci permettono di trovare delle risposte e di studiare.
Il primo elemento è la base della colonna sulla quale si appoggia il libro. È una colonna – abbiamo detto – con elementi dorici. Tutte voi e tutti voi sapete che il sito archeologico dorico più importante (non solo in Italia ma nel mondo) si trova a Paestum, in provincia di Salerno, nella valle del Sele, non molto distante dal mare. A Paestum ci sono tre grandi templi dorici (ben conservati) di straordinaria bellezza. Non si può fare a meno di recarsi periodicamente a Paestum per una visita a quello che è uno dei nostri luoghi di nascita: questi templi dorici sono lì da più di duemilacinquecento anni, dall’Età assiale della storia e quest’Età corrisponde all’inizio della nostra storia culturale. E come scrive Marguerite Yourcenar nel romanzo, che abbiamo già incontrato su questo Percorso, intitolato Memorie di Adriano (1951): «Dove rinveniamo la nostra cultura, lì è il nostro luogo di nascita», su questi luoghi di nascita della nostra età mentale noi dobbiamo tornare regolarmente.
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Intanto fai una visita a Paestum utilizzando l’enciclopedia, o la guida della Campania (la trovi in biblioteca), o la rete, buon viaggio…
Chissà se Raffaello è mai stato a Paestum? È da escludersi perché questo luogo nel XVI secolo è ancora nascosto in mezzo alle paludi. A Paestum, circa 2500 anni fa, c’era uno dei centri più importanti della tradizione e della cultura orfica. Il pensiero greco e di conseguenza una parte cospicua della nostra cultura poggiano sul fondamento dell’Orfismo. E quindi il primo quadro nell’affresco intitolato La Scuola di Atene non può che rappresentare la celebrazione di un rito orfico: di che cosa si tratta? Tutti i rituali che noi celebriamo hanno una base di carattere orfico: questo è il primo messaggio che La Scuola di Atene continua ad inviarci.
Che cos’è l’Orfismo? Per cercare di rispondere a questa domanda utilizziamo anche la corsia (antica) che attraversa il territorio dell’Ellade.
Con l’Orfismo, dal VI secolo a.C., i Greci e le popolazioni mediterranee ed europee acquisiscono un nuovo schema di Pensiero che ci hanno lasciato in eredità. In che cosa consiste questo schema di Pensiero? L’Orfismo, come tradizione culturale, comincia a svilupparsi, nell’area Ellenica, a cominciare dal X secolo a.C. e ne troviamo traccia nei poemi di Omero, Iliade e Odissea: due opere che tutte voi e tutti voi avete sentito nominare, e nei nostri Percorsi i temi derivanti da questi poemi li abbiamo studiati.
Il pensiero Omerico che idea si è fatto dell’Essere umano? Nel modo di pensare Omerico l’Essere umano si identifica con le sue membra e l’anima (già si parla di anima in contrapposizione o a complemento del corpo) si identifica con l’inconscio della persona, con l’interiorità: l’anima è una specie di fantasma, di larva, di crisalide (per definirla si guarda alla metamorfosi degli insetti): l’anima è la persona senza la sua consistenza materiale.
La cultura omerica fa da base all’Orfismo e verrà superata dell’Orfismo stesso. Con l’Orfismo si sviluppa una nuova visione dell’esistenza umana. Da quali testi è stata documentata questa visione? C’è un libro – come abbiamo visto – sul basamento della colonna raffigurata nel primo quadro de La Scuola di Atene. In questo libro viene riportato il primo catalogo di parole-chiave della cultura orfico-dionisiaca? Possiamo ipotizzare che l’indice di questo libro sia probabilmente formato da parole come: mito, oracolo, natura, mistero, rito, tragedia, anima...
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Tu prova – per simpatia o per ragioni autobiografiche – a metterle in ordine di importanza (dalla più importante alla meno importante) queste parole: mito, oracolo, natura, mistero, rito, tragedia, anima… Esercitati a considerare le parole per l’importanza che hanno per te: le parole non sono significative tutte allo stesso modo…
Purtroppo le pagine del libro dipinto sul basamento della colonna da Raffaello non sono visibili e – in funzione della lettura e della scrittura – non ci resta che fare delle ipotesi.
C’è un testo – a proposito di ipotesi – che s’intitola Frammenti Orfici ed è una raccolta di materiali (conservata nella Biblioteca vaticana) composta in epoca ellenistica, nel II e III secolo d.C.. Questi materiali sono stati ottenuti estrapolandoli soprattutto dai testi delle Tragedie di Eschilo, di Sofocle e di Euripide che contengono molti riferimenti alla tradizione orfica. Il primo frammento orfico riportato in questo testo, che funge anche da introduzione, dice così: «Da essere umano tu ritornerai a essere dio, perché dal divino tu derivi». Se noi non sapessimo che è un frammento orfico noi diremmo che è Letteratura dei Vangeli. Il libro sul basamento della colonna corrisponde ai Frammenti Orfici? Potremmo dirlo se le pagine di questo testo fossero visibili, ma non lo sono.
Nel Rinascimento – sempre a proposito di ipotesi – Marsilio Ficino (che conosciamo bene) ha tradotto, ricostruito e diffuso gli Inni Orfici. Sul testo degli Inni Orfici curato da Marsilio Ficino hanno studiato Giulio II, Fedra Inghirami, Bramante, Raffaello. Il libro sul basamento della colonna rappresenta gli Inni Orfici, tradotti, curati e diffusi da Marsilio Ficino? otremmo dirlo se le pagine di questo testo fossero visibili, ma non lo sono.
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Tu puoi trovare facilmente in biblioteca i testi dei Frammenti Orfici e degli Inni Orfici, puoi sfogliarli e leggerne qualche passo, lasciando che la tua attenzione (o la tua anima) venga catturata dallo spirito orfico…
E ora riprendiamo la nostra riflessione sul termine Orfismo. Il termine Orfismo deriva da Orfeo che letteralmente significa “espulso, escluso, colui che è solo”. Orfeo è una figura mitica, ma è qualche cosa di più di un personaggio epico: Orfeo è un genere letterario. Orfeo – secondo la tradizione dei racconti mitici – è il nome di uno straordinario poeta, figlio di Apollo e della musa Calliope (in greco Kallas significa “bella” e Opè significa “voce”, Calliope significa: dalla bella voce). Orfeo nasce dalla bella voce di chi ne ha cantato il mito e il mito di Orfeo è contenuto in una religione: l’Orfismo, diffusosi in Tracia, tra il VI e il V secolo a.C., come movimento di riforma dei culti spesso feroci e dei riti troppo cruenti di Dioniso. Al centro della religione orfica c’è un mistero: l’enigma della morte e della resurrezione. L’Orfismo elabora una dottrina (che ha anche una valenza consolatoria) per cui invita a credere che qualcosa dell’Essere umano non muore e si trasforma, come avviene nei cicli della Natura.
Tutti conosciamo (lo abbiamo studiato e ristudiato nei nostri Percorsi) il famosissimo mito di Orfeo, che è un racconto simbolico usato da molte e molti intellettuali per costruire soprattutto oggetti letterari. Ricordiamo, per esempio, la versione del mito di Orfeo e di Euridice tradotta in versi latini da Ovidio nel libro X delle Metamorfosi.
