Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza di Socrate Platone Aristotele 25-26-27 marzo 2009
SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, DI PLATONE E DI ARISTOTELE
C’È L’IDEA CHE: «NON IL VIVERE È DA TENERE IN MASSIMA CONSIDERAZIONE, MA IL VIVERE BENE»...
La scorsa settimana abbiamo cominciato a raccontare – a grandi linee e in funzione della didattica della lettura e della scrittura – quell’importante evento che, per la storia della cultura, è stato il processo a Socrate. La Scuola propone questo racconto in funzione propedeutica in modo che poi ciascuna e ciascuno di voi – volendo – possa leggere più agevolmente i testi che su questo avvenimento, così significativo nella Storia del Pensiero Umano, sono stati prodotti da molte autrici e da molti autori nel corso dei secoli.
Il processo a Socrate comincia con la formulazione dell’accusa da parte del giovane Meleto, e poi da parte di altri due accusatori: Anito (che è il vero inquisitore ed è un politico) e Licone (che è un oratore). Di che cosa viene accusato Socrate? Socrate viene accusato di corrompere i giovani, di non riconoscere gli dèi che la città riconosce, di credere ai dèmoni e di praticare culti religiosi estranei alla polis. Per questi reati gli accusatori – Meleto, Anito e Licone – chiedono ai giudici che Socrate venga condannato a morte.
Socrate, naturalmente, si difende da solo e rifiuta anche di farsi aiutare da Lisia, che è, in questo momento in Atene, il più celebre e abile logografo (avvocato difensore). Pare (abbiamo già detto la scorsa settimana) che Lisia – gratuitamente (era il più bravo ed era anche il più caro) – abbia scritto un discorso in difesa di Socrate e, pare, si trattasse di un discorso straordinario. Il testo dell’arringa di Lisia in difesa di Socrate non è stato mai trovato (le studiose e gli studiosi di filologia lo hanno cercato per secoli) e non si sa come fosse congeniato, quale forma e quale contenuto avesse. Perché Socrate rifiuta l’aiuto di Lisia? Sappiamo che Socrate non solo rifiuta l’offerta di aiuto di Lisia ma lo rimprovera anche severamente perché con i suoi giochi di parole (Lisia è un rètore abilissimo) avrebbe voluto ingannare i giudici per il bene di Socrate. Socrate pensa che non sia possibile perseguire il bene tramando contro le Leggi.
Quando il cancelliere capovolge la clessidra che controlla il tempo delle arringhe e dà la parola a Socrate, lui si alza, si guarda intorno, si dà una grattatina alla testa, fa un piccolo inchino rispettoso verso l’arconte, che è il presidente del tribunale, e subito dopo si volta verso i giudici e comincia a parlare.
Che cosa dice Socrate in sua difesa? «Io – dice Socrate – non so quale impressione abbiate provata voi, o Ateniesi, a sentire le ragioni dei miei accusatori. Certo che è stata tale e tanta la persuasione di costoro che, se non si trattasse della mia persona, anch’io crederei alle loro parole. Il fatto è che questi cittadini non hanno detto proprio nulla di vero. E adesso perdonatemi – aggiunge Socrate – se da me non udrete un’orazione adorna di belle frasi. Io parlerò così come sono abituato a fare, alla buona, ma in compenso cercherò di dire sempre il giusto, e voi su questo dovrete fare attenzione: se ciò che sto per dire sarà o non sarà secondo giustizia». Socrate inizia il suo discorso facendo una distinzione tra il "parlare per convincere", tipico dei Sofisti, e il "parlare per far riflettere" tipico del suo stile dialettico.
Poi Socrate prosegue il suo discorso citando il personaggio di Cherefonte, che è stato amico (fin dalla giovinezza) e discepolo di Socrate e che, per il suo comportamento secondo l’insegnamento socratico, ha subito anche l’esilio nel 404 a.C.. Cherefonte è colui che si reca a Delfi ad interrogare la Pizia, la sacerdotessa di Apollo, chiedendo se sia utile per lui seguire l’insegnamento di Socrate: la risposta che riceve dall’oracolo è sorprendente. Dobbiamo dire che anche Cherefonte – insieme a Socrate – è diventato un bersaglio comico di Aristofane nella commedia Nuvole (della quale ci siamo occupati la scorsa settimana) e compare anche, come personaggio da denigrare (ingiustamente) in altre commedie di Aristofane (negli Uccelli, per esempio). Cherefonte è morto prima del 399 a.C. e quindi non è presente al processo.
Ma che cosa dice Socrate, a proposito di Cherefonte, proseguendo la sua arringa? Socrate dice: «Voglio raccontarvi, o Ateniesi, un significativo episodio che è capitato a Cherefonte, mio carissimo amico fin dalla giovinezza. Un giorno egli si recò a Delfi e osò porgere all’oracolo questa strana domanda: "C’è qualcuno al mondo più sapiente di Socrate?" E sapete che cosa rispose Apollo Pizio? "Non c’è nessuno al mondo più sapiente di Socrate." Immaginatevi la sorpresa quando Cherefonte mi riferì il responso: che cosa avrà mai voluto dire il dio? Io so di non sapere né poco né molto, e dal momento che il dio non può mentire, mi chiedo: che cosa avrà nascosto sotto l’enigma? Di ciò può essere testimone il fratello di Cherefonte, perché lui è già morto».
Il pubblico rumoreggia e, quando il cancelliere impone nuovamente il silenzio, Socrate prosegue con calma: «Per capire il messaggio del dio sono andato da uno di quelli che hanno fama di essere sapienti. Il nome non lo dico, vi basti sapere – dichiara Socrate – che era uno dei nostri uomini politici più in vista. Questa persona mi sembrava che avesse l’aria del saggio, ma, dopo aver parlato con lui, mi sono reso conto che saggio non lo era per niente. Allora ho provato a farglielo capire che non era saggio e lui, per questo motivo, mi ha preso in antipatia. Subito dopo – continua Socrate – ho voluto incontrare alcuni poeti: ho citato le loro poesie, o almeno quelle che mi parevano migliori, e a loro ho domandato che cosa volessero dire. Ebbene, o Ateniesi, ho constatato che chi ragionava peggio, su qualunque componimento poetico, era proprio il suo autore. Dopo i politici e i poeti mi sono rivolto agli artisti e ho scoperto che costoro, consapevoli del fatto di esercitare bene la propria professione, pensavano di essere sapienti anche in altre cose, magari più importanti e più difficili. A quel punto – sostiene Socrate – ho capito che cosa aveva voluto dire l’oracolo di Apollo: "Socrate è il più sapiente perché è l’unica persona che sa di non sapere". Nel frattempo però – dice Socrate amareggiato – mi sono tirato addosso l’ira dei poeti, dei politici e degli artisti, difatti non a caso vengo accusato in tribunale da Meleto che è un poeta, da Anito che è un politico e un artista e da Licone che è un oratore».
