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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, DI PLATONE E DI ARISTOTELE C’È LA VISIONE DELL’IPERURANIO ...

Lezione N.: 
25

Prof. Giuseppe Nibbi    Lo sapienza di Socrate Platone Aristotele    15-16-17 aprile 2009

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, DI PLATONE E DI ARISTOTELE

C’È LA VISIONE DELL’IPERURANIO ...

     Ben tornate e ben tornati a Scuola.

     Al centro dell’affresco intitolato La Scuola di Atene, nel cui spazio stiamo viaggiando da circa sei mesi, le due figure centrali, che si stagliano sullo sfondo luminoso del cielo, rappresentano due personaggi chiave della Storia del Pensiero Umano: Platone ed Aristotele. Queste due figure, nel loro atteggiamento simbolico con cui vengono presentate – secondo i dettami dati dal gruppo di studio, formato da Giulio II, Fedra Inghirami e Bramante, che orienta Raffaello nel suo lavoro –, sono state annoverate, nel corso dei secoli, tra le immagini più famose (insieme alla Gioconda di Leonardo) della storia della rappresentazione grafica.

     Prima della vacanza pasquale abbiamo osservato la celebre figura di Platone e sappiamo che l’attenzione di tutte le osservatrici e gli osservatori si è sempre concentrata sulla metafora pittorica della mano destra alzata, con l’indice puntato verso il cielo. Il cielo è la sede di ogni principio ideale, e qui si vuole esprimere senz’altro, in maniera sublime, il messaggio metafisico di Platone, fondato sulla trascendenza e certamente con Platone il concetto del mondo soprasensibile si è potuto rafforzare. Questa figura, con la mano sinistra, tiene un testo: e sappiamo che Platone tiene in mano il testo del dialogo intitolato Timeo. Sappiamo anche che il volto di Platone rappresenta un ritratto di Leonardo da Vinci e abbiamo anche cercato di capire perché è stata compiuta questa operazione culturale: Leonardo da Vinci è un aristotelico in quanto scienziato ma è anche un grande artista e, in questo, effettivamente assomiglia più a Platone che ad Aristotele.

     Ora però dobbiamo temporaneamente lasciare lo spazio rinascimentale dell’affresco e dobbiamo incamminarci sulla corsia antica che, attraverso il territorio dell’Ellade, ci porta ad incontrare da vicino un certo Aristocle. Ma chi è questo Aristocle? Aristocle è il vero nome di Platone: Platone è un soprannome, e noi sappiamo quanto i soprannomi possano influenzare la storia delle persone: pensate a Fedra Inghirami. Ad Aristocle il soprannome di "Platone" viene dato a causa della larghezza (plàtos) delle sue spalle. Nei Silli, che sono una composizione in versi scritta da un poeta che si chiama Timone di Fliunte, Aristocle viene definito "spallutissimo (platistakòs)": da questa affermazione capiamo da dove deriva il soprannome di Platone.

     Il padre di Platone si chiama Aristone e sua madre Perittione, e lui è nato ad Atene intorno al 427 a.C.. La leggenda racconta che, essendo venuto al mondo nello stesso giorno in cui è nato Apollo – il settimo giorno del mese di Targelione (maggio-giugno) – i suoi genitori lo portarono ancora in fasce sul monte Imetto, dove c’era un santuario, per ringraziare il dio, e – racconta la leggenda – che, mentre erano lì raccolti in preghiera, arrivò uno sciame di api, si posò sulla sua bocca del bambino, e la riempì di miele. Questo episodio leggendario è molto significativo e dimostra come il genio di Platone sia sempre stato tenuto in grande considerazione.

     Platone nasce in una famiglia aristocratica e il suo albero genealogico mette radici anche nel mito: suo padre annovera tra i suoi antenati Codro, l’ultimo re di Atene, che era imparentato addirittura con il dio Positone. Sua madre aveva come antenato Dropide, il fratello di Solone, il grande uomo politico e il grande legislatore della città di Atene, e infine, sempre da parte di madre, poteva anche contare sull’aiuto dello zio Carmide e dello zio Crizia: due spregiudicati uomini politici di spicco in Atene che partecipano – con ruoli di rilievo – al governo dei cosiddetti Trenta Tiranni.

     È chiaro che, con dei parenti così autorevoli, Platone non avrebbe potuto fare altro che una brillante carriera: il fatto è che Platone non ha fatto la carriera che tutti si aspettavano che facesse. Platone si è fatto strada, è diventato qualcuno non perché ha conquistato il potere politico, il controllo delle Istituzioni, ma perché ha saputo distinguersi su ben altro piano.

     Platone, comunque, – proprio perché ha una famiglia autorevole alle spalle – da giovane comincia la sua esperienza occupandosi di politica. E questa conferma ci viene da un’opera, l’Epistolario di Platone. Nell’Epistolario il testo che viene considerato il più significativo è quello della Settima Lettera ai Siracusani. Questa Lettera è anche una piccola autobiografia che fa memoria sui viaggi di Platone in Sicilia. Qualche anno fa alcuni studiosi – a causa di alcune parole che, secondo loro, Platone non avrebbe potuto usare – ne hanno messo in dubbio l’autenticità insinuando che questo testo potrebbe anche essere stato scritto da Speusippo di Atene, il nipote di Platone, suo successore nella direzione dell’Accademia. Oggi questo dubbio è caduto e la maggior parte delle studiose e degli studiosi pensa che questa Lettera contenga il pensiero di Platone e anche il suo stile: se durante una delle tante trascrizioni di questo testo (come succede per tutti i testi antichi), ci sono state alcune interpolazioni (sono state sostituite parole più antiche con parole più moderne) questo fatto non incide assolutamente sulla sua autenticità. Nella Settima Lettera ai Siracusani Platone scrive che quand’era giovane ha fatto un’esperienza simile a quella di molti altri ragazzi della sua età: pensava di dedicarsi alla politica non appena fosse stato in grado di provvedere a se stesso.

     Ma leggiamo una serie di frammenti tratti da questa Lettera che ci permette di prendere visione delle qualità di scrittore, di poeta, che Platone possiede: il fascino della sua scrittura è una delle ragioni per cui il suo pensiero si è conservato nel tempo, ma è soprattutto il contenuto di questa Lettera ad essere di una attualità sconcertante.

LEGERE MULTUM….

Platone, Settima Lettera ai Siracusani

 Quand’ero giovane provai ciò che provano molti: pensavo, una volta diventato padrone di me stesso, di entrare subito nella vita politica. Ora, questa fu la situazione politica della mia città nella quale venni a trovarmi: il governo di allora, osteggiato da molti, fu rovesciato e passò nelle mani di cinquantun cittadini Trenta, al di sopra di tutti, ebbero potere assoluto. Alcuni fra costoro erano miei familiari e conoscenti, e mi invitarono subito ad entrare nella vita pubblica Io avevo allora sentimenti strani: credevo che essi col loro governo avrebbero liberato la città dall’ingiustizia e le avrebbero imposto un giusto sistema di vita; perciò stavo bene attento a quello che avrebbero fatto. Ora, mi accorsi che in breve tempo questi uomini facevano apparire oro il governo di prima Sdegnato, mi trassi fuori dalle miserie di allora. Non molto tempo dopo caddero i trenta e, con loro, quella forma di governo. Di nuovo, seppure meno intensamente, mi prese il desiderio di svolgere attività politica Poi però avvenne che alcuni potenti trascinarono in tribunale quel nostro amico Socrate, accusandolo del delitto più nefando e insieme più alieno dal suo animo: lo fecero comparire in tribunale come empio, lo condannarono e lo uccisero Presi dunque a considerare questi fatti e gli uomini che si occupavano di politica e le leggi e i costumi: quanto più li esaminavo ed avanzavo in età, tanto più difficile mi sembrava poter amministrare rettamente gli affari dello Stato Le leggi scritte e i costumi andavano sempre così corrompendosi con straordinaria rapidità, tanto che io, che da principio sentivo vivo lo stimolo a prender parte alla vita pubblica, considerando queste cose e lo scompiglio che regnava dovunque, finii col restare stordito. Non rinunciai a studiare la situazione per vedere se ci fossero dei miglioramenti, specie nel governo, ma aspettavo, per agire, le circostanze opportune. Alla fine mi resi conto che tutte le città di allora erano mal governate e fui costretto a fare l’elogio della retta filosofia, e a dire che solo essa consente di vedere ciò che è giusto nelle cose pubbliche e in quelle private; dunque le generazioni umane non si sarebbero mai potute liberare dalle sciagure, finché al potere politico non fossero giunti i veri autentici filosofi, oppure i governanti delle città non fossero divenuti, per una grazia divina, veri filosofi anche loro.

