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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, DI PLATONE E DI ARISTOTELE C’È IL TESTO DEL DIALOGO INTITOLATO "REPUBBLICA" ...

Lezione N.: 
26

Prof. Giuseppe Nibbi    Lo sapienza di Socrate Platone Aristotele    22-23-24 aprile 2009

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, DI PLATONE E DI ARISTOTELE

C’È IL TESTO DEL DIALOGO INTITOLATO "REPUBBLICA" ...

     Prima di prendere il passo volevo comunicarvi che la prossima settimana il nostro viaggio farà una sosta: questa pausa fa sì che il gruppo della Scuola "Don Milani" rimanga appaiato – visto che venerdì è il 1° maggio – con gli altri due gruppi in modo da procedere con ordine fino alla fine di maggio.

     Sappiamo che al centro dell’affresco intitolato La Scuola di Atene si trova il personaggio di Platone e durante l’itinerario scorso abbiamo imparato che Platone pone la sede delle "idee" – dei "concetti" che Socrate aveva già definito come conoscenze di valore universale, valevoli per tutti – non in questo mondo materiale, ma in un mondo trascendente, che sta al di sopra del firmamento e che Platone chiama Iperuranio. Nell’Iperuranio le "idee", che sono molteplici, sono legate tra loro da una rete che è a forma di piramide con l’idea del Bene che sta al vertice: questo significa che le varie idee non sono indipendenti l’una dall’altra, ma sono collegate fra loro da rapporti "logici" e da rapporti "morali".

     L’Iperuranio, il Mondo delle Idee, è spirituale, è eterno, è illuminato direttamente dall’Idea del Bene ed è separato dal mondo della Natura e della Città che è materiale, caduco, precario e sensibile e percepisce solo il riflesso dell’Idea del Bene.

     Quali rapporti – si chiede Platone – intercorrono fra questi due mondi così diversi? Che rapporti esistono fra le Idee delle cose che sono eterne e immutabili e risiedono nell’Iperuranio, e i vari oggetti materiali, e le persone che vivono la loro vita provvisoria su questa terra? Il pensiero di Platone al riguardo (abbiamo già detto la scorsa settimana) non è molto preciso, e di volta in volta – di dialogo in dialogo – egli adotta soluzioni diverse e, quindi, l’esposizione del pensiero di Platone è sempre risultata difficile.

     Quali soluzioni adotta Platone per descrivere la relazione tra due mondi così diversi come quello delle cose materiali e quello delle Idee? A volte nella sua opera Platone afferma che le idee sono "presenti" nelle cose oppure afferma che le idee sono "comuni" alle cose (l’idea di un oggetto è comune ai singoli oggetti) e Platone nomina una teoria della "presenza" delle Idee e una teoria della "comunanza" delle Idee, senza però dare alcuna spiegazione su queste due varianti. Altre volte invece egli parla di "partecipazione", per cui le cose sarebbero partecipi delle Idee e, in questo caso, l’idea non sarebbe proprio effettivamente dentro all’oggetto.

     Queste teorie (presenza, comunanza, partecipazione) mettono in evidenza delle contraddizioni – e Platone stesso se ne rende conto –, perché se l’idea è una, diventa difficile che possa frantumarsi negli oggetti e negli individui che sono molti: per ovviare a tale inconveniente Platone introduce la "teoria dell’imitazione", affermando che le idee sono i modelli (sono gli stampi) e le cose e le persone di questo mondo sono le copie foggiate a imitazione di tali modelli. In questo modo le copie possono essere molteplici anche se il modello è uno.

     Ma questa "teoria dell’imitazione" – e Platone se ne rende conto – fa sorgere un altro problema: chi è che dà forma alle cose a imitazione delle Idee? A questo punto – e noi siamo già informate, siamo già informati a questo proposito – Platone fa appello al mito e introduce un Essere Superiore, chiamato Artefice o Demiurgo (il vasaio), il quale servendosi di una materia informe già esistente in precedenza (in tutti i miti di creazione la materia esiste da sempre) plasma le cose a imitazione delle Idee. L’Artefice, il Demiurgo divide questa materia informe in parti piccolissime (come nell’Atomismo di Leucippo e di Democrito), foggiate però a forma di cubi, di tetraedri, di ottaedri e di icosaedri (come le omeomerie di Anassagora) – corrispondenti rispettivamente ai quattro elementi: terra, fuoco, aria e acqua (come nel pensiero di Empedocle) –, poi il Demiurgo riunisce queste parti a imitazione delle Idee ricavandone gli oggetti materiali, infine avvolge il tutto di etere purissimo, formato di particelle a forma di dodecaedri (come nella visione di Pitagora): Platone – nel raccontare il mito del Demiurgo – mette insieme tutti gli ingredienti utili tratti dalla Storia del Pensiero precedente.