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Non sempre è facile parlare di certi argomenti: è successo che tu ti sia attirata o attirato addosso l’ira di qualcuno a causa di un tuo giudizio considerato inopportuno ?…
Scrivi quattro righe in proposito: la scrittura serve per considerare meglio le cose…
Lo stringente ragionamento di Socrate fa innervosire Meleto che ribatte ad alta voce: «Ciò che hai detto, o Socrate, sono solo insinuazioni, difenditi piuttosto dall’accusa di corrompere i giovani». Socrate, con calma, risponde, come sempre, in modo interlocutorio: «E come pensi, o Meleto, che io possa corrompere i giovani?». Meleto ribatte senza riflettere abbastanza: «Tu corrompi i giovani dicendo loro che il Sole è una pietra e che la Luna è fatta di terra».
Questa affermazione di Meleto permette a Socrate di rispondere adeguatamente. «Io credo – dice Socrate – che tu mi abbia scambiato con un altro: queste cose i giovani le possono leggere liberamente comprandosi per una dracma sulle bancarelle dell’agorà il libro intitolato Sulla Natura di Anassagora di Clazòmene (noi abbiamo già incontrato Anassagora e conosciamo anche questo argomento: questo è il primo libro di cui – attraverso il testo del dialogo di Platone intitolato Apologia di Socrate – si conosca il prezzo nella Storia dell’editoria)».
Meleto – di fronte a questa osservazione di Socrate – s’innervosisce sempre di più e, alzandosi in piedi con aria minacciosa, urla: «Tu non credi negli dèi! Tu credi solo nei dèmoni!». «E chi sarebbero questi dèmoni?» chiede Socrate in modo provocatorio ma mantenendo la calma. Meleto risponde citando a pappagallo il testo dell’infelice legge sulla blasfemìa: «I dèmoni sono i figli malvagi degli dèi». Questa risposta dà modo a Socrate di lanciare una stoccata non solo a Meleto – che è soltanto una debole pedina della maggioranza benpensante – ma anche di ridicolizzare la legge sulla blasfemìa. «Tu, o Meleto, affermi – ribatte Socrate – che io non credo negli dèi, ma solo alla esistenza dei figli degli dèi: è come se dicessi che credo nei figli dei cavalli ma non nei cavalli». L’ironia di Socrate scatena le risa del pubblico, ma lui si guarda intorno in modo severo con aria di rimprovero. Il cancelliere interviene per riportare il silenzio nell’aula e quando l’uditorio è di nuovo attento Socrate si rivolge verso il suo vero accusatore: Anito.
Socrate si rivolge ad Anito scandendo bene le parole: «E tu, Anito, che chiedi la mia morte, perché non hai portato qui, davanti ai giudici tutti quei giovani che io avrei traviato? Se me lo chiedevi potevo indicarteli io, perché per fortuna oggi molti di loro sono diventati vecchi e possono testimoniare contro di me, confermando che io li ho davvero corrotti. E molti sono qui presenti: c’è Critone con suo figlio Critobulo, c’è Lisania di Sfetto col figlio Eschine, c’è Antifonte di Cefisia, c’è Nicostrato, c’è Paralio, c’è Adimanto con suo fratello Platone, e c’è anche Aiantadoro con suo fratello Apollodoro. Forse, o Anito, tu non mi accuseresti più se io promettessi di andare in esilio e di non farmi più vedere in giro. Ma questo gesto, in verità, nuocerebbe molto agli Ateniesi perché non ci sarebbe più chi li stimola, chi li rimprovera, chi li costringe a riflettere uno per uno. Non ci sarebbe più chi gli sta addosso tutto il giorno come un tafano fremente (oistros bromio oistros bromio, e noi conosciamo il significato di questa allegoria) che punge ai fianchi una cavalla di razza che vuol dormire, ed é Apollo che mi ha chiesto di svolgere questa missione. Cittadini – afferma Socrate –, la cavalla è Atene, e se voi mi condannerete a morte non troverete tanto facilmente un altro tafano che potrà tener sveglia la vostra coscienza. Io – conclude Socrate – ho detto quello che dovevo dire: a questo punto dovrei fare entrare gli amici, i parenti e i miei figli per invocare la vostra pietà, come è abitudine di molti. Anch’io ho famiglia: ho tre figli, eppure non ve li mostro perché è in gioco la mia e la vostra reputazione. Il giudice – conclude Socrate – non deve graziare né chi lo commuove né chi lo minaccia ma deve solo ubbidire alle Leggi».
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
"Dare un giudizio" è un esercizio consueto: quando e a proposito di che cosa sei stata chiamata o chiamato a dare un giudizio ?
Scrivi quattro righe in proposito…
Socrate ha concluso il suo intervento e torna a sedere al suo posto. I suoi amici più cari lo sostengono con il loro sguardo benevolo di approvazione. Il folto pubblico rompe il silenzio e comincia un rumoroso chiacchiericcio carico di tensione. Il cancelliere si prepara per annunciare l’inizio delle votazioni.
Inizia così la votazione e, a mano a mano che l’operazione procede, dal comportamento, dalle mosse, dai discorsi dei votanti si capisce che la giuria si è divisa in due schieramenti pressoché della stessa forza. Uno schieramento è composto da coloro che sono fortemente avversi a Socrate perché ritengono che i suoi discorsi, il suo continuo mettere in discussione le convinzioni altrui (la dialettica socratica), non sia utile alla pòlis, pensano che Socrate diffonda insicurezza, che sia un disfattista. Pensano che il suo vivere in povertà non sia un merito ma sia un cattivo esempio per i giovani i quali apprendono a vivere come lui accontentandosi solo di avere i mezzi di sostentamento e perdendo tempo ad andare avanti e indietro per l’agorà a domandarsi e a domandare agli altri: "Che cos’è il bene? Che cos’è il male? Che cos’è giusto? Che cos’è ingiusto?", senza produrre e senza fare affari. I membri dello schieramento contrario a Socrate ironizzano anche sulla metafora del tafano: "Lui sostiene di essere un tafano che punzecchia Atene, ma quale cavallo non lo schiaccerebbe se avesse le mani, e chi di noi non cerca di schiacciare un tafano quando gli vola intorno?". Lo schieramento di quelli che sostengono che Socrate sia una persona di valore pensano invece che in una città importante come Atene ci deve sempre essere qualcuno che sorvegli chi la governa e Socrate è l’unico che, finora, sia stato in grado di farlo perché è imparziale, perché è un vero politico che agisce fuori dai palazzi del potere e soprattutto perché è povero e non ha mai agito per favorire se stesso. Di questo discutono i giudici mentre fanno la fila davanti alle urne, sostenendo ciascuno la propria tesi prima depositare nell’anfora lo psephos, il sassolino nero (per la condanna) o bianco (per l’assoluzione).