     Il testo di questa Lettera delinea chiaramente la fisionomia di quello che è stato Platone e mette bene in evidenza la caratteristica dalla sua filosofia. La filosofia – cioè la disciplina che si domanda "che cos’è la vita?" – finora si era limitata a descrivere il mondo: Platone, sulla scia di Socrate, dà inizio ad una filosofia che vuole cambiare il mondo. Ebbene, l’opinione tradizionale ha fatto di Platone il capostipite di quelle persone che vivono nel mondo delle idee, fuori dalla realtà: questa considerazione è assurda. Il pensiero di Platone si sviluppa all’interno di un progetto che ha una finalità di ordine pratico, anche se con pretese di universalità. Platone non è un "sognatore", ma è uno sperimentatore: e questa è una ragione ulteriore per capire come mai ne La Scuola di Atene Platone ha il volto di Leonardo da Vinci (il grande sperimentatore moderno). Platone ha sperimentato, prima di tutto, la crisi della democrazia ateniese dovuta all’incapacità e all’immoralità degli uomini politici del suo tempo. Purtroppo l’età di Pericle – quel periodo che è stato denominato dell’illuminismo ateniese – era già lontano. E coloro i quali erano succeduti a Pericle, Cleone e Iperbolo, non erano più dei "democratici" (rispettosi dell’indipendenza dei tre poteri dello Stato: legislativo, esecutivo e giudiziario) ma erano dei demagoghi (si rivolgevano direttamente al popolo e si comportavano secondo i peggiori umori popolari). Alcibiade – che prende il potere dopo di loro –, era molto intelligente ma era anche un individuo poco affidabile dal punto di vista morale. Questa è l’immagine ormai corrotta che Platone ha della "democrazia".

     Quando, per la dabbenaggine e la supponenza dei loro governanti, scoppia la guerra del Peloponneso, gli Ateniesi – dopo la sconfitta inflitta da Sparta ad Atene nella battaglia di Egospotami – prendono atto dell’efficienza del governo autoritario degli Spartani e allora ad Atene viene attuata la restaurazione aristocratica e il potere viene affidato ai Trenta Tiranni. Il regime dei Trenta Tiranni dura circa un anno, e gli zii di Platone, Clizia e Carmide – che hanno assunto responsabilità di governo –, lo invitarono a darsi da fare, ma quando Platone si rende conto che questi aristocratici altro non fanno che occupare tutte le Istituzioni preoccupati soltanto di vendicarsi dei loro nemici, abbandona la politica e si dedica esclusivamente alla filosofia, alla disciplina che invita la persona a domandarsi "che cos’è la vita?", a chiedersi "che senso ha la vita se non è rivolta alla realizzazione del Bene?".

     La prima Scuola che Platone frequenta – e dove si alfabetizza al sapere – è quella di Cratilo che è un seguace di Eraclito: noi sappiamo che le Scuole eraclitee erano molto diffuse in Ellade (anche Erodoto – se vi ricordate – ha frequentato le elementari in una Scuola eraclitea dove s’insegna l’uso della ragione).

     Dopo il regime dei Trenta Tiranni torna al potere un nuovo governo democratico, ma questo nuovo esecutivo condanna a morte proprio Socrate, l’unica persona che Platone aveva cominciato ad ammirare. Non ci dobbiamo meravigliare – dopo queste esperienze tragiche – se Platone diffida del sistema democratico e critica aspramente il modo in cui è andato degenerandosi.

     Per la formazione di Platone – come per molti altri giovani ateniesi della sua generazione – l’incontro con Socrate è stato determinante. Diogene Laerzio nella sua Raccolta della vita e delle dottrine dei filosofi ci racconta che a vent’anni Platone si interessa quasi esclusivamente di poesia. Un giorno, mentre sta andando a teatro per partecipare ad una gara poetica, vede Socrate che parla con un gruppetto di giovani. Si avvicina, ascolta con attenzione quel che dice e capisce che da quel vecchio – il quale sostiene di "sapere di non sapere" e invita i suoi interlocutori a "mettersi in ricerca" – c’è molto da imparare. Platone butta nel fuoco le sue poesie e comincia a seguire Socrate: non smetterà mai, però, di essere un poeta.

     Dopo la morte di Socrate – un avvenimento al quale, come sappiamo, lui non partecipa direttamente –, Platone se ne va da Atene insieme ad altri discepoli di Socrate che temono di essere perseguitati. I discepoli di Socrate in fuga da Atene si rifugiano a Mégara dove li ospita Euclide. Mégara è una polis che si trova ad ovest di Atene, oggi è una cittadina (di circa ventimila abitanti), un centro agricolo dall’aspetto orientaleggiante situata in bella posizione tra due alture. Mégara, intorno al VII secolo a.C., ha vissuto un periodo di grande prosperità e ha fondato importanti colonie: in Sicilia i megaresi hanno fondato Mégara Iblea e Selinunte, e in oriente hanno fondato Calcedonia e Bisanzio.

     I fuggiaschi discepoli di Socrate a Mégara vengono ospitati da Euclide (questo Euclide non va confuso con Euclide il matematico, che incontreremo strada facendo). Euclide di Mégara è il più anziano dei discepoli di Socrate: è vissuto tra il 435 e il 365 a.C.. In gioventù ha studiato filosofia secondo i dettami della Scuola di Elea perché, nel 450 a.C., Parmenide – lo abbiamo già ricordato in alcuni dei nostri Percorsi – era stato ad Atene ed aveva tenuto una serie di conferenze che avevano influenzato molti giovani dell’Ellade che erano accorsi ad ascoltarlo.

     Quindi Euclide, dopo aver conosciuto e seguito Socrate, ha cercato per tutta la vita di conciliare gli insegnamenti del maestro di Atene con il pensiero di Parmenide di Elea e, a Mégara (la città dove era nato e aveva la residenza), fonda una Scuola con queste caratteristiche. La Scuola megarica, che seguiva il metodo della dialettica socratica, insegnava che tutte le cose di questo mondo hanno un loro valore intrinseco chiamato "essere", ma si presentano anche come un insieme di apparenze, chiamato "non essere". Quando una persona si impegna per raggiungere un obiettivo deve fare attenzione che l’oggetto dei suoi desideri sia per l’appunto "l’essere" e non "l’apparire". Quante volte noi abbiamo desiderato di diventare Capo dello Stato perché sentiamo il bisogno di migliorare la vita delle nostre concittadine e dei nostri concittadini? Ogni volta che abbiamo desiderato questo noi ci siamo avvicinate e avvicinati a "l’essere" del mestiere di Capo dello Stato. Se invece – sostiene Euclide di Mégara sulla scia di Parmenide e di Socrate – ciò che ci attrae nell’incarico di Capo dello Stato è solo il prestigio, gli onori e il potere, la difesa dei nostri interessi, allora vuol dire che siamo state attratte e attratti da "l’apparire" del ruolo e allora non c’è alcuna speranza che si possa raggiungere il Bene. Dal momento che Socrate aveva detto che l’importante nella vita è il raggiungimento della conoscenza perché la conoscenza è il Bene, per Euclide è stato facile mettere d’accordo il pensiero di Socrate con quello di Parmenide e concludere che il Bene è l’Essere, ovvero l’Uno, eterno e indivisibile, mentre tutto il resto non conta perché "non è".

