Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza di Socrate Platone Aristotele 3-4-5 dicembre 2008
SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, PLATONE E ARISTOTELE
C’È L’ALFABETO COME STRUMENTO DI PROMOZIONE UMANA ...
Questo viaggio di studio si propone, come obiettivo principale, quello di conoscere e di capire le parole-chiave e le idee-cardine che caratterizzano la sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele. Nove settimane fa siamo partiti dall’Areopago di Atene prendendo il passo da una via che è stata chiamata la via del rispetto della legge. Quindi abbiamo cominciato il nostro Percorso nel nome di Socrate (che è vissuto fino al 399 a.C.), pensando a Platone (che è vissuto fino al 347 a.C.) e ad Aristotele (che è vissuto fino al 322 a.C.): questi tre significativi modelli culturali caratterizzano la Storia della cultura in modo tale che – e lo abbiamo capito strada facendo – all’inizio del XVI secolo, del 1500, si trovano al centro del Pensiero intellettuale della cristianità (dell’identità culturale che ci è più prossima). La centralità culturale di queste figure la si può osservare soprattutto nello straordinario affresco che s’intitola La Scuola di Atene e che Raffaello – su mandato di papa Giulio II – ha cominciato a dipingere esattamente cinquecento anni fa (stiamo anche celebrando questo anniversario) dal 1508 al 1511. Per questo motivo – come ormai ben sappiamo – il nostro Percorso, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, avanza su due corsie: la corsia (moderna) che corre nello spazio rinascimentale dell’affresco e la corsia (antica) che attraversa il territorio orfico dell’Ellade.
Procedendo sulla corsia (moderna) che corre nello spazio rinascimentale dell’affresco abbiamo appreso che il primo quadro (il primo cartone preparatorio) di cui si compone La Scuola di Atene rappresenta un rito orfico-dionisiaco che si svolge intorno al basamento di una colonna dorica il cui fusto è rappresentato da un Libro, e a questo rito partecipano quattro personaggi – un bambino, un vecchio, un giovane e un uomo maturo – che raffigurano le quattro età della vita. Abbiamo capito che il contenuto di questo primo quadro di cui si compone l’affresco vuol significare che la cultura orfico-dionisiaca – che abbiamo studiato negli ultimi itinerari perché sta alla base del pensiero di Socrate, di Platone e di Aristotele (e non solo) – si manifesta attraverso un movimento poetico-sapienziale le cui opere vanno studiate. Il Libro ipotetico che è stato dipinto qui da Raffaello, risulta essere il contenitore di una serie di Libri reali che devono essere conosciuti (letti, almeno in parte) e sui quali è necessario riflettere.
Certamente, arrivate e arrivati a questo punto, abbiamo capito che La Scuola di Atene – come proclama il titolo – rappresenta un percorso di studio che disegna il cammino di un pellegrinaggio della mente che va compiuto con dedizione se si vuole conoscere e capire la base intellettuale della nostra identità culturale. Il Libro ideale che è stato dipinto qui da Raffaello, risulta essere il contenitore di una serie di Libri reali – da leggere e su cui riflettere – che noi abbiamo inventariato su consiglio di Fedra Inghirami, il bibliotecario della Biblioteca pontificia.
Sappiamo che nel Libro ipotetico dipinto da Raffaello, tenuto appoggiato da uno dei personaggi sul basamento della colonna dorica, potrebbe esserci contenuto il testo del De medicina animae di Hugone de Folieto e poi potrebbe esserci la raccolta ellenistica dei Frammenti Orfici e poi potrebbe anche esserci il testo degli Inni Orfici tradotto da Marsilio Ficino e potrebbe anche esserci il testo degli Oracoli Caldaici tradotto da Gemisto Pletone e naturalmente potrebbe esserci il testo delle Metamorfosi di Ovidio, così come, sappiamo che potrebbe esserci, il testo de Le Dionisiache di Nonno di Panopoli che viene considerato l’ultimo canto di Dioniso, l’atto finale di una cultura morente. Ma nell’itinerario della scorsa settimana abbiamo capito che il testo de Le Dionisiache di Nonno di Panopoli – insieme all’altra sua opera importante, la Parafrasi del Vangelo di Giovanni – non è solo un punto di arrivo, ma nel Rinascimento diventa un punto di rilancio di una tradizione che è e che rimane ben presente nella società moderna e contemporanea. Nonno di Panopoli – come abbiamo studiato la scorsa settimana – ci porta a riflettere dentro ad uno dei temi più affascinanti, enigmatici ed arcani della Storia del Pensiero Umano: il tema dei complessi e ambigui rapporti tra la tradizione orfico-dionisiaca e la dottrina del Cristianesimo, e questo (come abbiamo capito) è il tema fondamentale che ha ispirato – soprattutto al papa Giulio II – la progettazione e la realizzazione de La Scuola di Atene.
La scorsa settimana abbiamo affrontato il tema del cosiddetto enigma delle opere di Nonno di Panopoli. Le opere di Nonno di Panopoli – le Dionisiache e la Parafrasi del Vangelo di Giovanni – rappresentano solo apparentemente il tramonto della cultura greca sulla quale si è prepotentemente sovrapposto il Cristianesimo. In realtà le opere di Nonno, soprattutto le Dionisiache, pongono una serie di domande ricorrenti che svolgono la funzione di mantenere vivo il dibattito, per tutto il Medioevo, sul ruolo della tradizione orfico-dionisiaca la quale, in età moderna (come stiamo studiando), torna in auge, e allora da più di cinquecento anni ci si domanda: perché, se Nonno è un intellettuale cristiano, egli sente il dovere, tra il V e il VI secolo, di tornare a Dioniso? Perché sente il dovere di rimettere al centro la cultura dionisiaca, invece di nasconderla? Perché Nonno definisce Dioniso con gli stessi attributi ormai assunti da Gesù Cristo: soter, il salvatore, dikaster, il giudice? E perché Nonno attribuisce anche a Gesù Cristo l’attributo più provocatorio di Dioniso: l’oìstros bròmion, il tafano fremente? Se ammettessimo che Nonno è un intellettuale cristiano: perché, in questo momento storico (all’inizio dell’Alto Medioevo), pensa di far avvicinare la figura di Cristo alla figura di Dioniso, invece di affossare Dioniso una volta per tutte?
Queste domande – abbiamo detto la scorsa settimana in conclusione di Percorso – rimandano anche ad un tema significativo: questo tema lo abbiamo già affrontato in questi anni e riguarda una complicata operazione culturale che dobbiamo studiare o ripassare perché tutti gli argomenti sfumano, col tempo, nella nostra mente e si finisce sempre per dimenticare (il cervello ha il potere di obliare, per fortuna). Di che cosa tratta questo argomento e che cosa c’entra Nonno di Panopoli?
Tra il V e il VI secolo – l’età in cui vive Nonno –, si pone pressante, nella Chiesa di Roma (ma già si era posto a Costantinopoli), il problema di cristianizzare la Storia, di riformare il calendario che continua a contare gli anni dalla fondazione di Roma (ab urbe condita) anche se la Roma imperiale oramai è caduta in disgrazia. Tra il V e il VI secolo, si pone pressante, nella Chiesa di Roma, la questione di far ripartire la Storia dalla nascita di Cristo, di spaccare definitivamente la storia in due: prima di Cristo e dopo Cristo. Noi abbiamo introiettato una visione mitica del Cristianesimo, per cui siamo stati portati a pensare che la notte di Natale, al canto degli angeli, la Storia, come per magia, si sia spaccata in due e, davanti alla mangiatoia che fa da culla al divino bambino, i pastori presenti brindino all’anno numero uno della nuova era.
Il problema di riformare il calendario e di rifondare tutta la storia umana in senso cristiano si pone, nella Chiesa di Roma, ben cinque secoli dopo la nascita di Gesù. E anche questo avvenimento, nella storia della Cristianesimo e nella storia della Chiesa, non è stato indolore; c’è stato uno scontro, lungo e violento, determinato dal quadro storico e politico di questo periodo, siamo all’inizio, abbiamo detto – dopo la caduta dell’Impero romano d’occidente – del così detto Alto Medioevo (un periodo molto interessante per la Storia del Pensiero Umano e che, prossimamente, ci ripromettiamo di ristudiare in funzione della didattica della lettura e della scrittura: di questo periodo abbiamo sempre sentito dire che è formato da secoli bui, il fatto è che ci sono anche molte luci accese che, essendoci allora meno inquinamento luminoso, brillano ancora di più, pensate a Nonno di Panopoli che, nonostante viva nell’ombra all’inizio dell’Alto Medioevo, è poi riuscito ad illuminare l’età moderna.
Ebbene, che cosa c’entra Nonno di Panopoli con la questione della cristianizzazione della Storia, del calendario e, quindi, del concetto del “tempo”? Nonno di Panopoli potrebbe essere uno di quegli intellettuali cristiani che si schiera contro la cristianizzazione del tempo e della Storia. E che ripercussioni ha questa ipotesi con quello che stiamo studiando?
