Prof. Giuseppe Nibbi La sapienza poetica e filosofica dell’età medioevale 19-20-21 novembre 2014
Papa Formoso e Bonifacio VI - Jaen-Paul Laurens
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ MEDIOEVALE,
NEL PAESAGGIO INTELLETTUALE DELLA FILOSOFIA CRISTIANO-LATINA AI SUOI ALBORI,
ENTRA IN SCENA LA DIALETTICA DI ARISTOTELE ...
Con il settimo itinerario del nostro viaggio di studio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età medioevale” – in quella che è conosciuta come l’Epoca della Scolastica – ci troviamo di fronte ad un nuovo scenario al quale, come sapete, ci siamo già avvicinate ed avvicinati otto giorni fa: il “paesaggio intellettuale della Filosofia cristiano-latina ai suoi albori”.
Il primo scorcio di questo paesaggio è caratterizzato dalla presenza di due importanti Scuole che noi abbiamo frequentato la scorsa settimana: la Scuola di Auxerre, nella quale abbiamo seguito le Lezioni dei magìsteri Eirico di Auxerre e Remigio di Auxerre [il quale poi si è trasferito a Reims e infine a Parigi], e la Scuola di Reims nella quale abbiamo seguito le Lezioni [e questa sera continueremo a seguirle] di Gerberto d’Aurillac, il quale, come ben sapete, ha fatto carriera fino ad essere nominato pontefice, col nome di Silvestro II, il papa dell’anno Mille.
Perché queste due Scuole, di Auxerre e di Reims, per opera dei loro magìsteri, hanno dato un importante contributo alla Storia del Pensiero Umano? I magìsteri della Scuola di Auxerre e della Scuola di Reims hanno saputo consolidare un sapere filosofico fondato sui principi della Ragione, e hanno, quindi, contribuito a dare inizio al movimento della Filosofia cristiano-latina e hanno introdotto nel quadro delle “quattro nature dell’Universo” disegnato da Giovanni Scoto Eriùgena la “dialettica aristotelica”: sappiamo che il pensiero di Platone era già presente sul palcoscenico della Scolastica alle sue origini [perché aveva condizionato tutta l’Età tardo-antica, in Epoca alto-medioevale] e, adesso, con i programmi delle Scuole di Auxerre e di Reims, entra in scena anche il pensiero logico, dialettico e metafisico di Aristotele.
E, a questo proposito, ora [questa sera dell’anno 982], dobbiamo subito seguire la Lezione che c’impartisce Gerberto d’Aurillac dalla sua cattedra di Logica della Scuola episcopale di Reims. Gerberto d’Aurillac insegna [a noi e, soprattutto, ai suoi studenti: scolastici in erba] – commentando il testo del Libro VIII della Metafisica di Aristotele [il Libro sulla dialettica, che lui ha studiato frequentando le Scuole arabe di Cordoba e di Toledo] – come il meccanismo della “dialettica aristotelica” possa essere applicato dentro al quadro delle “quattro nature” dell’Universo disegnato da Giovanni Scoto Eriùgena ed accettato, come visione del Creato sebbene con qualche riserva, nell’ambito della dottrina cristiana, come sapete basato su quattro concetti-cardine: Dio, il Mondo creato, l’Essere umano e l’Anima immortale.
Naturalmente l’argomento trattato [con grande circospezione] dal magister Gerberto d’Aurillac nelle sue Lezioni alla Scuola di Reims è assai delicato perché inevitabilmente i significati dei quattro concetti-cardine – Dio, il Mondo, l’Essere umano e l’Anima – subiscono una modifica, che poi si tradurrà in un positivo slancio propulsivo nell’esercizio dell’investire in intelligenza, per cui gli studenti si rendono conto che la “verità” non è già data [e neppure più la stessa] perché Aristotele [e anche Gerberto d’Aurillac assume questa mentalità] ha affiancato al concetto di “verità” quello di “plausibilità”: Aristotele è deluso, spiega Gerberto ai suoi studenti, perché avrebbe voluto che il pensiero di Platone, suo maestro dell’Accademia, fosse certo, fosse sicuro, fosse indubbio, ma invece ravvisa nel discorso platonico una contraddizione fondamentale che lo costringe e lo stimola a ripensare tutto il sistema [Gerberto tornerà a parlarci della “delusione” provata da Aristotele].
La “dialettica” aristotelica, spiega Gerberto ai suoi studenti, non cerca la “verità” ma è uno strumento per osservare come è fatto il Mondo creato, e la “logica” aristotelica si domanda quando una proposizione sia plausibile [accettabile, ammissibile, credibile, possibile, probabile, verosimile, razionale]. Se gli argomenti a favore di una certa tesi [spiega Gerberto, parafrasando Aristotele] sono più convincenti non significa che contenga la “verità”, altrimenti non si capirebbe la trasformazione [la metamorfosi] delle cose. Agli studenti che, un po’ sconcertati, domandano al loro magister se, alla luce di queste riflessioni, “la dottrina del Cristianesimo sia fallibile” lui, che crede più ai valori evangelici che ai dettami della cristianità, risponde che è necessario pensare alla “dottrina” in senso dialettico come “approssimazione continua ad una verità ultima”, e con questa [sapiente] affermazione Gerberto [che vuole fare carriera ecclesiastica e quindi sa fare allusioni piuttosto che rilasciare dichiarazioni fuori luogo] conferma l’idea trinitaria di Dio, quella del Mondo creato da un Dio padre e provvidente e quella di un Essere umano dotato di un’Anima immortale e, dunque, considera utile lo studio della “logica [le categorie]” e della “dialettica” aristotelica per una migliore definizione dei principi della dottrina cristiana [per renderla, con l’ausilio della Ragione, più aderente possibile ai valori evangelici] in modo che possa essere adatta ai tempi per poter attuare il “rinnovamento” della società: una società [quella feudale] che si definisce “cristiana” solo a parole ma che, nella sostanza, è profondamente ingiusta [antievangelica].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
1. Tutte e tutti noi dobbiamo fare i conti con la “plausibilità” delle cose… Quando, secondo voi, una cosa è “plausibile”: quando è accettabile o è ammissibile o è credibile o è possibile o è probabile o è verosimile o è razionale?…
Scrivete quattro righe in proposito basandovi sulla vostra esperienza…
Quali sono gli elementi che compongono il quadro della “dialettica aristotelica”? A questo punto il magister Gerberto d’Aurillac deve fornirci delle spiegazioni su questo tema, un tema che ha contribuito alla fondazione di un sapere filosofico sui principi della Ragione, indipendenti dal sapere teologico che vuole mantenere la Fede al primo posto.
L’introduzione dei concetti fondamentali della Metafisica di Aristotele nel territorio della Scolastica – e questo lo si deve, principalmente, alle Scuole di Auxerre e di Reims – contribuisce a dare una forma al “paesaggio intellettuale della Filosofia cristiano-latina ai suoi albori” e porta verso una prima importante differenziazione. Nascono e si sviluppano due correnti di pensiero, apparentemente contrapposte: quella dei “dialettici [che ritiene sia la Ragione ad orientare la Fede]” e quella degli “antidialettici [che ritiene debba essere la Fede ad illuminare la Ragione]”.