     Il Demiurgo – secondo Platone – crea il mondo materiale ma ha anche un’altra funzione: il Demiurgo deve anche infondere nel corpo del mondo così costituito un’anima, la così detta "Anima del mondo", la quale ha il compito di imprimere al tutto un movimento circolare e di regolare poi questo movimento. Naturalmente l’Anima del mondo, oltre che essere una Forza dinamica, è anche Intelligenza e quindi è perfettamente cosciente del moto che essa imprime: tutto si muove per opera di un investimento in intelligenza.

     L’ultimo compito del Demiurgo è infine quello di creare le anime destinate a unirsi ai vari corpi, però le anime, prima di unirsi ai corpi, devono risiedere per un certo periodo di tempo nell’Iperuranio a contatto con le Idee.

     Platone – e lo dichiara apertamente – introduce nel suo sistema questi due elementi, il Demiurgo e la materia informe, come un espediente mitico: questi due elementi sono un mezzo necessario per spiegare il formarsi del mondo sensibile (altrimenti non se lo saprebbe spiegare), e quindi, per Platone, sopra a tutto rimane l’Idea del Bene che è il reale Valore assoluto.

     Che ci sia l’Idea del Bene a condizionare il nostro pensiero è la Verità: una Verità comprensibile con la Ragione (il Logos). E allora: se l’Idea del Bene è dominante: come mai c’è il male? Come spiega Platone la presenza del male? La materia informe – afferma Platone –, destinata a formare il mondo sensibile, è originaria ed è eterna come il Mondo delle Idee, ed è anche qualche cosa di ribelle e di resistente all’opera del Demiurgo, qualcosa che tende a sfuggire alla forma. Questa materia (ciò che Parmenide chiama il Non-Essere, dichiarandone la non esistenza), con Platone prende il nome di Necessità (nel dialogo intitolato Sofista si compie il "parricidio di Parmenide" di cui abbiamo parlato subito dopo la vacanza natalizia) ed è concepita come una massa informe che si muove caoticamente in uno spazio indeterminato: ebbene, dalla resistenza che questa materia informe oppone all’azione plasmatrice del Demiurgo ha origine il male.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Ognuno di noi è Demiurgo, siamo tutte plasmatrici e tutti plasmatori di materia: a quale materiale hai dato forma ultimamente ? Con quale idea ?

Scrivi quattro righe in proposito

     Plasmare la materia con l’idea di trasformarla implica il processo della conoscenza e per Platone il problema della conoscenza è duplice perché riguarda tanto il mondo delle cose sensibili quanto il Mondo delle Idee.

     Alla fine del Libro sesto del dialogo intitolato Repubblica Platone sintetizza le sue convinzioni sul tema della conoscenza: lasciamo che sia lui ad illustrarcele leggendo direttamente dal testo. È Socrate che parla (Platone è preoccupato che l’interlocutore non perda l’attenzione all’ascolto del macchinoso ragionamento che imbastisce).

LEGERE MULTUM….

Platone, Repubblica Libro sesto

 Io allora continuai in questi termini: «La conoscenza che ha per oggetto il mondo sensibile è detta "opinione (dòxa)" e si divide a sua volta in due gradi che sono la "congettura (ìkasìa)" e la "credenza (pìstis)". La "congettura" non è altro che la sensazione ed è comune alle persone e agli animali, infatti tanto le persone quanto gli animali vedono, toccano e annusano un oggetto o sentono un suono. In altre parole si può dire che la congettura abbia per oggetto le qualità sensibili delle cose – i colori, gli odori, i sapori, i suoni – queste io le chiamo "immagini" o "ombre" delle cose sensibili, però da queste ombre o qualità sensibili la congettura non riesce mai a risalire alla esistenza delle cose cui appartengono tali qualità perché, anche se tu vedi il colore di un fiore, con la congettura non giungerai mai a conoscere "l’esistenza" di quel fiore. La "credenza" invece ha per oggetto non più le qualità sensibili delle cose, ma le cose stesse considerate esistenti e quindi, mediante la credenza, io so che il fiore esiste, e che quel colore o quel profumo che avevo percepito con la congettura appartiene all’oggetto "fiore". La credenza è propria delle persone ma, in quanto riguarda le cose precarie e mutevoli di questo mondo sensibile, è anch’essa precaria e mutevole, per questo motivo l’opinione di una persona può anche non collimare, ed anzi essere del tutto opposta all’opinione di un’altra persona».