Noi sappiamo che, in questo momento, nell’ufficio del papa, Fedra Inghirami, davanti a Giulio II, al Bramante e a Raffaello, ha appena finito d’illustrare gli elementi fondamentali di questa questione che si è posta nell’ambito dei numerosi problemi culturali che pone l’enigma di Nonno (che – sempre guidati da Fedra Inghirami – abbiamo studiato la scorsa settimana). Giulio II ha chiesto al suo bibliotecario – che ha in mano i codici e i documenti della Storia della Chiesa – una relazione dettagliata sulla questione perché una riflessione su questo argomento è certamente utile per la rappresentazione del concetto del “tempo” ne La Scuola di Atene, e le considerazioni di Fedra Inghirami – dopo che lui le ha comunicate al papa e ai suoi compagni di studio – adesso le possiamo utilizzare anche noi.
Fedra Inghirami comincia la sua relazione alludendo al fatto che Nonno di Panopoli potrebbe essere uno di quegli intellettuali cristiani che si schiera contro la cristianizzazione del tempo e della Storia: il papa vuole capire in quali termini la Chiesa debba padroneggiare il “tempo” e quale immagine debba presentare di questo concetto. Come si fa a pensare che prima dell’incarnazione di Cristo – sostenevano i contrari alla cristianizzazione del tempo – non ci fosse già nella Storia l’impronta della salvezza? E sostenevano inoltre che la Parola di Dio, il Logos, si è incarnato non per cristianizzare la Storia, ma per umanizzare il Mondo.
Perché si deve (magari con la forza) cristianizzare il “tempo, il chronos” ? Il termine “chronos chronos”, in greco, definisce il “tempo che passa”, determina il tempo concepito come quantità. Ma Gesù Cristo si è incarnato – come scrive Paolo di Tarso nella Lettera ai Romani – non per conquistare il tempo (secondo la quantità) ma per “trasformare il tempo” (secondo la qualità). Quindi la resurrezione di Cristo (anastasia) – come scrive Paolo di Tarso nella Lettera ai Romani – ha il potere di trasformare il tempo che passa, il chronos, in tempo che resta, il kairòs. La parola kairòs definisce il “tempo che è”, e si traduce: “ora è il tempo”. Il tempo che passa, il chronos, è un tempo che non è più, e il tempo che verrà, l’èskaton, è un tempo che non è ancora, quindi – sostiene Paolo di Tarso nella Lettera ai Romani – il tempo può essere definito solo come kairòs perché il kairòs è la consapevolezza di un presente continuo: ora è il tempo! Gesù Cristo – sostengono coloro che si oppongono alla cristianizzazione del tempo –vuole trasformare la qualità del tempo, vuole che si viva con la consapevolezza che la vita è un dono perché ci ha salvati dall’oblio, non vuole quindi impossessarsi della quantità del tempo perché il concetto della quantità legato al tempo porta a materializzare (a monetizzare) troppo il presente, a rifugiarsi in modo improduttivo nel passato e ad alienarsi nell’irrealtà del futuro.
È probabile che il pensiero di Nonno s’identifichi con queste idee. Il tempo è un “adesso”, è un “ora”, è un “presente”, in cui si vive la gioia della salvezza che si è realizzata con la resurrezione: perché impossessarsi della quantità del tempo e della Storia quando la risurrezione ha cambiato la qualità delle cose? Cristianizzare la Storia – per molti intellettuali cristiani dell’epoca – significa rendere statico il messaggio evangelico che propone la trasformazione della persona, la trasformazione dell’Umanità e anche la trasformazione del concetto del tempo. La predicazione del Vangelo non deve produrre forme di cristallizzazione, ma deve “trasformare”. “Cristianizzare il tempo” significa togliere al Vangelo il suo slancio propulsivo. Il tempo della resurrezione di Cristo – che si è realizzato – è un continuo presente, è un kairòs: non è un tempo che passa (che già non c’è più), né un tempo che verrà (che non c’è ancora), ma è un tempo che resta, in cui, ogni potere sulle cose si è dissolto, quindi, voler cristianizzare il tempo – impadronirsi del tempo, della Storia – è come negare la resurrezione.
Nel comporre La Scuola di Atene – annuisce Guilio II – Raffaello deve far emergere questa idea del tempo, l’idea del kairòs, che non è un tempo che passa ma è un tempo che resta. Giulio II annuisce perché sa quanto sia difficile compiere questa operazione: il fatto è che Raffaello (con la lezione teorica di Fedra Inghirami e con i consigli pratici del Bramante) ci è riuscito a rappresentare il kairòs e a dare una visibilità alla qualità del tempo, e adesso questa qualità la possiamo percepire anche noi guardando l’immagine de La Scuola di Atene nel suo insieme perché la conoscenza del concetto che è contenuto dall’oggetto diventa reale se lo stesso concetto è contenuto anche nell’occhio che guarda: questa questione ce la faremo spiegare meglio da Platone, strada facendo.
La Scuola di Atene rappresenta un kairòs, un “tempo che resta”, e comunica l’idea sublime che il tempo che resta è quello dedicato all’investimento in intelligenza, allo studio. E allora trovate il tempo (il chronos, il tempo che passa) da dedicare all’osservazione dell’affresco per percepire il concetto del tempo (il kairòs, il tempo che resta) e per riflettere su come investire il tempo (l’èskaton, il tempo che verrà).
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Qual è la cosa che ti piacerebbe fare e per la quale non trovi il tempo?…
Per rispondere ti servono solo due minuti, scrivi…
Nonno di Panopoli – secondo la relazione di Fedra Inghirami – ha fatto sicuramente questi ragionamenti sul concetto del “tempo” ed è possibile che sia uno di questi intellettuali cristiani che si sono battuti contro la conquista del tempo, contro la cristianizzazione del tempo e della Storia. Ma la cristianizzazione del tempo e della Storia avviene comunque nel VI secolo e in questa operazione – dal 530 al 556 – sono coinvolti un certo numero di papi, in un momento storico, all’inizio dell’Alto Medioevo, assai complesso.
Il piano di cristianizzazione della Storia è stato ufficializzato, però, non a Roma, ma a Costantinopoli – la capitale dell’Impero romano d’oriente, dell’impero bizantino –nell’anno 553, durante il V Concilio di Costantinopoli, sotto l’egida dell’imperatore Giustiniano che di fatto, in questo momento, armi in pugno, controlla e condiziona le scelte e gli indirizzi della Chiesa di Roma.
Il piano di cristianizzazione del tempo e della Storia si concretizza per opera di un monaco, che è uno studioso, e che si chiama Dionigi detto il Piccolo (Diònisios ò mikròs), a cui il papa Giovanni II affida l’incarico di costruire il calendario cristiano.
Quando compaiono i papi c’è sempre qualche curiosità (che stimola lo studio) da mettere in evidenza. Di papa Giovanni II, per esempio, dobbiamo ricordare che di nome proprio si chiamava Mercurio ed è stato il primo papa, nel 533, a cambiarsi il nome, a stabilire che il papa poteva scegliersi un nome diverso da quello che aveva: che un papa si chiamasse Mercurio – in un momento in cui il Cristianesimo combatte per sottomettere il Paganesimo – non era molto opportuno. Comunque da questo momento tutti i papi si sceglieranno un nome diverso dal loro nome proprio.
Ma torniamo a Dionigi il Piccolo che riceve da Giovanni II (alias Mercurio) l’incarico di costruire il calendario cristiano. Dionigi il Piccolo – che è un personaggio importante nella storia della cultura – è nato in Scizia (la regione a nord del mar Nero che abbiamo visitato con Erodoto) nell’anno 500 circa, è un teologo ed è un matematico che ha introdotto a Roma la Tavola dei Cicli di Cirillo di Alessandria. Cirillo di Alessandria aveva cominciato a studiare, un secolo prima, in quale anno dell’era romana fosse nato Gesù di Nazareth. Dionigi il Piccolo conclude lo studio sulla possibile data di nascita di Gesù e trasforma così il calendario romano in calendario cristiano. Vi siete rese e resi conto di come si chiama questo monaco? Questo monaco, ironia della sorte, ci chiama Dionigi che equivale al nome Dioniso. È buffo pensare che colui il quale studia il modo per spaccare la Storia in due nel nome di Cristo si chiami come Dioniso...