Intanto quelli che hanno già votato si organizzano per mangiare al sacco. Siccome nessuno dei giudici può allontanarsi dal tribunale ciascuno – ci raccontano le storiche e gli storici – si è portato il cestino delle vivande. Che cosa mangiano i giudici – ricordiamoci che sono cinquecento persone – durante questo grande pic-nic? Di solito nel cestino ci sono un po’ di gallette di farina d’orzo, poi c’è un vasetto di terracotta (chiuso con un tappo di sughero) che contiene sardine sott’olio, e un altro vasetto che contiene olive nere sotto sale oppure verdi in salamoia, e poi c’è un sacchetto di noci e di fichi secchi. Nell’area del tribunale c’è sempre una fonte e alcuni inservienti riempiono le brocche di acqua fresca e la distribuiscono nei vari gruppetti che si sono formati per consumare questa colazione sull’erba. L’arconte che presiede il tribunale manda a dire all’imputato che può mangiare anche lui e Socrate tira fuori dalla sua bisaccia alcune gallette di farina d’orzo, due fichi secchi e quattro noci.
I processi ad Atene – e in tutte le polis dell’Ellade – durano un’intera giornata: al tramonto i giudici devono tassativamente emettere un verdetto perché non è contemplata dalla legislazione (delle civiltà dell’Età assiale) la figura dell’imputata o dell’imputato in attesa di giudizio. Mentre rapidamente procede il pranzo al sacco, dopo che tutti hanno votato (nessuno si può astenere): gli scrutatori – altrettanto rapidamente – procedono al computo dei voti e, al termine di questa operazione, consegnano al cancelliere il risultato dello scrutinio. Intanto tutti, dopo aver sparecchiato, si alzano in piedi in assoluto silenzio e attendono che il cancelliere proclami il risultato della votazione con la solenne formula di rito.
«Cittadini di Atene! – proclama il cancelliere – questa è la sentenza emessa dai giudici: voti bianchi 220, voti neri 280. Socrate, figlio di Sofronisco, è condannato a morte!».
Un silenzio pieno di sgomento avvolge tutto l’uditorio dei giudici e del popolo assiepato dietro le transenne, qualcuno come Critone si nasconde il viso tra le mani. Il cancelliere, dopo una breve pausa, secondo la prassi prevista, riprende la parola e dice: «E ora, come prevede la legge di Atene, chiediamo al condannato di proporre lui stesso una pena alternativa». Socrate si alza, si guarda intorno e, con molta calma, comincia a parlare. «Una pena alternativa? E cosa mai ho fatto per meritarmi una pena? Per tutta la vita ho trascurato gli interessi personali, la famiglia e la casa. Non ho mai aspirato a comandi militari né a pubblici onori. Non mi sono immischiato in congiure o sedizioni contro lo Stato. Quali pene spettano a chi ha fatto queste cose? Non vorrei sbagliarmi, ma credo di aver diritto solo a un premio, quello di essere ospitato nel Pritaneo a spese dello Stato». E allora – direte voi – Socrate se l’è cercata la condanna a morte? Il Pritaneo è l’edificio sacro dove vengono mantenuti, a spese dello Stato, i cittadini che hanno vinto alle Olimpiadi!
Come possiamo constatare Socrate non ha perso la sua vena di provocatore neppure di fronte alla condanna capitale e difatti un coro di disapprovazione copre le sue parole. La richiesta di Socrate risulta assurda per la maggioranza del popolo assiepato dietro le transenne e, per molti giudici, suona come una vera e propria presa in giro. Ma Socrate, come se niente fosse, riprende a parlare. «Miei cari concittadini – dice Socrate con grande serietà – mi accorgo di essere stato frainteso perché qualcuno ha scambiato il mio senso di giustizia per un atto d’arroganza. Ma ditemi francamente: che cosa avrei mai potuto proporre come pena? Il carcere? L’esilio? Una multa in denaro? E quale multa potrei pagare io che non ho mai insegnato per denaro? Al massimo sarei in grado di offrire una mina d’argento». Le urla di disapprovazione aumentano perché una mina d’argento è troppo poco come alternativa ad una sentenza di condanna a morte. Sembra che Socrate stia facendo di tutto per essere condannato.
«E va bene – aggiunge allora Socrate indicando Critone e gli altri suoi discepoli presenti tra il pubblico – qui ci sono i miei amici che insistono perché io mi multi per trenta mine. Loro stessi, a quanto pare, se ne fanno garanti». La somma di trenta mine è ritenuta un’offerta sufficiente dal cancelliere del tribunale che dà inizio alla votazione: i giudici, con questa seconda votazione, devono scegliere tra la condanna a morte o la multa di trenta mine.
Il fatto è che le parole e l’atteggiamento di Socrate hanno talmente irritato i giudici, che molti di quelli che, in un primo momento, si sono schierati dalla sua parte, adesso gli si mettono contro e questa volta i sassolini neri nelle urne sono molto più numerosi: 360 neri contro 140 bianchi.
Il cancelliere, dopo aver letto il risultato della seconda votazione, e dopo aver confermato la sentenza di condanna a morte, chiama Socrate a fare un’ultima dichiarazione pubblica, e Socrate – continuando (almeno apparentemente) a mantenere la calma – prende ancora la parola. «Cittadini ateniesi – dichiara Socrate – vi siete assunti una grande responsabilità nei confronti della pòlis perché io sono vecchio: bastava aspettare poco tempo e la morte sarebbe venuta da sé, in modo naturale. Siete davvero sicuri, quindi, di avermi punito? Sapete forse voi che cos’è il morire? Di sicuro è una di queste due cose: o è uno sprofondare nel nulla, oppure consiste nel trasmigrare in un altro posto dove si radunano le anime dei defunti. Nella prima ipotesi, se il morire è uno sprofondare nel nulla, credetemi, la morte potrebbe essere un grande vantaggio perché con essa potrei eliminare tutti i dolori e le molte sofferenze della vecchiaia. Nel secondo caso invece, se il morire fosse un trasmigrare in un altro posto, avrei la fortuna d’incontrare tanti personaggi eccezionali e finalmente potrei parlare a tu per tu con Orfeo, con Museo, con Omero e con Esiodo, oppure con Palamede e con Aiace Telamonio».
Perché Socrate cita anche questi due personaggi tratti dai poemi omerici? Socrate ricorda queste due emblematiche figure, molto note al pubblico che lo sta ascoltando, perché Palamede e Aiace Telamonio sono morti entrambi per essere stati trattati in modo ingiusto: cita due persone vittime dell’ingiustizia. Palamede, durante la guerra di Troia, viene accusato di furto per colpa di quel furbone di Ulisse il quale aveva nascosto, proprio nella tenda di Palamede, l’oro di Priamo che lui aveva sottratto, per cui Palamede fu sommariamente processato e lapidato. Aiace, figlio di Telamone, si uccise per essere stato privato ingiustamente delle armi di Achille che lui aveva vinto in un torneo nel quale erano state messe in palio.