Ma ora ascoltiamo Gerberto d’Aurillac che, con cautela, con accortezza e con discernimento, ci introduce, insieme agli studenti di Reims, nell’ambito della “dialettica aristotelica”. Gerberto d’Aurillac spiega ai suoi studenti che già dall’Età tardo-antica, insieme ai Dialoghi di Platone, anche le opere di Aristotele – la Fisica, la Metafisica, l’Etica, l’Estetica – hanno attirato l’attenzione dei filosofi neoplatonici ed è Porfirio, che conosciamo bene, che si è impegnato a dare un’interpretazione neoplatonica al pensiero aristotelico scrivendo l’Isagoge [un’opera che gli studenti di Gerberto conoscono bene quasi quanto noi], che è un breve trattato [in greco “isagoge” significa “introduzione”] in cui Porfirio commenta il sistema delle “categorie” di Aristotele in termini neoplatonici per facilitare la diffusione di questo pensiero nel IV secolo [sappiamo che l’Isagoge ha avuto molto successo agli albori della Scolastica, nel IX secolo - a proposito della “questione degli universali” - proprio perché Porfirio disserta sulla Logica di Aristotele in termini neoplatonici, perfettamente comprensibili per gli intellettuali scolastici].
Gerberto [senza attardarsi troppo a spiegare i rapporti che ha avuto col mondo culturale arabo-islamico per non destare sospetti e alimentare pregiudizi] comunica ai suoi studenti [e lo comunica anche a noi] di aver “recuperato”, nelle Scuole dove ha studiato in età giovanile [quando era ospite in Catalogna del vescovo Hattone di Vich], una visione del pensiero di Aristotele più autentica, più aderente ai contenuti dei testi delle sue Opere [pervenute in Occidente sulla scia dell’espansione arabo-islamica], una versione non condizionata dall’interpretazione neoplatonica. Gerberto spiega ai suoi studenti [e ora anche a noi] che, secondo Aristotele, la realtà è “unione” di un elemento universale [la forma, in greco “morfé” oppure “idea”] che è il principio vitale ed intelligibile, e di un elemento particolare [la materia, in greco “üle”] che è la passività ed è l’elemento indecifrabile. Gerberto completa la spiegazione, sul piano filologico, affermando che il termine “unione” corrisponde alla parola greca “sýnolon” [che è composta da “sýn” che significa “insieme” e “hòlos” che significa “tutto”] ed è per questo che, afferma Gerberto latinizzando il termine “sýnolon”, possiamo dire che per Aristotele la realtà è “sìnolo [unione] di materia e di forma”. E quindi, secondo Aristotele, spiega Gerberto, ogni singola sostanza [che sia una persona, un animale, una pianta o un oggetto] si manifesta come l’insieme [ò sýnolon] di due componenti: la “forma [la componente universale]” e la “materia [la componente particolare]”. La “materia” è il sostrato non ancora formato ma pronto ad assumere una determinata forma, e, spiega Gerberto, questa attitudine Aristotele la chiama “potenza” [in greco “dìnamis”, l’attitudine che ha la materia ad assumente una determinata forma]. La “forma” poi, essendo l’attuazione di questa possibilità [di questa attitudine] che ha la materia, viene chiamata da Aristotele “atto” [in greco “praxis”, la potenzialità che ha la forma di dare un significato alla materia]. In questo modo, secondo Aristotele, spiega Gerberto, una sostanza, in quanto composta di “forma” e di “materia”, è contemporaneamente atto [praxis] e potenza [dìnamis]: il fiore è “atto” rispetto al seme [è l’attuazione della forma che è in potenza nel seme] ed è “potenza” rispetto al frutto [perché ha in sé la possibilità di produrre il frutto che è atto rispetto al fiore]. Ogni sostanza individuale [una persona, un animale, una pianta, un oggetto] è potenza e atto, è “atto” rispetto all’elemento che la segue nella gerarchia degli esseri, ed è “potenza” rispetto all’elemento che la precede: si forma così una “trafila di esseri” ciascuno dei quali, secondo Aristotele, spiega Gerberto, è contemporaneamente potenza ed atto.
Questa “trafila” però, scrive Aristotele, non può procedere all’infinito: deve avere un fondamento. La “trafila degli esseri” è come una “catena” costituita da anelli e quindi, perché abbia un fondamento, è necessario che ci sia un primo anello e un ultimo anello: il primo anello [afferma Aristotele, e qui Gerberto abbassa il tono di voce] è un Atto puro, cioè un atto senza potenza [perché altrimenti si verrebbe ad ammettere un nuovo e superiore anello nella catena] e questo primo Atto puro, spiega Gerberto, Aristotele lo chiama “Motore immobile [non lo chiama Dio]”, e lo definisce “Pensiero di Pensiero” perché non può che contemplare solo se stesso, mentre l’ultimo anello della catena sarà una “pura potenza”, cioè una materia priva di ogni forma, ma, afferma Aristotele, intorno a noi non c’è alcuna materia priva di forma e, difatti noi possiamo solo pensare alla “materia prima [non contrassegnata da alcuna forma]” e, di conseguenza, afferma Aristotele, spiega Gerberto, la “materia prima” può solo essere concepita come un’astrazione attraverso quello strumento per eccellenza che è il Pensiero [ò Logos] e resa comprensibile con le parole [òi logòi, gli strumenti creativi per eccellenza. E allora c’è anche una “sostanza soprasensibile”?].
Questo ragionamento permette ad Aristotele, spiega Gerberto, di affermare che tutta la realtà è un “sistema logico” governato dal Logos [il Pensiero] e reso comprensibile [esistente] con i “logòi [le parole]”; Aristotele, spiega Gerberto, chiama “logica” la disciplina con la quale si conosce il Mondo perché le cose materiali [la pluralità degli oggetti che formano il Mondo] posseggono una “forma ideale” che l’Intelletto [il Nous] è capace di cogliere mediante un processo di astrazione che rende visibile [“ideîn”, in greco] mediante le parole l’essenza di una cosa: questa essenza intelligibile si chiama “concetto [idea]” e, di conseguenza, scrive Aristotele, per conoscere [e per avvalorare] la realtà dobbiamo saper cogliere i “concetti [eìdos]”, dobbiamo saper decodificare le “forme ideali [la sostanza soprasensibile]” delle cose.
Gerberto fa capire [a noi e ai suoi studenti] che il sistema della “dialettica aristotelica” metterebbe a soqquadro la visione del mondo codificata dalla “dottrina del Cristianesimo” se questo impianto non lo si inserisse, non lo si adattasse, in nome della plausibilità, al quadro delle “quattro nature” dell’Universo così ben congegnato da Giovanni Scoto Eriùgena: come raggiungere questo obiettivo? Si può rispondere a questa domanda – sui molteplici “adattamenti” che il pensiero di Aristotele ha subìto – solo attraversando tutto il variegato territorio della Scolastica, e noi siamo sulla strada, una strada impervia in molti tratti.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quale di queste parole – sistemazione, disposizione, arrangiamento, accomodamento, assestamento, rifacimento, rielaborazione, adeguamento – mettereste per prima accanto alla parola “adattamento” ?…
Scrivetela …
“Doversi adattare”: a che cosa vi fa pensare questa frase, a quale esperienza della vostra vita?…
Scrivete quattro righe in proposito…
L’adattamento più fantasmagorico e surreale a cui abbiamo assistito nel corso di questo viaggio è stato [in funzione della didattica della lettura e della scrittura] quello di Millemosche in qualità di “presta braccio [o di affitta braccio]”. Ma – come abbiamo letto la scorsa settimana – il capitano di ventura a cui Millemosche sta fornendo il braccio destro perché lui ne è privo [e anche lui si deve adattare] – per dimostrare al principe di Roccaprebalza [che lo accusa di prolungare l’assedio della città nemica a tempo indeterminato per continuare a riscuotere una retribuzione], di essere un uomo d’onore, il capitano decide di mettere la mano destra sul fuoco di fronte a tutti i suoi soldati: ma questa mano è quella del braccio che gli sta prestando Millemosche, e il fuoco scotta e, difatti, così s’intitola il racconto da Storie dell’anno Mille che stiamo per leggere.