Ripetiamo (se qualcuno non le ricordasse ma, quando si studia, il “ripasso” è sempre un momento necessario) le linee generali della narrazione del mito di Orfeo. Orfeo sposa Euridice la quale, poco tempo dopo le nozze, muore: Orfeo è disperato e decide di tentare la discesa negli Inferi per riportarla alla vita.
Il tema della discesa gli Inferi – lo scorso anno lo abbiamo incontrato nel L’epopea di Gilgamesh – consolida, con il mito di Orfeo, un modello che in Letteratura continua ad essere utilizzato, ma non solo in Letteratura: il racconto di questo mito lo si può ascoltare anche in musica, per esempio attraverso l’opera intitolata Orfeo all’Inferno (1858) di Jacques Offenbach (1819-1880). Anche le musiche orfiche di quest’opera-comica hanno contribuito al successo di Parigi nel XIX secolo: con l’ironia di Offenbach scopriamo che all’Inferno si balla il famoso Cancan e ci si ammanta di malinconia con la struggente Barcarola.
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Molte biblioteche concedono il prestito anche per le opere musicali quindi approfittane e buon ascolto di Orfeo all’Inferno di Jacques Offenbach…
Orfeo è strettamente legato alla musica, è un cantautore dal talento straordinario e, con la musica della sua lira, riesce a placare i guardiani infernali: Caronte e Cerbero; la regina dell’Oltretomba Persefone, affascinata anch’essa dalla musica di Orfeo, permette che Euridice ritorni alla vita, seguendo il marito sulla via del ritorno dagl’Inferi. Ma c’è un divieto: lungo il cammino di ritorno Orfeo non deve girarsi a guardare la sposa. Però, lungo la strada, Orfeo non resiste alla tentazione di dare un’occhiata a Euridice (è anche il racconto di un peccato originale): si volta per un attimo e la perde per sempre. Euridice viene trascinata indietro nell’Ade e da quel momento Orfeo, disperato, rifiuta l’amore che tutte le donne gli offrono. La sua musica diventa sempre più suadente e distrae anche tutti gli uomini che lo ascoltano incantati e dimenticano i loro doveri coniugali, e allora le donne di Tracia si vendicano: lo catturano, lo fanno a pezzi e lo gettano in mare. Nonostante la fine orribile Orfeo non muore del tutto, solo il suo corpo muore, la sua anima – la sua voce, la sua poesia, la sua musica – avrebbe continuato a cantare per sempre. Questo mito contiene in embrione un messaggio di salvezza eterna.
A proposito di ipotesi: il libro sul basamento della colonna raffigurato da Raffaello ne La Scuola di Atene rappresenta le Metamorfosi di Ovidio: una straordinaria opera di poesia nella quale viene raccontato questo mito che contiene una speranza di salvezza eterna? Potremmo dirlo solo se le pagine di questo testo fossero visibili, ma non lo sono...
L’Orfismo si basa su tre elementi fondamentali che tuttora fanno parte della nostra cultura.
Il primo elemento mette in evidenza che ogni Essere umano possiede un’anima e quindi in lui c’è un principio eterno, esistente prima della nascita e che sopravvive alla morte (non predica la stessa dottrina anche il cristianesimo? Giulio II aveva ragione a volere La Scuola di Atene dipinta sulle pareti di casa). L’Orfismo fa propria la teoria indiana dei libri dei Veda (i libri della Sapienza, generatori dell’Induismo e del Buddismo) dove l’anima, in sanscrito atman, è una scintilla, una goccia dell’Essere, del Brahman, presente in ogni Essere umano. Compito di ogni persona è quello di favorire il ritorno dell’atman, dell’anima, nella sua sede, nella sua casa: in seno al Brahman, attraverso la teoria della reincarnazione o metempsicosi, secondo cui l’anima lascia un corpo, alla morte dell’individuo, ed entra, dopo breve tempo, in un altro corpo, cercando di migliorare via via la sua posizione in funzione dell’ascesa, della ricomposizione col Brahman, con l’Essere. L’Orfismo mutua questa mentalità sapienziale indiana (Erodoto ci ha insegnato che l’Asia e l’Europa sono unite) e la elabora (diciamo così) in termini occidentali.
Il secondo elemento su cui si basa l’Orfismo è rappresentato dal dualismo tra anima e corpo: due principi (diversi) in contrasto tra loro, in cui il corpo viene considerato la prigione dell’anima e l’anima deve tendere a liberarsi da questo vincolo materiale. Tre settimane fa – probabilmente vi ricordate – abbiamo trovato questa tesi orfica espressa nel libro Oracoli Caldaici scritto, in esametri, nel II secolo d.C. e tradotto dal greco in latino, nel 1436, a Costantinopoli, dall’intellettuale Gemisto Pletone il quale quando nel 1439 si sposta in Italia per il Concilio di Firenze lo porta con sé e lo divulga: questo libretto è il manifesto dei neoplatonici-bizantini e racconta le vicissitudini dell’anima prigioniera del corpo, documenta l’angoscia dello spirito prigioniero della materia (così come è stato esemplificato da Michelangelo nei Prigioni). A proposito di ipotesi, è questo il libro che Raffaello ha dipinto sul basamento della colonna nel primo quadro de La Scuola di Atene per rappresentare un rito orfico? Potremmo dirlo se le pagine di questo testo fossero visibili, ma non lo sono.
Il terzo elemento su cui si basa l’Orfismo prevede che dopo la morte del corpo l’anima sia sottoposta a un giudizio e ci possa essere un castigo con una nuova vita, una nuova reincarnazione, oppure un premio, cioè la liberazione dal ciclo delle incarnazioni, la liberazione dalla carne, il ritorno a essere spirito, ad essere anima per sempre, come eravamo tutti in origine. Per arrivare al premio è necessaria una forte tensione etica (voler fare il bene), coltivando ideali di vita basati sull’armonia, sulla concordia e sulla euritmia (sul senso delle proporzioni) che sono le componenti costitutive della figura del dio Apollo.
Ma l’Orfismo è qualcosa di più complesso e non si rifà soltanto alle buone qualità di Apollo: nella dottrina orfica ci sono anche le qualità di Dioniso. E Chi è Dioniso? Dioniso è prima di tutto la figura mitica che esprime meglio l’inquietudine, il turbamento, il tormento esistenziale.
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La tua inquietudine è data da che cosa oggi?
Scrivi quattro righe in proposito…
Prima di ristudiare i caratteri della figura di Dioniso e i termini del rapporto conflittuale tra Apollo e Dioniso (un tema fondamentale sul quale la Scuola si è soffermata più di una volta) leggiamo un brano – anche questo brano è stato già letto in due occasioni ma in venticinque anni non è molto – che s’intitola Pantomima ed è tratto dal volume Gli asparagi e l’immortalità dell’anima (1974) dello scrittore Achille Campanile (1900-1977). C’è molta cultura orfica – non solo nei titoli (Pantomima, Gli asparagi e l’immortalità dell’anima) – nell’umorismo di Achille Campanile. Devo dire che quando sono particolarmente inquieto non rinuncio mai alla “terapia Campanile” (una delle tante terapie possibili per chi si dedica allo studio che è sinonimo di cura): bastano quattro pagine da Gli asparagi e l’immortalità dell’anima e l’inquietudine si trasforma in riflessione sul conflitto che, in modo permanente, si manifesta nell’intimità della persona, dove le caratteristiche di Apollo e di Dioniso convivono.