A questo punto chiesi al mio interlocutore se mi seguiva e quando mi confermò la sua attenzione io continuai in questi termini: «La conoscenza che ha per oggetto il mondo delle Idee si divide anch’essa in due gradi che sono la conoscenza matematica (diànoia) e la conoscenza filosofica (nóesis). La conoscenza matematica, pur partendo da ipotesi e pur servendosi di immagini tratte dal mondo sensibile, giunge, attraverso una serie di passaggi logici, a delle verità universali ed eterne, che sono appunto quelle della matematica perché – come tu sai – in un qualsiasi teorema geometrico si parte infatti dall’ipotesi per giungere, attraverso passaggi successivi, alla tesi, e questo passare della mente dall’una all’altra idea per cogliere le connessioni logiche, io lo chiamo "dialettica". La conoscenza matematica è già superiore agli altri tipi di conoscenza fin qui esaminati perché conduce a delle verità universali ed eterne però non è perfetta in quanto non può fare a meno del tutto di rappresentazioni sensibili come i segmenti, i triangoli, i cubi e via dicendo. La conoscenza filosofica è, infine, la visione immediata e diretta delle Idee, quasi una intuizione mistica, per cui l’anima contempla le Idee senza essere più turbata da alcuna rappresentazione sensibile. Sappi che finché l’anima è unita al corpo e risiede su questa terra, non può mai giungere alla visione diretta delle Idee, per questo l’amante della sapienza rimane in attesa della morte e quasi la desidera perché solo quando avrà lasciato questo mondo materiale egli potrà accedere alla contemplazione delle Idee che, per ogni persona saggia, rappresenta il grado sommo di beatitudine e il fine ultimo al quale si deve tendere».

     Purtroppo però – afferma Platone – questi quattro gradi della conoscenza (la congettura, la credenza, la matematica e la filosofia) non sono alla portata di tutte le persone: la maggior parte delle persone non è consapevole del proprio diritto all’apprendimento e vive nell’ignoranza e non ha le competenze necessarie per accedere al sapere, per avvicinarsi alla "filosofia", cioè alla capacità che la persona deve acquisire di individuare le idee che sono dentro alle cose, la capacità di intuire l’essenza delle cose e, se le cose non sono "essenziali", sono il non-Essere, diventano un peso, motivo di allontanamento dal Bene.

     Platone pensa che sia lo Stato a dover creare un sistema educativo efficace attraverso il quale tutte le persone possano acquisire le competenze necessarie (i quattro gradini) per accedere alla conoscenza, e questa affermazione di Platone continua ad essere di grande attualità. La quasi totalità delle cittadine e dei cittadini della polis – scrive Platone nella Repubblica – sono ignoranti e si comportano come una persona che è prigioniera in una caverna e che è costretta a stare con le spalle verso l’imboccatura della caverna e con gli occhi sempre rivolti verso la parete di fondo di questo antro (in greco "caverna" di dice "àntron") sulla quale si proiettano le ombre delle persone o degli oggetti che passano davanti all’imboccatura della caverna. Siccome la persona prigioniera non ha mai visto il mondo che sta fuori della caverna crede che quelle ombre rappresentino l’unica e vera realtà. Il "mito della Caverna" è un famosissimo racconto con cui Platone, nel Libro settimo del dialogo Repubblica, introduce il fondamentale tema delle Idee che noi abbiamo già sviluppato da tempo perché era necessario conoscessimo, nei suoi postulati essenziali, questo argomento per poter procedere, fin dall’inizio, sulla corsia dell’affresco rinascimentale de La Scuola di Atene.

     Come mai Platone oltre al "logos", alle riflessioni di carattere razionale, utilizza anche il "mito", il racconto sapienziale e poetico, per dare uno sviluppo al suo pensiero? Con il "logos" Platone cerca di spiegare l’essere (i concetti, le idee) e con il "mito" cerca di spiegare il divenire, cioè la vita. E questo perché la ragione umana – e Platone ne è consapevole come ne era già consapevole Socrate – non si esprime solamente per concetti, ma anche per immagini, e non in modo accessorio, ma in modo strutturale. La grande espressione per immagini è propria del genio creativo dell’artista e Platone, oltre ad essere un grande pensatore, è anche – e qui non ci sono studiose o studiosi che abbiano dubbi – uno straordinario poeta e quindi è stato capace di esprimere la razionalità della persona sia per concetti che per immagini. Lo stesso Aristotele nella Metafisica – senza naturalmente riferirsi a Platone – avvalora questo concetto: leggiamo quello che scrive.

LEGERE MULTUM….