Dopo questa citazione provocatoria Socrate riprende il suo discorso conclusivo pronunciando parole molto significative: «Ecco – dichiara Socrate – che è giunta l’ora di andare: io a morire e voi a vivere. Ma chi di noi abbia avuto il destino migliore è oscuro a tutti fuorché agli dèi».
Perché Socrate è stato condannato a morte? Noi a 2400 anni di distanza ce lo stiamo ancora chiedendo. Le studiose e gli studiosi di Storia del Pensiero Umano, nel corso dei secoli, hanno dato una risposta prendendo come punto di riferimento il concetto del "bisogno di certezze". L’essere umano sente il bisogno di avere delle certezze perché la vita sulla terra è fatta soprattutto di incertezze e con questa condizione di incertezza è necessario imparare a fare i conti, ma l’incertezza genera paura, sgomento, sbigottimento, angoscia. Chi riesce quindi a inventarsi delle certezze, anche quando queste non ci sono, e a proporsi come depositario di queste certezze acquisisce potere e conquista il comando. Chi ha in mano il comando dichiara sempre di sapere che cosa sia la Verità ma, in realtà, contrabbanda per verità la sua concezione del mondo: assolutizza, in modo dispotico, qualcosa di relativo. Per cui, se compare una persona a sostenere che "non c’è nessuno che sappia veramente qualcosa", ecco che questa persona diventa un pericoloso nemico per chi (politicanti o chierici) controlla il potere facendo credere di possedere la Verità. Per questo motivo Socrate deve morire!
Platone ha dedicato al processo e alla morte di Socrate ben quattro dialoghi dai quali abbiamo preso spunto per costruire, liberamente, il nostro racconto. Questi quattro dialoghi sono: Eutifrone, dove incontriamo il filosofo, ancora libero, che si reca in tribunale per conoscere le accuse che gli sono state mosse da Meleto; Apologia di Socrate, che descrive le varie fasi del processo; Critone, che racconta la visita in carcere del suo più caro amico il quale cerca di fare un estremo tentativo per salvarlo e Fedone che racconta gli ultimi istanti di vita di Socrate e riporta il celebre discorso sull’immortalità dell’anima. Sono opere che gli editori continuamente ripubblicano, anche riunendole in un unico volume, e facilmente reperibili in biblioteca.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
la Scuola consiglia, ancora una volta, la lettura di questi dialoghi – Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, Fedone – per approfondire la conoscenza del carattere e delle idee di Socrate…
Il processo a Socrate – così come lo descrive Platone nei suoi dialoghi – mette in evidenza il fenomeno della repressione del dissenso quando il dissenso – inteso come il contrario de "l’assenso acritico" – dimostra di avere un senso, di avere delle ragioni valide da sostenere. Quando il potere costituito (fosse anche la democrazia ateniese, come in questo caso) vuole difendere a tutti i costi le presunte verità, come l’esistenza degli dèi, sulla quale però tutti dubitano tacitamente perché sanno che si tratta di una credenza di carattere feticistico utilizzata dalla classe dirigente in funzione del comando, e quando il potere costituito vuole difendere a tutti i costi le improbabili certezze su cui si basa, cerca sempre un pretesto (anche infondato) e, usando gli strumenti (le istituzioni) che ha a disposizione, colpisce la dissidenza (il tafano pungente che mette in discussione le verità e le certezze) reprimendola con la forza. Ma il soffocamento del dissenso, quando è portatore di valide ragioni, – scrive Platone – dà sempre inizio all’indebolimento progressivo di qualsiasi sistema di potere repressivo.
Emilio Lussu – del quale la scorsa settimana, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, abbiamo ricordato la vita e le opere – nel 1931 ha scritto un romanzo intitolato Marcia su Roma e dintorni in cui, con la sua prosa singolare ed asciutta, sul modello dei classici, racconta come una dittatura si possa affermare in modo violento e istrionesco colpendo il dissenso (in questo caso le sostenitrici e i sostenitori della democrazia parlamentare) con la forza. Emilio Lussu, prima che in italiano, scrive e divulga questo romanzo in lingua francese, inglese, tedesca e anche portoghese, difatti vuole rivolgersi alle lettrici e ai lettori francesi, inglesi, americani (cioè alle cittadine e ai cittadini di paesi retti da governi democratici) e a quelli tedeschi e portoghesi (dove, nel 1931, la democrazia è in pericolo e, a breve, verrà sopraffatta) per dare un esempio, per lanciare un avvertimento perché questi popoli non si lascino ingannare da forme di astuta propaganda, da modelli corrotti che spezzano ogni resistenza della ragione, che sfruttano la debolezza del carattere e la viltà degli individui.
La viltà – sostiene Lussu – è quel modo di pensare acritico che conduce a cedere alle violenze o alle lusinghe del più potente con l’illusione di poter collaborare con il dispotismo con la presunta certezza di essere in grado di non diventarne complici…
Leggiamo la Prefazione di Marcia su Roma e dintorni:
LEGERE MULTUM….
Emilio Lussu, Marcia su Roma e dintorni (Prefazione, 1932)
Nello scrivere queste pagine, io ho voluto fissare gli avvenimenti politici del mio paese, così come personalmente li ho vissuti in questi ultimi anni. Con ciò non pretendo di scrivere la storia del fascismo: io narro solo alcuni episodi legati alla mia vita. La vita di un italiano che fece appena in tempo a terminare gli studi universitari prima della mobilitazione generale, e fu poi combattente (nella prima guerra mondiale), partecipe alla lotta politica del dopoguerra e infine - il lettore antiparlamentare non se ne adombri - deputato al Parlamento.
... continua la lettura ...
Emilio Lussu conclude la sua Prefazione con due citazioni, una da Machiavelli (Emilio Lussu ha scritto un importante saggio su Il Principe di Niccolò Machiavelli) e una da Giuseppe Giusti.
Per raccontare l’avvento della dittatura Lussu usa – secondo l’intellettualismo etico di Socrate – l’arma dell’ironia e del sarcasmo che cade tagliente sui fatti che narra, grandi e piccoli (tutti documentati), e sui personaggi che (protetti da leggi inique) si fanno protagonisti della sopraffazione e della viltà con atteggiamenti pagliacceschi, sotto la copertura di astuzie immorali. Attraverso l’ironia e il sarcasmo – attraverso l’intellettualismo etico – il racconto particolare (spesso tragico e comico insieme) assume una valenza universale: oltrepassa i singoli casi e investe la crisi culturale e morale di tutto il paese perché – secondo Emilio Lussu – la crisi culturale e morale è la causa principale del successo della dittatura. Purtroppo quando la dittatura raggiunge il suo apice, e con leggi eccezionali impone il silenzio e l’immobilità a chi dissente, solo poche coscienze integerrime riescono a reagire e a resistere anche senza speranza di cambiamento perché – scrive Lussu – "non basta vederci chiaro da soli: la singola ragione dei più saggi non vale niente senza mettere in comune le forze necessarie ad opporsi, senza unire le energie morali, culturali e materiali".