E ora leggiamo la Pantomima che è parola greca: pantòs significa “tutto” e mimos significa “imitatore, attore”: La vita è quasi sempre una recitazione intrisa di cultura orfica, una pantomima...
LEGERE MULTUM….
Achille Campanile, Gli asparagi e l’immortalità dell’anima (1974)
La bella Angelica Ribaudi, coi biondi capelli in disordine e le fresche gote di diciottenne arrossate, affannando per aver fatto le scale a quattro a quattro, si fermò un attimo sul pianerottolo per calmarsi; indi mise pian pianino la chiave nella serratura, girò delicatamente, spinse la porta senza far rumore e scivolò in casa come una ladra. Voleva arrivare prima di sua madre, ch’ella aveva intravisto in fondo alla strada scendere dal tram. Non già che la turbasse l’idea di rincasare tardi per la cena, ma una volta tanto ch’era arrivata un po’ meno tardi del solito poteva esser comodo evitare i rimproveri e le frasi amare della madre e magari farle credere di essere arrivata molto prima.
... continua la lettura ...
Ma chi avrebbe potuto parlare: Apollo o Dioniso? Si domanda Achille Campanile. Certamente in casa della famiglia Ribaudi Dioniso è l’ospite principale...
Abbiamo detto che l’Orfismo nasce nel V secolo a.C. da una riforma interna ai riti dionisiaci. Quindi prima dell’Orfismo ci sono i culti di Dioniso. L’Orfismo è, nei confronti dei culti di Dioniso, una riforma in senso ascetico che impone una forte tensione etica: prescrive di fare il bene, insegna ad acquisire uno stile di vita ordinato in cui si deve coltivare la temperanza, la continenza, la sobrietà, l’igiene personale, prescrive una dieta strettamente vegetariana e si vieta l’omofagìa, cioè il cibarsi di carne cruda, che è una pratica tipica dei riti dionisiaci.
Ma che cosa sono i riti dionisiaci, e chi è Dioniso? Di fronte a queste domande dobbiamo retrocedere un po’, dobbiamo fare un tuffo nel nostro inconscio: se andate a visitare il Museo di Paestum potete vedere (l’originale) dell’immagine dipinta del famoso Tuffatore, che rimanda ai riti orfico-dionisiaci.
La figura di Dioniso e il tema dei riti dionisiaci è una riscoperta culturale recente e gran parte del merito è del filosofo Friedrich Nietzsche, il cui saggio intitolato La nascita della tragedia (1872) ha inaugurato un modo nuovo di considerare la cultura ellenica. Il filosofo tedesco (1844-1900) afferma che la grandezza greca è stata il risultato della sintesi delle contrastanti caratteristiche di Apollo e di Dioniso. Questi due elementi – come stiamo costatando – sono ambedue in evidenza nell’affresco de La Scuola di Atene. La cultura greca – afferma Nietzsche – nasce da una sintesi tra la spiritualità apollinea, fatta di equilibrio, di armonia, di euritmia (se pensiamo ai prodotti dell’Architettura – i templi – e della Scultura greca – le statue a tutto tondo– capiamo perfettamente in che cosa consiste la spiritualità apollinea) e la spiritualità dionisiaca, simmetrica e contraria, fatta di irrazionalità e derivante dallo stato di vigore animale che ciascun Essere umano possiede perché la vita ha un suo lato oscuro e istintuale, necessario alla sopportazione dell’esistenza e allo sviluppo della creatività.
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La riscoperta di Dioniso è anche merito di Friedrich Nietzsche e del suo saggio La nascita della tragedia del 1872… Cerca questo testo in biblioteca e leggi l’indice degli argomenti di cui tratta: è un primo esercizio di conoscenza di un’opera che, per essere letta, comporta un certo impegno…
Chi è Dioniso, che i Latini chiamano Bacco? La figura di Dioniso rappresenta uno dei miti più antichi della Storia del Pensiero Umano: è un mito che racconta le origini e in esso ci sono molte componenti essenziali che riguardano questo tema (l’anno scorso il mito delle origini lo abbiamo studiato attraverso il movimento della sapienza poetica beritica, con il Libro della Genesi). Dioniso è il dio della vegetazione e dalla fertilità (e ce lo sentiamo addosso spesso) e anche per la cultura greca le origini sono condizionate da questi due elementi. Il concetto di un dio così fatto nasce con la cosiddetta Rivoluzione del Neolitico, a partire da trenta mila anni fa: la Rivoluzione del Neolitico consiste in quel lungo passaggio che ha portano le nostre e i nostri antenati dalla pratica itinerante della caccia all’attività stanziale dell’agricoltura. Il passaggio dalla caccia all’agricoltura ha comportato un profondo cambiamento antropologico: l’homo sapiens supera il senso di “non-ordine”, la sensazione di kaos che provoca paura e bisogno e prende coscienza dell’esistenza dei ritmi e dei cicli tanto nella Natura (la vegetazione) quanto nel corpo umano (la fertilità). Questa trasformazione epocale crea la struttura del recinto (si recinta la terra da coltivare, si recintano gli animali, si recintano i villaggi), e soprattutto si recinta la fecondità delle donne che è vista come un potere, come una potenza da salvaguardare per far crescere il gruppo (per scongiurare l’estinzione), e si innesca così anche una reazione nei confronti dei recinti perché la persona che è forzatamente chiusa in uno spazio ristretto è portata anche a guardare oltre e questo fatto turba l’ordine del sistema: da qui si assiste alla nascita di una tradizione culturale che va dalla lotta tra i sessi, alla lotta tra generazioni diverse, fino alle lotte contro le istituzioni ingiuste.
I riti dionisiaci nascono per recintare, per inquadrare le ribellioni spontanee e “irrazionali” contro il potere delle istituzioni rigide (dei recinti); via via, nel corso della storia, le contestazioni improvvise, istintive, impulsive e spesso molto violente, hanno subìto un processo di istituzionalizzazione e le lotte sono state ritualizzate: gli apparati di potere si sono premurati di recintare il dissenso e di concederne la manifestazione attraverso un calendario liturgico, inserendolo nel sistema come festa di carattere religioso. Celebrare Dioniso significa dimostrare tutta la propria insoddisfazione per le condizioni in cui si vive: questo, una volta all’anno, viene concesso perché si dia libero sfogo alle intenzioni di rivolta.
Dioniso è il dio dell’uva e del vino, della trasgressione rituale, quindi dell’eccesso e dell’infrazione (“semel in anno licet insanire, una volta all’anno si può impazzire, uscire di senno”). L’etimologia della parola rende bene l’idea: il termine “Dioniso” significa letteralmente “colui che rompe ogni barriera tra gli dei e gli esseri umani”. Dioniso è un dio ebbro e folle, che spinge i fedeli alla dissolutezza, all’inselvatichimento, alla violenza, all’orgia: il termine greco “orge orgè” significa “passione”. Il rito dionisiaco consiste in grida disordinate, nel delirio, e “delirein delirein” in greco significa “uscire fuori” e “liris liris” significa “solco”, quindi, “delirare” è “uscire dal solco”. Il rito dionisiaco consiste nell’esaltazione e nella follia: “follis follis” in greco significa “mantice”, e il mantice soffia violentemente.
