Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza di Socrate Platone Aristotele 25-26-27 febbraio 2009
SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, DI PLATONE E DI ARISTOTELE
C'È IL TEMA DELL'EROS...
Questo viaggio verso la sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele continua e il nostro incontro con le parole-chiave e le idee-cardine che caratterizzano il pensiero di Socrate è ormai prossimo. Sappiamo che questo Percorso, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, avanza su due corsie: la corsia moderna che attraversa lo spazio rinascimentale dell’affresco de La Scuola di Atene di Raffaello e la corsia antica che percorre il territorio orfico dell’Ellade, della cultura greca.
Questa sera nello spazio dell’affresco de La Scuola di Atene dobbiamo trasferirci dal quadro che raffigura il gruppo dei Sofisti, nel quale, la scorsa settimana, abbiamo individuato la figura di Anassagora che, secondo le studiose e gli studiosi della cosiddetta "corrente di Fedra", contiene una serie di citazioni letterarie che abbiamo messo in evidenza: questa bellissima figura, a torso nudo, in movimento, porta con sé l’invito – che noi abbiamo accolto – alla conoscenza di alcuni temi presenti in tre opere, in tre dialoghi di Platone intitolati Sofista, Protagora e Apologia di Socrate.
Ebbene, questa sera, dobbiamo trasferirci – proprio sulla scia tracciata da queste opere – dal quadro che raffigura il gruppo dei Sofisti a quello in cui si trova la figura di Socrate. La figura di Anassagora (che abbiamo studiato e che viene, nell’affresco, meno evidenziata – su consiglio del papa Giulio II – per il fatto che questo personaggio è all’Indice perché nega esplicitamente che l’Intelletto abbia caratteristiche divine) e la figura di Socrate (che dobbiamo incontrare e che viene invece mostrata in modo evidente) ricordano, per certi versi, l’interprete principale di un romanzo del quale, al termine dell’ultimo itinerario, otto giorni fa, abbiamo letto la parte finale. Questo personaggio si chiama Efix ed è il protagonista di Canne al vento scritto da Grazia Deledda nel 1913. Questo romanzo termina con la narrazione, ricca di pathos, della morte di Efix così come è ricco di pathos tanto il racconto della morte di Anassagora quanto quello della morte di Socrate.
Nel romanzo Canne al vento Grazia Deledda (1871-1936) trasforma il paesaggio sardo in modo mitico e questo è il primo valido motivo che abbiamo per leggere questo testo: a che cosa pensiamo oggi quando prendiamo in considerazione la Sardegna, quali immagini ci vengono in mente se non, prima di tutto, quelle del consumismo turistico? Ma la Sardegna ha anche un’anima letteraria che le italiane e gli italiani conoscono pochissimo.
Grazia Deledda trasforma in modo mitico il paesaggio sardo mettendo insieme la cultura della sapienza poetica beritica (lo stile biblico, che conosciamo attraverso il Percorso dell’anno scolastico 2006-2007) con la cultura della sapienza poetica orfica (lo stile della tragedia greca). Questo intreccio poetico-sapienziale, di carattere biblico e tragico mescolato insieme, fa nascere nel testo di questo romanzo, fin dalle prime pagine, un’inquietudine di tipo orfico e veterotestamentario insieme. Questa "inquietudine (orfica e beritica insieme)" è la stessa che si manifesta ne La Scuola di Atene che non è affatto un’icona rassicurante come è stata fatta diventare dal pressappochismo mediatico il quale chiede solo che la si guardi e si dica genericamente "che bello!", mentre in realtà questo affresco è stato prodotto (esattamente cinquecento anni fa) per comunicare – come fanno gran parte delle opere d’Arte e di Letteratura – che "senza un viaggio di studio non ci si salva". L’ignoranza (che è ben distinta dall’umiltà, dalla modestia, dalla purezza di cuore, dalla riservatezza di cui parla la Letteratura del Vangelo) – manda a dire papa Giulio II (che è un francescano) – non è una virtù ma è una restrizione: uno strumento che dà forza ai poteri autoritari.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
C’è un opera d’arte – un dipinto, una scultura, un monumento, un sito archeologico, una poesia, un romanzo, un saggio o un altro oggetto culturale… – che per te si è presentato come un itinerario di studio che ha arricchito il tuo intelletto?…
Scrivi quattro righe in proposito…
L’inquietudine che si manifesta nel testo di Canne al vento è data anche dalla tradizione che vi siano nella Natura fisica e umana delle cose soprannaturali (la presenza del Dio biblico mescolata a quella delle divinità orfiche) che condizionano inesorabilmente, nel bene e nel male, la vita delle persone. Il protagonista del romanzo è Efìx (Efisio è un nome molto diffuso nel Sud della Sardegna ed è il nome di uno dei santi della città di Cagliari), Efix è il servo delle dame Pintor e coltiva – siamo nel paese di Galte – l’ultimo podere rimasto a queste tre nobili discendenti di una famiglia ormai in rovina. Le dame Pintor hanno (e non per caso) nomi biblici, si chiamano: Ruth, Ester e Noemi. Efix vive in fantastico contatto con le divinità orfiche, con i folletti, con i giganti della montagna, con i santi del cielo, con le anime dei morti e questo fa di lui una persona dotata di una cultura tradizionale che ispira la sue scelte morali. Per Efix tutte queste figure mitiche sono vive e vere come le persone del presente. La nobile casa cade a pezzi, le dame Pintor vendono di nascosto gli ortaggi ricavati dal poderetto e due di loro, Ruth ed Ester, sono ormai vecchie e sono dolci e solenni, mentre Noemi, che è ancora giovane e piacente, è altera e dura. Il padre, don Zame, le ha tenute segregate in casa, a causa della sua mentalità arretrata di nobile incolto: don Zame è un uomo superbo e orgoglioso, è prepotente e soprattutto è geloso dell’onore della famiglia e ne protegge il prestigio e la reputazione nel paese. In realtà le dame Pintor sono quattro: c’è anche una quarta sorella, Lia, la quale non ha accettato questa sorte tetra dettata da un padre-padrone ed è fuggita sul continente, a Civitavecchia. Don Zame sembra impazzire per questo scandalo: "Un’ombra di morte – leggiamo nel romanzo – gravò sulla casa: mai nel paese era accaduto uno scandalo eguale; mai una fanciulla nobile e beneducata come Lia era fuggita così". Don Zame la insegue, per evitarne la fuga, ma viene trovato morto sul ponte all’uscita dal paese, e tutti credono ad una disgrazia, invece è stato Efix a ucciderlo involontariamente, mentre vegliava sulla fuga di Lia, per la quale egli aveva una devozione appassionata molto simile all’amore che non poteva però – essendo un servo – rivelare neppure a se stesso. Da questi avvenimenti – quando il romanzo ha inizio – è passato tanto tempo e Lia si è sposata a Civitavecchia e ha avuto un figlio che ha chiamato Giacinto, e poi è morta. Nessuno conosce il delitto di Efix che sonnecchia nel fondo della sua coscienza e quando l’orfano Giacinto, licenziato dal suo impiego alle Dogane per aver commesso un furto, viene a cercar lavoro in Sardegna, irrompono con lui – con questo nipote semisconosciuto e un po’ scapestrato –, nella vecchia casa delle dame Pintor, la vita e i ricordi tragici del passato.
E ora leggiamo l’incipit, l’inizio, di questo romanzo:
LEGERE MULTUM….
Grazia Deledda, Canne al vento (1913)
Tutto il giorno Efix, il servo delle dame Pintor, aveva lavorato a rinforzare l’argine primitivo da lui stesso costruito un po’ per volta a furia d’anni e di fatica, giù in fondo al poderetto lungo il fiume: e al cader della sera contemplava la sua opera dall’alto, seduto davanti alla capanna sotto il ciglione glauco di canne a mezza costa sulla bianca Collina dei Colombi.
Eccolo tutto ai suoi piedi, silenzioso e qua e là scintillante d’acque nel crepuscolo, il poderetto che Efix considerava più suo che delle sue padrone: trent’anni di possesso e di lavoro lo han fatto ben suo, e le siepi di fichi d’India che lo chiudono dall’alto in basso come due muri grigi serpeggianti di scaglione in scaglione dalla collina al fiume, gli sembrano i confini del mondo.
Il servo non guardava al di là del poderetto anche perché i terreni da una parte e dall’altra erano un tempo appartenuti alle sue padrone: perché ricordare il passato? Rimpianto inutile. Meglio pensare all’avvenire e sperare nell’aiuto di Dio.