Emilio Lussu pensa che la prepotenza dei dittatori vada combattuta anche con le armi (e naturalmente questo suo pensiero è legato ad un periodo storico ben preciso e in rapporto a determinati avvenimenti) ed è per questo che, in modo provocatorio, nella prefazione di Marcia su Roma e dintorni – a questo proposito – cita Il Principe di Machiavelli: "Tutti e profeti armati vinsono e gli disarmati ruinorno".
Emilio Lussu ammira la dialettica di Socrate ma non è disposto a bere docilmente la cicuta e, di fronte alla sopraffazione, non si sottrae. Leggiamo alcune pagine:
LEGERE MULTUM….
Emilio Lussu, Marcia su Roma e dintorni (1932)
Il 31 ottobre 1926, durante una grande adunata fascista a Bologna, un colpo di pistola viene sparato contro il «Duce». Chi ha sparato? Il fatto è ancora avvolto nel più grande mistero. Un ragazzo di 16 anni, tale Zamboni, ex fascista, viene conclamato autore del gesto e trucidato sul posto, sotto gli stessi occhi del «Duce» (Anteo Zamboni era un ragazzo quindicenne di Bologna. In seguito a questo attentato (sul quale tuttavia non si è mai fatta piena luce) furono emanati gravissimi provvedimenti repressivi contro l’opposizione: furono immediatamente emanate leggi eccezionali che prevedevano la pena di morte e l’istituzione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Naturalmente in questa occasione si scatenarono ulteriori violente «rappresaglie» contro gli oppositori). È l’uragano che, stavolta, sconvolge tutta l’Italia. Gli oppositori più in vista sono obbligati a sottrarsi alla furia e le loro case vengono saccheggiate. I giornali avversi al regime sono distrutti. Dovunque, sono giornate di terrore. …
Quel giorno, io ero a Cagliari, a casa mia. Verso le nove di sera, un amico, trafelato, venne ad avvisarmi che i fascisti suonavano l’adunata di guerra. Io uscii con lui per vedere di che si trattava. Sulla porta di strada, un altro amico mi riferì la notizia che era arrivata ai fascisti ed alla prefettura la notizia dell’attentato al «Duce».
... continua la lettura ...
Noi tutte e noi tutti sappiamo che l’esecuzione della condanna a morte di Socrate non è avvenuta subito dopo il processo: perché? Perché qualche giorno prima era partito, come ogni anno, il pellegrinaggio per il Santuario di Apollo che si trova sull’isola di Delo. Noi siamo state e siamo stati già altre volte in visita alla piccola isola di Delo e ai resti del Santuario di Apollo che si trovano in questo luogo molto suggestivo: con l’ausilio dell’enciclopedia, di una guida della Grecia o sulla rete potete, piacevolmente, rinfrescarvi la memoria. Questo viaggio cerimoniale di una ambasceria ateniese all’isola di Delo viene annualmente effettuato per ricordare un avvenimento mitico: quando gli Ateniesi sottomessi a Creta dovevano ogni anno pagare un tributo abominevole che consisteva in sette fanciulle vergini e in sette bambini che venivano dati in pasto al Minotauro, il mostro (per metà uomo e per metà toro) che stava rinchiuso nel Labirinto. Il mito racconta che un anno con il tributo umano parte anche Teseo il quale, con l’ausilio del filo di Arianna, s’introduce del Labirinto e uccide il mostro liberando gli Ateniesi da questa sudditanza. Gli Ateniesi avevano fatto un voto: se l’impresa di Teseo fosse andata a buon fine avrebbero fatto ogni anno un pellegrinaggio a Delo in onore del dio Apollo e ad Atene, durante tutto il viaggio della Nave Sacra che portava al Santuario i doni votivi, sarebbe dovuta cessare ogni discordia e nessuno sarebbe stato ucciso per ordine dello Stato.
Quindi Socrate – dato che la Nave Sacra è in viaggio –, dopo una ventina di giorni è ancora in carcere che attende l’esecuzione. E tutti i giorni, in carcere, Socrate riceve la visita dei suoi amici e una mattina – secondo il racconto di Platone – è Critone, coetaneo e grande amico di Socrate, che, all’alba, entra nella sua cella. Socrate sta dormendo tranquillamente e Critone si siede accanto a lui, in silenzio. Qui Platone dimostra anche di essere un grande scrittore lirico che sa suscitare nelle lettrici e nei lettori sentimenti come la tenerezza, l’affetto, la compassione.
A un certo punto Socrate si sveglia di colpo: vede l’amico seduto accanto a lui e gli chiede: «O Critone, che cosa fai qui, a quest’ora? Non è un po’ troppo presto per le visite?». «Sì – risponde Critone sconsolato –, è presto: è appena l’alba». «E come hai fatto a entrare?» gli domanda Socrate. «Ho dato una mancia alla guardia carceraria». «E sei qui da molto?» gli chiede Socrate. «È più di un’ora che sono qui» risponde Critone. «E perché – dice Socrate – non mi hai svegliato subito?». «Perché dormivi così tranquillo che mi sembrava un peccato svegliarti» risponde Critone, e aggiunge «Io mi domando come tu possa trovare tanta serenità in questa drammatica situazione!». «O Critone – risponde Socrate sorridendo – sarebbe strano il contrario: pensa come sarei ridicolo se alla mia età mi rammaricassi di dover morire».
Naturalmente, questo episodio così poetico, Platone lo racconta nel testo di un dialogo che s’intitola, appunto, Critone. Il personaggio di Critone, nel dialogo che porta il suo nome, al di là di questo episodio, non ha molto spazio per esprimersi: in realtà il Critone è un monologo di Socrate nel quale Platone fa formulare al Maestro alcuni concetti fondamentali. «Perché, Critone, sei venuto così presto?» domanda Socrate al suo amico (ma noi intuiamo che Socrate ha già capito la ragione della sua visita). «Sono venuto presto per portarti una brutta notizia – risponde tristemente Critone – alcuni amici mi hanno riferito che la Nave di Delo ha appena doppiato il capo Sunio. Oggi, o al massimo domani, dovrebbe arrivare ad Atene». «E che c’è di strano? Prima o poi doveva arrivare – risponde Socrate – vuol dire che così è piaciuto al dio (Apollo)».