Il rito dionisiaco, du cui fanno parte la maschera e il travestimento, è un rituale che sconvolge le leggi, i costumi, le gerarchie sociali: Dioniso è l’unico dio che ammette le donne e gli schiavi ai suoi riti. Le donne, nel culto di Dioniso, sono chiamate “menadi” e “menadein menadein” in greco significa “urlare, esaltarsi”. Le donne, nel sistema, sono escluse da ogni forma di potere e trovano (viene concesso loro) nel rito dionisiaco uno spazio per rivendicare, con questo culto della follia, la loro presenza nella società. Però questa situazione, caratterizzata dalla “follia”, non è fine a se stessa: i riti di Dioniso hanno lo scopo di far rivivere un mito che corrisponde ad un rito rigeneratore che rimanda alle origini.
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E tu ti dedichi a qualche rito rigeneratore?
Scrivi quattro righe in proposito…
A proposito di “riti rigeneratori” mi viene in mente un’altra mezza pagina di Achille Campanile da Gli asparagi e l’immortalità dell’anima dove lo scrittore ironizza sul fatto di aver trasformato in moda il naturale ciclo della natura distruggendo la carica rituale dionisiaca che possiede di per sé, una funzione rituale che dovremmo saper cogliere come dato culturale in modo da celebrare e da difendere le stagioni come fattore di rigenerazione.
LEGERE MULTUM….
Achille Campanile, Gli asparagi e l’immortalità dell’anima (1974)
Voi adesso vorrete sapere se faccio delle cure rigeneratrici, se faccio, per esempio, la cura dell’uva, come la faccio, quando la faccio e se non la faccio che cura fo. Ebbene, sì, la faccio. E con questo? Faccio anche la cura rigeneratrice dei fichi, se volete saperlo. Io bado molto alla salute del corpo e dell’anima e non c’è cura rigeneratrice che non mi lasci sfuggire. D’inverno fo la cura dei datteri, delle mele, fichi secchi, noci, arance. A primavera mi rigenero con la cura delle fragole e poi con quella delle ciliegie, che anche mi fa molto bene. D’estate mi rigenero curandomi con le pesche, le albicocche, le susine. Faccio anche la cura rigeneratrice dell’anguria, o cocomero, e ne risento notevoli benefici. …
Che cosa racconta il mito di Dioniso? Il mito di Dioniso – in quanto racconto delle origini – è di una complessità notevole perché legate a questo mito ci sono decine di leggende collegate insieme e per essere esaustivi su questo argomento ci vorrebbe un Percorso intero (da ottobre a giugno). Abbiamo a nostra disposizione tanti materiali interessanti, spesso non facili da leggere, ma questa sera sul mito di Dioniso non si può né leggere né narrare tutto ma è possibile raccontare delle trame e proporre dei frammenti in funzione di stimolo intellettuale. La trama tradizionale sul mito di Dioniso la conoscono tutti: molte e molti di voi la ricordano senz’altro a memoria, ma come si fa a non raccontarla? E se qualcuna o qualcuno di voi non la conoscesse ancora? E se qualcuna o qualcuno di voi se la fosse dimenticata? Quindi: meglio ripetere che omettere e avranno pazienza quelle studentesse e quegli studenti che sentono ripetere narrazioni già note.
La trama tradizionale sul mito di Dioniso ha inizio sulle coste della Fenicia, sulle spiagge davanti alla città di Sidone, una bella città governata dal re Agenore con la regina Telefassa. Agenore e Telefassa hanno due figli: un maschio, il maggiore, che si chiama Cadmo e una femmina, una giovane fanciulla che si chiama Europa. Europa è bellissima, è atletica, è creativa (è visibile in molti dipinti), e Zeus la vede ed è attratto da questa fanciulla. Dovete sapere che Zeus non si accoppia mai né con sua moglie Era – che si chiama anche Giunone e i Latini chiamano Minerva – né con le altre dèe, a meno che proprio non sia costretto dalle circostanze, ma, in questo caso, s’impegna poco, sta molto attento: perché sta molto attento? Perché – secondo il ciclo della vita – i figli spodestano i padri, e un figlio divino (e accoppiandosi con una dèa avrebbe generato un figlio divino) avrebbe dato adito ad una disputa insanabile e, alla fine, Zeus – essendo più antico, visto che è sempre il nuovo che prevale – avrebbe perso il potere. E allora Zeus – che non è propenso all’astinenza – preferisce accoppiarsi con le donne mortali e fecondarle perché i figli mortali non costituiscono un pericolo per il suo potere, anzi, vanno ad aumentare il numero dei suoi sudditi. Per portare a compimento le sue imprese amorose Zeus ha però bisogno di trasformarsi: di compiere una metamorfosi in modo da non essere riconoscibile.
Il poeta Pubblio Ovidio Nasone, che chiamiamo confidenzialmente Ovidio, ce le racconta tutte, in versi, le Metamorfosi (o gli adulteri) di Zeus. I versi delle Metamorfosi di Ovidio hanno incrementato, dal punto di vista figurativo, la storia dell’arte e – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – hanno contribuito ad arricchire la storia della letteratura di tutti i tempi.
In Fenicia i giovani si dedicano alle tauromachie, che sono esercizi fisici, sono giochi acrobatici usando nell’arena i tori come se fossero delle macchine ginniche. Europa è una campionessa di questo sport: lei ama i tori e Zeus lo sa. Una sera, al tramonto, – così allude poeticamente Ovidio nelle Metamorfosi (non è facile leggere il poema ovidiano perché il poeta dà per scontato che la trama del mito noi la conosciamo già) – Europa, fanciulla romantica, passeggia sul spiaggia deserta: il mare è leggermente increspato e lei supera una lingua di sabbia e si trova di fronte ad un ampio golfo, e che cosa vede ad un tratto? Ad un tratto vede un toro che, a nuoto, si avvicina alla riva: è un toro di una bellezza eccezionale, mastodontico, ben modellato, bianco, con due corna stupende. Il toro tocca terra e, dopo essersi scrollato l’acqua di dosso come un cagnolino, lentamente comincia a muoversi sulla spiaggia. Europa non resiste, parte di corsa verso il toro e salta su di lui, lo cavalca con grande piacere, e lo fa correre. Il toro corre, corre sempre più veloce, e poi entra in acqua e comincia a nuotare e nuota, nuota tanto finché – con una traversata degna di un aliscafo silenzioso – approda a Creta: c’è un bel pezzo di mare tra Sidone e Creta (andate a verificare sull’atlante, mettete gli occhi su questo mitico tragitto).
Europa è un po’ spaventata per quello che le sta succedendo: ha freddo, ha fame, è preoccupata (a casa la cercheranno) ma sulla spiaggia di Creta il toro-Zeus si trasforma in un bel pastore che accoglie Europa con molto affetto: la riscalda, la nutre, la coccola, e lei è contenta di questo trattamento e si lascia riscaldare, si lascia coccolare ed entra con lui in una capanna per passare la notte: noi non entriamo, non possiamo disturbare Europa che non sembra per nulla contrariata da questa avventura che sta vivendo, anzi si sente piacevolmente coinvolta.