LEGERE MULTUM….
Tonino Guerra Luigi Malerba, Storie dell’anno Mille
IL FUOCO SCOTTA
In mezzo a tutta questa polvere e a questa confusione gli unici a starsene tranquilli in disparte sono Pannocchia e Carestia che finiscono di chiudere il tetto della loro casa.
Sono in piedi su una traversa di legno e cercano di tappare l’ultimo buco dal di dentro con un pezzo di corazza. Quando hanno finito di inchiodarlo tra due travi, si trovano al buio e chiusi dentro la casa. Con un salto saltano a terra e vanno a rannicchiarsi in un angolo appoggiando la schiena al muro.
«Adesso se tira il vento o piove o fa la neve noi possiamo anche metterci a ridere».
«Speriamo che piova e che cadano i fulmini sulla testa di tutti quei vagabondi che non hanno una casa».
... continua la lettura ...
Pure noi dobbiamo continuare la nostra passeggiata – insieme a Gerberto d’Aurillac – nei meandri del pensiero di Aristotele [poi navigheremo anche, questa sera, non dentro ad una botte ma su un’imbarcazione meno precaria]. Ma adesso dobbiamo riflettere su un fenomeno in voga nel IX, nel X e nell’XI secolo: la cosiddetta “fobia aristotelica”, un’avversione ingiustificata, utilizzata strumentalmente, senza una valida giustificazione logica, ma solo opportunistica, a fini repressivi da parte di chi detiene il potere feudale, soprattutto i membri dell’aristocrazia clericale.
Si sa che sul tema della “teologia di Aristotele ”, sul modello di un ipotetico Essere divino proposto da Aristotele con graffiante ironia, Gerberto d’Aurillac abbia steso un velo di reticenza [e non solo perché vuole fare carriera, e chi si occupa di Aristotele è un individuo sospetto, ma anche perché crede in Dio secondo la prerogativa trinitaria - Padre Figlio e Spirito Santo - data dalla dottrina cristiana e descritta nel “De divisione naturae” di Giovanni Scoto Eriùgena] ed è probabile che Gerberto d’Aurillac, alla Scuola di Reims, abbia dissertato sul tema, molto interessante, del “Dio-indifferente” di Aristotele con pochi studenti, quelli di cui si poteva fidare, e noi ci domandiamo: quale reale pericolo ci poteva essere nello studiare il modo in cui Aristotele tratta il tema della teologia?
La figura di Aristotele viene considerata, strumentalmente, come se fosse “blasfema” dalla casta che detiene il potere feudale [una casta che ha bisogno di avere un nemico, reale o immaginario, per giustificare il fatto di essere sempre sul piede di guerra]; in questo contesto, la figura di Aristotele viene agitata come l’emblema della “negazione del messaggio cristiano”: e questa affermazione viene fatta per sentito dire da persone in preda all’ignoranza che non sanno neppure che cosa abbia scritto Aristotele [e non vogliono neppure ragionare sul fatto che Aristotele è vissuto tre secoli prima di Cristo]; l’immagine, ritenuta sacrilega e irriverente di Aristotele, viene utilizzata dall’aristocrazia clericale per “offendere” gli avversari, e questo a partire dai papi [i papi del IX e del X secolo] che, con il loro comportamento, salvo alcune rare eccezioni, stanno facendo vivere alla Chiesa di Roma uno dei peggiori momenti della sua storia e, quindi, figuriamoci da che pulpito viene la predica: si strumentalizza il pensiero “diabolico [si dice]” di Aristotele [per sentito dire, senza la minima riflessione] come arma da usare contro i propri nemici, per poterli condannare ed eliminare.
Se ci mettessimo a raccontare gli episodi relativi a questo argomento [alla presunta “fobia aristotelica” ingiustificata e strumentale] ci vorrebbe un viaggio intero, e adesso noi, prima di seguire la dissertazione di Gerberto [condotta con circospezione] sul tema scabroso ma significativo del “Dio-indifferente” di Aristotele, facciamo una breve digressione, anche perché dobbiamo capire quale rischio stanno correndo gli intellettuali della Scolastica [come Gerberto, come Remigio, come Eirico, e via dicendo] a non condannare Aristotele e a manifestare, invece, un positivo interesse per il suo pensiero. Per riflettere, facciamo una digressione partendo da un [famoso] episodio emblematico [che fa entrare in gioco una lunga sequenza di personaggi, tra cui ben undici papi] in cui è proprio un papa ad essere strumentalmente accusato di “aristotelismo” perché questa accusa [nel IX, nel X, nell’XI secolo] è un dispositivo da usare [a colpo sicuro] nella lotta per il potere [e certi dispositivi diventano poi degli insulsi luoghi comuni ma, tuttavia, efficaci sul piano della propaganda ideologica].
Il 6 ottobre dell’891 viene consacrato papa il vescovo di Porto che si chiama Formoso, e alla sua elezione sono legati tutta una serie di avvenimenti [che ora non è necessario né possibile raccontare], però, in relazione alla prima fase del suo pontificato, dobbiamo ricordare due cose: la prima è che, come vescovo di Porto [siamo nella zona occidentale della penisola Iberica, in quel pezzo di terra intorno al quale si svilupperà il Portogallo, al confine con i Califfati arabi], Formoso ha intrattenuto rapporti con la cultura islamica [forse ha avuto modo anche di conoscere il pensiero di Aristotele trasmesso dal mondo arabo all’Occidente, ma non ha né doti né interessi da intellettuale]; la seconda cosa da ricordare è che nel conclave in cui viene eletto [in cui è molto abile ad ottenere il favore delle due più potenti fazioni: quella filogermanica e quella filospoletina] il suo antagonista è il diacono Sergio, il capo della fazione spoletina, il quale [siccome pensava di avere la vittoria in tasca] diventa suo acerrimo nemico.
Ma veniamo al dunque: nell’893 papa Formoso chiama in suo aiuto Arnolfo di Carinzia re di Germania contro il potente duca Lamberto di Spoleto. Il Ducato di Spoleto – a est delle Stato pontificio – è uno dei ducati istituiti dai Longobardi in Italia che è sopravvissuto a lungo dopo la caduta del Regno longobardo nel 774, e dopo un periodo nel corso dell’VIII secolo passato sotto il controllo dei Franchi, ha poi acquisito la propria indipendenza e si è espanso, tanto che, nel IX secolo, il ducato di Spoleto comprendeva parti delle odierne regioni di Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria.
La bella città di Spoleto – che si è sviluppata sul colle Sant’Elia, sul promontorio collinare alle falde del Monteluco, fino alle rive del torrente Tessino, ed è contornata a est dai monti che delimitano la Valnerina – è la sede del famoso “Festival dei Due Mondi” fondato dal maestro compositore Gian Carlo Menotti [scomparso nel 2007], che ha istituto la manifestazione nel 1958 con l’intenzione di creare un terreno di incontro fra due culture e due mondi artistici, quello americano e quello europeo [da qui il nome del festival definito, appunto, “dei due mondi”] e che celebrasse le arti in tutte le loro forme.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Fate un escursione a Spoleto utilizzando la guida dell’Umbria, e poi, navigando in rete, potete collegarvi con il “sito del festival dei due mondi” per osservare il programma del prossimo anno: “Spoleto58 - dal 26 giugno al 12 luglio 2015”… Spoleto non è lontano da qui…
Ma torniamo alla nostra digressione.