E Dio prometteva una buona annata, o per lo meno faceva ricoprir di fiori tutti i mandorli e i peschi della valle; e questa, fra due file di colline bianche, con lontananze cerule di monti ad occidente e di mare ad oriente, coperta di vegetazione primaverile, d’acque, di macchie, di fiori, dava l’idea di una culla gonfia di veli verdi, di nastri azzurri, col mormorìo del fiume monotono come quello di un bambino che s’addormentava.
Ma le giornate eran già troppo calde ed Efix pensava anche alle piogge torrenziali che gonfiano il fiume senz’argini e lo fanno balzare come un mostro e distruggere ogni cosa: sperare, sì, ma non fidarsi anche; star vigili come le canne sopra il ciglione che ad ogni soffio di vento si battono l’una all’altra le foglie come per avvertirsi del pericolo.
Per questo aveva lavorato tutto il giorno e adesso, in attesa della notte, mentre per non perder tempo intesseva una stuoia di giunchi, pregava perché Dio rendesse valido il suo lavoro. Che cosa è un piccolo argine se Dio non lo rende, col suo volere, formidabile come una montagna?
Sette giunchi attraverso un vimine, dunque, e sette preghiere al Signore ed a Nostra Signora del Rimedio, benedetta ella sia, ecco laggiù nell’estremo azzurro del crepuscolo la chiesetta e il recinto di capanne quieto come un villaggio preistorico abbandonato da secoli. A quell’ora, mentre la luna sbocciava come una grande rosa fra i cespugli della collina e le euforbie odoravano lungo il fiume, anche le padrone di Efix pregavano: donna Ester la più vecchia, benedetta ella sia, si ricordava certo di lui peccatore: bastava questo perché egli si sentisse contento, compensato delle sue fatiche. Un passo in lontananza gli fece sollevar gli occhi. Gli sembrò di riconoscerlo; era un passo rapido e lieve di fanciullo, passo d’angelo che corre ad annunziare le cose liete e le tristi. Sia fatto il volere di Dio: è lui che manda le buone e le cattive notizie; ma il cuore cominciò a tremargli, ed anche le dita nere screpolate tremarono coi giunchi argentei lucenti alla luna come fili d’acqua.
Il passo non s’udiva più: Efix tuttavia rimase ancora là, immobile ad aspettare.
La luna saliva davanti a lui, e le voci della sera avvertivano l’uomo che la sua giornata era finita. Era il grido cadenzato del cuculo, il zirlìo dei grilli precoci, qualche gemito d’uccello; era il sospiro delle canne e la voce sempre più chiara del fiume: ma era soprattutto un soffio, un ansito misterioso che pareva uscire dalla terra stessa; sì, la giornata dell’uomo lavoratore era finita, ma cominciava la vita fantastica dei folletti, delle fate, degli spiriti erranti. I fantasmi degli antichi Baroni scendevano dalle rovine del castello sopra il paese di Galte, su, all’orizzonte a sinistra di Efix, e percorrevano le sponde del fiume alla caccia dei cinghiali e delle volpi: le loro armi scintillavano in mezzo ai bassi ontani della riva, e l’abbaiar fioco dei cani in lontananza indicava il loro passaggio.
Efix sentiva il rumore che le panas [le donne morte di parto] facevano nel lavar i loro panni giù al fiume, battendoli con uno stinco di morto e credeva di intraveder l’ammattadore, folletto con sette berretti entro i quali conserva un tesoro, balzar di qua e di là sotto il bosco di mandorli, inseguito dai vampiri con la coda di acciaio.
Era il suo passaggio che destava lo scintillio dei rami e delle pietre sotto la luna: e agli spiriti maligni si univano quelli dei bambini non battezzati, spiriti bianchi che volavano per aria tramutandosi nelle nuvolette argentee dietro la luna: e i nani e le janas, piccole fate che durante la giornata stanno nelle loro case di roccia a tesser stoffe d’oro in telai d’oro, ballavano all’ombra delle grandi macchie di filirèa, mentre i giganti s’affacciavano fra le rocce dei monti battuti dalla luna, tenendo per la briglia gli enormi cavalli verdi che essi soltanto sanno montare, spiando se laggiù fra le distese d’euforbia malefica si nascondeva qualche drago o se il leggendario serpente cananèa, vivente fin dai tempi di Cristo, strisciava sulle sabbie intorno alla palude.
Specialmente nelle notti di luna tutto questo popolo misterioso anima le colline e le valli: l’uomo non ha diritto a turbarlo con la sua presenza, come gli spiriti han rispettato lui durante il corso del sole; è dunque tempo di ritirarsi e chiuder gli occhi sotto la protezione degli angeli custodi.
Efix si fece il segno della croce e si alzò: ma aspettava ancora che qualcuno arrivasse. Tuttavia spinse l’asse che serviva da porticina e vi appoggiò contro una gran croce di canne che doveva impedire ai folletti e alle tentazioni di penetrare nella capanna.
Il chiarore della luna illuminava attraverso le fessure la stanza stretta e bassa agli angoli, ma abbastanza larga per lui che era piccolo e scarno come un adolescente. Dal tetto a cono, di canne e giunchi, che copriva i muri a secco e aveva un foro nel mezzo per l’uscita del fumo, pendevano grappoli di cipolle e mazzi d’erbe secche, croci di palma e rami d’ulivo benedetto, un cero dipinto, una falce contro i vampiri e un sacchetto di orzo contro le panas: ad ogni soffio tutto tremava e i fili dei ragni lucevano alla luna. Giù per terra la brocca riposava con le sue anse sui fianchi e la pentola capovolta le dormiva accanto.
Efix preparò la stuoia, ma non si coricò. Gli sembrava sempre di sentire il rumore dei passi infantili: qualcuno veniva di certo e infatti a un tratto i cani cominciarono ad abbaiare nei poderi vicini, e tutto il paesaggio che pochi momenti prima pareva si fosse addormentato fra il mormorio di preghiera delle voci notturne, fu pieno di echi e di fremiti quasi si svegliasse di soprassalto.
Efix riaprì. Una figura nera saliva attraverso la china ove già le fave basse ondulavano argentee alla luna, ed egli, a cui durante la notte anche le figure umane parevan misteriose, si fece di nuovo il segno della croce. Ma una voce conosciuta lo chiamò: era la voce fresca ma un po’ ansante di un ragazzo che abitava accanto alla casa delle dame Pintor.
"Zio Efisè, zio Efisè!"
"Che è accaduto, Zuannantò? Stanno bene le mie dame?"
"Stanno bene, sì, mi pare. Solo mi mandano per dirvi di tornare domani presto in paese, che hanno bisogno di parlarvi. Sarà forse per una lettera gialla che ho visto in mano a donna Noemi. Donna Noemi la leggeva e donna Ruth col fazzoletto bianco in testa come una monaca spazzava il cortile, ma stava ferma appoggiata alla scopa e ascoltava."
"Una lettera? Non sai di chi è?"
"Io no; non so leggere. Ma la mia nonna dice che forse è di sennor Giacinto il nipote delle vostre padrone."
Sì, Efix lo sentiva; doveva esser così; tuttavia si grattava pensieroso la guancia, a testa china, e sperava e temeva d’ingannarsi.
Il ragazzo s’era seduto stanco sulla pietra davanti alla capanna e si slacciava gli scarponi domandando se non c’era nulla da mangiare.
"Ho corso come un cerbiatto: avevo paura dei folletti …"
Efix sollevò il viso olivastro duro come una maschera di bronzo, e fissò il ragazzo coi piccoli occhi azzurrognoli infossati e circondati di rughe: e quegli occhi vivi lucenti esprimevano un’angoscia infantile.
"Ti han detto s’io devo tornare domani o stanotte?"
"Domani, vi dico! Intanto che voi sarete in paese io starò qui a guardare il podere."
Il servo era abituato a obbedire alle sue padrone e non fece altre richieste: tirò una cipolla dal grappolo, un pezzo di pane dalla bisaccia e mentre il ragazzo mangiava ridendo e piangendo per l’odore dell’aspro companatico, ripresero a chiacchierare. I personaggi più importanti del paese attraversavano il loro discorso: prima veniva il Rettore, poi la sorella del Rettore, il sindaco, cugino delle padrone di Efix. Anche don Predu era ricco, ma non come il Milese. Poi veniva Kallina l’usuraia, ricca anche lei ma in modo misterioso.
"I ladri han tentato di rompere il suo muro. Inutile: è fatato. E lei rideva, stamattina, nel suo cortile, dicendo: anche se entrano trovano solo cenere e chiodi, povera come Cristo. Ma la mia nonna dice che zia Kallina ha un sacchettino pieno d’oro nascosto dentro il muro."
Ma a Efix in fondo poco importavano queste storie. Coricato sulla stuoia, con una mano sotto l’ascella e l’altra sotto la guancia sentiva il cuore palpitare e il fruscìo delle canne sopra il ciglione gli sembrava il sospiro d’uno spirito malefico.