A questo punto Critone comunica a Socrate la vera ragione della sua visita mattutina, infatti ha un piano – studiato insieme ad altri amici di Socrate – per salvargli la vita e dice: «Non parlare così e lasciati convincere a metterti in salvo. Ho già preso accordi con i carcerieri e non è neanche molto il denaro che mi chiedono per farti fuggire e poi anche quelli che ti hanno condannato si augurano che tu fugga. Sappi, o Socrate, che si sono offerti a finanziare la tua fuga anche Simmia di Tebe, Cebete e moltissimi altri. Per favore: fa’ che un domani nessuno possa dire: "Critone, per non spendere il suo denaro, non ha aiutato Socrate a fuggire"».
E Socrate risponde apparentemente con un tono di apertura su questa proposta: «Io sono pronto a fuggire – dice Socrate –, prima però vorrei che decidessimo insieme se sia giusto che io tenti di uscire dal carcere contro il volere degli Ateniesi. E allora se è giusto lo faremo, ma se non è giusto non lo faremo». A Critone non resta che dire: «Dici bene, Socrate».
E Socrate dà inizio alla sua riflessione: «Non credi tu, o Critone, che nella vita per nessuna ragione si deve commettere ingiustizia?». «Neanche quando – risponde Critone in modo interlocutorio – è stata commessa un’ingiustizia nei nostri confronti?». «Neanche in questo caso» ribatte Socrate. «E supponiamo – continua Socrate – che proprio nel momento in cui io sto per svignarmela ci venissero incontro le Leggi e ci domandassero: "O Socrate, che cosa hai in mente di fare? Non penserai di distruggere noi, che siamo le Leggi, e con noi tutta la città?". E in tal caso, che cosa potremmo rispondere noi a queste e ad altre simili parole? Potremmo forse rispondere che, prima della fuga, ci fu inflitta un’ingiusta condanna?». «Certo – dice Critone – questo dovremmo rispondere». «E se le Leggi – continua Socrate – mi dicessero: "Sappi, o Socrate, che bisogna comunque ubbidire a tutte le sentenze, giuste o ingiuste che siano, giacché l’intera esistenza di una persona è regolata dalle Leggi. Non siamo state forse noi a darti la vita? E non è stato grazie a noi che tuo padre ha preso in moglie tua madre e ti ha generato? E non siamo state sempre noi a insegnarti a rispettare la patria e a non indietreggiare davanti al nemico?". Se queste fossero le domande che le Leggi ci pongono, che cosa potremmo rispondere: che dicono il vero o che dicono il falso?». «Che dicono il vero» risponde sotto voce Critone. «E allora – sussurra Socrate – tu vorresti che io, dopo essermi travestito, magari da donna, scappassi da Atene, per andare in Tessaglia, lì dove gli abitanti sono soliti vivere nel disordine e nella dissolutezza, e tutto questo per prolungare di qualche annetto una vita che ormai volge alla fine. E quali ragionamenti potrei ancora fare sulla virtù e sulla giustizia dopo aver infranto le Leggi?». «Nessuno, in verità» risponde sconsolato Critone. «Come vedi – dice Socrate – non mi è proprio possibile fuggire, se però tu pensi di potermi ancora convincere, parla che ti ascolterò con la massima attenzione». Ma Critone non ha più nulla da aggiungere e allora è Socrate che cerca di consolarlo: «Caro amico mio, rassegnati, e pensa che questo è il sentiero che ci può condurre verso il dio (Apollo)».
L’esecuzione di Socrate avviene il giorno dopo: la cicuta fa velocemente il suo effetto e Socrate muore dopo una breve agonia, quindi, rassicuratevi perché il racconto della morte di Socrate non sarà come quello della morte di Pùškin che, nel Percorso dell’anno 2005, ci ha coinvolte e coinvolti per qualche settimana. Tuttavia anche la morte di Socrate, come quella di Pùškin, è un significativo avvenimento letterario che è stato descritto con i più vari generi letterari.
Il giorno previsto per l’esecuzione gli amici di Socrate si danno appuntamento davanti alla porta del carcere e attendono con impazienza che il capo delle guardie li faccia entrare. I discepoli di Socrate sono quasi tutti presenti (e i nomi della maggior parte di loro non ci sono nuovi): c’è il fedele Apollodoro, c’è l’amico d’infanzia Critone con il figlio Critobulo, c’è il giovane Fedone, c’è Antistene il cinico, c’è Ermogene il povero (Ermogene è noto come "il povero" perché, oltre a essere povero, è anche il fratello di Callia, l’uomo più ricco di Atene in casa del quale si è tenuto il Simposio, quindi la povertà di Ermogene ha un risalto maggiore). Poi sono presenti: Epigene, Menesseno, Ctesippo ed Eschine che viene ricordato come "il figlio del salsicciaio". Qualcuno viene anche da fuori come i tebani Simmia e Cebete, o come Terpsione ed Euclide che sono di Mégara. Alcuni tra i discepoli più noti non sono presenti: mancano Aristippo, Cleombroto e soprattutto – lo abbiamo già ricordato – manca Platone che, a quanto sembra, proprio quel giorno è assente perché aveva la febbre.
Quando i discepoli entrano nella cella trovano Socrate in compagnia di sua moglie Santippe e di suo figlio primogenito. Vedendo entrare tutte queste persone Santippe, molto turbata, piange ed esclama ad alta voce: «O Socrate, questa è l’ultima volta che potrai parlare con i tuoi amici e loro con te!». Come dire: "se tu fossi fuggito avresti potuto continuare ad insegnare dialogando". Allora Socrate si rivolge a Critone e gli dice: «Santippe è molto turbata, qualcuno di voi può, per cortesia, riportarla a casa?». Ma Santippe protesta, mentre cercano di farla uscire dalla cella, e urla: «Ma tu, Socrate, muori innocente!». E Socrate risponde: «Volevi forse che io morissi colpevole? Devi sentirti onorata della mia innocenza e io mi consolo al pensiero che tu mi creda virtuoso».
La moglie e il figlio di Socrate escono di scena ma non è facile portare a casa Santippe, e, intanto, una delle guardie carcerarie entra e stacca la catena dalla caviglia di Socrate. E Socrate, massaggiandosi la gamba indolenzita, fa una riflessione ad alta voce, sulla sensazione del piacere e del dolore, dicendo: «Il piacere e il dolore sono proprio qualcosa di strano, e sembra che ognuno di loro segua sempre il suo contrario e che tutti e due non vogliano mai trovarsi insieme nella stessa persona. Mentre prima, sotto il peso della catena, nella mia gamba c’era solo il dolore, ecco che ora già sento sopraggiungere il piacere, e se Esopo avesse riflettuto sul rapporto tra il dolore e il piacere, di sicuro avrebbe composto una bellissima favola». Qui Platone – siamo nel dialogo intitolato Fedone – cita Esopo che è il mitico autore di un corpus di circa 500 favole (riproposte in latino da Fedro) e, come le opere di Omero e di Esiodo, le favole attribuite ad Esopo costituiscono un punto di riferimento della cultura dell’Ellade e il genere letterario della "favola" si addice al linguaggio di Socrate e Platone invita alla lettura di Esopo.