Il mattino dopo Europa viene svegliata, nella capanna dove ha passato la notte sulla spiaggia di Creta, da un giovane che a lei non sembra il bel pastore della sera prima, però un po’ gli somiglia, e quindi non se ne cura. Questo ragazzo, molto sorpreso, si presenta: è il figlio del re cretese, e si chiama Asterione, e anche lui è un romantico giovane che all’alba passeggia lungo il mare (siamo già nella tradizione delle fiabe). Tra Europa e Asterione scatta il colpo di fulmine e quindi di colpo si conoscono, s’innamorano, si fidanzano e si sposano. Lei rimane subito incinta (ma forse lo era già): nasce un bel bambino che viene chiamato Minosse, e con Minosse parte un’altra storia di cui ora non ci possiamo occupare.
E Dioniso dov’è? Che cosa c’entra questo racconto con Dioniso? Con i racconti delle origini ci vuole un po’ di pazienza.
A Sidone ci si accorge della scomparsa della fanciulla e Cadmo, il fratello, parte alla ricerca di Europa, prima però passa dall’oracolo di Delfi, dal santuario di Apollo, e la pizia, la sacerdotessa che dà i responsi del dio, gli comunica: “Se vuoi trovare tua sorella devi seguire una vacca!”. Cadmo rimane sorpreso da questo responso (dato con un linguaggio poco elegante) perché non sa che la sorella è stata sedotta da un toro: l’oracolo di Apollo è un po’ malizioso, allude al fatto che Europa sia stata un po’ disattenta, a farsi sedurre dal primo – seppur bello – toro che passa, ma sappiamo che Apollo non può essere tenero con Zeus, e poi Apollo si deve guadagnare il posto ne La Scuola di Atene, che è sempre il nostro argomento di riferimento...
Insomma, Cadmo non capisce l’allusione bovino-vaccina ma all’uscita del Santuario vede una bella mucca (o vacca che sia) e comincia a seguirla. Cadmo non riesce a trovare Europa che vive tranquilla a Creta, in compenso però, quando la mucca decide di fermarsi, in Beozia, nel cuore della Grecia, Cadmo capisce che lì deve fondare una città e, dopo averla fatta erigere con una poderosa rocca (la rocca Cadmea), la chiama Tebe e ne diventa il re. Zeus è alquanto preoccupato – teme di essere scoperto come rapitore di Europa –, e quindi si affretta a benedire Tebe e a lasciare in regalo alcune delle sue folgori sulla rocca Cadmea.
Zeus ha molti nemici che gli contendono il potere e succede che, proprio in quel tempo, il gigante o il mostro Tifone si ribella a Zeus: vuole diventare lui (nel momento in cui cambia il clima) il padrone del mondo. Tifone – come dice il nome – è molto potente e riesce, con tutto il suo armamentario naturale (scatenando venti fortissimi e piogge torrenziali), a mettere in difficoltà Zeus, il quale, disarmato, deve scappare e rifugiarsi a Tebe. Cadmo, sebbene a lui Zeus non sia molto simpatico (c’è qualcosa nel suo comportamento che non lo convince), non solo lo accoglie ma gli mette anche a disposizione le saette che aveva ricevuto in dono da lui: con quelle folgori potenti, Zeus riesce a fulminare Tifone e a farlo precipitare nel cratere dell’Etna. Zeus ha vinto la battaglia per merito di Cadmo e per riconoscenza, visto che Cadmo è scapolo, gli fa conoscere una donna bellissima: Armonia, figlia di Ares e di Afrodite.
Le nozze di Cadmo e di Armonia – nella rete dei racconti mitici sulle origini, di cui stiamo raccontando dei frammenti – sono un avvenimento straordinario tanto per la magnificenza della festa allietata da invitati illustri, umani e divini, quanto per il regalo che Cadmo fa ad Armonia: una collana. Questa famosa collana procura un sacco di guai, ma quella della collana è un’altra storia collegata a molte narrazioni e se volete conoscere non solo la storia della collana ma anche un vasto apparato mitico potete leggere o rileggere (al ritmo di quattro pagine al giorno) un libro, non facile ma interessante, che s’intitola Le nozze di Cadmo e Armonia di Roberto Calasso.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Questo Percorso svolge anche una funzione propedeutica per rendere più comprensibile un testo come questo che si presenta come un saggio scritto sotto forma di romanzo: buona lettura e buon divertimento…
Ma Dioniso dov’è? Che cosa c’entra questo racconto con Dioniso? Ci vuole un po’ di pazienza: i viaggi di studio sono all’insegna della lentezza.
Cadmo ed Armonia si amano molto e generano cinque figli: Autonoe, Ino, Agave, Polidoro e Semele. Zeus tiene d’occhio la casa di Cadmo e ha già avuto una storia con Ino ma, appena è un po’ cresciuta, rimane folgorato dal fascino di Semele, la quale ama le aquile e va ad osservarle mentre volano dalla rocca Cadmea. Zeus lo sa e, sotto forma di aquila, entra in contatto con lei. L’amore tra Zeus e Semele ce lo racconta, con i suoi versi ridondanti e straordinari uno scrittore conosciuto dalla maggior parte delle studentesse e degli studenti che sono qui: questo personaggio si chiama Nonno di Panopoli e a lui dobbiamo ancora una volta fare riferimento (come si può fare a meno della presenza di Nonno di Panopoli in un Percorso come questo?).
Nonno di Panopoli (e anche lui, come Ovidio, scrive in modo allusivo, e quindi in modo non facile) racconta l’amore tra Zeus e Semele nel suo straordinario poema, in 48 canti, intitolato Le Dionisiache, scritto nel V secolo d.C.. Dobbiamo subito dire – prima di andare avanti sulla scia del mito di Dioniso – che i codici contenenti le opere di Nonno di Panopoli sono conservati nella Biblioteca vaticana quindi sono in mano di Fedra Inghirami il quale, visto che la lingua greca di Nonno è piuttosto complessa, può mettere a disposizione la sua capacità di traduttore a chi volesse leggere queste opere, in particolare il testo de Le Dionisiache (ma c’è anche un’altra opera di Nonno che incuriosisce molto). Certamente tutti coloro che stanno contribuendo alla realizzazione de La Scuola di Atene sono interessati alla lettura de Le Dionisiache di Nonno di Panopoli, a cominciare da Giulio II che però ordina a Fedra Inghirami di limitarne la diffusione al Bramante e a Raffaello. Intorno a Nonno di Panopoli esiste anche un enigma che, proprio in questo momento, attira l’attenzione e diventa particolarmente stimolante per i personaggi che stanno contribuendo alla realizzazione de La Scuola di Atene.
E – a proposito di ipotesi – il libro che Raffaello ha dipinto sul basamento della colonna nel primo quadro de La Scuola di Atene per rappresentare un rito orfico potrebbe contenere il testo de Le Dionisiache di Nonno di Panopoli? Potremmo rispondere a questa domanda se le pagine di questo testo fossero visibili, ma non lo sono, e noi capiamo che non lo possono essere perché la creazione del mistero incrementa la ricerca: se ci sono misteri ci sono ricerche...