La lettera gialla! Giallo, brutto colore. Chissà cosa doveva ancora accadere alle sue padrone. Da venti anni a questa parte quando qualche avvenimento rompeva la vita monotona di casa Pintor era invariabilmente una disgrazia.
Anche il ragazzo s’era coricato, ma non aveva voglia di dormire.
"Zio Efix, anche oggi la mia nonna raccontava che le vostre padrone erano ricche come don Predu. È vero o non è vero?"
"È vero", disse il servo sospirando. "Ma non è ora di ricordar queste cose. Dormi."
Il ragazzo sbadigliò.
"Ma mia nonna racconta che dopo morta donna Maria Cristina, la vostra beata padrona vecchia, passò come la scomunica, in casa vostra. È vero o non è vero?"
"Dormi, ti dico, non è ora …"
"E lasciatemi parlare! E perché è fuggita donna Lia, la vostra padrona piccola? La mia nonna dice che voi lo sapete: che l’avete aiutata a fuggire, donna Lia: l’avete accompagnata fino al ponte, dove si è nascosta finché è passato un carro sul quale ella è andata fino al mare. Là si è imbarcata. E don Zame, suo padre, il vostro padrone, la cercava, la cercava, finché è morto. È morto là, accanto al ponte. Chi l’ha ucciso? Mia nonna dice che voi lo sapete …"
"Tua nonna è una strega! Lei e tu, tu e lei lasciate in pace i morti!", gridò Efix; ma la sua voce era roca, e il ragazzo rise con insolenza.
"Non arrabbiatevi, che vi fa male, zio Efix! Mia nonna dice che è stato il folletto, a uccidere don Zame. È vero o non è vero?"
Efix non rispose: chiuse gli occhi, si mise la mano sull’orecchio, ma la voce del ragazzo ronzava nel buio e gli sembrava la voce stessa degli spiriti del passato.
Ed ecco a poco a poco tutti vengono attorno, penetrano per le fessure come i raggi della luna: è donna Maria Cristina, bella e calma come una santa, è don Zame, rosso e violento come il diavolo: sono le quattro figlie che nel viso pallido hanno la serenità della madre e in fondo agli occhi la fiamma del padre: sono i servi, le serve, i parenti, gli amici, tutta la gente che invade la casa ricca dei discendenti dei Baroni della contrada. Ma passa il vento della disgrazia e la gente si disperde, come le nuvolette in cielo attorno alla luna quando soffia la tramontana.
Donna Cristina è morta; il viso pallido delle figlie perde un poco della sua serenità e la fiamma in fondo agli occhi cresce: cresce a misura che don Zame, dopo la morte della moglie, prende sempre più l’aspetto prepotente dei Baroni suoi antenati, e come questi tiene chiuse dentro casa come schiave le quattro ragazze in attesa di mariti degni di loro. E come schiave esse dovevano lavorare, fare il pane, tessere, cucire, cucinare, saper custodire la loro roba: e soprattutto, non dovevano sollevar gli occhi davanti agli uomini, né permettersi di pensare ad uno che non fosse destinato per loro sposo. Ma gli anni passavano e lo sposo non veniva. E più le figlie invecchiavano più don Zame pretendeva da loro una costante severità di costumi. Guai se le vedeva affacciate alle finestre verso il vicolo dietro la casa, o se uscivano senza suo permesso. Le schiaffeggiava coprendole d’improperi, e minacciava di morte i giovani che passavano due volte di seguito nel vicolo.
Egli intanto passava le giornate a girovagare per il paese, o seduto sulla panca di pietra davanti alla bottega della sorella del Rettore. Le persone scantonavano nel vederlo, tanto avevan paura della sua lingua. Egli litigava con tutti, ed era talmente invidioso del bene altrui, che quando passava in un bel podere diceva "le liti ti divorino". Ma le liti finivano col divorare le sue terre, e una disgrazia inaudita lo colpì a un tratto come un castigo di Dio per la sua superbia e i suoi pregiudizi. Donna Lia, la terza delle sue figlie, sparì una notte dalla casa paterna e per lungo tempo non si seppe più nulla di lei. Un’ombra di morte gravò sulla casa: mai nel paese era accaduto uno scandalo eguale; mai una fanciulla nobile e beneducata come Lia era fuggita così. Don Zame parve impazzire; corse di qua e di là; per tutto il circondario e lungo la Costa in cerca di Lia; ma nessuno seppe dargliene notizie. Finalmente ella scrisse alle sorelle, dicendo di trovarsi in un luogo sicuro e d’esser contenta d’aver rotto la sua catena. Le sorelle però non perdonarono, non risposero. Don Zame era divenuto più tiranno con loro. Vendeva i rimasugli del suo patrimonio, maltrattava il servo, annoiava mezzo mondo con le sue querele, viaggiava sempre con la speranza di rintracciare sua figlia e ricondurla a casa. L’ombra del disonore che gravava su lui e su l’intera famiglia, per la fuga di Lia, gli pesava come una cappa da condannato. Una mattina fu trovato morto nello stradone, sul ponte dopo il paese. Doveva esser morto di sincope, perché non presentava traccia alcuna di violenza: solo una piccola macchia verde al collo, sotto la nuca. La gente disse che forse don Zame aveva litigato con qualcuno e che era stato ammazzato a colpi di bastone: ma col tempo questa voce tacque e predominò la certezza che egli fosse morto di crepacuore per la fuga di sua figlia.
Lia intanto, mentre le sorelle disonorate dalla fuga di lei non trovavano marito, scrisse annunziando il suo matrimonio. Lo sposo era un negoziante di bestiame ch’ella aveva incontrato per caso durante il suo viaggio di fuga: vivevano a Civitavecchia, in discreta agiatezza, dovevano presto avere un figlio.
Le sorelle non le perdonarono questo nuovo errore: il matrimonio con un uomo plebeo incontrato in così tristo modo: e non risposero.
Qualche tempo dopo Lia scrisse ancora annunziando la nascita di Giacinto. Esse mandarono un regalo al nipotino, ma non scrissero alla madre.
E gli anni passarono. Giacinto crebbe, e ogni anno per Pasqua e per Natale scriveva alle zie e le zie gli mandavano un regalo: una volta scrisse che studiava, un’altra volta che voleva entrare in Marina, un’altra ancora che aveva trovato un impiego; poi annunziò la morte di suo padre, poi la morte di sua madre; infine espresse il desiderio di visitarle e di stabilirsi con loro se al paese trovava da lavorare. Il suo piccolo impiego nell’Ufficio della Dogana non gli piaceva; era umile e penoso, gli sciupava la giovinezza. E lui amava la vita laboriosa, sì, ma semplice, all’aperto. Tutti gli consigliavano di recarsi nell’isola di sua madre, per tentar la fortuna con un onesto lavoro.
Le zie cominciarono a discutere; e più discutevano meno si trovavano d’accordo.
"Lavorare?", diceva donna Ruth, la più calma. Se il paesetto non dava risorse neppure a quelli che c’eran nati?
Donna Ester, invece, favoriva i progetti del nipote, mentre donna Noemi, la più giovane, sorrideva fredda e beffarda.
"Egli forse crede di venir qui a fare il signore. Venga, venga! Andrà a pescare al fiume…"
"Egli stesso dice che vuol lavorare, Noemi, sorella mia! Lavorerà dunque: farà il negoziante come suo padre."
"Doveva farlo prima, allora. I nostri parenti non hanno mai comprato buoi."
"Altri tempi, Noemi, sorella mia! Del resto i signori sono appunto i mercanti, adesso. Vedi il Milese? Egli dice: il Barone di Galte adesso sono io."
Noemi rideva, con uno sguardo cattivo negli occhi profondi, e il suo riso scoraggiava donna Ester più che tutti gli argomenti dell’altra sorella. Tutti i giorni era la stessa storia: il nome di Giacinto risuonava per tutta la casa, e anche quando le tre sorelle tacevano egli era in mezzo a loro, come del resto lo era sempre fin dal giorno della sua nascita, e la sua figura ignota riempiva di vita la casa in rovina.
Efix non ricordava di aver mai preso parte diretta alle discussioni delle sue padrone: non osava, anzitutto perché esse non lo interpellavano, poi per non aver scrupoli di coscienza: ma desiderava che il ragazzo venisse.
Egli lo amava, lo aveva sempre amato come una persona di famiglia.
Dopo la morte di don Zame, egli era rimasto con le tre dame per aiutarle a sbrigare i loro affari imbrogliati. I parenti non si curavano di loro, anzi le disprezzavano e le sfuggivano; esse non erano capaci che delle faccende domestiche e neppure conoscevano il poderetto, ultimo avanzo del loro patrimonio.