Socrate, prima di bere la cicuta, conversa con i suoi amici sul tema della morte e dell’aldilà e, a questo proposito, allude a un qualcosa che potrebbe somigliare all’Inferno, al Purgatorio e al Paradiso, infatti Socrate dice ai suoi discepoli: «Io penso che i morti abbiano un futuro e che questo futuro sia migliore per i buoni che non per i cattivi».
Con questa affermazione inizia – siamo nel dialogo il Fedone – la significativa discussione sul tema dell’immortalità dell’anima. In questa discussione interviene per primo Simmia di Tebe il quale, paragonando il corpo a uno strumento musicale e l’anima all’armonia che lo strumento produce, sostiene che quando la lira, quando lo strumento si rompe (ovvero il corpo cessa di vivere) muore con esso anche l’armonia (cioè anche l’anima muore). Cebete, però, non è d’accordo con Simmia perché sostiene l’ipotesi della reincarnazione. «L’anima è – sostiene Cebete – come una persona che nella vita abbia consumato molti mantelli (molti vestiti). Tutti i mantelli, ovvero tutte le reincarnazioni, saranno meno longevi della persona che li ha posseduti, a eccezione dell’ultimo mantello che vivrà comunque più a lungo di quella persona». Socrate – dopo aver ascoltato le parole di questi due interlocutori – interviene sostenendo la tesi dell’immortalità dell’anima. La conversazione si anima moltissimo e Critone è costretto a intervenire per rimproverare Socrate. «O Socrate – dice Critone – il carceriere ti raccomanda di stare calmo e di parlare meno che puoi perché se ti agiti troppo il veleno non avrà molto effetto sul tuo corpo e lui sarà costretto a farti bere il farmaco due o tre volte». «E tu – risponde Socrate – digli di prepararne due o tre porzioni, però adesso, per cortesia, lasciate che tutti parlino»
E così Socrate ricomincia a discutere sul tema dell’anima: «Solo i malvagi – afferma – possono augurarsi che dopo la morte ci sia il nulla, ed è logico che così la pensino, perché è nel loro interesse. Io invece sono sicuro che essi vagheranno angosciati nel Tartaro e che solo chi ha trascorso la vita con onestà e con temperanza sarà ammesso a vedere la Vera Terra». «Cosa intendi dire, o Socrate, con l’espressione "Vera Terra"?» chiede Simmia molto perplesso. E Platone fa pronunciare a Socrate una sorta di discorso "apocalittico" che ricorda la Letteratura del Vangeli quando assume un tono visionario nel descrivere quelle che l’Apocalisse di Giovanni definisce come "la Terra nuova e i Cieli nuovi" e come "l’Abisso", e che poi l’interpretazione teologica successiva trasformerà nel concetto di Paradiso, di Inferno e di Purgatorio.
«Sono convinto – risponde Socrate – che la Terra è sferica. Essa non ha bisogno di un appoggio per restare dov’è perché trovandosi al centro dell’Universo, non saprebbe dove cadere. Inoltre sono convinto che è molto più vasta di quanto non sembri e che noi, conoscendone solo quella parte che va dal Fasi (dall’estremità orientale del Mar Nero) alle colonne d’Ercole (allo stretto di Gibilterra), siamo come formiche o ranocchi che vivono intorno a un piccolo stagno. Gli esseri umani sono convinti di abitare la sommità della Terra e invece si trovano in una sua cavità, allo stesso modo di chi, vivendo in fondo a un abisso marino, scambiasse la superficie del mare per la volta del cielo. Si dice – aggiunge Socrate – che la Vera Terra abbia l’aspetto di una palla di cuoio a dodici pezzi (un Dodecaedro costituito da dodici pentagoni, in pratica quasi una sfera e, così come la descrive Socrate, questa palla sembra essere simile ai nostri palloni per giocare al calcio) e si dice – aggiunge Socrate – che la Vera Terra sia iridescente e intarsiata di diversi colori. In alcune parti di essa ha lo splendore dell’oro e in altre è più bianca della neve, in altre ancora è argentea o porporina. Le stesse sue cavità, viste dall’esterno, essendo piene di acqua o di aria, rifulgono in una iridescente varietà di colori. Così pure – aggiunge Socrate – gli alberi, i frutti, i fiori, i sassi e le montagne della Vera Terra sono così levigati e trasparenti che al loro confronto diventano opache quelle piccole pietre che quaggiù hanno tanto valore. In questo luogo, le persone sono beate e abitano le rive dell’aria così come noi quaggiù viviamo sulle rive del mare». «Chi dice queste cose?» chiede Simmia molto perplesso da questa visionaria descrizione ma Socrate ignora l’interruzione e prosegue: «Nella profondità della Terra c’è quella grande voragine che Omero e molti altri poeti hanno chiamato Tartaro. Qui confluiscono tutti i fiumi e di qui tutti i fiumi defluiscono di nuovo. Di questi, – afferma Socrate – quattro sono da ricordare: il fiume Oceano che scorre intorno alla Terra, l’Acheronte che gira in senso contrario e termina in una palude chiamata Acherusiade, il Piriflegetonte che, essendo di fuoco, appena trova un varco erompe dalla Terra sotto forma di lava e infine il quarto fiume, il Cocito che, girando a spirale, sprofonda fra le viscere della Terra e si getta anche lui nel Tartaro. Qui, nella palude Acherusiade, – dice Socrate – vengono portate le anime di coloro che si sono macchiati di gravi colpe. Alcune di esse, avendo agito in un momento di collera, dopo un periodo più o meno lungo potranno risalire in superficie, altre anime invece, per la gravità dei loro crimini sono condannate in eterno. Questa dunque – afferma Socrate – è la sorte che tocca alle anime dei viventi: i tristi nel Tartaro e i puri sulla Vera Terra. Ecco perché giova nella vita acquistare virtù e saggezza con la filosofia (con l’amore per la sapienza), giacché bello è il premio e grande è la speranza!».
Dopo aver ascoltato questo discorso Simmia di Tebe controbatte: «Credi davvero nelle cose che hai detto, o Socrate?». E Socrate risponde, come è nel suo stile, in modo interlocutorio: «Credere a quello che ho detto, forse, non si addice ad una persona assennata, ma in compenso procura un grande benessere interiore». Che significato ha questa risposta di Socrate? Questa risposta di Socrate significa che, secondo lui, una fede, un ideale si basa non su una certezza da difendere ma su una speranza da coltivare, su una aspettativa, su un desiderio, su un sogno, su una prospettiva, su una previsione.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Anche se oggi sei consapevole del fatto che non ci sono le condizioni: quale tua aspettativa vorresti che si realizzasse?…
Scrivi quattro righe in proposito…
A questo punto appare sulla porta della cella un giovane inserviente del tribunale il quale ha in mano un recipiente di marmo, un mortaio (l’accessorio con cui si fa il pesto) con la cicuta da pestare e consegna il tutto all’erborista che è già arrivato e deve preparare il farmaco (la parola "farmacon", in greco, significa contemporaneamente: medicina e veleno e anche la cicuta non è solo un veleno ma utilizzata in modo idoneo è anche un medicamento).