Aristotele, Metafisica

 Anche colui che ama il mito è filosofo in un certo modo, perché il mito e il sapere filosofico hanno la stessa radice, ossia la meraviglia, e anche le loro finalità coincidono, perché tanto la riflessione razionale quanto il mito tendono appunto a soddisfare tale meraviglia…

     Platone ha saputo esprimere significativi temi metafisici tanto avvalendosi dei concetti quanto facendo uso delle immagini, come nel mito dell’Iperuranio (che si trova nel Fedro, e lo abbiamo già descritto), come nel mito della Caverna (che si trova nella Repubblica, di cui stiamo parlando), come nel mito dell’anima come Carro alato trainato da due cavalli e guidato da un auriga (che possiamo leggere ancora nel Fedro), e come nei grandi miti sulla sorte delle anime nell’al di là (che troviamo nel testo del Gorgia, nel testo del Fedone e nel Libro decimo della Repubblica). Il parlare di Platone per immagini sa comunicare pensieri e nozioni con straordinarie rappresentazioni fantastico-poetiche, che continuano a coinvolgere la lettrice e il lettore e a spingerlo verso la riflessione e verso ciò che Platone chiama la "speranza": il mito (il racconto sapienziale e poetico) – afferma Platone – serve per costruire non una certezza, una credenza, un dogma ma una speranza perché la fede, l’ideale, si fonda sulla "speranza" (la dottrina del Cristianesimo fa suo questo concetto).

     Platone è senza dubbio un laico e come laico affronta il tema dell’immortalità dell’anima e il tema dell’al di là (non sono temi di carattere "religioso" in Platone, lo diventano con il Cristianesimo) e affronta questi temi utilizzando il mito, avvalendosi (secondo la tradizione orfica) del racconto sapienziale e poetico. Platone attraverso la riflessione razionale (il logos) spera che l’anima sia immortale e che nell’al di là ci sia un luogo in cui l’anima possa dimorare ma afferma anche di non essere sicuro che l’anima sia immortale e che nell’al di là ci sia un posto dove tutte le anime si possano ritrovare. Nel Fedone Platone racconta – fa raccontare a Socrate (e lo abbiamo già citato) – il grande mito finale in cui descrive come è fatto l’al di là e come vengono giudicate le anime che vi giungono: come saranno punite (sprofondate nel Tartaro) o premiate se hanno partecipato «della virtù e della saggezza nella vita perché – afferma Platone – bello è il premio e grande la speranza», ma subito dopo, in modo veramente emblematico, Platone scrive (fa dire a Socrate): «Certamente, sostenere che le cose siano veramente come io le ho esposte, non si conviene ad una persona che abbia buon senso; ma sostenere che o questo o qualcosa di simile a questo debba accadere delle nostre anime e delle loro dimore, dal momento che abbiamo riflettuto sul fatto che l’anima possa essere immortale: ebbene, questo mi pare che convenga, e che si possa rischiare di crederlo, perché il rischio è bello! E bisogna che, con queste credenze, noi facciamo l’incantesimo a noi medesimi: ed è per questo che io, da un pezzo, mi raffiguro questo mito. Per questi motivi, deve avere ferma fiducia, riguardo alla sua anima, la persona che durante la sua vita ha rinunciato a fare il male, e, invece, si è curata nelle gioie dell’apprendere, e, avendo ornato la sua anima non di ornamenti che le sono estranei, ma di pregi che sono a lei propri; cioè di temperanza, giustizia, fortezza, libertà e verità, così aspetta l’ora del suo viaggio nell’Ade, pronta a mettersi in viaggio quando verrà il suo giorno. E anche voi tutti un giorno dovrete fare questo viaggio, ciascuno quando sarà il suo giorno. Quanto a me (è Socrate che parla), come direbbe un eroe tragico, già mi chiama il mio destino, ed è quasi l’ora che vada al bagno, perché mi pare meglio bere il veleno dopo essermi lavato e non lasciare alle donne la fatica di lavare il mio cadavere».

     Platone, con il racconto mitico, evoca la speranza nell’al di là ma, nel momento in cui costruisce il concetto dell’al di là, sta parlando dell’al di qua per invitare allo studio (a gustare le gioie dell’apprendere) che è sinonimo di cura per l’anima ed è fonte di acquisizione delle virtù (le virtù civili, le virtù politiche) utili per costruire la "bella città" (kallipolis).

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Per Platone le qualità necessarie per costruire la "bella città" (kallipolis) sono: la modestia, la rettitudine, l’equità, la volontà, la regola, la sincerità…

Tu quale di queste qualità sceglieresti per prima?