"Starò ancora un anno al loro servizio", aveva detto Efix, mosso a pietà del loro abbandono. Ed era rimasto venti anni.
Le tre donne vivevano della rendita del podere coltivato da lui. Nelle annate scarse donna Ester diceva al servo, giunto il momento di pagarlo (trenta scudi all’anno e un paio di scarponi): "Abbi pazienza, per l’amor di Cristo: il tuo non ti mancherà".
E lui aveva pazienza, e il suo credito aumentava di anno in anno, tanto che donna Ester, un po’ scherzando, un po’ sul serio gli prometteva di lasciarlo erede del podere e della casa, sebbene egli fosse più vecchio di loro.
Vecchio, oramai, e debole; ma era sempre un uomo, e bastava la sua ombra per proteggere ancora le tre donne.
Adesso era lui che sognava per loro la buona fortuna: almeno che Noemi trovasse marito! Se la lettera gialla, dopo tutto, portasse una buona notizia? Se annunziava una eredità? Se fosse appunto una domanda di matrimonio per Noemi? Le dame Pintor avevano ancora ricchi parenti a Sassari e a Nuoro: perché uno di loro non poteva sposar Noemi? Lo stesso don Predu poteva aver scritto la lettera gialla …
Ed ecco nella fantasia stanca del servo le cose a un tratto cambiano aspetto come dalla notte al giorno; tutto è luce, dolcezza: le sue nobili padrone ringiovaniscono, si risollevano a volo come aquile che han rimesso le penne; la loro casa risorge dalle sue rovine e tutto intorno rifiorisce come la valle a primavera.
E a lui, al povero servo, non rimane che ritirarsi per il resto della vita nel poderetto, spiegar la sua stuoia e riposarsi con Dio, mentre nel silenzio della notte le canne sussurrano la preghiera della terra che s’addormenta. …
Questo che abbiamo letto è il primo capitolo del romanzo e la Scuola consiglia di proseguirne la lettura: prossimamente ne leggeremo ancora qualche pagina.
E adesso entriamo in contatto con un nuovo quadro de La Scuola di Atene: il quadro che raffigura il cosiddetto "gruppo dei Socratici". Questo grande e bellissimo gruppo, che si trova di fronte al quello dei Sofisti, è formato da otto figure e naturalmente la figura più importante è quella di Socrate che viene raffigurata da Raffaello con il tradizionale volto di Sileno e ne abbiamo già parlato ma lo ricorderemo ancora questo fatto. Sull’identità degli altri personaggi, che non sono tutti direttamente identificabili, le studiose e gli studiosi di filologia fanno delle ipotesi: ma è necessario procedere con ordine.
Se cominciamo, andando da sinistra verso destra, a passare in rassegna le figure che compongono questo gruppo troviamo il personaggio – e lo abbiamo già osservato perché sta in corrispondenza con il gruppo dei Sofisti – che, con il braccio teso, respinge i Sofisti o, per essere più precisi, scaccia i Sofisti-Eristici, coloro che addestrano, a pagamento, sulle tecniche retoriche per poter avere sempre ragione nelle discussioni. Tutte le studiose e gli studiosi di filologia affermano che questo personaggio – il quale respinge i Sofisti-Eristici – è Apollodòro, uno dei più fedeli e convinti seguaci di Socrate. Dove troviamo – in funzione della didattica della lettura e della scrittura (secondo la natura del nostro Percorso) – dati e notizie su di lui? A quali citazioni corrisponde questo personaggio secondo le esponenti e gli esponenti della "corrente di Fedra" che – come sappiamo – studia l’influenza che hanno avuto le opere letterarie nella realizzazione dell’affresco de La Scuola di Atene, soprattutto quelle opere di tradizione orfica messe sul tavolo dell’ufficio di papa Giulio II dal bibliotecario Fedra Inghirami?
Il personaggio di Apollodòro lo si incontra nel famoso dialogo di Platone intitolato Simposio (lo abbiamo già citato più di una volta): "simposio" significa riunione conviviale (un pranzo o una cena), un incontro dove mentre si mangia per nutrire il corpo si discute su un tema di carattere esistenziale per nutrire soprattutto l’intelletto. Il Simposio di Platone – che vede ancora una volta Socrate come protagonista principale – avviene in casa di Agatone (il celebre scrittore di Tragedie che ha vinto un importante premio, nel 416 a.C., e vuole festeggiare) e il tema centrale di questo dialogo è l’Eros, un parola-chiave molto nota, che traduciamo con il termine "Amore". Su questa parola abbiamo riflettuto anche lo scorso anno in territorio beritico, ad Alessandria d’Egitto, e il concetto platonico dell’Eros sarà ancora motivo di riflessione per noi. Nel Simposio ciascuno dei convitati viene prima di tutto ammonito affinché beva poco, in modo che possa esporre, il più lucidamente possibile, il suo parere sul tema dell’Eros. In questo dialogo emerge, dopo tante interessanti riflessioni, il significato più importante dell’Eros, la sua definizione più appropriata: l’Eros è la spinta, è la tensione verso la conoscenza. La soddisfazione che dà l’acquisizione della risposta è minore rispetto al sottile piacere che si prova quando agisce in noi la tensione della ricerca: questo è l’Eros platonico, l’Amor platonico. E all’espressione "Amor platonico" è stato attribuito, nel corso dei secoli, un senso (quello di una relazione senza gesti amorosi) fortemente riduttivo rispetto al suo significato reale.
Ma nel testo del Simposio di Platone ci sono molti temi di grande importanza e di attualità, ne citiamo uno per tutti, per ribadire – ancora una volta – come il pensiero di Platone sia stato uno straordinario supporto etico per il Cristianesimo. Nel Simposio si afferma che è l’Eros la tensione ideale che ci spinge, nel momento del bisogno, "a dare la vita per gli altri": questo è un concetto-chiave del testo del Vangelo secondo Giovanni.
Il Simposio si apre con un Prologo drammaturgico, e il protagonista del Prologo è Apollodòro il quale racconta di aver incontrato un tale – che a un certo punto lui chiama Glaucone (così si chiamano anche il fratello e un prozio di Platone ma questo è un personaggio non identificato) – il quale chiede ad Apollodòro di narrare che cosa è avvenuto e di riferirgli che cosa è stato detto sul tema dell’Eros (sul significato da dare all’Amore) in quel famoso simposio. Apollodòro fa sapere al suo interlocutore che lui non era presente a quell’incontro conviviale, lui non c’era a quella festa per celebrare la vittoria conseguita da Agatone per aver messo in scena la migliore tragedia dell’anno 416 a.C.. Apollodòro non poteva essere a quel simposio perché si è svolto da un bel po’ di tempo: circa quindici anni prima, quando lui era ancora un ragazzo. Apollodòro dichiara di essere un discepolo molto affezionato a Socrate e afferma che ogni giorno si dà cura di sapere ciò che Socrate dice e fa, e aggiunge di poter riferire i discorsi di questo simposio tenutosi in casa di Agatone non perché li ha saputi da Socrate ma bensì da Aristodemo che ha partecipato a questo simposio in compagnia di Socrate. Aristodemo è un personaggio che incontreremo tra poco perché fa parte anche lui del gruppo che stiamo osservando nello spazio de La Scuola di Atene dedicato ai Socratici.
E adesso leggiamo il Prologo drammaturgico del Simposio di Platone: immaginiamo di leggerlo insieme ai membri del gruppo di studio (Giulio II, Bramante, Raffaello e Fedra Inghirami) che sta programmando il contenuto de La Scuola di Atene. Questa lettura (il lettore è Fedra Inghirami) ci fa capire come mai è stato scelto proprio Apollodòro per interpretare il ruolo di colui che scaccia i Sofisti-Eristici che vengono considerati da Platone come "ricchi uomini d’affari" dediti al guadagno piuttosto che allo sviluppo dell’apprendimento. Raffaello rappresenta in modo molto efficace la figura di Apollodòro il quale con il gesto della mano tesa, con la severa espressione del volto, con un atteggiamento risoluto, sembra stia urlando ai Sofisti-Eristici: "State alla larga, statevene fuori, andatevene via!". Nel testo del Prologo drammaturgico del Simposio viene fuori il caratterino assai polemico di Apollodòro il quale (a detta del suo interlocutore) viene soprannominato il "àpalòs - tenero" ma in realtà è piuttosto duro, aggressivo, contestatore verso i Sofisti-Eristici intesi (secondo il pensiero di Platone) come "affaristi" interessati non al tema dell’Eros, alla "spinta ideale verso la conoscenza" (che è il tema del dialogo) ma piuttosto al nòmisma, al denaro, e a come ricavare denaro addestrando i loro clienti alle tecniche della retorica. Apollodòro – nel ritratto che ne fa Raffaello ne La Scuola di Atene – appare come ce lo descrive il Prologo drammaturgico del Simposio di Platone: duro, polemico e aggressivo.