Il duca Lamberto di Spoleto [figlio di Guido II e della combattiva Ageltrude] si presentava come “l’homo novus” della politica europea e, dopo aver condotto una trattativa con il papa, si era fatto incoronare da lui, nell’892, imperatore a Ravenna [e questo dimostra quale confusione e quale vuoto di potere ci fosse nel Sacro Romano Impero] e, a Roma, gli Spoletini avevano cominciato a spadroneggiare [avrebbero voluto impossessarsi di una buona parte delle terre dello Stato pontificio]. Arnolfo di Germania raccoglie l’invito del papa e marcia su Roma, sconfigge e scaccia Lamberto, e Formoso lo incorna imperatore [siamo nel febbraio dell’896, con due imperatori senza potere imperiale], ma poi, mentre sta puntando su Spoleto, Arnolfo si ammala ed è costretto a tornare in Germania, mentre papa Formoso muore nell’aprile dell’896, e per gli Spoletini diventa facile riconquistare Roma.
Lamberto non potendo infierire su papa Formoso perché era già morto [gli è succeduto Bonifacio VI - eletto dai sostenitori di Lamberto di Spoleto - che però è morto dopo solo quindici giorni di pontificato ucciso, probabilmente, dai fiancheggiatori di Arnolfo di Corinzia: tirava una brutta aria a Roma], insomma, Lamberto di Spoleto, che vuole comunque vendicarsi, invita [ma più che un invito è un ordine] il nuovo papa Stefano VI [o VII, perché, per quanto riguarda i papi che si chiamano Stefano c’è una questione di numerazione] a compiere un gesto sacrilego: il sepolcro di papa Formoso viene violato, il suo cadavere [si parla di mummia] viene dissotterrato e giudicato in un macabro processo post-mortem, che ha preso il nome di “concilio cadaverico”, durante il quale papa Formoso viene giudicato illegittimo e deposto, e tutti gli atti da lui compiuti durante il suo pontificato, comprese le ordinazioni episcopali, vengono dichiarati nulli, e tra i “crimini” che gli vengono attribuiti c’è anche quello di essere un “aristotelico” perché, essendo stato vescovo di Porto dall’864, lì, nella penisola Iberica, avrebbe “letto le Opere sacrileghe del diabolico Aristotele” e colui che sostiene le accuse [il grande accusatore della mummia] è il diacono Sergio, il suo acerrimo nemico. Il cadavere di papa Formoso viene spogliato degli abiti pontifici e gettato nel Tevere, ma il popolo romano [aizzato dai capi della fazione filogermanica e anche perché un fulmine colpisce la basilica del Laterano e ne distrugge il tetto] si solleva e papa Stefano VI [o VII] – che aveva macchiato il suo nome autorizzando il [macabro] “concilio cadaverico” – viene arrestato e poi strangolato [il duca Lamberto di Spoleto non muove un dito per difenderlo, mentre il diacono Sergio si allontana dalla città]. Con un rapido conclave viene eletto papa un certo Romano [del quale quasi nulla si sa] che è stato pontefice per soli tre mesi finché, con un complotto, viene detronizzato e «Monachus factus est [si legge in un Libro di resoconti curiali]» cioè viene “rinchiuso in un monastero” ma non sappiamo altro se non che ci sono due papi perché gli succede Teodoro II che, però, è pontefice per soli venti giorni perché viene assassinato da una fazione che avversa la sua elezione [è un periodo piuttosto turbolento].
Gli succede Giovanni IX [il sesto papa in neppure due anni] che riabilita [anche per volontà del popolo romano] papa Formoso e scomunica e scaccia dalla città, a furor di popolo, Sergio [il nemico giurato e l’acerrimo accusatore di Formoso nel macabro “concilio cadaverico”] che, nel frattempo, è diventato vescovo di Cerveteri [ma Sergio, sotto mentite spoglie, stava sempre a Roma a tramare per conto degli Spoletini e dei Conti di Tuscolo con i quali era imparentato]. Sergio, ridotto allo stato laicale, va in esilio conducendo una vita avventurosa e poco esemplare ma dopo sette anni – nel frattempo si succedono due papi, Benedetto IV e Leone V, e l’antipapa Cristoforo –Sergio torna a Roma con l’aiuto del marchese Alberico di Camerino e viene sostenuto dalla potente famiglia dei Teofilatti che ha preso il sopravvento in città, e Teofilatto, il plenipotenziario vaticano che è a capo del potere militare [il dux romanus] e dell’amministrazione pontificia, fa imprigionare l’antipapa Cristoforo che a sua volta aveva fatto arrestare papa Leone V, e convoca il conclave e impone che Sergio venga eletto papa [siamo nel 904], e papa Sergio III fa subito uccidere Cristoforo e Leone: due papi e un antipapa in contemporanea erano troppi, bisognava ripristinare la normalità.
Sembrava si fosse toccato il fondo ma con papa Sergio III le cose peggiorano un po’ dal punto di vista morale e le studiose e gli studiosi di Storia dichiarano che con questo pontificato ha inizio un periodo che viene chiamato della “pornocrazia papale” [anche in Italia abbiamo avuto un periodo di pornocrazia repubblicana ma il pornocrate contemporaneo non è arrivato per primo: è stato battuto dai papi del X secolo] e questo perché nella corte pontificia s’installa anche il plenipotenziario Teofilatto [l’artefice dell’elezione di Sergio] con sua moglie Teodora, donna energica, capace d’imporsi a livello politico, “prostituta di alto lignaggio [e lei ci tiene a questo titolo]” madre di due figlie [che hanno intrapreso la stessa carriera della madre], Teodora Seconda e Marozia. Marozia – che ha dominato Roma dal 925 al 935 – ha sposato [nel 905] il marchese Alberico [altro “homo novus” in ascesa] mentre era incinta perché [come confermano tutte le fonti] aveva una relazione con Sergio: il bambino, nato nel 906, figlio naturale di Sergio ma ufficialmente erede di Alberico, verrà eletto papa nel 931 – per merito di sua madre [capace di mercanteggiare a tutti i livelli] – con il nome di Giovanni XI [che è anche l’undicesimo papa che abbiamo coinvolto nella trafila di questa digressione].
A papa Sergio III si deve la ricostruzione della basilica del Laterano [per far contenti i Romani] che era crollata subito dopo il “concilio cadaverico” e si deve l’invio di una certa somma di denaro per la fondazione dell’abbazia di Cluny [per tenere buoni i Benedettini che guardavano con sospetto a tutto ciò che accadeva nella curia romana e cominciavano a domandarsi se lì vi fosse ancora qualcosa di cristiano].
Naturalmente Sergio III non può dimenticare il suo nemico [era davvero una fissazione la sua] e indìce un sinodo per proclamare la validità del “concilio cadaverico” contro papa Formoso e fa erigere un mausoleo in San Pietro a papa Stefano VI [o VII] che aveva presieduto a quel rito macabro e ne era stato vittima. I documenti dicono che Sergio III, che è morto nell’aprile del 911, è stato sepolto in San Pietro ma la sua tomba non c’è, c’è solo una piccola lapide con un epitaffio poco leggibile, e quando sia stata messa [probabilmente secoli dopo] e chi l’abbia messa non si sa.