Dionigi il Piccolo, nell’anno 532, comincia a sperimentare il computo degli anni dalla nascita di Cristo, da quella che lui ritiene la data probabile (non esprime una certezza) della nascita di Gesù, mettendo insieme i rari dati storici, e i dati provenienti dalla Letteratura dei Vangeli (che però storica non è). E così il 25 dicembre dell’anno 555 – che da due secoli circa i vescovi di Roma avevano scelto come data per celebrare la nascita di Gesù, perché combaciava, nel calendario romano, con la festa del Sol invictus, del Sole vincitore: infatti le giornate ricominciavano ad allungarsi e Gesù Cristo, come il Sole, ha vinto le tenebre – entra (anche con l’approvazione dell’imperatore Giustiniano) in vigore ufficialmente, nella Cristianità, il nuovo calendario orientato secondo la data (ipotetica) dalla nascita di Cristo. In questo momento, ufficialmente, il calendario romano va in pensione e cessa il computo degli anni dalla data mitica della fondazione di Roma, il tempo non si conta più ab Urbe condita (dalla fondazione di Roma) ma ad Christum natum (dalla nascita di Cristo). L’anno 1 combacia – secondo gli studi di Dionigi – con l’anno 753 dalla fondazione di Roma: secondo i calcoli di Dionigi, quindi, Gesù di Nazareth è nato 753 anni dopo la fondazione di Roma e, di conseguenza, il 753 dell’era romana diventa l’anno 1 dell’era cristiana e, in quest’ottica, viene ristrutturata la Storia del mondo e la datazione degli avvenimenti.
Ancora oggi, in tutto il mondo, gli anni si contano, secondo il computo di Dionigi il Piccolo, ma nessuno sembra ricordarselo perché nessuno lo sa: Dionigi ha sempre sostenuto che il suo computo – non suffragato da dati certi – è un’ipotesi di lavoro, ma la Chiesa (affezionata ai dogmi) ha presentato questa ipotesi come una certezza facendo cadere il velo del silenzio su Dionigi il Piccolo che, per la sua onestà intellettuale, risulta scomodo. Gli studi più recenti ci dicono che – con i dati che abbiamo a disposizione – la data di nascita di Gesù di Nazareth è collocabile tra il 4 e il 7 a.C. e Dionigi il Piccolo, Diònisios ò mikròs, sarebbe soddisfatto di sapere che l’ipotesi da lui formulata è molto simile a quella formulata dalle studiose e degli studiosi contemporanei che possiedono più mezzi d’indagine di quelli che avesse a disposizione lui.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Che oggetto è il calendario (o i calendari) che hai in casa?…
Descrivilo, bastano quattro righe in proposito…
E ora di Nonno di Panopoli conosciamo tutti gli interrogativi che lo riguardano. Chi è veramente Nonno di Panopoli? È un pagano che tiene accese le ultime luci della cultura greca ed esalta la paganità con il poema su Dioniso e poi si converte alla nuova fede, al Cristianesimo, che allora è già dominante, scrivendo la Parafrasi del Vangelo di Giovanni? Oppure, forse, avviene il contrario: Nonno è un cristiano che, ad un tratto, viene folgorato dalla paganità, e così dalla Parafrasi passa all’onda travolgente delle Dionisiache? Oppure succede che Nonno scrive nello stesso tempo le Dionisiache e la Parafrasi e disegna con una mano le avventure di Dioniso e con l’altra evoca il processo di Gesù? Nonno è un pagano che guarda al cristianesimo, oppure è un cristiano che guarda al paganesimo, o è un intellettuale laico che analizza entrambe le correnti, cercandone i tratti concomitanti? Ecco come ci si presenta l’enigma (o l’arcano) di Nonno di Panopoli e della sua opera: uno dei misteri più affascinanti della storia della cultura.
Ma adesso è l’ora di portare a termine il discorso specifico sul tema della tradizione orfico-dionisiaca: un tema che, comunque, fa sempre capolino in tutti i viaggi culturali e naturalmente spunterà ancora molte volte sul nostro Percorso.
Per portare a termine il discorso specifico su questo tema torniamo al grande racconto in cui si sviluppa il mito di Dioniso perché – secondo la relazione di Fedra Inghirami sul testo delle Dionisiache di Nonno di Panopoli – c’è ancora un elemento da mettere in evidenza per dare significato al fatto che sull’affresco, che sta per essere realizzato, nel riquadro che riguarda il rito orfico-dionisiaco, lo stelo della colonna dorica debba essere sostituito da un Libro: certamente, dal punto di vista estetico, la colonna sarebbe stata più bella ma anche insignificante. Il Libro che deve essere dipinto sul basamento della colonna dorica – aggiunge Fedra Inghirami – non necessariamente deve fare riferimento a un contenuto specifico: va bene – aggiunge Fedra Inghirami – è utile anche far riflettere sul catalogo dei titoli dei libri che potrebbero essere contenuti in questo volume ideale, ma non c’è solo un problema di contenuti, c’è anche una questione che riguarda la forma. Che cosa significa? Significa – puntualizza Fedra Inghirami – che non ci sarebbe scrittura, non ci sarebbe testo, non ci sarebbe libro, non ci sarebbe la materializzazione (la colonna) del pensiero se non ci fosse l’alfabeto.
E allora (domandano i compagni di studio di Fedra rintanati nell’ufficio del papa), che cosa c’entra l’alfabeto (la colonna dell’alfabeto) con la tradizione orfico-dionisiaca? E Fedra Inghirami illustra la sua relazione, di cui anche noi usufruiamo.
Il personaggio di Dioniso, secondo la tradizione, è stato concepito a Tebe e Tebe è la città fondata da Cadmo (ricordate la narrazione del mito di Dioniso?). E nella tradizione dionisiaca i personaggi di Cadmo e di sua moglie Armonia sono fondamentali per completare il senso che deve essere dato a questo mito. Cadmo è il padre di Semele, la sfortunata madre di Dioniso, amata e bruciata da Zeus, quindi Cadmo – in questo improbabile gioco delle parentele – è il nonno di Dioniso e sua moglie Armonia è la nonna di Dioniso.
Chissà perché la città di Tebe, oggi, non è una meta turistica di primo piano, eppure lì, chi ci va, e se domani noi ci andassimo, potremmo respirare l’aria (l’etere) che avvolge queste straordinarie narrazioni mitiche che non sono mai avvenute ma sono sempre. Le pietre di Tebe parlano di Cadmo e di Armonia e oggi Tebe, Thìva è una cittadina della Beozia, di circa 20.000 abitanti, ai piedi dei monti Elicona e Citerone. Tebe, oggi, non è una meta turistica di primo piano, sebbene sia una delle più celebri città della Grecia antica, teatro di fondamentali racconti tragici in cui troviamo figure mitiche di spicco come Laio, Edipo, Etéocle e Polinice e i Sette di Argo, i mitici protagonisti di un celebre assedio alla città.
Tebe è stata danneggiata – non nel mito ma nella realtà – da diversi terremoti (considerati una manifestazione di Dioniso), e conserva delle tracce molto significative del suo glorioso passato. A Tebe possiamo visitare il sito dell’acropoli, chiamata rocca Cadmea: di lì possiamo vedere – con gli occhi del mito – le aquile che, affascinata, vedeva volare Semele e sappiamo che una sera, una di queste aquile, si posa accanto a lei. A Tebe possiamo visitare il sito degli scavi di un grande palazzo, chiamato palazzo di Cadmo del periodo Elladico (XIV secolo a.C.). A sud-est della città, troviamo i resti della porta d’Elettra, che fa parte delle mura del IV secolo a.C., e presso il cimitero, su una collina, ci sono le fondamenta di un tempio di Apollo Isménio (IV sec. a.C.). Molti oggetti, soprattutto statue arcaiche, sono raccolte nell’interessante museo archeologico che possiamo visitare.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Se utilizzi l’enciclopedia, o una guida della Grecia, o la rete puoi completare la tua visita di studio a Tebe, buon viaggio…
Noi sappiamo che – secondo la tradizione mitica – Cadmo è originario di Sidone, in Fenicia, e fonda Tebe che si trova a nord-est del golfo di Corinto, nel cuore della penisola Attica, mentre è in viaggio (deve seguire una vacca secondo l’oracolo di Delfi) alla ricerca della sorella Europa rapita da Zeus trasformato in bianco toro. Zeus (ricordate?) è preoccupato che Cadmo si accorga della sua responsabilità nel rapimento della sorella, e preventivamente benedice Tebe, e lascia le sue saette sulla rocca in omaggio alla città e a Cadmo. Sappiamo che Cadmo, successivamente, anche se non nutre simpatia per lui, aiuta Zeus quando viene a trovarsi in grande difficoltà contro il mostro Tifone, che si è ribellato e ha disarmato Zeus, che si rifugia a Tebe. Sappiamo che Cadmo restituisce a Zeus le saette che aveva ricevuto in dono da lui e che, con quelle armi, Zeus può così annientare Tifone il mostro titanico che (ancora oggi in certe parti del mondo) fa danni con la sua forza naturale. Zeus è un dio che fa danni con la sua energia divina mal utilizzata. Cadmo invece è solo un mortale che porta con sé e usa il più importante strumento di promozione umana che mai, secondo i Greci, sia stato concepito: l’alfabeto. Cadmo (e lo diciamo alla fine perché dovevamo aspettare la relazione di Fedra Inghirami) parte alla ricerca di sua sorella con un bagaglio molto leggero nel quale c’è anche lo strumento di promozione umana a cui è più legato: l’alfabeto.