Prima di leggere diciamo ancora che la figura di Apollodòro appare – con il suo caratterino – anche nell’Apologia di Socrate dove è tra quelli disposti a pagare una multa, a versare una cauzione per liberare il Maestro e si arrabbia molto perché Socrate è totalmente contrario: Socrate spiega che questo gesto significherebbe, sebbene implicitamente, ammettere la propria colpevolezza. La figura di Apollodòro appare inoltre anche nel dialogo il Fedone dove, quando Socrate beve la cicuta, lui scoppia in un gran pianto: è il personaggio che – in questi dialoghi platonici: il Simposio, l’Apologia di Socrate e il Fedone – si comporta in modo più plateale di tutti, così come viene raffigurato da Raffaello ne La Scuola di Atene. E ora leggiamo il Prologo drammaturgico del Simposio:
LEGERE MULTUM….
Platone, Simposio Prologo drammaturgico
APOLLODORO - Credo di non essere impreparato a rispondere sulle cose che volete sapere. Infatti, proprio l’altro ieri mi capitò di salire in città da casa mia, dal Falero (un porto di Atene non molto distante dalla città), quando un amico, vedutomi da dietro, da lontano mi chiamò, e in modo scherzoso mi disse: «Ehi, cittadino del Falero, tu Apollodòro, non mi aspetti?». E io mi fermai e lo aspettai. Ed egli soggiunse: «Apollodòro, è un po’ che ti cercavo, perché desideravo informarmi di quella riunione di Agatone, di Socrate, di Alcibiade e degli altri che quella volta furono presenti al simposio, e sapere quali furono i loro discorsi sull’Eros (sul significato dell’Amore). Infatti, me ne aveva parlato un tale che li aveva sentiti da Fenice, il figlio di Filippo, e mi disse che anche tu li conoscevi. Però, egli non seppe dirmi nulla di chiaro. Dunque, raccontameli tu. Infatti, sei tu che hai più diritto di tutti a riferire i discorsi del tuo amico. Ma prima di tutto – proseguì – dimmi: eri presente tu stesso a quella riunione, oppure no?». E io risposi: «Si vede proprio che il tuo informatore non ti ha riferito nulla di chiaro, se ritieni che la riunione di cui mi domandi sia avvenuta in un tempo così recente che anch’io vi abbia potuto partecipare». «Proprio così», rispose. E io replicai: «E come, o Glaucone? Non sai che da molti anni Agatone non abita più qui, e che, da quando frequento Socrate e mi do cura ogni giorno di sapere ciò che egli dice e fa, non sono passati ancora tre anni? Prima di allora io mi aggiravo dove mi capitava, e mentre credevo di fare qualcosa, in realtà ero più disgraziato di chiunque altro, non meno di te ora, con la convinzione che hai che si debba fare tutto, tranne che studiare per diventare sapienti (filosofare)!». Ed egli disse: «Non scherzare, ma dimmi quando avvenne questa riunione!». E io gli risposi: «Quando noi eravamo ancora ragazzi, al tempo in cui Agatone vinse con la sua prima tragedia (nel 416 a.C.), il giorno seguente a quello in cui egli celebrò i sacrifici per la vittoria insieme ai coreuti». «Allora – disse – davvero molto tempo fa, come sembra. Ma chi te lo ha raccontato? Forse lo stesso Socrate?». «No, per Zeus, quello stesso – risposi io – che lo ha raccontato a Fenice.
È stato un certo Aristodemo, del demo Cidateneo, piccolo e sempre scalzo. Egli fu presente alla riunione, essendo uno dei più innamorati di Socrate di allora, mi sembra. Però, io ho interrogato anche Socrate su alcune delle cose che avevo udito da quello. E Socrate me le ha confermate proprio come quello me le aveva raccontate». Ed egli disse: «E perché, allora, non me lo racconti? Proprio la strada che conduce in città sembra fatta allo scopo di permettere a quelli che la percorrono di parlare e di ascoltare». Così, camminando, parlammo di quelle cose, sicché, come dicevo all’inizio, ora non mi trovo impreparato. Dunque, se devo fare il racconto anche a voi, ebbene sia fatto! Del resto, quando io faccio o sento fare discorsi (di filosofia) che riguardano la necessità di conoscere, oltre all’utilità che mi pare di trarne, provo la più grande gioia. Invece, quando sento fare certi altri discorsi, e in particolare quando sento fare i vostri, ossia i discorsi dei ricchi e degli uomini di affari, mi adiro e compiango voi che siete amici, perché credete di fare grandi cose, mentre non fate nulla. E forse voi, dal canto vostro, giudicate me uno sventurato; e penso che voi crediate il vero; ma, quanto a voi, io non credo ciò che ho detto, ma lo so di certo.
COMPAGNO - Sei sempre uguale, o Apollodòro! Infatti, parli sempre male di te stesso e degli altri; e mi sembra proprio che tu, eccetto Socrate, giudichi tutti quanti miserabili, a cominciare da te. E da dove ti sia venuto il soprannome che hai, ossia di «tenero», non lo so proprio, perché nei discorsi che fai sei sempre un tipo così: ti arrabbi con te e con gli altri, tranne che con Socrate.
APOLLODORO - Carissimo, è allora evidente che, dal momento che la pensi così, di me e di voi, io sono pazzo e senza senno?
COMPAGNO - O Apollodòro, smettiamo di litigare ora su queste cose! Piuttosto, come ti abbiamo pregato, non fare altro, ma raccontaci quali furono quei discorsi.
APOLLODORO - Ebbene, quei discorsi furono all’incirca questi … O meglio, cercherò anch’io di raccontarli a voi da principio, come lui me li ha raccontati. …
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Leggere i dialoghi di Platone non è cosa facile e la Scuola lo deve dire… Leggere il Simposio non è cosa facile però, a questo punto, abbiamo acquisito alcune chiavi che permettono di capire gran parte delle forme e dei contenuti di questo testo che puoi trovare in biblioteca, quindi puoi esercitarti a leggerlo, o a rileggerlo…
Se leggendo incontri una frase che ti colpisce particolarmente puoi scriverla in modo da arricchire (di Eros) la Biblioteca itinerante…
La seconda figura appartenente al gruppo dei Socratici è particolarmente raffinata ed elegante e si presenta – viene dipinta da Raffaello – con l’elmo e l’armatura, e rappresenta sicuramente il personaggio di Alcibiade, il famoso militare – ecco perché viene raffigurato con l’armatura – e uomo politico ateniese vissuto tra il 450 e il 404 a.C.. Sappiamo che il giovane Alcibiade risente degli insegnamenti di Socrate del quale è stato discepolo e per il quale nutre forti sentimenti tanto di attrazione quanto di repulsione: perché questo atteggiamento ambiguo? Alcibiade è molto attratto dalle idee e dal pensiero di Socrate e soprattutto dalla sua persona ma se avesse dovuto mettere in pratica le idee e gli insegnamenti del Maestro avrebbe dovuto cambiare radicalmente vita e quindi sente anche il bisogno di scappare perché non ha intenzione di rinunciare né alla sua carriera, né agli onori.
Nel Simposio Platone fa parlare ampiamente Alcibiade e se avete la pazienza di sfogliare il testo del Simposio (quest’opera consta di una quarantina di pagine) potete prendere atto che l’ultima parte di questo dialogo – prima dell’Epilogo – contiene Il discorso di Alcibiade che è un Elogio di Socrate anziché dell’Eros. In questo discorso Alcibiade esalta il coraggio di Socrate in battaglia. Alcibiade ha combattuto con Socrate a Potidèa (città della penisola Calcidica, colonia di Corinto, che si è ribellata ad Atene e con questo atto ha inizio la guerra del Peloponneso) nel 432 a.C. e Alcibiade afferma che Socrate gli ha salvato la vita, non lo ha abbandonato, ferito, sul campo di battaglia ma lo ha tratto in salvo recuperando anche le sue preziose armi (al termine della campagna militare però il premio di valore lo riceve Alcibiade e ora sembra volersi giustificare). Poi Alcibiade racconta come dopo la sconfitta a Delio degli Ateniesi contro i Tebani, nel 424 a.C., tutti scappassero in modo scomposto e solo Socrate, insieme a Lachete, marcia con le sue armi pesanti a testa alta, ritirandosi senza fuggire, tanto che i nemici, per rispetto, ammirati, non lo toccano neppure mentre inseguono chi fugge in disordine: qui Platone sembra voler alludere alle tante fughe e ai tanti cambiamenti di fronte di cui Alcibiade è stato protagonista.