Tutti i passi che stiamo facendo sull’itinerario di questa sera sono ispirati dal primo quadro de La Scuola di Atene di Raffaello dove sul basamento di una colonna dorica c’è un Libro intorno al quale ci sono quattro personaggi che rappresentano le quattro età della vita umana: sappiamo che questa immagine raffigura la celebrazione di un rito orfico-dionisiaco e, per acquisire maggiore consapevolezza, stiamo seguendo la trama del mito di Dioniso, ma noi – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – siamo soprattutto interessati a fare delle ipotesi sull’identità di questo Libro che rappresenta lo stelo della colonna. Sappiamo che questo Libro ha un’identità ideale ma proprio per questo motivo rappresenta uno stimolo intellettuale e noi, da questa sollecitazione, dobbiamo lasciarci provocare. E allora : riprendiamo la narrazione della trama del mito di Dioniso.
Nella scena dell’incontro amoroso tra Zeus e Semele vediamo il dio supremo trasformarsi in tante figure simboliche, e, durante questo incontro (ad alta tensione) viene concepito Dioniso. Era, o Giunone (che dir si voglia), la moglie di Zeus, si arrabbia moltissimo soprattutto perché sospetta che il marito sia davvero innamorato di questa fanciulla, e perciò, con impegno, trama contro Semele. Alla trama ingannevole di Era contro Semele allude poeticamente Ovidio nel III libro delle Metamorfosi. Era sa che Semele, come tutte le altre amanti di Zeus, ci tiene moltissimo che suo figlio possa diventare divino in modo che possa anche aspirare al potere. Allora Era, subdolamente, entra in contatto con Semele e si trasforma (anche lei come Zeus fa uso della metamorfosi) nella sua vecchia nutrice (qui c’è il modello della strega di Biancaneve) e, con fare molto persuasivo, le dice: “Ma sei proprio sicura che sia Zeus quello con cui ti sei accoppiata? Perché vedi, a volte, c’è qualche furbino che dice di essere un dio travestito da umano e ti frega! Quando costui ritorna da te chiedigli che si mostri in tutta la sua potenza divina, se è davvero Zeus te ne accorgerai e così, mentre si unisce a te, il bambino che concepisci si divinizzerà”. Quando Zeus e Semele si incontrano, Semele, ingenua, chiede a Zeus di soddisfare un suo desiderio, anzi lo fa giurare sul nome del fiume Stige (fiume infernale) che lui esaudirà questo desiderio: Zeus, che è ingenuo più di lei (si è davvero invaghito questa volta), la rassicura e giura che manterrà l’impegno. Alla richiesta di Semele che lui si mostri in tutta la sua potenza, Zeus rimane sconvolto: ha giurato sullo Stige e non può tirarsi indietro, e si dispera perché è il dio dell’energia elettrica e l’esperimento di mostrarsi in tutta la sua potenza è pericolosissimo, ma lui deve cedere alla richiesta di Semele che si presenta così dolce, così tenera, così combustibile. Zeus ce la mette tutta per mostrarsi nella sua potenza, producendo però meno watts possibile ma il fuoco che sprigiona da lui brucia tutto lo stesso: brucia la casa e anche Semele brucia e, avvolta dalle fiamme, muore, così Era, la moglie tradita, si è vendicata. Ma Zeus non vuole che questo bambino muoia e allora lo estrae dal corpo ustionato di Semele e se lo cuce in una coscia per portarlo a maturazione. Dioniso nasce dalla coscia di Zeus, viene affidato alla zia Ino che lo alleva tenendolo nascosto ma Era non è ancora soddisfatta non può sopportare il tradimento e neppure il frutto del tradimento e fa di tutto per perseguitare Dioniso fino a farlo diventare folle e a farlo uccidere dai Titani. Ma Dioniso riceve la solidarietà degli umani, soprattutto delle donne, che celebrano la sua follia in modo da tenerlo in vita, da farlo risorgere.
I riti di Dioniso – come abbiamo detto – sono rigeneratori e sono collegati ai cicli vitali della vegetazione (la vendemmia, la frangitura, le fienagioni, la battitura) e sono un pretesto per fare festa (qualcuna e qualcuno di voi li ha vissuti in prima persona e ha anche raccontato – come Cesare Pavese – ciò che era rimasto dei rituali orfico-dionisiaci, prima che subissero una epocale, e spesso traumatica, trasformazione).
Come si configurano in origine i riti di Dioniso? Inizialmente le menadi (o le baccanti), incoronate con frasche di alloro, indossando pelli di animali, danno la caccia agli uomini (di solito sono gli uomini che vanno a caccia: s’inverte la situazione) che si nascondono per non buscarle: questo rievoca il temporaneo ritorno a una condizione naturale e animale di parità che si conclude con la caccia e lo sbranamento di un animale selvaggio, che viene mangiato crudo (l’omofagia). Poi questa caccia cruenta si trasforma e diventa un rituale di danze collettive al ritmo sfrenato del ditirambo, un ritmo ossessivo e ripetitivo eseguito con flauti e tamburelli che provoca uno stato di trance, che viene chiamato “entusiasmo”.
A partire dal VI secolo a.C. questa ritualità arcaica viene sostituita progressivamente con le rappresentazioni simboliche del sacrificio della bestia, quasi sempre un caprone, in greco “tragos tragos”. Il caprone viene macellato, viene ben preparato, ben condito, ben arrostito sul fuoco e mangiato con abbondanti bevute di vino, mentre contemporaneamente si canta, si racconta, si recita, si satireggia, si fa pantomima. Da questo rito, che viene chiamato “il canto del caprone”, in greco “tragòs (il caprone) oidòs (il canto)”, nasce quella che chiamiamo la “tragedia”, uno dei generi letterari più importanti che la Storia del Pensiero Umano abbia creato al quale abbiamo dedicato, nell’anno scolastico 2003-2004, un Percorso.
È così che dagli originari riti cruenti di Dioniso si approda ai culti dell’Orfismo i quali si presentano come un rituale religioso che mette al centro il tempio (abbiamo iniziato questo itinerario partendo da Paestum) e contemporaneamente come un rituale laico che mette al centro il teatro. Anche La Scuola di Atene di Raffaello è collocata in un tempio: infatti la scenografia rappresenta una basilica, e contemporaneamente i personaggi sono disposti sul palcoscenico di un teatro. Il tempio e il teatro sono due elementi orfici che si compenetrano, e ne La Scuola di Atene il tempio (la basilica) e il teatro (il palcoscenico) s’inseriscono l’uno dentro l’altro come ad amplificare il fatto che la lettura dell’affresco deve partire proprio dalla descrizione di un rituale orfico-dionisiaco che si svolge intorno al basamento di una colonna dorica il cui fusto è rappresentato da un Libro.
La cultura orfica – questo vuol significare il contenuto del primo quadro de La Scuola di Atene – si manifesta attraverso una sapienza poetica che va studiata e che corrobora tutte le età della vita e il Libro ideale, il Libro ipotetico che è stato dipinto qui, contiene in sé una serie di Libri reali, concreti, materiali. Quali sono i libri che potrebbero essere contenuti nel Libro ideale dipinto da Raffaello nel primo quadro de La Scuola di Atene?