Sa che con l’alfabeto può comunicare, può passare le frontiere, può procurarsi il necessario per viaggiare e per sostentarsi: con l’alfabeto saprà costruire una città e saprà mantenere una famiglia, saprà civilizzare, e potrebbe vivere felice e contento se, intorno a lui, non ci fossero mostri ignoranti (come Tifone) e dèi ignoranti (come Zeus). In greco la parola alfabeto corrisponde al termine stoichia-stoicheia, che significa: copertura, tetto, riparo, edificio, casa.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Qual è la lettera dell’alfabeto che ti piace di più? Questa è una domanda di carattere autobiografico: scrivi quattro righe in proposito…
Sappiamo che Zeus – per il grande favore ricevuto – ricompensa Cadmo facendogli conoscere una donna bellissima: Armonia. E le nozze di Cadmo e Armonia sono il preludio della tragedia di Dioniso, e la collana, che Armonia riceve in dono, come regalo di nozze, è la figura della corona, un oggetto tragico per eccellenza, uno stampo delle origini che racchiude insieme il castigo e il premio. Sappiamo che Cadmo e Armonia hanno cinque figli: Polidoro, Autonoe, Ino, Agave e Semele. Zeus ama Semele e concepisce, con lei, Dioniso. Ma Semele – ingannata da Era, la moglie gelosa e vendicativa di Zeus – vuole vedere il dio in tutto il suo splendore e così – come sappiamo – prende fuoco e brucia (il fuoco dà luce e manda in cenere). Sappiamo che Zeus salva questa creatura, estraendola dal corpo di Semele morente e la porta a maturazione covandola lui e poi affidandola ad Agave, la sorella di Semele.
Qui bisogna aprire una parentesi perché questo elemento narrativo fa venire in mente un grande romanzo – che è anche un lungo romanzo, più lungo di Guerra e pace, ma straordinariamente agile perché chi lo ha scritto ha una capacità narrativa fuori dal comune – e quindi, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, non possiamo fare a meno di mettere in evidenza questa significativa circostanza. Il romanzo in questione – che probabilmente qualcuna e qualcuno di voi avrà letto perché lo abbiamo presentato quando è stato ripubblicato in Italia (da ben due case editrici in competizione) qualche anno fa – s’intitola La Sanfelice, scritto, a Napoli, da Alexandre Dumas dal 1863 al 1865 su pressante invito di Giuseppe Garibaldi (il perché di questo fatto potete scoprirlo leggendo la presentazione). Chi è La Sanfelice? Se non lo sapete (o se dovete rinfrescarvi la memoria) scopritelo voi personalmente in biblioteca.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Lo scrittore Alexandre Dumas ricalca il mito della nascita di Dioniso, per far nascere Salvato, uno dei personaggi-chiave del romanzo La Sanfelice …
In biblioteca puoi leggere il cap. VII e VIII di questo affascinante romanzo, ma è meglio cominciare la lettura dall’inizio e sarai certamente tentata, sarai certamente tentato, di leggere più di quattro pagine al giorno…
Sappiamo che Dioniso, allevato dalla zia Agave, con il suo talento musicale e creativo e con il suo carattere sentimentale e poetico, indica all’essere umano una strada per arricchire maggiormente la propria personalità: non siamo solo ragione e intelletto siamo anche sentimento e cuore, con tutto quello che comporta, nel bene e nel male. Dioniso viene ucciso ma risorge perché il talento, il sentimento, la musica, la poesia, l’anima non può morire. Attraverso Dioniso, il concetto dell’anima immortale entra nella cultura occidentale.
La zia Agave, dopo la morte di Dioniso – fatto a pezzi dai titani per volere di Era – diffonde a Tebe il culto dionisiaco, forse esagera nel suo proselitismo. Agave ha un figlio, che si chiama Penteo, il quale ha un complesso: è malato della stessa gelosia che contamina Era, la moglie di Zeus, e Penteo. che vorrebbe più considerazione da parte di sua madre Agave, vuole proibire a Tebe il culto di Dioniso al quale, secondo lui, la madre si dedica con troppo dedizione. Agave, accecata dall’ira, lo uccide. Questo – ancora una volta – è l’atto finale di una tragedia: Agave, Cadmo e Armonia rimangono contaminati, e il loro destino (come quello di Caino dopo aver ucciso Abele) diventa un doloroso e interminabile esilio.
Naturalmente è Nonno di Panopoli che ci racconta, nelle Dionisiache, la conclusione di questa tragedia. Per capire bene questo straordinario frammento di Letteratura greca del V-VI secolo dobbiamo fare ben attenzione. Nonno di Panopoli scrive, probabilmente, immerso nel clima che porta alla chiusura della Scuola di Atene da parte di Giustiniano (e noi conosciamo questo episodio), e celebra quindi le esequie della cultura greca, celebra la fine di una civiltà ma anche il perseverare dell’esistenza della figura di Dioniso. Racconta Nonno che Tebe viene rasa al suolo, ma è Dioniso l’artefice di questa distruzione, come se volesse liberarsi da tutte le strutture, da tutte quelle strutture e sovrastrutture a cui il Cristianesimo, invece, si sta attaccando, tradendo così il suo messaggio originario. L’esilio di Agave, di Cadmo e di Armonia è l’immagine della fine di una civiltà, e questa immagine viene resa con la descrizione di una straordinaria metamorfosi. Cadmo e Armonia si trasformano in un serpente: la figura mitica della tentazione e del peccato: quest’immagine riprende il mito della cacciata dal paradiso terrestre (e ci fa ripensare, per un attimo, al Percorso dello scorso anno scolastico). E in questo racconto è Dioniso la divinità che giudica e punisce.
Nonno racconta che tutto ridiventa un mucchio di macerie e tutto resterà un mucchio di pietre, e gli stampi originali si perderanno per sempre, ma c’è una speranza, che cova nella tragedia di Cadmo e di Armonia. Tutti gli stampi originali sono andati perduti, meno lo stampo degli stampi: l’alfabeto, in greco “stoicheia” che significa: la copertura, il tetto, il riparo, cioè la struttura della promozione umana. Ed è per mezzo di questo stampo, per mezzo dell’alfabeto, che la tragedia di Dioniso, insieme alla tragedia di Cristo, e insieme alla storia di ciascuna e di ciascuno di noi – se scritta – rimane, si conserva, al di là delle rovine, per sempre.
E ora leggiamo il frammento da Le Dionisiache che Fedra Inghirami propone alla riflessione degli addetti ai lavori de La Scuola di Atene riuniti nell’ufficio del papa, naturalmente lo propone anche alla nostra riflessione, poi tirerà una conclusione.
LEGERE MULTUM….
Nonno di Panopoli, Le Dionisiache Canto 4 (V-VI sec)
Cadmo ricomparve a Tebe in tempo per prendere in mano i lacerti del corpo di Penteo,
che la madre Agave aveva fatto a pezzi con le proprie mani sui monti.
Chiamò la sua anziana sposa Armonia e le disse di prepararsi a partire, ancora
una volta: lei lo aveva conosciuto come un errante, e come erranti sarebbero morti.
Dioniso, poco dopo, si mostrò a Tebe, prese possesso della città e ne espulse Agave,
Cadmo e Armonia, che, dopo l’orrenda fine di Penteo, erano tutti portatori
di contaminazione, e Cadmo, aiutato dai servi, sistemò qualche sacca su un carro.
Armonia teneva già le redini in mano, Dioniso indicò la strada.
Dovevano muovere verso i confini occidentali della terra, verso le brume illiriche.
Il giorno delle loro nozze, giovani e splendenti, Cadmo e Armonia si erano mostrati
in piedi su un carro trainato da un caprone e un cinghiale.
Ora questi due vecchi, espulsi dalla loro casa, erano montati su un carro trainato
da due semplici buoi e carico di straordinari ricordi.
Quando il carro si avviò, il corpo di Cadmo e quello d’Armonia s’affiancarono
e i Tebani videro le schiene dei due sposi annodarsi nelle squame di un solo serpente.
Cadmo e Armonia si allontanavano, serpenti allacciati in basso, con la testa eretta.
Così appaiono tuttora in una pietra che segnala la loro tomba,
sul bordo delle nere gole di un fiume d’Illiria.
Mentre guidava il carro verso Occidente, annodato alla sua sposa, come
un emigrante testardo che cerca una nuova città anche se ormai è troppo tardi,
Cadmo rifletteva sul passato: che cosa ne rimaneva?
Qualche cassa di oggetti sul carro, e dietro di loro una città che, Dioniso,
aveva appena squassato con un terremoto mortale.
Cadmo aveva salvato Zeus, ma questo non lo aveva salvato dalla precarietà.
Era partito per cercare sua sorella Europa, aveva conquistato Armonia.
Di Europa un viaggiatore gli aveva detto che era diventata sovrana di Creta.
Armonia era al suo fianco, vecchio serpente, e si sentiva come quando
era sbarcato a Samotracia: uomo senza doni, perché tutto quello che possedeva
stava su un carro, ma il suo dono era impalpabile.