Nel 1870 Jean-Paul Laurens [1838-1921] dipinge un’opera intitolata Papa Formoso e Stefano VII [o VI], custodita al Musée des Beaux-Arts di Nantes, che raffigura il famoso episodio del cosiddetto “concilio cadaverico”. Jean-Paul Laurens è stato un eccellente pittore e scultore francese: repubblicano e anticlericale, ha dipinto e scolpito essenzialmente soggetti storici e religiosi, messi in scena in modo drammatico con una tecnica iper-realistica dando ai suoi quadri una forza di suggestione impressionante in cui chi osserva si sente spettatrice o spettatore di una rappresentazione teatrale.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Navigando in rete entrate in contatto con il pittore [e scultore] Jean-Paul Laurens e osservate le sue opere, prima di tutto quella che a noi interessa maggiormente intitolata “Papa Formoso e Stefano VII [o VI]”… L’arte pittorica è un veicolo: utilizzatelo…
Perché ci siamo imbarcate e imbarcati in questa digressione [la “digressione degli undici papi”, chiamiamola così]?
Il primo motivo è perché dobbiamo domandarci se il nemico del Cristianesimo fosse davvero Aristotele. È Aristotele che dobbiamo considerare “diabolico” o c’è chi lo batte in diavoleria? [E abbiamo constatato che sono in molti a batterlo]. Per fortuna la Storia del Cristianesimo è positivamente contaminata dai germi intellettuali di cui è portatore il movimento della Scolastica, per cui, paradossalmente [e i “paradossi” - nel senso della potenza dialettica che hanno le contraddizioni, le aporie - sono utili alla riflessione, sono funzionali all’investimento in intelligenza], per cui, nonostante la “fobia aristotelica” venga strumentalizzata dal potere aristocratico-clericale come strumento repressivo, tuttavia il “pensiero di Aristotele [inizialmente interpretato in chiave neoplatonica]” diventa il grande protagonista della Scolastica medioevale, il grande protagonista della cultura cristiana, e siccome il Cristianesimo salva il proprio onore con la cultura [non certo per la condotta esemplare dei papi] ecco che Aristotele, paradossalmente, contribuisce a salvare l’onore del Cristianesimo.
La ricerca filosofica condotta dal movimento della Scolastica – siamo sempre sul sentiero che costeggia il “paesaggio intellettuale della Filosofia cristiano-latina ai suoi albori” – è profondamente legata all’elemento religioso, al concetto di Dio: nel Medioevo Dio è “vivo e crea il mondo”, l’arte è “sacra”, la Letteratura parla di “inferno, purgatorio, paradiso”, per cui se togliessimo la parola “Dio” dal mondo medioevale non capiremmo nulla di questo mondo, quindi, la “teologia [lo studio di Dio e dei suoi rapporti con la persona e con il mondo]” non può che diventare la più importante delle discipline.
E gli Scolastici [che vorrebbero credere da cristiani maturi e a ragion veduta], da sapienti intellettuali che sono, coltivano il paradosso [corteggiano l’aporia, blandiscono la fruttuosa contraddizione che dà slancio all’investire in intelligenza] per costruire una “teologia efficace”, e ricorrono ad Aristotele che in modo “non religioso” ipotizza sul piano teoretico, con una riflessione razionale assolutamente laica, l’esistenza di un “Principio supremo” a cui tendono tutte le cose che: «se fossimo religiosi [afferma Aristotele] potremmo chiamare Dio», ma Aristotele ironizza sull’esistenza di Dio e sulla sua natura; eppure, la ricerca teologica prende il via, e la “teologia” comincia ad affermarsi come disciplina, sulle affermazioni principali del sistema aristotelico, proprio perché sono libere da pregiudizi religiosi [non sono idolatriche] e, quindi, sono funzionali all’idea [perseguita dalla Letteratura dell’Antico Testamento e poi soprattutto dalla Letteratura dei Vangeli e da quella Patristica] che il Dio cristiano non è un “idolo”.
Quali sono i meccanismi che – in Età medioevale – fanno di Aristotele il fondatore della nuova teologia cristiana, e anche islamica e anche ebraica? È chiaro che non si può rispondere con una battuta a questa bella domanda, ma è necessario seguire un ragionamento progressivo e, a questo proposito, è utile seguire la dissertazione di Gerberto d’Aurillac [condotta con circospezione] sul tema scabroso ma significativo del “Dio-indifferente” di Aristotele che – all’interno di un coerente sistema dialettico – conferma l’esistenza di un necessario “Principio supremo” e di una indispensabile ed essenziale “sostanza soprasensibile” della quale Aristotele illustra le caratteristiche [intellettuali e spirituali]: lo studio del pensiero teologico di Aristotele diventa il primo passo per istituire una “disciplina teologica cristiana” basata sui principi della Ragione che, sempre più indipendente, tenta di indagare i “misteriosi” territori della Fede.
Quindi, se i membri dell’aristocrazia ecclesiastica vogliono fermarsi alla constatazione che Aristotele è un “demonio” del quale si può facilmente sfruttare l’immagine trasformandola in uno strumento repressivo da usare per colpire i propri nemici [essere aristotelici equivale ad essere blasfemi, punibili con la condanna a morte], gli intellettuali della Scolastica – tanto gli “antidialettici” quanto i “dialettici” [li incontreremo e li metteremo a confronto] – capiscono che Aristotele può essere un buon “compagno di strada” sulla via che conduce alla fondazione di una Filosofia cristiano-latina. E allora continuiamo a riflettere utilizzando la Lezione di Gerberto d’Aurillac.
Prima però dobbiamo dire che il secondo motivo per cui ci siamo imbarcate ed imbarcati nella ormai cosiddetta “digressione degli undici papi” è per mettere in evidenza come Gerberto d’Aurillac, in veste di papa Silvestro II [999-1003], costituisca un’eccezione rispetto all’andazzo [alla pornocrazia papale] che vige presso la corte pontificia: in questo conta il fatto che Gerberto d’Aurillac è un intellettuale della Scolastica e, in quanto tale, si batte a ragion veduta per la “renovatio imperii”, dove il termine “imperium [che in latino significa “potere”]” corrisponde a “la riforma della gestione del potere che nella Chiesa deve essere conforme ai dettami del Vangelo”, per cui comincia a decretare contro l’immoralità, contro la simonia [la vendita dei titoli ecclesiastici], contro l’ignoranza, e contro tutti i vizi che i prelati di alto rango, salvo rare eccezioni, coltivano come se fossero virtù. Naturalmente si fa molti nemici i quali sparlavano di lui [già da quando era un monaco molto erudito fin da giovanissimo], sparlano di lui [quando è papa in conflitto con la curia] e sparleranno di lui dopo la sua morte [ma questa è un’altra storia che entra nel territorio della leggenda e della quale ci occuperemo a suo tempo].