A questo punto riepiloghiamo e facciamo l’inventario delle ipotesi che, questa sera, strada facendo, abbiamo formulato. Nel Libro ideale, nel Libro ipotetico che si appoggia sul basamento della colonna dorica, potrebbe esserci contenuto il testo del De medicina animae di Hugone de Folieto e poi potrebbe esserci la raccolta ellenistica dei Frammenti Orfici e poi potrebbe anche esserci il testo degli Inni Orfici tradotto da Marsilio Ficino e potrebbe anche esserci il testo degli Oracoli Caldaici tradotto da Gemisto Pletone e naturalmente potrebbe esserci il testo delle Metamorfosi di Ovidio così come, per concludere la lista, potrebbe esserci il testo de Le Dionisiache di Nonno di Panopoli che viene considerato l’ultimo canto di Dioniso, l’atto finale di una cultura morente, ma, il sentirlo citare qui, tra gli oggetti culturali che emergono prepotentemente dal primo quadro de La Scuola di Atene, significa che il testo de Le Dionisiache di Nonno di Panopoli non è solo un punto di arrivo ma è anche soprattutto un punto di rilancio di una tradizione che è e che rimane ben presente nella società moderna. Ma di Nonno di Panopoli e dell’enigma contenuto nelle sue opere non abbiamo ancora detto nulla e, probabilmente, qualcuna e qualcuno di voi vorrebbe essere messa e messo al corrente, e forse altre e altri – pur conoscendo Nonno – non ricordano bene i termini del mistero. Come si fa a non incontrarlo ancora?
Intanto prende una certa tristezza riflettendo su ciò che non vedono (che non sanno vedere per una cronica carenza di alfabetizzazione) le centinaia di persone italiane e straniere che, quotidianamente, sfilano nella Stanza della Segnatura davanti all’affresco de La Scuola di Atene, e pensare che noi ne abbiamo preso in considerazione appena un frammento, appena un dettaglio, ma qui non c’è dettaglio che non sia importante, e la tradizione orfico-dionisiaca è un dettaglio molto importante: senza la cultura orfico-dionisiaca non ci sarebbe la sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele. Noi sappiamo che La Scuola di Atene è una cattedrale del Pensiero e questa cattedrale la vogliamo visitare in tutti i suoi dettagli più significativi.
Ora, avviandoci verso la conclusione, solo apparentemente cambiamo registro. Sappiamo che la cultura orfico-dionisiaca – con la quale siamo entrati in contatto questa sera attraverso la prima scena de La Scuola di Atene – porta con sé il tema dell’inquietudine. Dioniso è la figura mitica che esprime meglio l’inquietudine, il turbamento, il tormento esistenziale. L’età moderna è tempo di grandi inquietudini e il Rinascimento trova nell’inquietudine delle donne e degli uomini che ne delineano la cultura un forte stimolo per esercitare l’investimento in intelligenza. L’inquietudine dell’età rinascimentale – ce ne siamo resi conto – trova nella cultura orfico-dionisiaca un valido supporto e le artiste e gli artisti, e le scrittrici e gli scrittori ne rielaborano i miti, i caratteri, le virtù (se così si possono chiamare) e le bizzarrie, creando opere ricche di comicità, d’ironia, di satira. L’inquietudine dionisiaca stimola la produzione di comicità, d’ironia, di satira e, per contro, la comicità, l’ironia, la satira, che lo spirito dionisiaco genera, costituiscono un antidoto per lenire l’inquietudine.
Qui c’è una seria riflessione da fare: oggi il sistema di vita (bacchettone e consumistico insieme) ha creato le condizioni per medicalizzare l’inquietudine, per trasformare in patologia la tormentosa presenza di Dioniso (del pensiero orfico-dionisiaco) nella nostra mente, nella nostra intimità e nel profondo di noi. Ma l’inquietudine orfico-dionisiaca non è una malattia: è una tradizione culturale! Si è pensato bene di medicalizzare l’inquietudine anche quando non ce n’era affatto bisogno, invece di utilizzarla come stimolo per invogliare a dedicarsi ad attività culturali proprio perché questa inquietudine ha una radice intellettuale. Senza l’inquietudine orfico-dionisiaca non ci sarebbe mai potuto essere il Rinascimento così come si presenta, con la sua veste fatta di armonia, di equilibrio, di completezza, di euritmia (di senso delle proporzioni): la veste è quella di Apollo, ma sotto il vestito c’è Dioniso. L’obiettivo educativo che deve avere un Percorso di alfabetizzazione culturale – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – è quello di favorire l’acquisizione delle competenze necessarie perché ogni persona possa, quotidianamente, riflettere sul contrasto che si agita in lei tra Apollo e Dioniso, sulla contesa tra la serenità e l’inquietudine: due stati d’animo che – culturalmente parlando – dipendono l’uno dall’altro e che soprattutto con un esercizio di investimento in intelligenza (con un’opzione di tipo culturale) possono utilmente convivere. Il rapporto tra Apollo e Dioniso va culturalmente governato: i caratteri apollinei che fanno bella mostra di sé non vanno troppo magnificati e gli aspetti orfico-dionisiaci che si annidano nel profondo vanno portati in superficie e non vanno sottovalutati.
L’esempio più significativo che, in periodo rinascimentale, contiene il senso della riflessione che abbiamo fatto è un’opera che tutte e tutti noi abbiamo sentito nominare e il testo di quest’opera potrebbe stare – perché no? – nel Libro ipotetico dipinto da Raffaello sul basamento della colonna dorica nel primo quadro de La Scuola di Atene. Il fatto è che i protagonisti del progetto e della realizzazione dell’affresco non fanno in tempo a conoscere quest’opera, anche se il suo autore è già nato, ma è ancora un adolescente che è stato mandato a studiare in convento per fare – indipendentemente dalla sua volontà – la carriera ecclesiastica: stiamo parlando di François Rabelais, l’autore dell’opera famosissima (tanto famosa quanto sconosciuta) che s’intitola Gargantua e Pantagruel.
Ma chi è François Rabelais) François Rabelais è figlio di un facoltoso avvocato ed è nato probabilmente nel 1494 a La Devinière, non lontano da Chinon, in Turenna (c’è ancora il castello dove è nato).
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Fai una visita a questi luoghi con l’enciclopedia o con una guida della Francia o sulla rete…
In questa zona della Francia Rabelais ambienta l’azione del suo romanzo Gargantua e Pantagruel. Abbiamo detto che François viene destinato dalla famiglia alla carriera ecclesiastica senza averne la vocazione, e nel 1520 (l’anno della morte di Raffaello) diventa frate francescano nel convento di Puy-Saint-Martin e studia i classici greci e latini entrando anche in corrispondenza con il grande umanista Erasmo da Rotterdam. Nel 1528 esce dalla vita conventuale e si trasferisce a Parigi come prete secolare e comincia a studiare medicina all’Università della Sorbona. Inizia quindi una vita di vagabondaggi nel sud della Francia e si laurea dottore in medicina a Montpellier (1537) ed esercita la professione a Lione, dove comincia anche a pubblicare i suoi testi, entrando subito in contrasto con l’autorità ecclesiastica. Dal 1539 al 1543 Rabelais vive a Torino al seguito del governatore francese del Piemonte e, alla sua morte, si trasferisce a Parigi dove ottiene i benefici di due parrocchie. Dal 1547 al 1549 trascorre un lungo soggiorno a Roma insieme con all’arcivescovo di Parigi, suo amico e protettore. François Rabelais muore a Parigi nel 1553.