Scrivila…

     E ora torniamo ad occuparci del tema che abbiamo lasciato in sospeso: del "mito della Caverna". Platone, raccontando questo mito, vuole conciliare l’Essere di Parmenide col divenire di Eraclito, e coglie l’occasione per spiegare che differenza c’è tra la realtà e l’apparenza, ovvero tra "l’Uno, il puro e l’immutabile" e il "molteplice, l’impuro e il mutevole". Platone ci fa immaginare una grande caverna con al suo interno alcune persone incatenate, fin da piccole, in modo tale che non possono volgere lo sguardo verso l’uscita, anzi, sono costrette a guardare continuamente la parete di fondo che, per loro, ha la funzione di uno schermo. Alle loro spalle, appena fuori dalla caverna, c’è una strada rialzata e lungo di essa un muretto, dietro al quale passano altre persone che portano sulle spalle statue e oggetti di ogni forma e materia, «un po’ come i burattinai – scrive Platone creando una similitudine molto appropriata – che mostrano i burattini agli spettatori». Dietro a tutti c’è un grande Fuoco – ma potrebbe essere anche il Sole – che illumina la scena e fa in modo che le ombre degli oggetti che passano vengano proiettate sulla parete della caverna verso la quale guardano i prigionieri. Le persone che portano sulle spalle le statue e gli oggetti le cui ombre si proiettano sul fondo dell’antro discutono vivacemente fra loro e l’eco della caverna ne deforma le voci che giungono all’orecchio dei prigionieri. Ebbene, le persone incatenate nella caverna che cosa possono pensare delle ombre che vedono passare lungo la parete di fondo e delle voci che sentono e che immaginano siano le voci delle ombre stesse? Lasciamo la parola a Platone e leggiamo un frammento dal testo del "mito della Caverna":

LEGERE MULTUM….

Platone, Repubblica Libro settimo

 Le persone incatenate vedendo passare le ombre lungo la parete della caverna e sentendo le voci, che cosa potranno pensare? Crederanno in buona fede che ombre e rumori siano l’unica realtà esistente. E se uno dei prigionieri riuscisse a liberarsi e a voltarsi indietro e a guardare le statue che passano, in un primo momento, accecato dalla luce, le vedrebbe in modo confuso e riterrebbe molto più nitide le ombre che vedeva prima. Poi però, uscito all’aperto, e abituatosi alla luce del Sole, si renderebbe conto che tutto quello che aveva visto fino a quel momento, altro non era che l’ombra degli oggetti sensibili. E che cosa racconterebbe ai compagni una volta tornato dentro la caverna? Riferirebbe che fuori dall’antro ci sono cose incredibili: una luce che non si può descrivere, poi delle statue meravigliose, perfette, rispetto alle ombre che appaiono sulla parete della caverna. Ma le persone prigioniere con lui non lo crederebbero: nel migliore dei casi si burlerebbero di lui e se lui insistesse potrebbe anche essere condannato a morte.

     Nell’ultima riga che abbiamo letto il pensiero di Platone corre sempre a Socrate. Nel testo del "mito della Caverna" si presuppone ci siano delle significative allegorie: il Fuoco che arde o il Sole rappresenta l’Essere, ovvero la conoscenza, mentre le ombre sono il "Non essere", ovvero l’apparenza e, in mezzo, tra il Fuoco o il Sole e le ombre, c’è l’opinione, quello che le persone pensano (sono portate a pensare) degli oggetti sensibili. La conoscenza – spiega Platone – differisce dall’opinione in quanto la prima vede le cose come effettivamente sono, mentre la seconda le immagina in forma sbiadita e confusa, cioè intermedia tra l’Essere e il Non-essere.

     Ma qual è il significato complessivo di questo mito? Con questo racconto sapienziale e poetico Platone vuole far capire che nella vita esistono alcuni falsi obiettivi, e che il sistema ideologico della polis addita ai singoli individui alcuni traguardi deleteri come il denaro, il potere e il successo, che sono solo le ombre di una realtà ben più vera, che è posta al di là della portata degli occhi delle persone, che è posta al di là di un muro creato ad arte da chi, nella polis – afferma Platone –, con il denaro, il potere e il successo mette in scena lo spettacolo della "caverna" contrabbandandolo come se fosse l’unica realtà ed esaltando gli elementi su cui si regge (denaro, potere, successo) come se fossero dei valori, come se fossero dei fini ideali e non dei semplici mezzi materiali. Questa Realtà ideale, posta al di là della portata degli occhi, gli esseri umani – afferma Platone – la possono intuire, perché da essa emana una sorgente di luce che può illuminare l’intelletto della persona e il sistema educativo della polis deve fornire le competenze necessarie affinché le cittadine e i cittadini possano imparare a decifrare i raggi di luce che provengono dal Mondo ideale.