Il primo che comincia a gettare discredito sul giovanissimo monaco Gerberto d’Aurillac è papa Giovanni XII [che, ironia della sorte, è anche il dodicesimo papa che tiriamo in ballo questa sera] al quale il monaco benedettino Gerberto sta subito antipatico dalla prima volta che lo incontra perché gli si presenta davanti dimostrandogli tutta la sua sapienza e la sua intransigente morale [tutto il contrario di quello che è lui, ed è un’antipatia reciproca]. Il giovanissimo monaco Gerberto d’Aurillac ha accompagnato a Roma il Conte Borrell II di Barcellona nel 962, in visita al papa, e lì, come sappiamo, incontra l’imperatore Ottone I che, dopo averne valutato le competenze, lo assume come precettore di corte. Giovanni XII – al quale quel monacello provinciale, erudito e casto, non piace proprio – è Ottaviano degli Alberici, che nel 955 è stato eletto papa appena ventiduenne, senza avere alcuna educazione religiosa né tanto meno ecclesiastica, perché è figlio di Alberico II, il governatore dello Stato pontificio, e che continuerà a vivere una vita dissoluta facendo diventare il palazzo del Laterano un vero e proprio bordello. Ottaviano non aveva alcuna specifica competenza né per fare il principe né per fare il papa, “una banderuola priva di opportunismo politico [così è stato definito dalle studiose e dagli studiosi]”, il quale muore [a 29 anni, nel 964] scaraventato dalla finestra dal marito di una certa Stefanetta che lo ha sorpreso a letto con lei. Ebbene, l’atto di più alto valore intellettuale [volendo ironizzare] che Giovanni XII abbia compiuto è stato quello di mettere in guardia Ottone I sul conto del pericoloso “aristotelico e mago [per Giovanni XII essere aristotelici significa praticare la magia in combutta col demonio]” che aveva assunto come precettore, ma Ottone I [che aveva un po’ di sale in zucca] gli risponde indirettamente dicendo: «Il papa è ancora un ragazzo e sarebbe bene si moderasse seguendo l’esempio di persone d’animo nobile». E allora – dopo questa ulteriore digressione – continuiamo, utilizzando la Lezione di Gerberto d’Aurillac, a riflettere sul pensiero “teologico” di Aristotele.
Gerberto d’Aurillac, commentando il Libro XII della Metafisica, spiega che Aristotele conduce la sua riflessione affermando che se Dio fosse l’Atto puro [l’anello iniziale del sistema dialettico aristotelico che abbiamo studiato poco fa alla Scuola di Reims quando Gerberto ha commentato il Libro VIII della Metafisica] non avrebbe più nulla da attuare e, quindi [afferma Aristotele], per mettere in moto e per creare l’Universo non è necessario un Dio ma basta un Atto, e poi, afferma Aristotele, se Dio fosse Pensiero [il Logos], quando pensa, penserebbe solo valori assoluti, e non potrebbe che contemplare se stesso, sarebbe Pensiero del suo Pensiero, sarebbe un Intelletto che pensa solo se stesso e non potrebbe essere, quindi, né “creatore” né “provvidenza” perché, afferma Aristotele, non guarderebbe mai verso il basso e, se lo facesse [«se lo facesse - scrive ironico Aristotele - vedrebbe come si comportano gli uomini e morirebbe dal ridere»] non sarebbe più un Dio e, di conseguenza, se un Dio c’è, afferma Aristotele, non è né creatore, né provvidente.
E voi capite, [afferma Gerberto nel corso delle sue Lezioni a Reims, che l’immagine del presunto Dio di Aristotele risulta “blasfema [ironica, sarcastica]” a causa del fatto che il filosofo è vissuto tre secoli prima del messaggio salvifico di Gesù Cristo [Aristotele è morto nel 322 a.C.], è vissuto senza conoscere i testi della Letteratura dei Vangeli che rivelano un Dio che è “bontà e misericordia” quindi “provvidenziale” perché “creatore”, dispensatore di karis [di grazia] e istitutore di agape [di amore solidale]. Aristotele, afferma Gerberto, non conosce i termini della rivelazione e, quindi come la maggior parte degli autori classici, non ha colpe [e Dante, tre secoli dopo, collocherà i Classici nel Limbo]; anzi, Aristotele coltiva buoni propositi e, di conseguenza, afferma Gerberto,, nel suo ragionare i termini della rivelazione sono latenti, sono “in potenza”.
La presunta “blasfemia ” [l’ironia, il sarcasmo] di Aristotele, afferma Gerberto, è frutto di un corretto ragionamento derivante da un preciso sistema dialettico e lo sforzo intellettuale di Aristotele [l’ordine che dà alla sua speculazione] è commovente e avvincente perché, afferma Gerberto, dietro la sua ironia [spesso dietro l’ironia mascheriamo le nostre insoddisfazioni] è come se il filosofo si augurasse, afferma Gerberto, che un Dio, con le caratteristiche [gli accidenti, gli attributi] di quello cristiano [la bontà e la misericordia], potesse esistere davvero: la tensione di Aristotele, afferma Gerberto, come quella di Platone, verso “l’approssimazione continua ad una verità ultima” ha in sé qualcosa di profetico, ha in sé qualcosa di proto-evangelico.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
L’approssimazione è un “avvicinamento graduale”: avete fatto l’esperienza di avvicinarvi gradualmente ad una cosa, ad un’idea, ad una persona?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Il pensiero “filosofico” di Gerberto d’Aurillac è racchiuso in un’opera affascinante tanto per il suo contenuto – e la riflessione che stiamo conducendo la dobbiamo proprio a quest’opera – quanto per il mistero che la circonda in relazione al suo contenuto stesso. Quest’opera, per secoli, è rimasta depositata nella biblioteca della Scuola di Reims collocata nell’abbazia di St-Remi [e abbiamo fatto visita a Reims la scorsa settimana]. Quest’opera di Gerberto [ne ha scritte numerosissime a scopo didattico] è una raccolta di “nove glosse [un’enneade di glosse]” che assume la forma di un breve trattato: quest’opera non è mai uscita per tutto il periodo medioevale dalla biblioteca dell’abbazia di St-Remi a Reims ma ha attirato un alto numero di intellettuali scolastici i quali, tacitamente [da Tours, da Parigi], sono andati in “pellegrinaggio” a Reims per leggere, dopo avere ottenuto il permesso del severissimo bibliotecario, i testi delle Glosse di Gerberto d’Aurillac, e questo fenomeno [per cui un’opera più sta ferma più entra in circolazione], detto del “pellegrinaggio culturale”, diventa una prassi consueta per tutto il medioevo.
Nel breve trattato intitolato Glosse su La sostanza soprasensibile [e abbiamo frequentato la Scuola di Auxerre e sappiamo che cosa sono le glosse, in questo caso sono appunti in margine al testo del Libro XII della Metafisica di Aristotele], prima di queste “nove glosse [una enneade di glosse]” Gerberto d’Aurillac afferma che Aristotele inizia la sua grande riflessione “metafisica” reagendo ad una delusione [abbiamo detto che, strada facendo, avremmo ripreso il tema della “delusione” provata da Aristotele]. Scrive Gerberto [nella I glossa]: «Aristotele, come discepolo di Platone [Aristotele è stato discepolo di Platone, si è formato all’Accademia di Atene], avrebbe voluto che il pensiero del suo maestro fosse certo, fosse sicuro, fosse indubbio, fosse inequivocabile, portasse alla Verità indicando una Via di salvezza, ma invece ravvisa nel discorso platonico una contraddizione fondamentale [della quale è consapevole Platone stesso] e questo fatto lo delude profondamente ma lo stimola anche a ripensare su nuove basi tutto il sistema della conoscenza, Aristotele è critico ma getta il suo sguardo riconoscente su Platone perché indica l’esistenza della sostanza soprasensibile [del concetto, che possiamo separare dalle cose mediante il processo di astrazione attuato dal nostro cervello]».
Aristotele, afferma Gerberto, sa che il grande merito di Platone è quello di aver nettamente distinto il mondo delle cose dal mondo dei valori. La vita umana – sostiene Platone, spiega Gerberto, parafrasando Aristotele – è fatta di cose sperimentalmente definibili però acquista un significato solo attraverso i valori [le idee del Bene, del Bello, del Giusto], e l’esistenza dei valori conferma l’esistenza della “verità” e rappresenta il vero motivo per cui la vita valga la pena di essere vissuta: se viviamo, sostiene Platone, unicamente per le cose materiali saremo sempre infelici [Aristotele condivide e Gerberto sottoscrive questa affermazione].