Il fatto che Raffaello ritragga Alcibiade con l’armatura è senza dubbio una citazione dal testo del Simposio che Fedra Inghirami legge e commenta ai membri del gruppo di studio che prepara lo sviluppo delle trame de La Scuola di Atene. Il discorso di Alcibiade, contenuto nell’ultima parte del Simposio, è molto interessante (e di grande attualità), e se ne consiglia la lettura proprio perché contiene una delicata riflessione sull’opportunità di dover rinunciare alla coerenza, ad essere coerenti su principi ritenuti giusti e fondati, in modo da poter fare carriera e ricevere gli onori anche quando non si meritano. Per poter avere successo molto spesso bisogna fare dei compromessi, bisogna rimuovere i principi morali per fare delle scelte pratiche che a volte rasentano l’immoralità.
Come possiamo constatare i Dialoghi di Platone – e le immagini de La Scuola di Atene – corrono sempre (a bassa velocità) sui binari del presente: propongono tematiche di attualità.
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Il personaggio di Alcibiade è molto significativo – la sua vita avventurosa di militare e di uomo politico merita di essere conosciuta nelle sue grandi linee – e l’invito è quello di fare una piccola ricerca su di lui utilizzando l’enciclopedia o la rete…
Continuando il nostro inventario nel gruppo dei Socratici possiamo osservare che, parzialmente coperta dalla figura di Alcibiade, c’è l’immagine di un vecchio. Le studiose e gli studiosi di filologia identificano in questo vecchio il personaggio di Aristodemo – lo abbiamo citato poco fa – che, da giovane, si reca con Socrate al simposio a casa di Agatone, e nel testo si dice che è uno dei più innamorati discepoli di Socrate di quel periodo. Nel Simposio si legge che Aristodemo era piccolo e sempre scalzo, effettivamente nell’affresco appare di statura inferiore rispetto agli altri ma non appare, però, affatto trascurato nel vestire: ha anche un bel cappello.
Nel Simposio è Aristodemo che racconta ad Apollodòro quello che a sua volta Apollodòro sta raccontando al suo interlocutore e a tutti noi. Leggiamo ancora un frammento dal Simposio quando, nell’Introduzione, si descrive il momento in cui Apollodòro comincia a raccontare ciò che Aristodemo gli ha riferito e in questa introduzione Platone insegna che la trasmissione interpersonale delle conoscenze è un elemento importante per l’apprendimento: Aristodemo ha imparato al simposio, Apollodòro ha imparato da Aristodemo e ora sta comunicando al suo interlocutore e a noi le nozioni apprese. Il sistema dell’informazione ufficiale gestito dal governo della polis – allude caustico Platone – non è in grado di comunicare il sapere: solo il passa parola (da intelletto a intelletto) solo la relazione intellettuale tra le persone che frequentano le Scuole di strada (come quella di Socrate) è in grado di trasmettere cultura.
Leggiamo questo frammento:
LEGERE MULTUM….
Platone, Simposio Introduzione
APOLLODORO - Aristodemo mi diceva, dunque, di aver incontrato Socrate tutto pulito e addirittura con i sandali ai piedi, cosa che egli faceva raramente, e di avergli domandato dove fosse diretto dopo essersi fatto così bello. E Socrate rispose: «A cena da Agatone! Ieri evitai di andare al banchetto per la vittoria, perché ero spaventato dalla folla, ma gli promisi che sarei stato presente oggi. E mi sono fatto così bello, per andare bello da chi è bello. Ma tu Aristodemo – soggiunse – te la sentiresti di venire a cena senza essere stato invitato?». «E io – narrava – risposi: Come tu decidi». E Socrate soggiunse: «Allora seguimi. Così rovesceremo il proverbio e lo modificheremo in questo modo: i buoni vanno al banchetto dei buoni di loro spontanea volontà …(Qui c’è un gioco di parole che in italiano non si può rendere, sappiamo che, in greco, agathos significa buono e Agatone, Colui che è buono, è il nome del padrone di casa, come dire: gli agathoni, i buoni, vanno a cena in casa degli Agatoni, dei Buoni, senza bisogno di essere invitati perché sono comunque graditi)». …
Dobbiamo sapere che questi personaggi – Aristodemo e Apollodòro – sono molto noti durante il Rinascimento perché i Dialoghi di Platone sono al centro dell’attenzione delle intellettuali e degli intellettuali dell’età moderna. Uno dei grandi divulgatori delle opere di Platone – che abbiamo già incontrato – è Marsilio Ficino, il quale, come sappiamo, non solo ha tradotto il Simposio, ma ha scritto anche un utile commentario su questo testo che Fedra Inghirami sta proponendo ai membri del gruppo di lavoro che cura la realizzazione de La Scuola di Atene. Ma non è tutto: Marsilio Ficino ha scritto anche – in latino e in volgare – un’opera, simile al Simposio, che s’intitola Sopra lo amore. In quest’opera Marsilio Ficino mette in scena un "simposio" tenuto a Firenze e questo testo – che riprende i temi del dialogo di Platone – ha avuto un grande successo e i personaggi principali di quest’opera sono Apollodòro e Aristodemo che, dopo molti anni, da vecchi, ripetono i concetti sul tema dell’Eros in termini neoplatonici.
Questa annotazione ci fa rispondere a una domanda che noi, ora, ci facciamo: come mai Raffaello rappresenta Aristodemo – che nel Simposio di Platone è un giovane – con la figura di un vecchio? Raffaello dipinge la figura di Aristodemo nella sua versione più moderna: quella dell’opera Sopra lo amore di Marsilio Ficino, e i membri del gruppo di studio – a cominciare da Fedra Inghirami –, che conoscono bene quest’opera di successo, contribuiscono alla creazione di questa immagine.
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Ti è capitato di rincontrare da vecchia una persona che avevi conosciuto da giovane?…
Scrivi quattro righe in proposito…
Appare poi, nel gruppo dei Socratici, una quarta figura, di cui vediamo solo parte del viso e una spalla. Le studiose e gli studiosi di filologia ipotizzano che questo personaggio potrebbe essere Eschine che, con Aristodemo, ha avuto un ruolo importante nella vita di Socrate. Il padre di Eschine faceva il salcicciaio e Socrate loda spesso la "fedeltà del figlio del salcicciaio" e, fin da giovane, Eschine è stato un fedele discepolo di Socrate: uno di quelli che ha cercato, invano, di organizzare la fuga del Maestro dalla prigione dopo la sentenza di condanna a morte.
La quinta figura è certamente molto attraente e rappresenta un giovane dai bei lineamenti, con un bel mantello blu, in posa trasognante con uno sguardo incantato. Quasi certamente questo personaggio rappresenta Senofonte che, da giovane, è stato assiduo discepolo di Socrate. Senofonte è nato ad Atene intorno al 430 a.C. ed è stato un grande scrittore del movimento della sapienza poetica orfica, della Letteratura greca. Senofonte è stato il primo a scrivere su Socrate e quindi è stato il primo a lasciare una testimonianza fondamentale su di lui: una testimonianza più di carattere apologetico e privato che di carattere filosofico. L’opera di Senofonte su Socrate, in quattro libri più uno in appendice, s’intitola Memorabili (Cose e fatti che non si devono dimenticare) ed è un’opera veramente importante per conoscere la storia della vita privata dell’epoca in cui sono vissuti Socrate e Platone. I Memorabili raccontano fatti e comportamenti della vita del Maestro Socrate e raccolgono i suoi detti, le sue sentenze. La parte più curiosa di quest’opera è rappresentata dal libro in appendice intitolato Economico in cui Socrate parla di economia domestica: su come si possa vivere spendendo poco, su come arredare modestamente ma con gusto il proprio monolocale, su come cucinare in modo creativo e salutare, su come fare le pulizie profumando la casa e consumando poca acqua e pochi detersivi. Poi Socrate parla di agricoltura: su come integrare l’economia domestica con l’orto, favorendo anche lo scarico della nevrosi che la vita convulsa delle polis greche dell’epoca procurava.
Senofonte scrive anche due dialoghi dove Socrate è protagonista, che s’intitolano: Simposio e Apologia di Socrate, ma queste due opere rispetto ai dialoghi omonimi di Platone sono considerate modeste, hanno in comune solo il titolo.