Un altro re venuto dall'Egitto, Dànao con le sue cinquanta figlie sanguinarie,
aveva portato alla Grecia il dono dell’acqua,
Cadmo aveva portato alla Grecia
doni provvisti di mente: vocali e consonanti aggiogate in minuscoli segni,
modello inciso di un silenzio che non tace: l’alfabeto.
Con l’alfabeto, i Greci si sarebbero educati a sentire gli dèi nel silenzio della mente,
non più nella presenza piena e normale,
come ancora a lui era toccato, il giorno delle sue nozze.
Pensò al suo regno disfatto: figlie e nipoti sbranati, e sbrananti,
piagati dall’acqua bollente, trafitti, sprofondati nel mare, anche Tebe
era un cumulo di rovine.Tutta l’antica Grecia era ed è un cumulo di rovine!
Ma nessuno ormai avrebbe potuto cancellare quelle piccole lettere, quelle zampe
di mosca che Cadmo, il fenicio, aveva sparpagliato sulla terra greca, dove i venti
lo avevano spinto alla ricerca di Europa rapita da un candido toro emerso dal mare.
Tutta l’antica Grecia era ed è un cumulo di rovine, un mucchio di pietre!
E sarebbero sprofondate nel silenzio, per sempre, se Cadmo, il fenicio,
l’errante fratello d’Europa, non ci avesse lasciato in eredità l’alfabeto,
lo stampo di tutti gli stampi.
Fedra Inghirami sorride perché ha intuito che i suoi compagni di studio (in riunione con lui nell’ufficio del papa) hanno capito, e si compiace che anche noi abbiamo capito. Il Libro, che Raffaello dipinge sul basamento della colonna dorica nel primo quadro de La Scuola di Atene e che rappresenta il rituale orfico-dionisiaco, non ha bisogno di essere identificato (in modo da poter svolgere ancora meglio, se necessario, il suo ruolo di contenitore di testi) perché contiene la forma che ne qualifica l’essenza: l’alfabeto.
L’osservazione del primo quadro de La Scuola di Atene ci pone, quindi, di fronte a due domande significative: che cosa facciamo tutte le volte che scriviamo e perché è importante scrivere?
Tutte le volte che scriviamo svolgiamo una straordinaria azione formale che possiamo sintetizzare con una metafora (la stessa metafora che dobbiamo saper leggere nel primo quadro de La Scuola di Atene): tutte le volte che scriviamo erigiamo una colonna dorica in onore di Orfeo e di Dioniso e di tutta la cultura che rappresentano e che abbiamo studiato. L’alfabeto – secondo la tradizione orfico-dionisiaca – è lo strumento della promozione umana per eccellenza perché serve a collocare il mito nella sua giusta dimensione come dispositivo che mette in equilibrio la forma (la metafora) e il contenuto (il racconto). Quando scriviamo parola per parola e idea per idea, uniamo, mettiamo insieme simboli astratti e discorsi concreti, forme e contenuti, segni e significati. Noi, quando scriviamo, continuiamo a rinnovare l’unione tra Cadmo, l’alfabeto e Armonia, il racconto. Le nozze di Cadmo e Armonia, cantate tragicamente nelle Dionisiache di Nonno di Panopoli, rappresentano la metafora dell’esercizio della scrittura, raffigurano l’azione più appropriata per favorire l’investimento in intelligenza. Dalle nozze di Cadmo e Armonia nasce Semele, da Semele nasce Dioniso, e il culto di Dioniso è la culla dei grandi racconti delle origini, i quali in principio vengono trasmessi oralmente poi vengono scritti: durante questo tragitto dal suono al segno, nasce il libro, lo strumento che permette, conservando il segno, di non perdere il suono, ed è questo il Libro – allude Fedra Inghirami – che dobbiamo raffigurare: l’abbecedario, l’alfabetiere, il sillabario.
Tutte le volte che scriviamo, che raccontiamo in modo autobiografico, continuiamo a celebrare le nozze di Cadmo e Armonia, e siamo invitati tutti a questo banchetto. La festa del banchetto delle nozze di Cadmo e Armonia è un’allegoria che rappresenta l’immagine del tempo e dello spazio che siamo capaci di dedicare, quotidianamente, alla lettura e alla scrittura. Le nozze di Cadmo e Armonia rappresentano il momento mitico che presuppone la nascita di Dioniso, e, quindi, l’esistenza di tutta la rete dei racconti delle origini, legata al culto di Dioniso e poi ai riti orfici e, di questa rete, ora, noi conosciamo meglio qualche segmento. Sono segmenti che contengono motivi complicati: stampi, calchi, idee, modelli simbolici e chiavi di lettura.
Nel romanzo Gargantua e Pantagruel – che abbiamo imparato a conoscere e di cui si consiglia la lettura al ritmo di quattro pagine al giorno (preferibilmente lontano dai pasti) – si possono incontrare, come sappiamo, delle straordinarie allegorie. E, a proposito dell’alfabeto considerato come il principale strumento di promozione umana, nel libro IV al capitolo 56, a un certo punto del loro viaggio, Pantagruel e i suoi compagni – Panurgo, Fra Giovanni e il nocchiero della nave – giungono nel mare Artico e trovano che il cielo è ingombro di parole ghiacciate. Da quei ghiaccioli sospesi in alto, che pendono come prosciutti attaccati al soffitto, provengono suoni, brontolii, sillabe storte, mozziconi di frasi, urla e risate ma nessun discorso che sia minimamente comprensibile: le parole non parlano più.
Questo è uno dei tanti apologhi, delle tante parabole con le quali Rabelais descrive il dramma della condizione umana soprattutto quando il sistema di potere (Rabelais si riferisce alla maggior parte degli apparati della Chiesa e dell’Università che ai suoi tempi avevano, con le dovute proporzioni, la stessa invadenza, la stessa possibilità di persuasione occulta, che ha oggi la televisione): Rabelais descrive il dramma della condizione umana soprattutto quando il sistema di potere – tenendo bassa la temperatura, cioè impedendo la promozione della cultura – fa in modo che le parole, le idee e i pensieri, si congelino, favorendo così uno status di ignoranza generalizzata tra le popolazioni che crea la sudditanza.
Il tema delle parole gelate, nel capitolo 56 del libro IV del Gargantua e Pantagruel, è senz’altro uno degli argomenti più inquietanti perché, nonostante l’allegria dei lazzi e delle burle con le quali questo straordinario autore condisce il testo, le parole di ghiaccio, le parole sorde e mute, mettono in evidenza la totale impossibilità che le persone hanno di comunicare se non per lagnarsi e non per prendere coscienza di una situazione di disagio che ha nell’ignoranza (che viene fatta vivere come una colpa di cui vergognarsi) la causa principale.
A cinquecento anni di distanza è una descrizione che combacia perfettamente con la realtà attuale: si blatera e si sente universalmente blaterare, in modo amplificato, quasi esclusivamente di cose inutili, dominate (in una società che è contemporaneamente bacchettona e consumista) dalla caratteristica dell’incoerenza.
Rabelais lancia un messaggio in favore dello studio come strumento per formare persone che siano scongelatrici di parole, che siano cuoche di parole, e sarte, e artigiane di parole: costruttrici di comunicazione coerente.
Leggiamone una pagina dal capitolo 56 del Libro IV:
LEGERE MULTUM….
François Rabelais, Gargantua e Pantagruel Libro IV, capitolo 56 (1552)
- Non vi spaventate di nulla, signore - rispose il pilota della nave. - Qui è il confine del Mar Glaciale, sul quale al principio dell’inverno gelano del tutto le parole e nella buona stagione si scongelano appena un po’.
- Per dio - disse Panurgo. - Ma non si potrebbe vederne qualcuna? Mi ricordo di aver letto che ai piedi dalla Montagna dove Mosè ricevette la legge degli Ebrei, il popolo vedeva le voci materializzarsi in parole. -
Appena il pilota si avvicinò con la nave, Pantagruel cominciò a staccare le parole gelate che erano appese al cielo e le gettò sul ponte a piene mani, che sembravano confetti perlati di colori diversi. Tra esse c’erano parole di gola di colore rosso, di sinopia di colore verde, di cielo di colore azzurro, di sabbia di colore nero e di colore d’oro. Tenendole in mano, le parole si scongelavano un po’, si sentivano al tatto ma all’orecchio non si sentivano che piccoli muggiti in lingua barbara.
Una parola abbastanza grossa, tuttavia, che Fra Gianni aveva riscaldato tra le mani, scoppiò, come fanno le castagne gettate sulla brace senza essere castrate, e quello scoppio fece trasalire tutti dalla paura, perché nessuno è abituato al costume del far scoppiar parole.
Donar parole è costume degli innamorati et Verba dat omnis amans (l’innamorato fa dono di parole) ci insegna Ovidio nella sua Arte.
Vender parole è costume d’avvocati, anche se il più famoso, Demostene, vendette anche il silenzio mediante la sua argentangina.