Ma i valori, sostiene Platone, sono trascendenti, stanno al di sopra della realtà e sono separati dalla realtà: sono collocati in un mondo, afferma Platone, che, di conseguenza, risulta impossibile da raggiungere. La Realtà universale, quindi, [secondo il sistema di Platone] è formata da due mondi nettamente separati tra loro e impenetrabili: il “mondo delle cose” e il “mondo delle Idee”, e Platone cerca di spiegare in vari modi questa contraddizione [la cosiddetta “aporia platonica”] con scarsi risultati. Aristotele si propone di risolvere la “contraddizione della incomunicabilità dei due mondi” e sottopone il sistema platonico ad una critica rigorosa e arriva alla conclusione che nella Realtà non può esistere questo dualismo perché i valori ideali, afferma Aristotele, pur rimanendo distinti dalle cose sensibili, sono nelle cose stesse [e noi già sappiamo che su questa enunciazione - per quanto riguarda la “questione degli universali” - si basa la corrente, detta “aristotelica”, secondo la quale le idee universali sono “in re” sono “dentro alle cose stesse” e Gerberto d’Aurillac sostiene questa tesi]: le idee sono nelle cose e sono le essenze [le forme] delle cose stesse. E se così non fosse [sostiene Aristotele, e Gerberto sottolinea questa asserzione] la nostra vita terrena non potrebbe contenere in se stessa le ragioni del proprio essere.
Secondo Platone le Idee sono l’essenza delle cose, e allora, afferma Aristotele, se le Idee sono l’essenza delle cose: come possono stare in un altro mondo diverso da questo che è il mondo delle cose stesse? Secondo Platone le Idee sono immutabili mentre il mondo delle cose è soggetto al divenire [al cambiamento continuo] e allora, afferma Aristotele, come possono le Idee immutabili essere causa di questo mondo in trasformazione? E risulta, quindi, evidente, afferma Aristotele, che l’elemento Universale [le Idee] non può essere staccato da quello particolare [dalle cose], e l’Universale [la forma] e il particolare [la materia] devono considerarsi fusi in unità [un sinolo].
Nelle Glosse su La sostanza soprasensibile Gerberto d’Aurillac [nella IV glossa] scrive: «L’assunto [la tesi] di Aristotele, che definisce la Realtà come unità [sinolo] di forma e di materia, è più che plausibile perché sembra essere speculare all’evento della salvezza che si è realizzato con l’incarnazione di Gesù Cristo, e la persona di Cristo, secondo la dialettica [aristotelica], può essere definita come l’Atto puro che sta in potenza nella mente di Dio Padre». E poi [nella VII glossa] Gerberto scrive: «La persona di Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo, che esiste da principio in potenza nella mente di Dio si rivela come Atto puro nel momento in cui la Forma divina, il Logos, che è Parola, Pensiero, Spirito Santo di Dio, si fonde in unità, come elemento universale con l’elemento particolare, con la materia costitutiva del corpo del Signore Gesù, figlio di Dio secondo la carne, della stessa sostanza di Dio Padre, e la figura di Gesù Cristo [scrive Gerberto] può essere definita come sinolo [unità] di Forma divina e di Materia umana e questo asserto [questa tesi, di stampo aristotelico] è plausibilmente compatibile con la dottrina del Vangelo».
I nove brevi testi delle Glosse in margine alla Metafisica di Aristotele di Gerberto d’Aurillac possono essere considerati tra “i primi appunti” costitutivi di una Filosofia cristiano-latina che nelle sue forme e nei suoi contenuti è radicata nell’incontro del pensiero di Aristotele con quello di Platone [«Aristotele getta il suo sguardo riconoscente su Platone perché indica l’esistenza della sostanza soprasensibile», questa frase emblematica dobbiamo ricordarla perché ha lasciato un segno che, prossimamente, dobbiamo cogliere].
Ma Aristotele sulle Glosse di Gerberto d’Aurillac [ben custodite in biblioteca a Reims] non può esprimere il suo parere e probabilmente avrebbe qualche difficoltà a capire certi passaggi che “addomesticano” il suo pensiero “laico” e probabilmente, ancora una volta, rimarrebbe deluso.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Una delusione procura amarezza, sconforto, disappunto, avvilimento: quale di questi termini mettereste per primo accanto alla parola “delusione” ?…
La più cocente delusione della vostra vita merita di essere documentata, ma anche una piccola delusione – più digeribile [visto che le delusioni sono spesso “rospi da ingoiare”] – merita lo stesso trattamento: scrivete quattro righe in proposito, non deludete la vostra penna…
Ma Aristotele – che sulle Glosse di Gerberto d’Aurillac non può esprimere il suo parere [e probabilmente dissentirebbe su determinate asserzioni lontane dal suo modo di pensare] – non avrebbe voluto distruggere il sistema platonico, avrebbe voluto discutere con Platone per giungere alla formulazione di un nuovo sistema d’interpretazione della Realtà universale [più ordinato, più equilibrato, più logico, più plausibile], ma Platone è partito per la Sicilia [va a cercare uno sponsor per applicare il suo modello di Repubblica, ma subirà molte delusioni] e così Aristotele, per aver criticato il maestro, viene cacciato in malo modo [a insaputa del maestro] dai reggenti dell’Accademia di Atene: Platone, impegnato nella Magna Grecia, starà lontano molto tempo da Atene e i due [Platone e Aristotele] non s’incontreranno mai più.
Aristotele non è tanto deluso per essere stato cacciato dall’Accademia – fonderà il Liceo e farà carriera per conto suo [farà il precettore di Alessandro Magno, con scarsi risultati perché il ragazzo è particolarmente indisciplinato] – ma Aristotele è deluso perché, di fronte alla formulazione di un sistema che possa descrivere il funzionamento della Realtà universale e alla indicazione di un metodo che permetta di capire come questa Realtà si possa conoscere, i presunti custodi della Verità, considerata già data, non accettano di prendere in esame soluzioni diverse da quelle considerate canoniche [ortodosse] anche se la sperimentazione dimostra che sono basate su elementi che vacillano: si preferisce [per paura, per insicurezza, per pigrizia] puntellare questi elementi vacillanti piuttosto che rifondare le strutture di base. Queste considerazioni ci permettono [con il consenso di Platone, di Aristotele e di Gerberto d’Aurillac] di aprire una parentesi in funzione della didattica della lettura e della scrittura.
Aristotele è deluso come il ricco mercante ebreo Ben-Atar che è il protagonista del romanzo intitolato Viaggio alla fine del millennio dello scrittore e drammaturgo Abraham B. Yehoshua. Abraham B. Yehoshua è nato a Gerusalemme nel 1936, vive ad Haifa dove insegna nella locale università. Al centro del pensiero delle numerose opere di Yehoshua si trova la questione del rapporto tra popoli diversi, che hanno religioni e culture differenti e i personaggi dei suoi romanzi sperimentano in forme a volte drammatiche, spesso tormentate, la difficoltà di costruire relazioni umane autentiche che non si lascino incasellare nel pregiudizio o nell’intolleranza. Questo tema, di evidente attualità, emerge nel romanzo del quale stiamo per leggere qualche pagina, Viaggio alla fine del millennio [pubblicato nel 1997], nel quale, metaforicamente, lo scrittore intende mettere in discussione il modo di costruire le relazioni tra Ebrei, Arabi, Europei che lui pensa debba essere diverso e più aperto di quanto accada nel presente.