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Fate una visita alla cittadina di Mégara utilizzando l’enciclopedia, una guida della Grecia oppure la rete, buon viaggio

     Platone rimane tre anni a Mégara e – anche se in seguito sarà molto critico con la Scuola megarese – si capisce che qualcosa ha imparato, ma poi, volendo estendere la sua formazione culturale, si mette in viaggio: va a Cirene a seguire lezioni di matematica, poi approda in Egitto per frequentare lezioni di "profezia" e poi si trasferisce in Sicilia dove s’iscrive alla Scuola pitagorica. Sappiamo che Platone sarebbe voluto andare anche in Asia Minore a studiare la "magia" nelle Scuole dei Magi ma questa zona del mondo era sempre funestata da guerre che non finivano mai (da allora sembra non sia cambiato granché) e quindi preferisce rinunciare. Platone va in Sicilia con un obiettivo preciso (per fare del turismo culturale, potremmo dire oggi): vuole vedere il cratere dell’Etna, il luogo dove si era suicidato Empedocle, e noi conosciamo questo fatto perché abbiamo partecipato – nella penultima settimana di gennaio – al tuffo di Empedocle nel cratere dell’Etna.

     In Sicilia Platone conosce un giovane, che si chiama Dione, il quale condiziona la sua vita: chi è Dione? Dione è il cognato di Dionisio il Vecchio, tiranno di Siracusa, un personaggio che è passato alla storia per il suo autoritarismo e per la sua crudeltà. Ad informarci sui fatti di cui ci stiamo occupando contribuisce un testo intitolato Vita di Dione: un testo che fa parte di un’opera più vasta dal titolo Vite parallele scritta da un celebre scrittore che si chiama Plutarco di Cheronea: quest’opera l’abbiamo utilizzata molte volte nei nostri Percorsi.

     Prima di leggere un frammento da Vite parallele, dal testo della Vita di Dione – visto che ne leggeremo altri tratti dalla stessa opera – dobbiamo, per informare e per ripassare, aprire una piccola parentesi, su Plutarco di Cheronea il quale è stato nostro fedele compagno di viaggio soprattutto nel secondo Percorso che abbiamo fatto in compagnia di Erodoto come molte e molti di voi ricorderanno.

     Plutarco di Cheronea – che è vissuto tra il 46 e il 127 d.C. – ha un ruolo importante nella storia della letteratura greca del cosiddetto periodo greco-romano ma la sua fama va ben oltre il periodo in cui è vissuto. Plutarco non ha un suo pensiero originale, si autodefinisce un platonico ma, seguendo lo stile scettico-eclettico della sua epoca (il primo secolo d.C.), raccoglie le sollecitazioni che vengono da tutte le correnti filosofiche presenti e passate (meno l’epicureismo che lui rifiuta decisamente). Plutarco di Cheronea si considera un fedele custode dell’eredità spirituale e religiosa del mondo greco (è stato anche sacerdote del tempio di Apollo a Delfi): la sua opera è vastissima e i suoi scritti trattano un’infinità di temi (s’interessa e si occupa di molteplici e svariati argomenti) raccolti negli Opuscoli morali o Moralia.

     Plutarco di Cheronea è molto abile a rendere vivace la sua esposizione e a mantenere un atteggiamento etico coerente in tutti i giudizi che dà, e questo suo comportamento ha reso le opere di Plutarco accettabili anche da parte dei cristiani che, dal primo secolo, le hanno utilizzate, e siccome il Cristianesimo si sta affermando ciò che trascina con sé viene conservato. Queste caratteristiche fanno di Plutarco di Cheronea uno degli scrittori che è stato più letto nelle Scuole e che ha avuto maggior fortuna fino all’epoca del Romanticismo.

     L’opera più famosa di Plutarco di Cheronea s’intitola Vite parallele, consiste in una serie di 50 biografie, di cui 46 abbinate in modo che alla vita di un greco è contrapposta quella di un romano. Vite parallele è come un sommario di tutta la storia greca e romana vista attraverso le figure dei personaggi più importanti. Plutarco è veramente abile a delineare un personaggio mettendone in rilievo, attraverso gli aneddoti e i vari particolari, le qualità del carattere e la sua umanità. Plutarco è convinto che la biografia più che la storia renda possibile la conoscenza delle persone. Dalle vicende dei grandi personaggi del passato trae lo spunto morale per esaltare la virtù, per invitare all’imitazione e condannare i vizi: qui siamo proprio sulla scia della sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele. Plutarco, nel confronto tra Greci e Romani, esalta sempre i Greci e fa esercizio di patriottismo: i Greci, pur vinti militarmente dai Romani, prevalgono culturalmente.

     L’opera Vite parallele di Plutarco ha avuto un grande influsso sulla letteratura europea moderna: prima di tutto sui Saggi di Montaigne, poi nella tragedia, a cominciare da Shakespeare, Corneille e Racine fino all’Alfieri, a Goethe, a Schiller, a Rousseau, a Leopardi. I Romantici ammirano Plutarco per la drammaticità, il pathos, il senso tragico della vita e la dedizione dei suoi eroi (Catone, Bruto) alla libertà. Per questo motivo, più che essere un’opera di storia, Vite parallele di Plutarco è un’opera di pedagogia che possiede uno spiccato valore allegorico.

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Consultando l’enciclopedia, cercando in biblioteca e navigando sulla rete puoi trovare molte notizie sulla vita e sulle opere di Plutarco di Cheronea… Fai una piccola ricerca: in biblioteca puoi sfogliare il testo di "Vite parallele" e leggerne qualche pagina…

Se tu dovessi mettere in parallelo la tua vita con quella di un personaggio, quale personaggio sceglieresti?

Scrivi quattro righe in proposito…

     E ora leggiamo dalla Vita di Dione in Vite parallele di Plutarco di Cheronea un particolare che riguarda Dionisio il Vecchio, Dione e anche Platone.

LEGERE MULTUM….

Plutarco, Vite parallele. Vita di Dione

A Dionisio il Vecchio, tiranno di Siracusa, piacevano due fanciulle, Doride e Aristomache, e non sapeva quale scegliere, allora decise di sposarle tutte e due nello stesso giorno, e la prima notte di nozze andò a letto con tutte e due le mogli, dal secondo giorno in poi invece le alternò: nei giorni dispari dormiva con Doride e nei giorni pari con Aristomache Dione era il fratello di Aristomache ed era – al contrario del tiranno, suo cognato – un giovane idealista il quale aveva sentito parlare di Platone e delle sue idee politiche e desiderava farlo venire a Siracusa perché convincesse Dionisio a sperimentare la "tirannide illuminata": il governo dei Saggi a cui aspirava Platone

     Le cose però non sono andate come avrebbe voluto Dione: Dionisio il Vecchio accoglie con sospetto Platone il quale si esprime con le forme provocatorie della dialettica socratica e dimostra di non gradire lo stile di vita poco sobrio della corte siracusana. Plutarco nella Vita di Dione racconta che "una volta a Siracusa, nella corte di Dionisio il Vecchio, fu imbandito un pranzo che durò novanta giorni di seguito". Molti anni dopo, nel raccontare l’esperienza siciliana, Platone, nella Settima Lettera ai Siracusani (della quale poco fa abbiamo letto un brano), scrive che non gli era piaciuta per nulla «quella vita cosiddetta beata, piena di banchetti durante i quali ci si doveva riempire lo stomaco di cibi di pessimo gusto, e quel dormire di giorno invece che di notte».