Non conoscete l’argentangina? Quando, secondo Erodoto, alcuni incaricati di Mileto erano andati a chiedere soccorso ad Atene sapevano che Demostene non era d’accordo e che se avesse parlato in assemblea avrebbe convinto gli Ateniesi a non immischiarsi negli affari di Mileto. I Milesi gli chiesero di tacere ed egli acconsentì, previo compenso di molte monete d’argento, come se fosse dovuto intervenir a vantaggio della causa loro. L’indomani Demostene si presentò all’assemblea con il collo avviluppato di lana e disse di non poter parlare a causa di un’angina (synagkè). Non d’angina si trattava, dissero i maligni, ma bensì d’argentangina (aryragkè), la parola forse più congelata di tutte.
Il ponte della nave era colmo di parole, che Pantagruel raccoglieva a manate. Si vedevano parole pungenti, parole sanguinose, parole orribili e disgustose, sembrava che si fossero gelate le parole di una battaglia, e anche lì, al confine del Mar Glaciale, battaglia c’era stata tra gli Arimaspii e i Nefelibati.
Dalle parole appena un po’ sgelate si poteva udire: hen, his, tic, torc, lorgn, brededen, brededoc, frr, bu, tracc, trrrr, on, uuuuon, got, maot …
E Panurgo fece gli sberleffi a tutte le parole, poi esclamò: - Piacesse a Dio che avessi qui, senza proceder oltre, la parola profumata che sta dentro alla divina Bottiglia, amen. - …
Il finale di questo brano ha un carattere dionisiaco e nessuna e nessuno di noi si meraviglia.
Sappiamo che senza il movimento della sapienza poetica orfica e senza la tradizione dei riti dionisiaci non ci sarebbe stata la straordinaria “cultura ellenica”, né la sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele, né La Scuola di Atene e il Gargantua e Pantagruel e neppure questo Percorso, e allora andiamo avanti.
Abbiamo ancora tre considerazioni da fare sul primo quadro de La Scuola di Atene che rappresenta la cultura orfico-dionisiaca.
La prima si riferisce al fatto che – come ci suggeriscono le studiose e gli studiosi di filologia – dobbiamo correggere un grave errore di interpretazione, che molti critici esperti in campo artistico, ma meno esperti di Storia del Pensiero Umano, hanno compiuto. L’interpretazione, generata da questo errore, ha rischiato di diventare canonica e la possiamo leggere ancora su molte guide che dovrebbero essere aggiornate. Il personaggio più importante, quello che celebra il rito Orfico nel primo quadro de La Scuola di Atene, quello che tiene in mano il Libro (di cui conosciamo i significati metaforici), secondo molti critici dell’arte, sarebbe Epicuro. Questa scelta è stata giustificata superficialmente (senza studiare per bene i caratteri della tradizione orfico-dionisiaca e senza studiare la Storia del Pensiero Umano) dicendo che Epicuro è il filosofo che assomiglia di più a Dioniso o a Bacco, ha un viso rubicondo, ha in testa una corona di pampini: è il filosofo del piacere. Intanto, se fosse Epicuro, dovrebbe stare dall’altra parte del dipinto, alla destra di Aristotele perché Epicuro è vissuto in periodo Ellenistico, dal 341 al 270 a.C., ma questo sarebbe il meno. Il più riguarda i significati delle parole-chiave e delle idee cardine che appartengono al pensiero di Epicuro e, in merito a questi significati, il posto di questo personaggio non è qui.
Perché Epicuro non può stare nel primo riquadro che rapprenda la tradizione orfico-dionisiaca? Quali sono i punti qualificanti del suo pensiero? Il pensiero di Epicuro lo abbiamo studiato a suo tempo e lo studieremo ancora in tutta la sua ampiezza, ora ce ne occupiamo, brevemente, in funzione della questione che stiamo trattando.
Al centro del pensiero di Epicuro c’è il concetto di “materialismo”. Secondo Epicuro il mondo è un “apparato meccanico” fatto di atomi e quindi il mondo ha valore di per sé. Il pensiero etico di Epicuro è quindi fondato sull’idea che la felicità la si trova – sebbene a frammenti – in questo mondo, per cui la vita umana ha senso di per sé e, in questa prospettiva, la scienza per Epicuro assume un grande valore come progressivo strumento di liberazione dai timori e dalle superstizioni. Per quanto riguarda il tema del “piacere” il pensiero di Epicuro è completamente diverso da quello che di solito gli viene attribuito: si dice “epicureo” a uno che è amante dei piaceri, ma questa affermazione non ha nessun senso (è come la storiella dell’amor platonico). Epicuro intende il piacere in maniera etica, addirittura ascetica. Secondo Epicuro sono da seguire solo i piaceri naturali e necessari, cioè quelli legati alla conservazione della vita: mangiare sobriamente quando si ha fame, bere quando si ha sete, riposare quando si è stanchi. Del piacere sessuale dice che non giova, anzi, che è nocivo se non è accompagnato dal pathe pathè che, in greco, significa “sentimento”. Insomma, Epicuro afferma con determinazione che le voglie e la trasgressione (tipica dei riti dionisiaci) non sono piaceri, anzi, sono per lo più fonte di sofferenza.
Epicuro ha una concezione etico-ascetica del piacere che non ha proprio nulla da spartire con i riti bacchico-dionisiaci. E la lettura delle sue opere – le Massime capitali, i Frammenti e la Lettera a Meneceo – conferma molto chiaramente il suo pensiero ma, probabilmente, molti critici dell’Arte, sebbene possano apparire come personaggi molto eruditi, non hanno mai letto i testi di Epicuro e finiscono per dare delle interpretazioni a casaccio.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Il testo della Lettera a Meneceo (o Lettera sulla felicità) di Epicuro è formato da poche pagine, è scorrevole, è piacevole e induce ad una profonda riflessione: leggilo o rileggilo, lo trovi in biblioteca…
La seconda considerazione (delle ultime tre) da fare sul primo quadro de La Scuola di Atene che rappresenta la cultura orfico-dionisiaca è legata ad un provocatorio interrogativo: come mai un rito orfico-dionisiaco viene rappresentato sotto il controllo di Apollo, dell’antagonista? Sappiamo, infatti, che in questa parte dell’affresco, la statua di Apollo posta in una nicchia sovrasta tutto.
Sembra che non sia difficile rispondere a questa domanda: e se è vero che non c’è Apollo senza Dioniso è altrettanto vero che non c’è Dioniso senza Apollo. Sappiamo che l’Essere umano è coinvolto in questa aporia, in questa contraddizione: nella persona, infatti, si mescolano le caratteristiche di Apollo che trovano la loro sintesi nell’euritmia, con le caratteristiche di Dioniso che trovano la loro sintesi nella tragedia. Scrive Marsilio Ficino nel De vita, Sulla vita (un testo che si trova nell’ufficio del papa, sul suo tavolo): “Fratres certe sunt Phoebus atque Baccus, certamente Febo Apollo e Bacco (Dioniso), sono fratelli”.
Ma il ragionamento e la risposta più importante sul tema del rapporto tra Apollo e Dioniso la troviamo in Platone, e Fedra Inghirami – che, come bibliotecario, è chiamato ad occuparsi della teoria nella progettazione che deve portare alla realizzazione de La Scuola di Atene – ha certamente messo a disposizione degli altri addetti ai lavori (Giulio II, Bramante e Raffaello) questo ragionamento che si trova nel Fedone, il dialogo che è considerato il più “orfico” di Platone. Il Fedone è, difatti, il dialogo sull’anima, sul tema de “l’immortalità dell’anima”. E poi nel Fedone troviamo, ancora una volta (perché è un tema che ricorre in tutta l’Età assiale), il ragionamento sulla differenza tra la religione e la fede, che sono due concetti diversi da non confondersi l’uno con l’altro e nell’ottica di Platone, del cosiddetto “Platone politico”, questi due concetti risultano essere ben separati.
Scrive Platone: “I portatori di ferule (di paramenti sacri) sono molti, ma i Diònisi sono pochi. E costoro, io penso, sono coloro che praticano rettamente la Filosofia (la ricerca dell’idea del Bene)”. Qual è il significato di questo frammento molto significativo? Platone vuole affermare che sono molti quelli che nelle cerimonie orfiche portano i paramenti sacri per mettersi in bella mostra, ma sono pochi coloro che sanno interiormente avvicinarsi a Dioniso, che sanno entrare in sintonia con la divinità. Platone vuole dire che sono pochi, in definitiva, quelli che sanno concretamente aderire all’idea del Bene, che sanno incarnarsi nell’idea del Bene. Questo concetto entra anche nella nostra cultura più diretta quando diciamo: “molti portano le cotte ma i sacerdoti sono pochi”, e questo modo di dire è stato mutuato dal Vangelo secondo Matteo al capitolo 20 versetto 16 dove si legge: “Molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti”.