Rabelais dedica la sua vita alla grande epopea di Gargantua e Pantagruel, da lui pubblicata a più riprese dal 1532 al 1552. Non è stata un’impresa facile pubblicare quest’opera (forse ha fatto meno fatica a scriverla) perché appena appare viene immediatamente condannata dall’autorità ecclesiastica. Quindi l’attività letteraria di Rabelais comprende sostanzialmente la composizione del monumentale Gargantua e Pantagruel: quest’opera ha occupato l’autore per tutta la vita. Gargantua e Pantagruel è un romanzo vastissimo dove, attraverso le fantastiche imprese dei personaggi principali – Gargantua, Pantagruel, Panurge –, Rabelais mette alla berlina molti aspetti della cultura e della società del suo tempo. I suoi bersagli preferiti sono la Chiesa e l’Università, accomunate da una concezione dogmatica del sapere e tolleranti nei confronti della sopraffazione attuata dal potere con la violenza.
La scrittura di Rabelais però non arretra davanti a nulla: nelle pagine del suo libro trovano spazio le citazioni dotte e le discussioni, ma anche gli aspetti più comuni e volgari della vita, che fino ad allora non avevano goduto di un’ampia presenza in letteratura. Rabelais ha fede nella natura e valorizza il mondo degli istinti e della vita materiale (la tradizione dionisiaca): nel Gargantua e Pantagruel, infatti, hanno molta importanza la soddisfazione dei bisogni primari, come mangiare, defecare e avere rapporti sessuali. Con Rabelais la letteratura tocca aspetti che sono stati definiti “carnevaleschi”: il Gargantua e Pantagruel è un racconto incalzante vicino ai modi della festa popolare, e tutti gli episodi e le figure, tutte le scene di battaglia, le risse, le botte, gli scherzi, le destituzioni sia di persone che di cose, sono trattati da Rabelais con lo spirito della festa popolare. Per questo motivo nell’opera di Rabelais c’è un’ambivalenza: l’abbassamento e la distruzione sono strettamente legate alla resurrezione e al rinnovamento, la morte di ciò che è vecchio è strettamente legata alla nascita di ciò che è nuovo e tutte queste immagini riportano all’unità contraddittoria del mondo che muore e rinasce, quindi, tutto il libro, dall’inizio alla fine, è pervaso dall’atmosfera proveniente dalla tradizione orfico-dionisiaca.
Nonostante le numerose condanne dell’autorità ecclesiastica, la fortuna del Gargantua e Pantagruel è stata enorme e immediata: il successo è dovuto al contenuto di carattere dionisiaco e alla forma che si presenta con uno stile unico, costituito da un particolare impasto di espressioni gergali, di oscenità, di termini dotti, di latinismi, di neologismi che danno vita a un linguaggio che si presenta in modo straordinariamente flessibile.
E adesso, per concludere, leggiamone un frammento ponendo attenzione alle azioni provocatorie di Gargantua bambino:
LEGERE MULTUM….
François Rabelais, Gargantua e Pantagruel Libro I , capitolo XI (1552)
Dai tre ai cinque anni Gargantua fu allevato ed educato secondo il volere del padre in ogni disciplina conveniente; e passò quel tempo come tutti i bambini del paese; bevendo mangiando e dormendo; mangiando dormendo e bevendo; dormendo bevendo e mangiando. Sempre s’avvoltolava nel fango, s’incarbonava il naso, s’imbrattava la faccia, scalcagnava le scarpe, sbadigliava spesso alle mosche e inseguiva volentieri i farfalloni soggetti alla giurisdizione dell’impero paterno. Si pisciava sulle scarpe, smerdava la camicia, si soffiava il naso nelle maniche, moccicava nella minestra, sguazzava dappertutto, beveva nelle pantofole e si grattava di solito la pancia con un paniere. Aguzzava i denti con uno zoccolo, lavava le mani nella minestra, si pettinava con un bicchiere, sedeva tra due selle col culo a terra, si copriva con un sacco bagnato, beveva mangiando la zuppa, mangiava la focaccia senza pane, mordeva ridendo, rideva mordendo, sputava nel piatto, peteggiava grasso, pisciava contro il sole, si tuffava nell’acqua per ripararsi dalla pioggia, batteva il ferro quand’era freddo, fantasticava chimere, faceva lo smorfioso, faceva i gattini, diceva il pater noster della bertuccia, ritornava a bomba, faceva l’indiano, batteva il cane davanti al leone, metteva il carro davanti ai buoi, si grattava dove non gli prudeva, faceva cantare i merli, troppo abbracciava e nulla stringeva, mangiava il pan bianco per primo, metteva i ferri alle cicale, si faceva il solletico per scoppiar dal ridere, si slanciava con ardore in cucina, la faceva in barba agli dei, faceva cantar magnificat a mattutino e gli andava a fagiolo. Mangiava cavoli e cacava tenero, discerneva le mosche nel latte, faceva perder le staffe alle mosche, raschiava la carta, scarabocchiava la pergamena, se la dava a gambe, tirava all’otre, faceva i conti senza l’oste, faceva il battitore senza prender gli uccelletti, prendeva le nuvole per padelle di bronzo e le lucciole per lanterne, pigliava due piccioni e una fava, faceva l’asino per aver crusca, del pugno faceva mazzuolo, voleva mettere il sale sulla coda alle gru per prenderle, sfondava porte aperte, a caval donato guardava sempre in bocca, saltava di palo in frasca, tra due verdi metteva una matura, colla terra faceva il fosso, faceva guardia alla luna contro i lupi, sperava, calando le nubi, prendere le allodole cascate dal cielo, faceva di necessità virtù, quale il pane, tale faceva la zuppa, faceva distinzione tra rasi e tonduti, ogni mattina vomitava l’anima. I cagnolini del padre mangiavano nella sua scodella, ed egli mangiava con loro. Egli mordeva loro le orecchie, essi gli graffiavano il naso; egli soffiava loro nel culo, essi gli leccavan le labbra. E volete sentirne una, ragazzi? Che il mal di botte v’inghiotta! Questo piccolo porcaccione palpeggiava sempre le sue governanti sopra e sotto davanti e di dietro e arri somari! …
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Rileggi con calma il capitolo XI del Libro I del Gargantua e Pantagruel di François Rabelais e scegli l’azione di Gargantua che vi è piaciuta di più e scrivila…
Questa sera abbiamo lasciato qualcosa in sospeso perché di Nonno di Panopoli e dell’enigma contenuto nelle sue opere non abbiamo ancora detto nulla e, probabilmente, qualcuna e qualcuno di voi vorrebbe essere messa e messo al corrente, e forse altre e altri – pur conoscendo Nonno – non ricordano bene i termini del mistero. Come si fa a non incontrarlo ancora sulla scia della cultura orfico-dionisiaca? Questo vale anche per François Rabelais e per i personaggi del suo Gargantua e Pantagruel: come si fa a non incontrarli ancora (non abbiamo ancora detto nulla di quest’opera) sulla scia della tradizione orfico-dionisiaca?
La tradizione orfico-dionisiaca è un dettaglio molto importante: senza la cultura orfico-dionisiaca non ci sarebbe la sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele ed è in questa direzione che va il nostro Percorso.
Il viaggio continua: la Scuola è qui...