     Per Platone, a Siracusa, le cose si complicano quando comincia a discutere con Dionisio sul tema della Virtù. È Diogene Laerzio, nella sua Raccolta della vita e delle dottrine dei filosofi, che ci racconta questo avvenimento: leggiamo che cosa scrive.

LEGERE MULTUM….

Diogene Laerzio, Raccolta della vita e delle dottrine dei filosofi

 Platone cominciò a dire che una persona virtuosa è più felice di un tiranno, e Dionisio, che già sospettava di non essere sufficientemente riverito, gli chiese a bruciapelo: «Ma che cosa sei venuto a fare in Sicilia?», Platone rispose: «A cercare un uomo virtuoso», Dionisio replicò: «E non pensi di averlo già trovato?»… «No di certo» rispose Platone… «Parli come un vecchio rimbambito!» esclamò Dionisio perdendo la pazienza… «E le tue parole sanno di tirannide» ribatté Platone alzando la voce Prima di sera Platone fu arrestato: venne legato e imbarcato sulla nave dello spartano Pollide con l’ordine che fosse portato ad Egina e venduto al mercato degli schiavi. A Egina, al mercato degli schiavi, Platone, per sua fortuna, fu visto da un certo Anniceride di Cirene che, non solo lo riscattò per venti mine, ma gli regalò anche il denaro necessario per acquistare un terreno dove potesse riunire una Scuola

     E Platone, con il contributo di Anniceride di Cirene, compra un pezzo di terra che era in vendita fuori dalle mura di Atene e lì "riunisce" la sua famosa Scuola: l’Accademia. Noi ci immaginiamo l’Accademia come se fosse un edificio ma, in origine, nessuna Scuola era in un edificio ma bensì in uno spazio aperto. Il terreno che Platone acquista per "riunire" la sua Scuola si trovava nel quartiere periferico del Keramicos (abbiamo già visitato questo quartiere perché lì abitava Socrate) a circa due chilometri dalla città, lungo la strada dei sepolcri dei personaggi illustri. Questo terreno aveva l’aspetto di un parco ed era completamente immerso nel verde.

     Nel dialogo di Platone intitolato Fedro troviamo un particolare che riguarda il terreno dove si "riunisce" la Scuola platonica: leggiamolo questo frammento significativo.

LEGERE MULTUM….

Platone, Fedro

 Sul terreno dove si riuniva la Scuola, più gentile di ogni altra cosa era l’erba, cresciuta così soffice sul dolce pendio, da permettere, a chi si sdraiava, di poggiare dolcemente il capo.

     La fondazione dell’Accademia, della Scuola di Platone, è stato uno degli eventi culturali più importanti del mondo antico e questo fatto lo abbiamo già ricordato quando, durante uno dei primi itinerari di studio di questo viaggio, abbiamo assistito alla "rinascita" (qui ha inizio il Rinascimento?) della Scuola di Platone con l’istituzione dell’Accademia neoplatonica fiorentina sponsorizzata da Cosimo il Vecchio e affidata a Marsilio Ficino con il supporto di Pico della Mirandola e di Cristoforo Landino.

     Sul terreno comprato da Platone per "riunire" la sua Scuola c’era anche un boschetto dedicato all’eroe Academo e il termine Accademia deriva proprio dal nome di questo personaggio, un nome che è stato utilizzato nel corso dei secoli per denominare i luoghi più autorevoli della cultura. Noi ci domandiamo, incuriosite e incuriositi, chi è questo Academo? Il fatto curioso è che nessuno ha mai saputo chi sia e che cosa abbia fatto questo Academo di così importante da essere ricordato con tutti gli onori

     Diogene Laerzio ci ricorda che sul terreno dell’Accademia, intorno a Platone, si riunisce un folto gruppo di discepoli e tra questi cita: Speusippo di Atene e Senocrate di Calcedonia che, probabilmente, sono raffigurati nell’affresco de La Scuola di Atene, e poi Eraclide Pontico, Callippo di Atene, Erasto e Corisco di Scepsi, Timolao di Cizico e anche Aristotele di Stagira, e le discepole Lastenia di Mantinea e Assiotea di Fliunte, quest’ultima vestita con abiti maschili. Nel parco dell’Accademia la vita si svolge serena: si seguono le lezioni di Platone, si conversa, si passeggia dentro un gradevole ambiente naturale ricco di vegetazione e di stagni.

     Ma il buon Dione, a Siracusa, non si era certo dimenticato di Platone – e tra l’altro si sentiva anche in colpa nei suoi confronti – e quando Dionisio il Vecchio muore comincia a mandare messaggi a Platone perché ritorni in Sicilia. Al governo di Siracusa, al posto di Dionisio il Vecchio, subentra il suo figlio primogenito, Dionisio il Giovane. Che cosa ci racconta Plutarco di Dionisio il Giovane sempre nella sua Vita di Dione? Leggiamone un frammento:

LEGERE MULTUM….

Plutarco, Vite parallele. Vita di Dione

 Dionisio il Vecchio, nel timore che suo figlio primogenito, che portava il suo stesso nome, gli potesse contendere il potere lo aveva tenuto rinchiuso in casa fin dall’adolescenza Il ragazzo, per passare il tempo, si era dedicato alle attività manuali costruendo sgabelli, tavoli di legno e piccole lampade Quando, dopo la morte del padre, salì al potere come monarca, Dione – data la docilità del temperamento del nipote – pensò bene che quella fosse l’occasione buona per richiamare Platone in Sicilia perché potesse esperimentare la sua nuova forma di Stato.

     Platone ricordava bene la brutta esperienza che aveva fatto nel suo primo viaggio a Siracusa: il vecchio tiranno gli aveva fatto violenza e nel nuovo non aveva abbastanza fiducia. Alla fine, però, – vista l’insistenza di Dione – si decide a partire (per giunta non era un viaggio da poco andare da Atene a Siracusa), ma soprattutto torna in Sicilia – come scrive nella Settima Lettera di Siracusani – per evitare di «apparire come una di quelle persone che fanno solo dichiarazioni, solo promesse, senza mai costruire nulla di concreto». A Siracusa Platone viene accolto con tutti gli onori e, nel primo periodo del suo soggiorno, si trova veramente bene, ma purtroppo la situazione cambia perché il progetto di riforma dello Stato che lui propone viene subito visto come un pericolo da parte dei cortigiani di Dionisio il Giovane i quali temono di perdere il potere che hanno acquisito. Alcuni consiglieri del giovane tiranno tramano contro Platone e contro Dione e riescono – costruendo false prove ma ben confezionate – a farli accusare di alto tradimento. Dionisio il Giovane, non sa bene che cosa fare, e prende delle decisioni contraddittorie. Ma ascoltiamo che cosa ci racconta Plutarco in proposito: leggiamo ancora alcuni frammenti dalla Vita di Dione.

LEGERE MULTUM….

Plutarco, Vite parallele. Vita di Dione

 Scoperta la congiura – tramata dai suoi cortigiani – Dionisio il Giovane viene assalito dal dubbio e, in un primo momento, decise di espellere Platone e di mandare lo zio Dione in esilio, poi, però, impedì a Platone di partire con Dione Il giovane Dionisio temeva, infatti, che i due, una volta giunti ad Atene, avrebbero potuto parlar male di lui e screditarlo in tutta l’Ellade. Platone, di fronte a questa decisione del giovane tiranno, rispose caustico: «Mi auguro che in Accademia non ci sia una tale scarsità di argomenti da essere costretti a parlare di queste cose» … Platone fu trattenuto a Siracusa come un ospite di riguardo ma egli era a tutti gli effetti un prigioniero. Il contrasto tra zio e nipote dipendeva essenzialmente dal fatto che Dionisio era geloso dell’affetto che Platone nutriva per Dione. Platone tentò inutilmente di cambiare la forma di governo a Siracusa. Dionisio il Giovane amava la filosofia solo a chiacchiere: in realtà si comportava né più né meno come suo padre.