Ne La Scuola di Atene traspare questo tipo di riflessione e il messaggio è chiaro: è la Filosofia, è la ricerca dell’idea del Bene, che trasforma l’elemento dionisiaco-religioso, nell’elemento apollineo della fede o della ragione. Il rito ha un senso se evoca l’idea del Bene in modo da dare concretezza all’agape, alla charis, alla concreta solidarietà.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Hai partecipato, ultimamente, ad un rito?… Un rito è quasi sempre una cerimonia ben augurante, scrivi quattro righe in proposito …
Ed ora occupiamoci della terza (l’ultima delle ultime tre) considerazione da fare sul primo quadro de La Scuola di Atene che rappresenta la cultura orfico-dionisiaca. Questa considerazione contiene un’interessante notizia che dobbiamo mettere in rilievo perché si tratta certamente di una delle notizie più significative che riguardano l’affresco intitolato La Scuola di Atene.
Le studiose e gli studiosi si sono sempre chiesti se la figura del sacerdote orfico che tiene in mano il Libro appoggiato al basamento della colonna dorica fosse un ritratto, infatti ci sono molti ritratti nell’affresco e la responsabilità in questo frangente è soprattutto di Raffaello. Oggi tutte le commentatrici e tutti i commentatori ritengono che il volto del sacerdote orfico che tiene in mano il Libro appoggiato al basamento della colonna dorica sia il ritratto di Fedra Inghirami, il bibliotecario vaticano che ha un ruolo importante nella ricerca dei materiali storici, letterari, filosofici utili nel progetto di realizzazione de La Scuola di Atene.
Di Fedra Inghirami, della sua vita, sappiamo pochissimo: abbiamo già ricordato che è nato a Volterra perché la famiglia Inghirami è originaria di Volterra e lì aveva dei possedimenti. Fedra Inghirami (ed è buffo che sia passato alla storia con questo nome femminile) in realtà si chiama Tommaso e noi sappiamo che è stato ribattezzato da Giulio II. Perché Giulio II affibbia a Tommaso Inghirami il nome di un grande personaggio della tragedia greca, Fedra, la moglie di Teseo, la matrigna di Ippolito, il figlio di Teseo? La storia di Fedra, chi la vuole leggere, la trova nel testo della tragedia Ippolito di Euripide.
Perché Giulio II ha chiamato Tommaso Inghirami con il nome di Fedra? La figura tragica di Fedra è famosa per la sua gelosia (è disposta ad uccidere): Tommaso Inghirami è forse troppo geloso dei libri contenuti nella ricca e affascinante Biblioteca vaticana, libri che non sono suoi, ma che ama, considera e protegge come fossero suoi? Il ruolo culturale e intellettuale di Fedra Inghirami nella costruzione del contenuto de La Scuola di Atene è sicuramente fondamentale e quindi ha un senso che ci sia il suo ritratto nell’opera che ha contribuito a comporre, e noi ce ne compiaciamo.
Raffaello ritrae Fedra incoronato di pampini e con uno sguardo leggermente sorridente e rilassato (le persone che se lo potevano permettere volevano essere ritratte da Raffaello non tanto e non solo perché le faceva somiglianti ma perché le faceva diventare belle, dolci, armoniose) e Fedra sembra dire, in modo benevolo: “ma guarda che cosa mi tocca fare”. Raffaello ritrae ancora Fedra Inghirami, probabilmente in segno di gratitudine per l’aiuto che ha saputo fornire nella preparazione del programma pittorico de La Scuola di Atene.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Il ritratto di Fedra Inghirami si trova in Palazzo Pitti, vai a fargli visita … Ma questo ritratto lo si può trovare facilmente anche in biblioteca su un fascicolo dedicato a Raffaello o sulla rete, vai alla ricerca di questo quadro…
Per concludere leggiamo ancora due pagine da Gargantua e Pantagruel nelle quali anche Rabelais disegna un ritratto esemplare: il ritratto di un personaggio il quale usa le parole con enfasi ingannatoria (passiamo dalle parole “congelate” alle parole “fritte”).
Pantagruel e i suoi compagni s’imbarcano su una grande flotta (che viene magistralmente descritta) per recarsi all’oracolo della Divina Bottiglia (gli accenni ad Apollo e Dioniso sono continui in Rabelais) che si trova presso il paese del Catai (la Cina) e, fra due scali di questo viaggio incontriamo il famoso episodio dei montoni di Panurge, ed è in questo episodio che Rabelais fa entrare in scena un personaggio che è diventato proverbiale: il mercante Tacchinaldo (Dindenault). Panurge subisce con pazienza il modo di fare di Tacchinaldo che rappresenta l’allegoria dell’imbonitore, del venditore senza scrupoli che esalta la sua merce con chiacchiere eclatanti pur se è di scarso valore. Questa figura rappresenta coloro che fanno mirabolanti promesse sapendo di non poterle mantenere, contando sull’ignoranza altrui, confondendo ad arte le idee. Rabelais si augura che costoro possano fare una brutta fine e, intanto, la rappresenta.
LEGERE MULTUM….
François Rabelais, Gargantua e Pantagruel Libro IV, capitolo 56 (1552)
Dopo di che Panurge con bel garbo cominciò a pregare Tacchinaldo di volergli far la grazia di vendergli uno dei suoi montoni. Il mercante gli rispose: “Ahi, ahi, amico, vicino bello, come siete bravo a gabbare la povera gente! Siete un bel cliente davvero. Sì, proprio un bel tipo di comprator di montoni! Giurabbìo! ma non sapete che avete la faccia non d’un compratore di montoni, ma di un autentico tagliaborse? Alla grazia di San Nicola, ho paura che non sarebbe troppo prudente trovarsi vicino a voi con una borsa piena attaccata sopra la pancia, specialmente se ci fosse un po’ di folla! … Ma guardatelo un po’, buona gente, che aria da professore!”. “Pazienza!” disse Panurge. “Ma, a proposito, per grazia speciale, vendetemi uno dei vostri montoni. Quanto fa?”.
“Ma come la mettiamo, bello mio?” risponde il mercante. “Sono montoni di pelo lungo, sapete. Montoni straordinari, di quelli che fornirono a Giasone il vello d’oro: di quelli donde ha preso la sua insegna la Casa di Borgogna. Montoni di Levante, montoni d’alto fusto, montoni di gran lardo”.
“Va bene,” disse Panurge, “ma per favore, vendetemene uno, io ci tengo. Pagando, si capisce, a pronti contanti e in moneta di Ponente, di poco lardo e di basso fusto. Quanto fa?”. “Sentite, amico, vicino bello,” rispose il mercante, “porgetemi l’altra orecchia”. Panurge. “Ai vostri ordini”. Il mercante. “Voi andate nel Lanternese?”.
Panurge. “Sì, certo”. Il mercante. “A vedere il mondo?”. Panurge. “Sì, certo”.
Il mercante. “Allegramente?”. Panurge. “Sì, certo”. Il mercante. “Voi vi chiamate, credo, Giouachìn Montone”. Panurge. “Se vi fa piacere dirlo”. Il mercante. “Non per offendervi”. Panurge. “Ma si capisce”. Il mercante. “Voi siete, credo, il buffone del re”. Panurge. “Naturalmente”. Il mercante. “Haa! Qua la mano! Voi andate in giro per vedere il mondo, siete il buffone del re, avete nome Giouachìn Montone. Bellissimo! Vedete quel montone, ha nome Giouachìn, come voi. Eilà, Giouachìn!”. Il montone. “Bèè, bèè, bèè”. Il mercante. “Sentite che bella voce?”. Panurge. “Bellissima e armoniosa”. Il mercante. “Facciamo un patto, io e voi, amico, vicino bello! Voi, che siete Giouachìn Montone, vi mettete in un piatto di questa bilancia, il mio montone Giouachìn lo mettiamo nell’altro: scommetto cento ostriche di Busch che, in peso, valore e stima, vi tirerà su in aria alto e corto, proprio come finirete un giorno, bell’e impiccato”. “Pazienza!” disse Panurge. “Ma voi farete una bella azione, per me e per i vostri posteri, se me lo voleste vendere, lui o qualche altro del coro. Ve ne prego, signore”. “Amico,” rispose il mercante, “vicino bello: col pelo di questi montoni si faranno i panni più fini di Rouen; roba che i tessuti di Limestre al paragone son peggio che stoppa. Con la pelle si faranno dei bei marocchini, che saran venduti per marocchini turcheschi, o di Montelimart, o per cuoio di Spagna a dire il peggio. Coi loro budelli si faran delle corde per arpe e violini, che saranno vendute così care come fossero corde di Monaco o d’Aquileia. Che ve ne pare?”.
“Vi prego, per favore,” disse Panurge, “vendetemene uno, ve ne sarò legato come al batacchio dell’uscio. Vedete, ho qui i soldi pronti. Quanto fa?”.
E ciò dicendo, mostrava la scarsella piena di scudi nuovi.
“Amico,” rispose il mercante, “vicino bello, questa è roba da principi e da re. La lor carne è così deliziosa, così saporita, così delicata che è come un balsamo. Li ho comperati in un paese nel quale i porcelli (così Dio sia con noi!) mangiano solo mirabolani. E le scrofe (salvo l’onore di tutta la compagnia), le scrofe, quando sono di parto, le nutron solo di fiori d’arancio”.