Per arricchire le nostre conoscenze – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – dobbiamo ricordare le altre opere di Senofonte per cui è famoso. Dobbiamo commentare le Anàbasi, in sette libri. "Anàbasis", in greco, letteralmente significa "salita-ascensione", ma, in senso più ampio, significa "spedizione dalle coste verso l’interno di una regione", infatti in quest’opera Senofonte narra la guerra civile in Persia tra Ciro il Giovane e il fratello Artaserse. Senofonte ha partecipato nell’esercito di Ciro il Giovane a questa guerra in cui Ciro viene sconfitto e Senofonte guida la ritirata dei diecimila Ateniesi che hanno combattuto con Ciro da Babilonia a Bisanzio e da Bisanzio ad Atene. Il fatto è che Senofonte si preoccupa in minima parte di raccontare gli avvenimenti storici perché vuole raccontare il viaggio: è attratto soprattutto dalla descrizione del territorio, dei fenomeni naturali, dal racconto dei sogni che fa, e dei caratteri delle popolazioni che incontra.
Senofonte torna in Atene nella primavera del 399 a.C. proprio nei giorni dell’agonia e della morte di Socrate, si adira fortemente contro i membri del governo di Atene – che non hanno preso alcun provvedimento per salvare la vita di Socrate – e se ne va a vivere nel territorio di Sparta. Si stabilisce nella campagna di Scillunte vicino a Olimpia e lì scrive le sue opere, di cui abbiamo parlato, e anche quella che viene considerata la più importante intitolata Ciropedia (L’educazione di Ciro). La Ciropedia di Senofonte l’abbiamo sentita citare leggendo un frammento del Libro del Cortegiano di Baldassar Castiglione che la consiglia come opera esemplare di educazione. La Ciropedia, in otto libri, non è un’opera di storia ma è un "romanzo storico" in cui è descritta la vita e l’educazione di Ciro il Grande fondatore dell’impero persiano, che viene presentato come il tipo ideale del sovrano. Quest’opera vuol presentare un quadro ideale al fine di dimostrare che l’educazione migliore è quella basata sulla disciplina della vita spartana e sugli insegnamenti etici di Socrate.
Possiamo dire, per concludere il nostro breve incontro con Senofonte che questo scrittore più che uno storico e un filosofo è un "poligrafo", un giornalista. Da questo punto di vista è un grande scrittore, un artista, perché il suo stile è semplice, piano ma elegantissimo. Di lui è stato detto che "la sua opera è di dolce utilità" ed è stato soprannominato: "l’ape attica".
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Che cos’è "dolce" per te oggi: un oggetto, una persona, un ricordo, un paesaggio, un sentimento o che cosa?…
Bastano quattro righe per rispondere, scrivile…
Diogene Laerzio ci dice che Senofonte era "modesto e di bellissimo aspetto" e ci narra il suo mitico incontro con Socrate. Leggiamo questo frammento perché è probabile che la forma del ritratto con cui Raffaello rappresenta Senofonte ne La Scuola di Atene derivi da una citazione tratta da questo brano.
LEGERE MULTUM….
Diogene Laerzio, Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi
Una mattina Socrate incontra Senofonte in una strada stretta del centro di Atene e gli tende il bastone per fermarlo, lo ferma e gli chiede dove si possa fare la spesa. Senofonte risponde e lo indirizza verso il mercato. Ma Socrate gli chiede ancora se conosce un posto dove le persone possano diventare virtuose. A questa domanda Senofonte non sa rispondere ma rimane a pensare. Allora Socrate dice: "Vieni, seguimi e apprendi", così Senofonte è diventato discepolo di Socrate. …
Abbiamo assistito alla descrizione di un "incontro erotico" perché questo frammento spiega qual è il vero significato del termine "incontro erotico": un "incontro erotico" è un’opportunità in cui si mette in moto il processo di apprendimento.
Alle spalle di Socrate compare un vecchio con la barba, con gli occhi bassi che sembra un po’ in castigo. Questo personaggio rappresenta Critone, un agiato ateniese, coetaneo, scolaro e intimo amico di Socrate. Critone ha amato molto Socrate per la sua statura morale ma non è stato capace di capirne il messaggio filosofico: Critone pensa che le idee di Socrate siano belle ma che non siano applicabili nella vita reale. Critone pensa che le idee di Socrate siano utopiche, soprattutto l’idea che il comportamento di una persona debba essere sempre coerente con la sua fede, con i suoi ideali, con i principi in cui dice di credere. Critone è in difficoltà a pensare – come afferma Socrate – che si debbano sempre seguire le opinioni di coloro che sono coerenti in funzione della realizzazione del bene comune e non si debbano seguire le convinzioni utilitaristiche della maggioranza silenziosa che subisce spesso l’influenza manipolatrice di chi detiene il potere. Critone è in difficoltà a pensare – come afferma Socrate – che non si debba tenere in massima considerazione il "vivere", ma il "vivere bene". Critone è in difficoltà a pensare – come afferma Socrate – che si debbano sempre rispettare le Leggi della polis, perché il diritto di cittadinanza ha valore in virtù delle Leggi che realizzano il bene comune. Critone è in difficoltà a pensare – come afferma Socrate – che fare uso della violenza non è mai giusto in nessun caso. Critone è in difficoltà a pensare – come afferma Socrate – che neppure se si subisce ingiustizia bisogna rendere ingiustizia.
Queste idee, e altre, le troviamo nel dialogo di Platone che si intitola appunto Critone, e che ha per tema il "dovere", in greco " katekon". Questo dialogo – si capisce facilmente dalla breve presentazione che ne abbiamo fatto – tratta argomenti di grande attualità.
Nel dialogo Critone – che ha per tema il "dovere", in greco "katekon", e che si svolge nella cella del carcere di Atene di prima mattina – s’incontrano tre personaggi fondamentali: c’è Socrate che tra tre giorni berrà la cicuta (ha preso la sua decisione), c’è Critone che tenta di convincere Socrate a fuggire (se fugge sono contenti anche quelli che lo hanno condannato), e ci sono le Leggi che rappresentano un personaggio simbolico. Critone non coglie fino in fondo la coerenza di Socrate ma è necessario ascoltare anche le sue ragioni, e Platone – trattandolo con tenerezza – sistematizza anche le ragioni di Critone con la solita bravura. Critone dice a Socrate che se non fuggirà la gente biasimerà il comportamento dei suoi amici per non averlo aiutato a salvarsi. Critone si è già impegnato a superare tutte le difficoltà pratiche che la fuga comporta: "A che cosa servono gli amici – sussurra Critone con convinzione e con preoccupazione autentica – se non ti aiutano nel momento del bisogno?". Socrate – spiega Critone al suo Maestro – rimanendo in carcere, condannato ingiustamente, danneggia non solo se stesso ma anche le Leggi, usate ingiustamente contro di lui. Dall’esilio – afferma Critone sperando di essere convincente – Socrate potrà dimostrare ancora la bontà delle sue idee, la sua innocenza e la sua coerenza. Ma Socrate – a malincuore (è molto commovente questo dialogo) perché sa che Critone gli vuole veramente bene – è durissimo con lui e contrasta ognuno di questi punti con la sua feroce coerenza.
Insomma, a questo punto, il consiglio è quello di leggere il Critone (è un testo lungo circa dieci pagine) sia per quanto riguarda i temi di riflessione esistenziale che contiene, sia per gli elementi affettivi che caratterizzano il rapporto tra questi due personaggi che si conoscono da tanti anni e si rispettano e soprattutto perché nell’ultima parte – prima dell’Epilogo – c’è la famosa Prosopopea delle Leggi dove Socrate dichiara che non si deve mai (anche quando si è innocenti) evitare il giudizio e che non si deve aspirare a farsi le Leggi a proprio uso e consumo perché ciò comporterebbe la distruzione dell’essenza della Legge stessa e questo è diventato un principio classico nella giurisprudenza.
(E pensare che in Italia, oggi, non si può esprimere un concetto giuridico elementare di questo genere perché esce subito qualche solerte portavoce a protestare dicendo che Platone ragiona così perché odia qualcuno che, avendo il consenso generale, le Leggi se le fa su misura, alla faccia di Socrate: che beva la cicuta!).
Il personaggio di Critone è un protagonista soprattutto nel Fedone, il famoso dialogo di Platone "sull’anima" che si svolge nel carcere il giorno stesso della morte di Socrate. Naturalmente Critone anche nel Fedone non comprende il messaggio socratico fino in fondo e per questo motivo viene bonariamente rimproverato da Socrate. Critone non capisce che Socrate vuole mettere in evidenza tre elementi che secondo lui hanno maggior valore del corpo materiale: Socrate considera l’anima, guarda all’intelletto e ritiene la coscienza – anima, intelletto e coscienza – come componenti della vera realtà dell’Essere umano. Socrate afferma spesso – secondo il pensiero orfico – che quando l’anima esce dal corpo, del corpo non resta più nulla. Critone non ha capito bene questo concetto, non ha compreso che l’anima, l’intelletto e la coscienza sono le uniche realtà che valgono per Socrate. A Platone (ed ecco l’importanza delle opere di Platone) va il merito di aver sintetizzato e messo a punto questi tre concetti – anima, intelletto e coscienza – fondamentali nella Storia del Pensiero Umano ed elaborati nel corso dell’Età assiale. E Socrate ironizza quando Critone chiede: «allora come ti dobbiamo seppellire se del tuo corpo non resta più nulla?».