     Platone ha la fortuna di essere trattenuto in una città molto fiorente dal punto di vista commerciale: nel porto di Siracusa arrivano e partono giornalmente molte navi, soprattutto da e per la Grecia, e quindi Platone riesce a fuggire dalla Sicilia e a tornare ad Atene. Quando Platone si ripresenta all’Accademia trova ad aspettarlo, insieme con gli altri discepoli, il suo amico Dione: Dione era l’unico ad essere convinto che Platone sarebbe riuscito a scappare e forse (chi lo sa?) gli ha dato anche una mano.

     Nonostante si sia trovato in grande difficoltà, Platone compie ancora un terzo viaggio in Sicilia: per quale motivo decide di ripartire per Siracusa? Platone decide di ripartire per Siracusa perché Dionisio il Giovane comincia a scrivere lettere e a inviare suppliche all’indirizzo dell’Accademia perché Platone torni di nuovo a Siracusa a sperimentare il suo Stato ideale, la sua Repubblica. Per ottenere ciò a cui aspira Dionisio chiede aiuto anche ai pitagorici di Taranto dicendo loro che non aveva senso che esistesse una città come Siracusa senza la presenza tra le sue mura di un maestro come Platone. Dionisio manda anche ad Atene una nave superveloce per alleviare al vecchio filosofo le fatiche di un lungo viaggio. Ma probabilmente, alla fine, Platone decide di partire per Siracusa perché Dionisio dichiara che se Platone non fosse tornato, non avrebbe più restituito a Dione alcuno dei suoi beni.

     Platone aveva compiuto sessantasette anni e a a questa età, 2400 anni fa, si era già molto vecchi ma per l’amicizia che lo lega a Dione – che avrebbe perso tutti i suoi averi – decide di partire e, come scrive Plutarco nella Vita di Dione, «Platone si rassegnò a ripercorrere la mortal Cariddi» come dire "a ripassare per lo stretto di Messina". Qui, come lettrici e come lettori, rimaniamo tutti un po’ perplessi perché non si capisce come mai Platone, andando da Atene a Siracusa, avrebbe dovuto passare per la "mortal Cariddi", per lo stretto di Messina che è molto più a nord: Plutarco non conosce la Geografia? Plutarco conosce senz’altro molto bene la geografia del Mediterraneo, ma non dimentichiamoci che prima di essere uno storico è un poeta e questa frase – «Platone si rassegnò a ripercorrere la mortal Cariddi» –, è (soprattutto in lingua originale) una licenza poetica per ribadire che era un rischio a cui Platone si esponeva nel tornare a Siracusa. Difatti Dionisio il Giovane non mantiene le promesse che ha fatto e poi, quando viene a sapere che avrebbe dovuto lasciare il potere nelle mani dei Saggi, e che lui e tutta la sua classe dirigente si sarebbe dovuto dimettere, ricusa Platone e la sua Repubblica, e così, per la terza volta, Platone deve faticare per non rimetterci la pelle. Plutarco ne la Vita di Dione ci racconta che Platone riesce a salvarsi con l’aiuto del suo amico Archita di Taranto – il grande diffusore del pitagorismo nel bacino del Mediterraneo – che viene a prelevarlo di notte con una trireme nel porto di Siracusa facendolo scappare, ancora una volta, sano e salvo.

     A noi Platone – ed è così che ce lo siamo immaginato – è stato presentato come una persona contemplante nel mondo delle Idee mentre in realtà – come potete capire – ha avuto una vita molto avventurosa, assai movimentata. Dobbiamo ricordare – sempre secondo il racconto di Plutarco – che, qualche anno dopo, Dione con ottocento uomini armati occupa Siracusa e tenta di detronizzare Dionisio il Giovane ma viene ucciso a tradimento da Callippo, uno dei più fedeli discepoli di Platone: mai fidarsi, quindi, dei discepoli e delle discepole troppo fedeli.

     Diogene Laerzio scrive che Platone – secondo Ermippo di Smirne – morì a ottantuno anni durante un banchetto di nozze e fu sepolto nel boschetto dell’eroe Academo.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Platone ha compiuto tre viaggi avventurosi in Sicilia: tu hai fatto un viaggio in Sicilia, hai visitato Siracusa?

Scrivi quattro righe in proposito…

     Nell’itinerario precedente alla vacanza pasquale abbiamo incontrato Cosimo Piovasco di Rondò, il protagonista del romanzo allegorico intitolato Il barone rampante scritto da Italo Calvino nel 1957. Cosimo (come ricorderete) il 15 giugno 1767 sale su di un albero, si arrampica tra i rami, passa da una pianta all’altra e decide di non scendere più. Cosimo trascorre l’intera vita sugli alberi e la sua non sarà una vita da eremita, sarà tutt’altro che monotona e soprattutto – e questo è parte fondamentale del significato allegorico che ha questo testo del quale due settimane fa abbiamo letto alcune pagine proprio a questo proposito – questa esperienza, portata alle estreme conseguenze, si presenta come una "scuola di vita", una scuola all’aria aperta che ricorda lo stile della prima Accademia. Nella scuola descritta ne Il barone rampante possiamo riconoscere facilmente una chiave socratica, platonica e aristotelica. Leggiamo – a questo proposito – alcune pagine da Il barone rampante.

LEGERE MULTUM….

 Italo Calvino, Il barone rampante (1957)

 A frequentare il brigante, dunque, Cosimo aveva preso una smisurata passione per la lettura e per lo studio, che gli restò poi per la vita. L’atteggiamento abituale in cui lo s’incontrava adesso, era con un libro aperto in mano, seduto a cavalcioni d’un ramo comodo, oppure appoggiato a una forcella come a un banco da scuola, un foglio posato su una tavoletta, il calamaio in un buco dell’albero, scrivendo con una lunga penna d’oca.

Adesso era lui che andava a cercare l’Abate Fauchelafleur perché gli facesse lezione, perché gli spiegasse Tacito e Ovidio e i corpi celesti e le leggi della chimica, ma il vecchio prete fuor che un po’ di grammatica e un po’ di teologia annegava in un mare di dubbi e di lacune, e alle domande dell’allievo allargava le braccia e alzava gli occhi al cielo.

- Monsieur l’Abbé, quante mogli si può avere in Persia? Monsieur l’Abbé, chi è il Vicario Savoiardo? Monsieur l’Abbé, mi può spiegare il sistema di Linneo?

- Alors … Voyons … Maintenant … - cominciava l’Abate, poi si smarriva, e non andava più avanti.

... continua la lettura ...

     Platone, dopo il processo e la condanna di Socrate, si rende conto che l’insegnamento socratico sul valore della virtù, sul tema della giustizia ha una valenza politica: il giovane Platone comprende che l’insegnamento di Socrate riguarda, prima di tutto, il destino della città. Il giovane Platone, con la morte di Socrate, ha capito che una persona, se ama la giustizia, non può non entrare in conflitto con la sua città se le leggi della città non sono secondo giustizia.

     Per Socrate non esiste una giustizia privata e una giustizia pubblica perché la "giustizia" è una sola ed è presente nel Logos interiore, la sua fonte sta nell’interiorità della persona (non negli esteriori interessi particolari) e la persona si avvicina alla giustizia solo se si mette in ricerca: alla ricerca di valori universali e il primo valore che rende la giustizia unica è che la legge è uguale per tutti e questo valore Socrate lo ha fatto risaltare con la sua morte.