“Sì,” disse Panurge, “ma vendetemene uno. Io ve lo pagherò da re, parola di pedone. Quanto fa?”. “Amico,” rispose il mercante, “vicino bello, sono montoni che scendono in linea retta da quell’Ariete che portò Frisso ed Elle sul mare detto Ellesponto”.
“Accidenti!” disse Panurge, “vedo che siete clericus vel adiscens”.
“Ita”, rispose il mercante, “se non son cavoli, vere, vuol dire che saran porri. Ma sentite un po’: rr. rrr. rrrr. rrrrr. Oheilà, Giouachìn! rr. rrr. rrrr. Questa lingua voi non la capite, he, he! Ma, a proposito, sapete che tutti i campi dove piscian loro, ci vien su il grano come se ci avesse pisciato Iddio? non c’è più bisogno di marna né di letame. Meglio ancora: con la loro urina gli alchimisti fabbricano il miglior salnitro del mondo. Con le loro cacche (non per offendervi) i medici del nostro paese guariscono settantotto specie di malattie, la più leggera delle quali è il male di Sant’Eutropio, dal quale sempre ci salvi Iddio. Che ne pensate voi, vicino, amico bello? Capirete che mi costan cari”. “Costi quel che costi,” rispose Panurge. “Vendetemene soltanto uno, pagandolo quel che è giusto”. … “Amico,” disse il mercante, “vicino bello, considerate un momento che miracolo di natura sono questi animali che ho qui, anche nella lor parte che voi credereste più inutile. Prendetemi uno di quei corni, fracassatelo un po’ con un pestello di ferro, o con un alare, che fa lo stesso; poi seppellitelo in modo che prenda il sole, nel posto che vorrete, e innaffiatelo spesso. In pochi mesi vedrete venir su i migliori asparagi del mondo: non voglio eccettuarne nemmeno quei di Ravenna. Venitemi a dire che i corni di voialtri cornuti abbiano una tal virtù, una qualità così straordinaria!”. “Pazienza,” rispose Panurge. “Non so,” riprese il mercante, “se voi siete una scienza. Ne ho visti tanti, dei bei sapientoni cornuti. Sì, perbacco! A proposito, se voi foste una scienza, sapreste che nelle membra inferiori di questi animali divini, voglio dire i piedi, c’è un certo osso, che è il tallone, l’astragalo, se vi piace, col quale ossicino, e non con quello di nessun altro animale del mondo, salvo dell’asino Indiano e delle dorcadi Libiche, si giocava anticamente al gioco regale degli aliossi, al quale l’imperatore Ottaviano Augusto vinse una sera più di 50.000 scudi. Voi poveri cornuti non potreste mai guadagnare altrettanto”.
“Pazienza,” rispose Panurge. “Ma combiniamo l’affare”. “Ma quando,” disse il mercante, “amico, vicino bello, potrò mai degnamente lodare le loro parti interne? Le spalle, le cosce, gli zamponi, l’alto costato, il petto, il fegato, la milza, le trippe. La pancetta, la vescica, con la quale si gioca alla palla; le costine, con le quali i Pigmei in Abissinia fanno dei begli archettini per tirare nòccioli di ciliege contro le gru; la testa, con la quale, unendovi un po’ di zolfo, si fa una mirifica concezione per fare andare di corpo i cani costipati?”. “Viva la cacca!” disse il padrone della nave al mercante. “Basta con le chiacchiere. Vendiglielo, se glielo vuoi vendere; se no, non stare più a prenderlo in giro”.
“Glielo venderò, per amor vostro,” rispose il mercante. “Ma deve pagare tre lire tornesi per testa, a sua scelta”.
“È caro,” disse Panurge. “Al nostro paese ne potrei comperare cinque o anche sei, per quei denari. Badate che non sia troppo! Non siete il primo di mia conoscenza che, volendo diventar ricco troppo in fretta e fare troppo di furia la scala, è andato giù rotoloni in povertà, e magari si è anche rotto il collo”.
“Un sacco d’accidenti che ti prenda!” disse il mercante, “stupido villanzone che sei! Giuro pel Santo Voto di Charroux, che il più piccolo di questi montoni vale quattro volte di più del più bello di quelli che ai tempi antichi i Corassici in Tuditania, che è un paese di Spagna, vendevano a un talento d’oro per testa. E lo sapresti dire, tu, stupidone, quanto valeva un talento d’oro?”.
“Benedetto signor mio,” disse Panurge, “voi vi state scaldando la piscia, se non sbaglio. Basta! prendete, ecco qui i vostri soldi”.
Panurge, pagato il mercante, scelse da tutto il gregge un bellissimo e grande montone, e se lo tirava via urlante e belante, mentre tutti gli altri a sentirlo belavano in coro, e guardavano dove mai era portato il loro compagno. E intanto il mercante diceva ai suoi pecorai: “Se ha saputo sceglier bene, il cliente! Si vede che se ne intende, l’animale! È proprio uno dei più belli: lo riservavo per il signor di Cancale, io che conosco i suoi gusti. Perché lui, per natura, è tutto in allegria, quando tiene in mano una bella spalla di montone grassa e gustosa, come una racchetta mancina; e con un bel coltello affilato nell’altra, se vedeste che scherma!”.
D’improvviso, e non saprei dir come, perché fu una cosa così rapida che non ebbi il tempo di stare a guardare, Panurge, senza dir parola, ti butta in mare il suo montone urlante e belante. E tutti gli altri montoni, urlando e belando all’unisono, cominciarono a lanciarsi in avanti e a saltargli dietro anche loro, uno dopo l’altro; e spingevano e si affollavano a gara, per riuscire a saltar prima dietro al loro compagno. Impossibile trattenerli: perché saprete anche voi che la natura dei montoni è di fare tutti quello che fa il primo del gregge, e di andargli dietro dovunque vada. E ben dice Aristotele, lib. IX, De Histo. animal., che il montone è il più stupido e scemo animale del mondo.
Il mercante, fuori di sé al vedersi davanti agli occhi saltare in mare e annegare i suoi cari montoni, si sforzava di fermarli e trattenerli con ogni mezzo. Ma invano: saltavano tutti uno dopo l’altro nel mare, e si annegavano. Alla fine, ne agguantò uno grande e forte per il suo vello, sull’orlo della tolda, sperando di trattenerlo così e salvare in tal modo anche il resto. Ma il montone era così forte che trascinò in mare con sé il mercante; e finì annegato, portato dal suo montone allo stesso modo come Ulisse e i suoi compagni furon portati dai montoni fuori dalla caverna di Polifemo, il ciclope monocolo. E gli altri pastori e pecorai, che sul suo esempio presero le bestie chi per le corna, chi per le gambe, chi per il pelo, furono tutti similmente trascinati in mare, e miseramente annegati.
Panurge stava alla murata, tenendo un bel remo in mano, non per aiutare i pericolanti, ma per evitare che si arrampicassero sulla nave scansando il naufragio, e intanto faceva loro una bella predica, nella quale mostrava loro con scelte citazioni le miserie di questo mondo, la felicità e beatitudine dell’altra vita: affermando che sono molto più felici i trapassati che non quelli che restano quaggiù in questa valle di lacrime, e promettendo a ciascuno di loro di erigergli un bel cenotafio o sepolcro onorario, sulla vetta del Moncenisio, al suo ritorno dal viaggio. Senza mancare però di augurar loro, nel caso che preferissero restare ancor fra gli uomini o non fosse di loro gusto morire a quel modo, la fortuna di incontrare qualche balena, la quale nel termine di tre giorni li restituisse sani e salvi su qualche riva felice, come già avvenne a Gionata.
Vuotata la nave del mercante e dei suoi uomini, Panurge disse guardandosi attorno:
“Non ci resta mica anima alcuna belante? Dove saranno quelli di Thibault l’Agnelletto, e quelli di Regnauld Belin che dormono quando gli altri vanno al pascolo?, Mah! lo sa il Signore. È un vecchio trucco di guerra. Che te ne pare a te, fra’ Giovanni?” …
E così con il tragico canto del caprone – evocato da Rabelais – usciamo dal primo quadro raffigurato ne La Scuola di Atene, che rappresenta il rito orfico-dionisiaco. Vicino al basamento della colonna dorica, sul quale un personaggio che ha il volto di Fedra Inghirami sorregge il Libro ideale che contiene lo strumento principale della promozione umana, l’alfabeto, ci sono alcuni personaggi che attorniano una figura che, con la penna in mano, scrive sul suo libro, che utilizza la scrittura per promuovere l’investimento in intelligenza. Questa figura e i personaggi che la attorniano formano il secondo quadro (il secondo cartone preparatorio) de La Scuola di Atene.
Sapete chi rappresenta questa figura, chi è questo personaggio? E soprattutto: sapete che cosa sta scrivendo?
Il viaggio continua e la Scuola è qui...