     Uscire fuori dalla caverna, per Platone, significa giungere alla conoscenza delle Idee immutabili, dei Valori universali, dei Diritti inalienabili, dei Doveri non eludibili: senza questa conoscenza la polis non potrà avere una buona Costituzione. Un conto – pensa Platone – è apprezzare una persona bella, una cosa buona, una situazione giusta un altro conto è sapere che cosa sia veramente la bellezza, la bontà, la giustizia: questo è un traguardo difficile da raggiungere e per riuscirci le persone devono percorrere un opportuno ed efficace cammino di studio, un permanente viaggio intellettuale.

     Ma l’ignoranza è forza – afferma Platone (e questa affermazione viene ripresa da George Orwell nel romanzo 1984) – e domina nella polis, e le persone ignoranti, soggiogate dalla materia, credono (a loro viene spesso fatto credere) che questo mondo sensibile sia l’unica e vera realtà perché non hanno mai avuto accesso, con lo studio, al Mondo delle Idee, perché non sono state mai messe nella condizione, mediante un sistema educativo efficace creato dallo Stato – afferma Platone –, di fare un’esperienza intellettuale, di compiere un itinerario di apprendimento.

     È evidente – scrive Platone, facendo appello alla speranza – che la "piena conoscenza" della Realtà può avvenire solo quando l’anima si libera dal peso del corpo e giunge a contemplare direttamente le Idee nell’Iperuranio però è in questo mondo sensibile – scrive Platone – che l’anima inizia il viaggio che la porta ad avvicinarsi alla conoscenza dei Valori universali. É difatti in questo mondo sensibile – afferma Platone – che l’anima ricomincia a ricordare, a mettere in moto il procedimento della "anàmnesis", della reminiscenza. E nello scorso itinerario (lo ricordate senz’altro) abbiamo studiato che l’anima – la quale, secondo la tradizione orfico-dionisiaca, è immortale – prima di unirsi al corpo (per opera del Demiurgo), risiede per un certo periodo di tempo nel Mondo ideale dove può contemplare a suo agio le conoscenze e le virtù. Nel momento in cui l’anima si è incarnata nel corpo ha dimenticato questa esperienza metafisica ma appena è stata in grado di osservare gli oggetti del mondo sensibile essa ha ricominciato a ricordare la sua esperienza nel Mondo ideale. La reminiscenza (anàmnesis) è un procedimento attivo con cui la mente della persona ricostruisce la relazione che c’è tra le Idee e le cose.

     La Scuola – afferma Platone – deve curare la memoria delle persone, deve insegnare a far risvegliare il ricordo (l’anàmnesis), deve istruire la persona perché possa rendere più precisa la propria reminiscenza, e la persona deve imparare ad eliminare il più possibile il contagio creato dalle apparenze che tendono ad offuscare la memoria. Il problema della conoscenza è quindi – afferma Platone – di natura politica, e il tema della conoscenza è strettamente legato al tema della costruzione dello Stato ideale.

     E il tema dello Stato ideale rimanda – come sappiamo – al dialogo in dieci Libri intitolato Repubblica. Di che cosa tratta la Repubblica di Platone? Perché se una lettrice o un lettore, che non conosce nulla di Platone e della cultura dell’Ellade, legge i primi cinque Libri di questo dialogo rimane senza dubbio sconcertata, rimane senza dubbio turbato?

     Prima di occuparci di alcuni temi significativi che riguardano i primi cinque Libri del dialogo intitolato Repubblica dobbiamo ricordare che il "mito della Caverna" (collocato nel Libro settimo di questo dialogo) ha ispirato, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, molte opere spesso assai complesse e, questa sera, vogliamo citarne una che si presta ad essere letta con maggiore facilità (ma non con superficialità): si tratta di un romanzo opera di un importante scrittore portoghese (Premio Nobel per la Letteratura 1998) che si chiama José Saramago che abbiamo già incontrato altre volte nei nostri Percorsi.

     Questo romanzo, pubblicato nel 2000, s’intitola La caverna e, in questo testo, lo scrittore rivisita e riporta ai nostri giorni il mito platonico della Caverna. Questo romanzo inizia proprio con una citazione dal Libro settimo della Repubblica: il protagonista del racconto è un vasaio (un demiurgo di seconda categoria) al quale viene rifiutata la solita fornitura di stoviglie, che lui produce nel suo forno, da parte del Centro economico-commerciale della città. Questo Centro economico-commerciale (la caverna?) è il simbolo del potere nell’era della globalizzazione e questo artigiano è costretto (lui e sua figlia) a inventarsi un altro prodotto e a confrontarsi con il Centro stesso che racchiude nelle sue viscere più profonde un inquietante segreto.

     Leggiamo l’incipit di questo romanzo dove Saramago ci presenta i personaggi principali:

LEGERE MULTUM….

José Saramago, La caverna (2000)

 «Strana immagine è la tua - disse - e strani sono quei prigionieri».

«Somigliano a noi - risposi». PLATONE, Repubblica, Libro VII.