     Da questa idea – che la giustizia stia nell’interiorità della persona –, dall’idea che con la riflessione interiore si sappia che cos’è il bene e che cos’è il male comincia la storia del pensiero di Platone e della sua passione politica. Il giovane Platone reagisce allo scandalo morale di uno Stato ingiusto, che difende gli interessi particolari della classe dirigente con leggi apposite, e lo fa costruendo un modello di Stato secondo i canoni dettati dalla Ragione, dal Logos interiore. Socrate ha insegnato a tutta una generazione che la persona, in quanto dotata di ragione, è capace di giungere a delle conclusioni universali e valide per tutti (quelli che chiamiamo: i concetti). La grande scoperta di Socrate sul piano della conoscenza – che Platone fa sua – è quella della centralità della Ragione rispetto ai sensi: è la Ragione, il Logos che libera la persona dalle sue particolarità sensibili e la affratella alle altre persone rendendola, per così dire, universale, è la Ragione che rende la persona partecipe dell’Umanità e la fa diventare un Essere umano. La Ragione, il Logos è come una scintilla di universalità che c’è in ciascuna persona e a questa scintilla (a questa "luce dell’anima") la persona deve attingere se vuole liberarsi dalla zavorra dei sensi per giungere alla conoscenza di Valori che siano validi per tutti, condivisi da tutti.

     Platone (e tutta una generazione di pensatrici e di pensatori) impara da Socrate che lo strumento di questa comune ricerca dei Valori condivisibili è il dialogo (non è casuale il fatto che Platone abbia scritto 36 Opere in forma di dialogo, comprese le Lettere), è l’alternarsi delle domande e delle risposte, in cui la persona sgombera a se stessa e agli altri la via del ragionamento che spesso è appesantita dai sensi e dall’interesse per i propri affari. Il dialogo – ha insegnato Socrate – è un metodo (e ne abbiamo già parlato) che contiene una parte negativa ed una positiva.

     La parte negativa è detta "ironia" e intende stimolare l’interlocutrice e l’interlocutore, attraverso una serie di osservazioni critiche in forma di domande affinché la persona si liberi dalle presunte certezze che il sistema di potere inculca attraverso la propaganda, attraverso il condizionamento ideologico finalizzato a creare un assenso acritico.

     La parte positiva del dialogo si chiama – come sappiamo – "maieutica" (l’arte del tirare fuori) e deve portare la persona a "partorire" da se stessa i Valori universali. Il metodo di Socrate vuole stimolare la persona a «conoscere se stessa» e a ricavare da quest’opera di auto-introspezione la consapevolezza che la persona, in quanto dotata di Ragione, di Logos, è capace di giungere a delle conclusioni universali, valide per tutti e condivisibili da tutti.

     È partendo da questi insegnamenti che il giovane Platone vuole costruire un modello di Stato secondo i canoni dettati dalla Ragione, dal Logos interiore (dal "demone", direbbe Socrate). E quella di Platone – come abbiamo visto – non è una sfida astratta: lui cerca di costruire concretamente la città buona, la città bella (Kallipolis), la città ideale radicata nel mondo materiale. Lo spazio di Socrate era quello di Atene, Platone va al di là dell’orizzonte politico della sua città per spaziare nel mondo intero, nell’Ecumene (in tutto il mondo abitato.

     Platone si distingue dagli altri discepoli di Socrate perché, mentre loro si rifugiano nel privato, lui ragiona sul piano dell’universalità e, quindi, invece di chiudersi in una ristretta cerchia di persone, come fa Euclide o come fa Antistene, lui – come abbiamo già detto prima – comincia a viaggiare. Platone frequenta la città di Eliopolis (la città del Sole) in Egitto, dove prende contatto con le grandi tradizioni sacerdotali di questo straordinario paese. Platone soggiorna a Cirene, sulla costa nord-africana, dove frequenta le lezioni del grande matematico Teodoro, e poi si trasferisce a Taranto, dove diventa amico di Archita, il pitagorico che, in quanto filosofo, consiglia e indirizza i governanti della città e da questa esperienza Platone prende spunto per scrivere il suo progetto di Stato ideale. Sappiamo poi (come abbiamo già studiato) che Platone fa scalo a Siracusa e che questa città condiziona, più di tutte le altre, il suo destino fatto di illusioni e di delusioni.

     Abbiamo constatato che è proprio in risposta ad una delusione – alla violenza che subisce da parte di Dionisio il Vecchio – che, nel 387 a.C., Platone decide di fondare un Istituto di filosofia, l’Accademia, investendovi tutti i suoi averi e quelli di qualche benefattore, con un piano preciso: essendo una cosa difficile – pensa Platone – quella di riuscire a trasformare un re in un filosofo, è utile che ci sia una Scuola che prepari dei filosofi a diventare governanti. La fondazione dell’Accademia – abbiamo detto – è stato giustamente considerato come l’evento più significativo nella storia della cultura occidentale e si può vedere in essa (gli Umanisti hanno visto questo) il primo modello di quella che sarà poi l’Università medioevale e moderna.

     Non abbiamo ancora detto che in concorrenza con l’Accademia di Platone c’è in Atene l’altrettanto famosa Scuola di Isocrate. Isocrate è il massimo esperto di quella disciplina che si chiama "eloquenza": l’arte del parlare bene, del dare comprensibilità ai concetti e ai pensieri. Isocrate è nato ad Atene nel 436 a.C. in una ricca famiglia dove ha avuto un’accurata educazione. Isocrate è stato allievo di Gorgia (il grande sofista che abbiamo incontrato più volte) dal quale ha imparato ad esprimersi con uno stile impeccabile, ma è stato anche discepolo di Socrate dal quale ha imparato ad essere coerente con i principi morali. Isocrate – dicono le cronache – aveva una voce esile e trovava difficoltà (in un periodo in cui non c’erano i microfoni) a parlare in pubblico. Isocrate apre in Atene una famosa Scuola di retorica nella quale si sono formati i più celebri oratori di ogni tempo (Iseo, Licurgo, Eschine, Iperide). Isocrate entra in contatto con le persone più riguardevoli dell’Ellade e con i suoi discorsi vuole parlare, non soltanto ai suoi discepoli, ma a tutta la Grecia. Isocrate è quasi centenario quando, nel 338 a.C., si lascia morire di fame per non sopravvivere alla sconfitta di Cheronea con cui la Grecia perde la sua indipendenza sopraffatta dalla potenza macedone.

     Di Isocrate ci rimangono 21 Orazioni e 9 Lettere. La Scuola di Isocrate è un istituto di formazione che si muove sulla linea della sofistica e che mira a fornire capacità retoriche volte alla persuasione di chi ascolta. Quella di Isocrate è, si direbbe oggi, una scuola di pubblicisti.

     L’Accademia di Platone ha invece un impianto seriamente scientifico e ha come modello quello della comunità pitagorica basato su un severo regolamento. Platone non segue lo stile socratico del maestro ambulante ma prende da Socrate, rispetto a Pitagora, il rifiuto dell’autorità carismatica del maestro: il maestro non deve pronunciare l’ipse dixit (così ho detto e così si deve fare) ma deve sottostare alla logica del dialogo, che esalta i momenti del libero confronto delle idee dato che – scrive Platone nella Settima Lettera ai Siracusani"è dalla lunga convivenza e dalla comune trattazione del problema che, improvvisamente nasce, come per scintilla, una luce nell’anima e da allora in poi si nutre di se stessa". Abbiamo già riflettuto su che cosa intenda Platone con questa espressione: "una luce nell’anima": questa dicitura è legata al tema della Virtù.