Socrate si alza in piedi e dice: «Ecco che il destino mi chiama». Critone, cercando di non farsi vedere troppo disperato, sussurra: «Hai qualche ordine da darci? In che modo vuoi essere sepolto?». Socrate risponde ridendo con un battuta che richiama il concetto dell’immortalità dell’anima: «Seppellitemi come più vi piace, sempre che riusciate ad acchiapparmi perché potrei anche sfuggirvi di mano e svignarmela nel Tartaro prima di essere sepolto!». «Mio buon Critone, – continua Socrate, diventato più serio – come posso convincerti che la persona che adesso sta parlando con te, tra poco, quando la vedrai cadavere su questo letto, sarà un’altra persona?».
Intanto Santippe, che non è voluta andare a casa, vuole entrare per dare a Socrate un ultimo saluto e con lei c’è anche Mirto, la seconda moglie di Socrate, e ci sono i tre figli: Lamprocle, il primogenito, figlio di Santippe e Sofronisco e Menesseno figli di Mirto. Socrate li abbraccia tutti affettuosamente e poi, facendo loro coraggio, li invita a tornare a casa. Apollodoro – il discepolo emotivamente più fragile – non riesce a trattenere le lacrime e si abbandona ad un pianto inconsolabile.
Nel frattempo entra il capo dei carcerieri che dice: «O Socrate, io non mi posso proprio lamentare di te, come è accaduto con altri carcerati che hanno inveito contro Atene e mi hanno stramaledetto. Durante la tua reclusione ho avuto modo di conoscerti e di capire che sei la persona più buona e più mite che ci sia». Appena pronunziate queste parole, anche lui, si mette a piangere a dirotto ed esce dalla cella. Socrate è un po’ a disagio di fronte a tutte queste commoventi manifestazioni di affetto e allora si rivolge a Critone e gli chiede di far entrare l’erborista che di sicuro ha già preparato la pozione. Critone protesta e dice a Socrate: «Perché hai tutta questa fretta, lo vedi che il sole è ancora alto? I condannati attendono sempre l’ultimo raggio del tramonto e, prima di bere il veleno, fanno una bella cena mangiando a sazietà e dopo fanno anche l’amore con una donna scelta per l’occasione». Socrate ribatte con severità: «È naturale che ci si comporti così, quando si ritiene vantaggioso ritardare il momento della morte, ma, caro Critone, è naturale che io faccia esattamente il contrario, perché, manifestando un eccessivo attaccamento alla vita, diventerei patetico e smentirei in un solo momento tutto quello che ho sempre predicato: non il vivere è da tenere in massima considerazione, ma il vivere bene», non la quantità (che pure è importante) ma la qualità della vita è da tenere in massima considerazione, e Socrate vuole decidere sulla sua vita e sulla sua morte.
A questo punto entra l’erborista con in mano la tazza che contiene la pozione letale, e noi sospendiamo, momentaneamente, il racconto.
Abbiamo detto che, secondo Socrate, una fede, un ideale, si basa non su una certezza da difendere ma su una speranza da coltivare. Ma che cosa significa per Socrate "coltivare la speranza"? "Coltivare la speranza", per Socrate, significa – come possiamo leggere sul Critone, il dialogo di Platone sul dovere – perseguire l’idea che «Non il vivere è da tenere in massima considerazione, ma il vivere bene; e vivere bene vuol dire imporsi la virtù e prefiggersi la giustizia» e questo deve avvenire non in funzione del proprio tornaconto personale ma per l’interesse comune.
E ora concludiamo leggendo ancora una pagina da Marcia su Roma e dintorni dove Emilio Lussu allude al fatto che, anche nella peggiore situazione – come quella di essere condannati al confino e deportati su un’isola – basta un semplice gesto di solidarietà per non far morire la speranza.
LEGERE MULTUM….
Emilio Lussu, Marcia su Roma e dintorni (1932)
I giudici, malgrado tutte le pressioni, mi assolsero in istruttoria. Il codice penale e l’ordinamento della magistratura non erano stati ancora riformati. L’irritazione dei fascisti fu oltre ogni misura. Immediatamente, furono inscenate dimostrazioni contro i giudici e contro di me. L’on. Pili riprese la campagna sulla stampa. Alcuni fascisti autorevoli proposero addirittura il mio linciaggio.
In seguito alla sentenza di assoluzione, io avrei dovuto essere immediatamente scarcerato. Ma le carceri dipendono dal ministero degli Interni, non dalla magistratura. Io fui trattenuto in carcere «per misura di ordine pubblico». In base alle leggi eccezionali per la difesa dello Stato fascista, si riunì una commissione fascista e, in via amministrativa, io venni condannato a cinque anni di deportazione come «avversario incorreggibile del regime».
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Intanto, come sappiamo, nella cella di Socrate è entrato l’erborista con in mano la tazza del veleno, come abbiamo potuto constatare Socrate rinuncia – rifiutando la proposta di Critone – a fare un’ultima cena con i suoi discepoli: questo fatto avrebbe creato delle analogie ancora più strette tra Socrate e Gesù di Nazareth. Quando entra l’erborista con in mano la tazza del veleno Socrate si rivolge a lui con queste parole: «Tu, o buon erborista, che di queste cose te ne intendi, dimmi, come mi devo comportare, che cosa si deve fare in simili circostanze?». Socrate insiste fino alla fine che non si finisce mai di imparare e a tutte le persone è dovuto il diritto-dovere all’apprendimento.
Noi in questo caso stiamo dalla parte di Critone e non vogliamo che Socrate muoia così in fretta: concediamogli un’altra settimana di vita, anche perché la prossima settimana è quella di passione ed è la più appropriata per rievocare la morte di Socrate, e poi ci saranno le vacanze pasquali durante le quali avrà il tempo per risorgere anche lui attraverso il nostro esercizio di lettura, di riflessione e di scrittura.
«Che cosa si deve fare in simili circostanze?» domanda Socrate all’erborista. Che cosa risponde questa persona (di cui non conosciamo neppure il nome), quali consigli ha da dare a Socrate?
Lo sapremo durante il prossimo itinerario perché il viaggio continua sulla scia della sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele i quali sono più vivi che mai e la Scuola ha il dovere – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – di tramandarne il pensiero e, a questo proposito, (per quello che sa fare): la Scuola è qui…