 L’uomo che guida il camioncino si chiama Cipriano Algor, fa il vasaio di mestiere e ha sessantaquattro anni, anche se a vederlo sembra meno anziano. L’uomo che gli sta seduto accanto è il genero, si chiama Marçal Gacho, e ancora non è arrivato ai trenta. In ogni modo, con la faccia che ha, nessuno glieli darebbe. Come si sarà notato, sia l’uno che l’altro hanno appiccicati al nome proprio dei cognomi insoliti di cui s’ignorano l’origine, il significato e la ragione. La cosa più probabile è che si dispiacerebbero se mai giungessero a sapere che algor, algore, significa freddo intenso del corpo, preannuncio di febbre, e che il gacho è né più né meno che la parte del collo del bue su cui poggia il giogo. Il più giovane veste l’uniforme, ma non è armato.

... continua la lettura ...

     Nel prossimo itinerario leggeremo ancora qualche pagina da questo romanzo.

     Di che cosa trattano i primi cinque Libri della Repubblica di Platone? Il dialogo di Platone intitolato la Repubblica mette sulla scena una riunione di amici in casa di Cefalo: chi è questo Cefalo? Cefalo viene presentato in quest’opera già come un uomo molto vecchio che, all’inizio del Libro primo, accoglie e si intrattiene brevemente con Socrate sul tema della vecchiaia ma poi si ritira e non partecipa al dialogo. Socrate sta tornando dalla festa della dèa Bendis che si celebra al Pireo (Bendis è una divinità tracia che corrisponde alla dèa Artemide, a Diana) e viene invitato da Polemarco a fermarsi a casa sua: Polemarco è uno dei figli di Cefalo e quindi l’incontro si svolge, appunto, nella casa di Cefalo al Pireo.

     Cefalo era originario di Siracusa, ed era stato invitato ad Atene da Pericle perché costruisse una fabbrica di armi al Pireo nella quale lavoravano molti schiavi. Cefalo, oltre ad essere il padre di Polemarco, è anche il padre di Lisia, il celebre oratore, e di Eutidemo (da non confondersi con il sofista che dà il nome a un dialogo di Platone, l’Eutidemo). In casa di Cefalo sono presenti: Polemarco, Lisia, Eutidemo, Glaucone, Trasimaco, Adimanto e altri invitati. Qual è l’argomento di cui tratta il dialogo intitolato Repubblica?

     Il tema di cui questo dialogo tratta si riassume nella domanda: che cos’è la giustizia? La Repubblica è considerata da tutte le studiose e gli studiosi il capolavoro di Platone insieme al Timeo, che è – come sappiamo – il volume che il personaggio di Platone tiene in mano ne La Scuola di Atene. Il testo del Timeo viene presentato come una prosecuzione della Repubblica: Timeo infatti narra in che modo è fatta la Natura per restituire il favore a Socrate che ha narrato come è fatto lo Stato ideale.

     Il testo della Repubblica presenta il quadro più ricco e più completo – è quasi una specie di sintesi – dei temi che Platone ha messo per iscritto. Cogliamo l’occasione per dire che Platone, nei suoi dialoghi, non presenta il suo sistema in modo ordinato, in modo organico, e questo fatto ha reso sempre difficile l’interpretazione del suo pensiero ma ne costituisce anche il fascino. Il dialogo la Repubblica inizia con il consueto "Prologo drammaturgico" e prosegue – come abbiamo già accennato – con una chiacchierata tra Cefalo e Socrate sul tema della vecchiaia, poi Cefalo viene a conoscenza dell’argomento che verrà trattato nell’incontro e, in proposito, con una battuta (non commentata da Socrate), dice la sua: per lui "giustizia" vuol dire «pagare i debiti»; dopodiché saluta tutti e si ritira nella sua stanza perché è vecchio e va a dormire presto pensando, probabilmente, a tutti i crediti che deve riscuotere: Cefalo è un uomo d’affari.

     Poi interviene Polemarco e, secondo lui (ironizza Platone), "giustizia" significa: «far bene agli amici e far male ai nemici», mentre per Trasimaco – che prende successivamente la parola – la giustizia corrisponde «all’utile del più forte» (Platone non sa che questa formula, dopo 2400 anni, viene applicata senza scandalo – e questo è scandaloso – nel nostro paese "malato"). Questi primi interventi mettono in evidenza che c’è una varietà di opinioni intorno al tema della giustizia che portano a travisare l’essenza della giustizia.