Nel dialogo Fedone Socrate afferma: «Ho detto moltissime volte, che dopo che avrò bevuto il veleno, non rimarrò più con voi, ma me ne andrò di qui in certi luoghi felici e beati, mi pare che per Critone sia stato inutile, come se io parlando avessi voluto consolare un po’ me e un po’ voi». È un Socrate tipicamente "orfico" questo che parla dell’immortalità dell’anima. Nonostante queste incomprensioni ideologiche anche Socrate è molto affezionato a Critone e lo sceglie come suo esecutore testamentario.
Anche del Fedone si consiglia la lettura, è un testo lungo circa cinquanta pagine la cui comprensione risulta accessibile a persone come voi che avete una conoscenza delle dottrine orfiche e del pensiero pitagorico (due temi che abbiamo studiato nei primi itinerari di questo Percorso). Se poi qualcuna e qualcuno di voi vuole osare come lettrice e come lettore può cercare in biblioteca il primo libro dei Saggi di Montagne (1580-1588): l’intero capitolo 20 (formato da una ventina di pagine) contiene una allusiva riflessione sul dialogo Fedone (anche se lo scrittore non lo cita mai direttamente) che s’intitola Filosofare è imparare a morire.
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Vai alla ricerca di questo brano anche solo per constatare che esiste, e ricorda che l’esercizio della lettura – anche di una sola pagina ogni tanto – dei Saggi di Montaigne contribuisce ad allargare e ad allungare la vita, secondo la testimonianza dell’autore stesso che scrive: "La mia vita si è ampliata dal momento in cui ho intrapreso la redazione del mio libro con il quale mi identifico, io sono il mio libro"…
E anche noi che cosa siamo? Non siamo forse – parafrasando Montaigne – le nostre quattro righe al giorno di scrittura autobiografica?
Il Fedone è il dialogo della morte di Socrate e nell’affresco de La Scuola di Atene tutta questa situazione che abbiamo descritto incontrando la figura di Critone sembra ben rappresentata: il vecchio Critone, infatti, non partecipa alla discussione, sembra non ascoltare la lezione di Socrate, ma è vicino al Maestro quasi a proteggerne le spalle, ed è triste come sempre si è tristi quando si perde un caro amico. Critone non è stato capace di comprendere pienamente il messaggio del Maestro ma lo ama fino in fondo, ed è afflitto perché non avrebbe voluto perderlo materialmente, con il corpo, nella carne.
Dietro le spalle di Critone e di Socrate, ne l’affresco de La Scuola di Atene, spunta parte del volto di uno sconosciuto: nessuno sa chi possa essere di preciso questo personaggio ma le studiose e gli studiosi di filologia – in primo luogo quelle e quelli della "corrente di Fedra" – fanno un’ipotesi molto interessante. Pensano che questa figura possa essere legata al testo del dialogo il Fedone che, con la figura di Critone, è stato messo in primo piano. Questo personaggio, che finisce per rimanere al di fuori del gruppo degli ascoltatori di Socrate, potrebbe essere quello che – il giorno della morte del Maestro – era assente per malattia. E chi manca nella cella del carcere di Atene nel momento in cui Socrate beve la cicuta? Manca Platone, e Platone si cita nel Fedone con la famosa frase che dice: «Platone, credo, era ammalato». Platone con questa frase – con questo "credo" ipotetico – vuole avvertire le lettrici e i lettori del fatto che quanto farà dire a Socrate non è la verità storica (lui era assente e non può testimoniare direttamente): i Dialoghi di Platone non sono un documento storico e Platone – come se fosse un suggeritore – fa recitare a Socrate le proprie convinzioni metafisiche e fornisce la grandiosa dimostrazione dell’esistenza del mondo intelligibile delle Idee (di questo argomento ce ne occuperemo in modo più ampio strada facendo, quando incontreremo Platone da vicino). Il personaggio che – nel quadro dei Socratici – appare appena come se fosse un suggeritore (la bocca non si vede) potrebbe essere il giovane Platone con un volto – dicono le esperte e gli esperti – molto simile a quello del sacerdote che, nel quadro orfico, regge il libro delle parole degli albori: questa figura, come abbiamo già detto, ha le fattezze (trasfigurate da Raffaello) di Fedra Inghirami. E qui compare ancora una volta – nel suo ruolo di suggeritore culturale – la figura di Fedra Inghirami perché effettivamente i testi che danno contenuto alle forme de La Scuola di Atene sono in mano al bibliotecario che mette a disposizione tutta la sua competenza e sappiamo quale ruolo importante avessero i bibliotecari nel Medioevo e nel Rinascimento.
Questa sera, procedendo sulla corsia dell’affresco rinascimentale, abbiamo incontrato un gruppo di personaggi – Apollodòro, Alcibiade, Aristodemo, Eschine, Senofonte, Critone e il "suggeritore" – e una serie di opere molto importanti legate a queste figure, in particolare i dialoghi di Platone intitolati Simposio, Critone e Fedone. In questo gruppo – che è il gruppo dei Socratici – spicca soprattutto la figura di Socrate, e Socrate ci aspetta al varco e la prossima settimana, viaggiando sulla corsia del territorio dell’Ellade, c’imbatteremo in lui. Socrate ci aspetta ad Atene nella cosiddetta zona degli stagni (dove gracidano Le rane di Aristofane) dove, verso sera, da sempre, si agitano Canne al vento.
E con il primo capitolo del romanzo Canne al vento abbiamo iniziato questo itinerario e con un frammento del sedicesimo capitolo concludiamo:
LEGERE MULTUM….
Grazia Deledda, Canne al vento (1913)
Ma dimmi, dimmi, Efix", proseguì accorata [donna Ester], "non è una gran cattiva sorte la nostra? Giacinto che ci rovina e sposa quella pezzente, e Noemi che rifiuta invece la buona fortuna. Ma perché questo, Efix, dimmi, tu che hai girato il mondo: è da per tutto così? Perché la sorte ci stronca così, come canne?"
"Sì", egli disse allora, "siamo proprio come le canne al vento, donna Ester mia. Ecco perché! Siamo canne, e la sorte è il vento."
"Sì, va bene: ma perché questa sorte?"
"E il vento, perché? Dio solo lo sa."
"Sia fatta allora la sua volontà", ella disse chinando la testa sul petto: e vedendola così piegata, così vecchia e triste, Efix si sentì quasi un forte. E per confortarla pensò di ripeterle uno dei tanti racconti del cieco.
"Del resto è che non si è mai contenti. Lei sa la storia della Regina di Saba? Era bella e aveva un regno lontano, con tanti giardini di fichi e di melagrani e un palazzo tutto d’oro. Ebbene, sentì raccontare che il Re Salomone era più ricco di lei e perdette il sonno. L’invidia la rodeva; tanto che volle mettersi in viaggio, sebbene dovesse attraversare metà della terra, per andare a vedere …"
Donna Ester si curvò un po’ dall’altro lato e prese il libro in mezzo al quale aveva chiuso gli occhiali.
"Queste storie sono qui: è la Sacra Bibbia."
Efix guardò umiliato il libro e non continuò. …
La prossima settimana noi continueremo ancora a leggere qualche pagina da Canne al vento e poi incontreremo Socrate e ci sentiremo dire, come è successo a Senofonte: «Venite, seguitemi e apprendete». Sapete "che cosa" Socrate propone di apprendere? E soprattutto sapete "come" dobbiamo apprendere secondo Socrate? E sapete che: Sa che sa, se sa, chi sa. Che se sa, non sa, se sa. Chi sol sa, che nulla sa: ne sa più di chi ne sa? Questo gioco di parole – tratto dall’opera di Ferdinando Galiani intitolata Socrate immaginario – cominceremo a decodificarlo nel prossimo itinerario quando incontreremo Socrate, ad Atene, con il volto di Sileno, e sulla via del rispetto della legge, tra l’Agorà e l’Areopago, lo seguiremo in virtù del fatto che: la Scuola è qui.
E se ci sono le Scuole lo si deve anche al personaggio di Socrate perché Socrate – così come compare nei Dialoghi di Platone – è il fondatore delle Scuole di strada, delle Scuole itineranti: anche la nostra Scuola ha un po’ queste caratteristiche…