      Sul tema della Virtù abbiamo già riflettuto più volte in questo Percorso: è un argomento importante perché corrisponde, in Platone, al punto di passaggio tra il pensiero mutuato da Socrate e il suo pensiero autonomo. Nei cosiddetti "dialoghi giovanili" (scritti tra il 396 e il 388 a.C.) detti anche "dialoghi socratici"Apologia di Socrate, Critone, Carmide, Lachete, Liside, Protagora, Gorgia, Eutifrone, Ippia minore, Ione, Eutidemo e Menone – Platone descrive il pensiero di Socrate secondo due linee fondamentali: quella della ricerca della Virtù e quella della identità tra la Virtù e il Sapere. Platone mette in evidenza che, per Socrate, le virtù non sono "uno sciame", ma la Virtù è una sola e questa si risolve nella conoscenza: non nella conoscenza del bene attraverso precetti da mettere in pratica per obbligo o per ipocrisia, ma nella conoscenza intesa come la capacità di distinguere volta per volta quello che è giusto e quello che è ingiusto, e non in base a criteri appresi dall’esterno (spesso dall’esterno arrivano condizionamenti negativi), ma in virtù di ciò che ogni persona ha in se stessa come suo principio costitutivo. E noi sappiamo che il principio costitutivo che la persona ha in se stessa – secondo Socrate – è il Logos, è la Ragione. Da questa nozione socratica Platone parte per costruire il suo itinerario di pensiero e il primo gradino di questo percorso intellettuale corrisponde alla cosiddetta "dottrina della reminiscenza".

     Che cos’è la "dottrina della reminiscenza"? La reminiscenza (o il ricordo) – in greco "anàmnesis" – è l’identità tra il conoscere e il ricordare (è attraverso il meccanismo del ricordo che noi conosciamo).

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Ricordare significa: ripensare, rimpiangere, citare a memoria, esortare… A chi e a che cosa ripensi spesso ?… C’è qualcosa che rimpiangi del passato?… Che cosa ti è capitato di citare a memoria ultimamente?… Chi è l’ultima persona che hai esortato e perché?…

Scrivi quattro righe in proposito…

     A questo proposito, sulla dottrina della reminiscenza c’è un passo esemplare dal dialogo intitolato Menone che ci aiuta a conoscere e a capire. Il dialogo intitolato Menone è tra i primi scritti da Platone. Menone – il personaggio che dà il titolo a questo testo – è un discepolo di Gorgia (della Scuola dei Sofisti) e si intrattiene con Socrate sul tema della Virtù, facendo sfoggio di una grande abilità descrittiva, ma Socrate finisce col metterlo in imbarazzo costringendolo, col suo metodo ironico, a riconoscere di essere incapace di dire che cosa sia propriamente la Virtù. E anche Socrate si dichiara ignorante su questo argomento perché il suo compito è solo quello di far nascere nel suo interlocutore il dubbio per richiamarlo al dovere della ricerca. Socrate non sa che cosa sia la Virtù, ma ora, insieme a Menone, vuole riuscire a stabilirlo ma – di fronte a questa intenzione di Socrate – Menone mette sul tavolo una obiezione che permette a Platone di sviluppare il suo pensiero: «Come è possibile – dice Menone a Socrate – indagare quel che si ignora? Come non si può cercare quel che già si sa, così non si può cercare quello che non si sa, dato che, anche se si trovasse l’oggetto che cerchiamo, non sarebbe possibile riconoscerlo». L’obiezione di Menone è arguta (da vero sofista) ma la risposta di Socrate (attraverso la penna di Platone) è sconcertante e questa risposta determina il distacco definitivo di Platone dalla sofistica e anche dal pensiero di Socrate.

     Leggiamo direttamente dal testo del Menone il brano in cui Platone afferma che l’anima immortale ha già appreso tutto prima di incarnarsi.

LEGERE MULTUM….

Platone, Menone

 Ho udito persone sapienti nelle cose divine Sacerdoti e sacerdotesse a cui sta a cuore il render ragione delle cose di cui si occupano. E lo dice anche Pindaro e molti altri poeti, quanti sono divini. Essi affermano che l’anima umana è immortale e che a volte finisce – e questo lo chiamano morire –, a volte rinasce, ma non si estingue mai; e che perciò conviene vivere il più santamente possibile Per esser dunque l’anima immortale e molte volte nata e per aver visto ogni cosa e qui e nell’Ade, non c’è nulla che non abbia appreso; sicché non è punto meraviglia che possa ricordare, così intorno alla virtù come intorno ad altre cose, ciò che prima sapeva. Essendo infatti tutta la natura congenita e avendo l’anima appreso tutto, nulla impedisce che chi si ricordi di una sola cosa – che è poi quel che si dice imparare – trovi da sé tutto il resto, ov’abbia coraggio e non si stanchi nella ricerca, perché il ricercare e l’apprendere non è che ricordanza non è che reminiscenza (anàmnesis). Non si deve perciò dar retta a codesto discorso da sofisti, che può renderci pigri e riesce gradito ai fiacchi, mentre quell’altro ci rende alacri e atti alla ricerca.

     Intanto dobbiamo constatare che quando Platone deve far dire a Socrate cose che Socrate non ha mai detto, ha premura di chiamare in causa delle voci autorevoli del mondo della cultura alle quali fa dire quello che avrebbe dovuto affermare Socrate: Platone, quasi sempre, si rifà – come in questo caso – alle tradizioni della sapienza poetica orfica, citando Pindaro e tutti gli illustri poeti.

     Per Platone, nel brano del Menone che abbiamo letto (di questo dialogo la Scuola consiglia ancora una volta la lettura), l’anima immortale – secondo la tradizione orfico-dionisiaca –, prima di unirsi al corpo, risiedeva in un mondo ideale dove ha potuto contemplare a suo agio i concetti e le Virtù. Nell’incarnarsi nel corpo l’anima ha dimenticato questo fatto ma quando contempla gli oggetti di questo mondo sensibile, essa ricorda la sua esperienza nel mondo ideale: scatta il meccanismo della reminiscenza. La reminiscenza (anàmnesis) è un procedimento attivo – che ricorda la maieutica socratica – con cui la mente rientra in se stessa e, con una serie di procedimenti logici, ricostruisce la relazione che c’è tra le cose e le idee.

     Questa capacità della mente è dimostrata nel Menone con un episodio pittoresco (sfogliate il testo di questo dialogo e andate a leggere questo episodio): insieme a Menone c’è uno schiavo che lo sta accompagnando e Socrate comincia ad interrogare questo ragazzo con una serie di domande incalzanti e, pur essendo del tutto digiuno di geometria, questo giovane riesce da sé a dimostrare il teorema di Pitagora. Socrate appare davvero come la levatrice che fa partorire la verità, il fatto è che qui Socrate è già "platonico", perché la ricerca non è, com’era per Socrate, fine a se stessa, ma è finalizzata a creare, per mezzo dell’azione politica, un ordine diverso tanto nell’interiorità delle persone quanto nella città dove le persone vivono.

     Intorno alla "dottrina della reminiscenza" Platone, segmento dopo segmento (dialogo dopo dialogo), costruisce il suo sistema. Platone ha imparato da Socrate che esistono i "concetti", intesi come conoscenze di valore universale, valevoli per tutti: i "concetti", secondo Socrate, sono nozioni, immagini, astrazioni, giudizi, visioni, significati che, attraverso il dialogo, vanno identificati e condivisi. Ma Platone va oltre il pensiero di Socrate e riflette sul fatto che i "concetti" che noi possediamo – appunto perché universali – non possono in alcun modo essere ricavati dalla realtà che ci circonda perché la realtà che ci circonda è sempre particolare e sensibile: infatti i concetti della morale (la bontà) e quelli dell’estetica (la bellezza) presuppongono che noi abbiamo già un "ideale" di Bene e di Bello con il quale confrontiamo la realtà esterna per giudicare se un dato oggetto sia buono e sia bello. Ma siccome un oggetto – pensa Platone – appare sempre inferiore all’ideale con cui noi lo commisuriamo, abbiamo la conferma che questo "ideale" non può derivare dalla realtà esterna perché altrimenti non le risulterebbe superiore, ma al massimo pari se non inferiore.