Un altro tema costante nelle opere di Yehoshua è l’analisi dei rapporti familiari. I personaggi dei suoi romanzi sono inseriti in una complessa rete di relazioni di parentela, in cui si incontrano le diverse generazioni: lo scrittore analizza soprattutto il rapporto tra marito e moglie che spesso è reso difficile dalla lontananza, dall’incomprensione, o da un “non detto” che addolora e induce all’autocritica il personaggio principale [che spesso, per ragioni autobiografiche, è un uomo di mezza età]. L’amore coniugale è oggetto di particolare analisi [e lo scrittore può contare anche sulla collaborazione della moglie Rivka, che fa la psicanalista] perché, non essendo fondato su un legame di sangue, deve essere e continuamente rimesso in gioco, giorno per giorno, nelle situazioni più diverse. Yehoshua ritiene che il rapporto di coppia sia il legame più difficile da “tenere in piedi” e pensa debba essere approfondito e descritto con parole semplici, comprensive e prive di morbosità anche se, a volte, le situazioni che lo scrittore presenta sono potenzialmente scabrose.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
I principali romanzi di Abraham B. Yehoshua sono: “L’amante”, “Cinque stagioni”, “Il signor Mani”, “Un divorzio tardivo”, “Ritorno dall’India”, “Diario di una pace fredda”…
La Scuola ne consiglia la lettura [o la rilettura]: potete richiedeteli in biblioteca …
Il romanzo intitolato Viaggio alla fine del millennio ci porta nell’estate del 999 quando sta per approssimarsi il fatidico anno Mille, e il ricco mercante ebreo Ben-Atar, il protagonista di questo romanzo, a bordo di una solida nave a vela, lascia la luminosa città di Tangeri, insieme al suo socio arabo Abu-Lutfi, per intraprendere un viaggio che, risalendo le coste atlantiche e imboccando la Senna lo porterà a Parigi che, in quest’epoca è ancora poco più che un borgo. Ben-Atar viaggia in compagnia delle due mogli perché vivendo in un paese dove la poligamia è legalizzata ha creduto opportuno, secondo l’uso islamico, di avvalersi, pur essendo ebreo, di questa legge. Ben-Atar deve raggiungere il nipote Raphael Abulafìa, ex socio d’affari, e la sua nuova moglie, una ebrea askhenazita che disapprova la bigamia dello zio e, in ragione di questa disapprovazione, Ben-Atar vuole essere giudicato da un qualificato tribunale ebraico in merito alla scelta che ha fatto: vorrebbe che la sua posizione, e quella delle sue due mogli alle quali vuole bene e dalle quali è ricambiato, fosse chiara secondo la legge umana e secondo la fede divina. Due realtà – quella della solare sensualità del Sud e quella dell’austero rigore europeo – entrano in conflitto perché s’incarnano in due modi differenti di vivere contrassegnati da due diversi codici di comportamento ma entrambi validi e praticabili all’interno di una fede comune. Ben-Atar [similmente ad Aristotele] è profondamente deluso perché pensa che, nell’ambito di una fede comune sinceramente vissuta, ci dovrebbero essere principi certi e inequivocabili per garantire i diversi modi di vivere delle persone, dando loro la possibilità di scegliere secondo l’unica identità che conta, quella umana. Ma il giudizio sul comportamento di Ben-Atar rimarrà sospeso a causa di un evento inaspettato e drammatico che è, sebbene solo in parte, risolutivo della situazione e che certamente allarga il campo della riflessione sulla precarietà della condizione umana, uno stato che, invece di dividere le persone, le dovrebbe far avvicinare.
E ora leggiamo l’incipit di questo romanzo.
LEGERE MULTUM….
Abraham B. Yehoshua, Viaggio alla fine del millennio
Nel secondo quarto della notte Ben-Atar, svegliato da una carezza, immagina in cuor suo che anche nel sonno la Prima Moglie non dimentichi di ringraziarlo del piacere donatole. Nell’oscurità che dolcemente lo avvolge accosta alla bocca la mano che lo accarezza per imprimervi ancora un bacio. Ma la ruvidezza della pelle e il calore irradiato verso le sue labbra lo rendono immediatamente consapevole dell’errore e con disgusto respinge la mano del servitore nero che, percependo la repulsione del padrone, scompare. E così com’è, nudo e pieno di sonno, Ben-Atar è di nuovo colto dall’apprensione per il viaggio. A tastoni controlla se il giovane che ha osato penetrare fino alle profondità del suo giaciglio per svegliarlo non abbia teso la mano anche alla cintura di pietre preziose, e si affretta a indossarla prima di avvolgersi nel mantello. In silenzio, senza una parola di commiato, sguscia via dalla piccola cabina e si arrampica sulla scaletta di corda fino al ponte. E nonostante sia certo che la sua uscita, per quanto silenziosa, abbia svegliato la moglie, è sicuro che lei saprà controllarsi e non cercherà di trattenerlo, perché non solo è consapevole del dovere imposto ora al marito, ma condivide la speranza che Ben-Atar riesca a compierlo prima dell’alba.
... continua la lettura ...
Leggeremo ancora [per incentivarne la lettura, o la rilettura, nella sua interezza] qualche pagina di questo interessante romanzo che ci porta in un’epoca e su un territorio nel quale sono, in chiave letteraria, presenti anche Millemosche, Pannocchia e Carestia i quali, in questo momento, stanno navigando anch’essi, non però a bordo di una solida nave bensì dentro ad una botte provvidenziale che, pur rimanendo a galla, è tuttavia un’imbarcazione assai precaria e, soprattutto, ingovernabile.
Intanto il “movimento della Filosofia cristiano-latina” comincia – su iniziativa degli intellettuali della Scolastica – a prendere campo, e in questo contribuiscono i testi delle Glosse in margine alla Metafisica di Aristotele di Gerberto d’Aurillac in cui l’autore sottolinea come Aristotele, sebbene critico, «abbia gettato il suo sguardo riconoscente su Platone perché indica l’esistenza della sostanza soprasensibile [il concetto]», e questa frase emblematica ha lasciato un segno che dobbiamo cogliere.
Sappiamo che, nell’autunno del 1508, una copia delle Glosse su La sostanza soprasensibile di Gerberto d’Aurillac esce per la prima volta dalla biblioteca dell’abbazia di St-Remi di Reims: perché il bibliotecario vaticano Fedra Inghirami [ci racconta questo episodio in una delle sue Lettere], il fedele e geloso consulente di papa Giulio II, va a prendere copia di quest’opera e la porta nella biblioteca vaticana? A che cosa deve servire quest’opera, che cosa deve giustificare? [C’è, forse, ancora qualcosa de La Scuola di Atene che non sappiamo? Non si finisce mai d’imparare!].
Per rispondere a queste domande – che scaturiscono dall’osservazione del “paesaggio della Filosofia cristiano-latina ai suoi albori” al quale siamo di fronte – dobbiamo seguire il Percorso dell’Alfabetizzazione culturale e funzionale con lo spirito utopico che lo “studio” porta con sé consapevoli del fatto che non si deve mai perdere la volontà d’imparare.
Viaggiano Millemosche, Pannocchia e Carestia senza sapere dove vanno.
Viaggia Ben-Atar da Tangeri verso Parigi.
Viaggia Fedra Inghirami [è appena partito] da Roma a Reims.
E voi: volete rinunciare a viaggiare in un viaggio che genera viaggi?
La Scuola è qui, il viaggio continua…