     Lo stesso – pensa Platone – avviene per i concetti della matematica (per le figure geometriche a cui, secondo il pensiero pitagorico, corrispondono i numeri): i triangoli, i quadrati, i rettangoli, i cerchi che noi osserviamo nella Natura – per esempio: il tronco circolare di un albero – sono sempre inferiori come perfezione a quei triangoli, a quei quadrati, a quelle circonferenze ideali che noi concepiamo nella nostra mente. Ne consegue quindi – pensa Platone – che i concetti di triangolo, di quadrato, di cerchio (cioè i concetti matematici) non derivano dalla realtà esterna perché altrimenti non risulterebbero superiori in perfezione ai triangoli, ai quadrati, ai cerchi reali, ma apparirebbero pari se non inferiori.

     Da questa riflessione sulla natura dei "concetti" nascono nella mente di Platone una serie di interrogativi. Siccome i "concetti", che sono universali, non possono derivare dalla realtà sensibile che è sempre particolare, è ipotizzabile che esista un’altra Realtà universale come lo sono i "concetti" e dalla quale noi possiamo attingere i concetti stessi? E ammesso che questa Realtà universale esista, come possiamo noi conoscerla e ricavarne i concetti? Se i "concetti" non derivano dalla realtà sensibile deve esistere – conclude Platone – un’altra Realtà fatta di Enti universali, eterni, immutabili, da cui noi ricaviamo i "concetti". Questi Enti o Essenze immutabili – pensa Platone – devono anche essere "spirituali": infatti se fossero materiali sarebbero sensibili e quindi particolari, come sono tutti gli oggetti che ci circondano in questo mondo.

     Con questo ragionamento Platone ha trovato un modello per definire i "concetti" della nostra mente e a queste Essenze spirituali, eterne, universali e quindi assolute, Platone dà il nome di "idee". La sede delle "idee" – di conseguenza – non può trovarsi in questo mondo materiale, ma in un mondo trascendente, che sta al di sopra del firmamento e che Platone chiama perciò Iperuranio. Nell’Iperuranio le "idee", che sono molteplici, sono legate tra loro da una rete che è a forma di tetraedro (di piramide) con l’idea del Bene che sta al vertice: questo significa che le varie idee non sono indipendenti l’una dall’altra, ma sono collegate fra loro da rapporti "logici" e da rapporti "morali".

     Sono collegate da rapporti "logici" perché tutte le idee, proprio in quanto "esistono", sono attuazioni dell’idea dell’Essere e quindi, essendo tutte frutto di quest’idea, sono in "comunione", in parentela reciproca e partecipano all’Unità dell’Essenza e, di conseguenza, la realtà vera è il Mondo delle Idee.

     Sono poi collegate da rapporti "morali" in quanto il Mondo delle Idee è dominato dall’Idea del Bene (Àgaton) e questo significa che tutte le idee sono disposte secondo una scala di Valori e sono ordinate proprio come è "bene che siano ordinate", affinché ciascuna possa contribuire, facendo la sua parte, a realizzare quel complesso armonico che è il Mondo delle Idee, che è l’Iperuranio.

     Questo significa che ogni "idea" partecipa in certa misura dell’Idea del Bene, e questo vale a stabilire una comunione e un rapporto intimo fra le varie idee e con un’immagine poetica Platone nel dialogo intitolato Repubblica afferma che: "come il sole dà vita e illumina le cose, così l’Idea del Bene dà vita e rende intelligibili (cioè illumina) tutte le altre idee". Questa affermazione non contiene solo una bella espressione poetica ma custodisce un’affermazione fondamentale nella Storia del Pensiero Umano sia per quanto riguarda la logica sia per quanto riguarda la morale: se l’Idea del Bene illumina tutte le altre idee questo significa che quando un ragionamento non è illuminato – e si parlerà, nei secoli a venire, in molte occasioni di "pensiero illuminato" – dal riflesso dell’Idea del Bene non può essere considerato un’idea, perché "l’idea" è una forma buona e bella, e allora quando un pensiero non è illuminato dal riflesso dell’Idea del Bene – afferma Platone – diventa un prodotto che assume i contorni di una furberia (di una furbata) il risultato dell’astuzia della ragione e non il frutto della ragione pura. Quindi: non tutte le pensate sono "idee" ma solo quelle illuminate dall’Idea del Bene.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Siamo in grado di stare attente e di stare attenti a distinguere tra i prodotti dell’astuzia della ragione (le furberie) e quelli della ragione pura (le idee)?… Non è facile rispondere a questa domanda e più che una domanda è un ammonimento: è il primo ammonimento che viene dall’Accademia di Platone…

     L’obiettivo educativo che ha l’Accademia di Platone è quello di insegnare, attraverso le discipline, a distinguere le furberie dalle Idee e questa conoscenza è fondamentale per "cambiare il mondo". Certamente, noi non viviamo nell’Iperuranio, noi non viviamo nel Mondo delle Idee che è spirituale ed eterno ed è illuminato direttamente dall’Idea del Bene: noi viviamo nel mondo della Natura e della Città che è materiale, caduco, precario e sensibile e percepisce solo il riflesso dell’Idea del Bene. Quali rapporti – si chiede Platone – intercorrono dunque fra questi due mondi così diversi? Che rapporti esistono fra le idee delle cose che sono eterne e immutabili e risiedono nell’Iperuranio, e i vari oggetti materiali, che vivono la loro vita provvisoria su questa terra? A queste domande – ammette Platone – non è facile rispondere e difatti il pensiero di Platone al riguardo non è molto preciso, e di volta in volta – di dialogo in dialogo – egli adotta soluzioni diverse. Quali soluzioni? Ora non abbiamo più tempo per riflettere su un tema così ampio e così complesso.

     Molto più preciso è invece il pensiero di Platone per quanto riguarda la politica, per quanto riguarda la dottrina dello Stato ideale che lui teorizza nel famoso dialogo intitolato Repubblica: che cos’è la Repubblica di Platone? La Repubblica di Platone è un’opera che contiene argomenti assai complessi e sempre di grande attualità, il fatto è che, chi legge, senza conoscere nulla di Platone, i primi cinque libri del dialogo intitolato Repubblica prova un certo sconcerto, un certo turbamento: perché? Perché per Platone la libertà è ordine, è regola, è disciplina.

     E allora, per concludere, – a questo proposito – approfittiamo del contributo del poeta Carlo Alberto Salustri (1871-1950), detto Trilussa che abbiamo incontrato spesse volte nel Percorso dell’anno 2007-2008 nel territorio della sapienza poetica beritica. Scrive Trilussa:

LEGERE MULTUM….

Trilussa, La libbertà de pensiero

Un Gatto bianco, ch’era presidente der circolo der Libbero Pensiero,

sentì che un Gatto nero, libbero pensatore come lui, je faceva la critica

riguardo a la politica ch’era contraria a li principi sui.

- Giacché nun badi a li fattacci tui, - je disse er Gatto bianco inviperito -

rassegnerai le proprie dimissione e uscirai da le file der partito:

che qui la poi pensà libberamente come te pare a te, ma a condizzione

che t’associ a l’idee der presidente e a le proposte de la commissione!

- È vero, ho torto, ho aggito malamente - rispose er Gatto nero.

E pe’ restà ner Libbero Pensiero da quela vorta nun pensò più gnente.

     Platone invece c’invita a riflettere sul fatto che non si può giocherellare con la "libertà": una parola, un concetto che, ultimamente, ha subìto una certa evoluzione. Che cosa ha da dire in proposito Platone su questo tema? Ha da dire, prima di tutto, che la persona può parlare di libertà solo quando nutre un pieno rispetto per le regole condivise.

     Voi intanto rispettate la regola della frequenza: la Scuola è qui per dare spazio all’Iperuranio e alla Repubblica di Platone…

 

Lezione del: 
Venerdì, Aprile 17, 2009