     Poi interviene Socrate e le lettrici e i lettori devono far attenzione a non equivocare il discorso di Platone: dobbiamo infatti mettere in evidenza che alcuni concetti base, come "giustizia" e "democrazia", avevano per la cultura dell’Ellade un significato un po’ diverso da quello che poi assumeranno nel corso dei secoli passando attraverso l’età moderna e l’Illuminismo e certe affermazioni di Platone, lette oggi, possono sembrare reazionarie o totalitaristiche. Noi, che siamo eredi della Rivoluzione francese, pensiamo che la giustizia sia soprattutto "egalité", cioè "uguaglianza dei diritti dei cittadini", mentre per Platone la giustizia coincide prima di tutto con l’ordine, con la regola, con la disciplina e, in quanto tale, la si può ottenere solo quando «ognuno – scrive Platone – fa il proprio dovere senza interferire in quello degli altri (intanto pensi a fare il proprio dovere)». Una società di eguali è quella in cui ognuno fa il proprio dovere (rispetta la legge uguale per tutti).

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quale oggetto (una carta d’identità, una bilancia, un abito, un tribunale, e via dicendo…) ti fa venire in mente, secondo la tua esperienza, la parola "uguaglianza"?…

     Ma ora lasciamo che sia Platone a spiegarci le cose e – a questo proposito – leggiamo una serie di frammenti dal testo della Repubblica.

LEGERE MULTUM….

Platone, Repubblica Libro secondo

«Per capire che cos’è la giustizia – dice Socrate rivolgendosi ai suoi interlocutori –proviamo ad assistere alla nascita di uno Stato». Tutti approvano la sua proposta e Socrate comincia a parlare dicendo: «Secondo me uno Stato nasce perché ciascuno di noi non basta a se stesso. L’essere umano ha tanti bisogni, così tanti che più persone sono costrette a vivere insieme per aiutarsi l’una con l’altra. A questa convivenza noi daremo il nome di Stato». … Tutti i presenti concordano con le parole di Socrate che procede dicendo: «Ora il primo dei bisogni è il cibo, il secondo l’abitazione, il terzo il vestiario e così di seguito. Nel nostro Stato allora ci sarà bisogno di un agricoltore, di un muratore, di un tessitore e poi magari anche di un calzolaio. Ciascuno si specializzerà nel proprio lavoro, producendo per sé e per gli altri, giacché, per raggiungere la massima efficienza, è necessario che ciascuno faccia il proprio mestiere e non il mestiere degli altri. Ogni categoria però avrà bisogno anche di attrezzi per poter lavorare: di aratri, di cazzuole e di cesoie, e quindi di carpentieri, di fabbri e di tanti altri artigiani. Come vedete, più parliamo, e più il nostro Stato diventa popoloso». «In verità, o Socrate, è già molto popoloso» ribatte Adimanto. «Ma la produzione interna potrebbe anche non bastare – continua Socrate – nel qual caso dovremmo ricorrere a scambi con gli Stati vicini e per far questo avremo bisogno di commercianti abili ed esperti. E infine di marinai, di piloti e comandanti per i trasporti via mare. Poi, dal momento che a nostra volta riceveremmo la visita di commercianti stranieri, avremo bisogno di persone che sappiano fare da intermediari tra costoro e i nostri agricoltori».

     Platone, nel Libro secondo della Repubblica – nella pagina che abbiamo letto – fa descrivere a Socrate, dalle origini, una società molto dinamica e operosa. Poi il discorso riprende con l’intervento di Glaucone che stimola Socrate a continuare la sua riflessione: ma leggiamo.

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Platone, Repubblica Libro secondo

 «O Socrate, tu hai elencato i bisogni delle persone e hai parlato solo di cibo, di vestiario e di abitazione, limitandoti a desiderare il minimo indispensabile. Forse, se avessi dovuto progettare uno Stato di porci, non li avresti nutriti in modo diverso!».

«E allora che cosa mi consigli, o Glaucone?». «Ti consiglio di tener conto delle abitudini della gente perbene che possiede letti ben fatti dove sdraiarsi, e mangia intorno a comodi tavoli leccornie di ogni genere». «Ho capito, Glaucone, – risponde Socrate – tu vorresti uno Stato di lusso, dove ci siano profumi, incensi ed etère. E dimmi: ti piacerebbe che ci fossero anche imitatori, musici, rapsòdi, poeti, valletti, attori, impresari, corèuti e fabbricanti di monili e suppellettili, soprattutto per accontentare le nostre donne?». «E perché no?» risponde Glaucone. «Perché in tal caso – prosegue Socrate – avremo bisogno di un territorio più vasto per nutrire tutti questi abitanti, e saremo costretti a sottrarlo ai nostri vicini. E anche loro, se saranno avidi come noi, vorranno prendersi una parte del nostro territorio». «E allora – domanda Glaucone – come andrà a finire?». «Andrà a finire – risponde Socrate – che scoppierà una guerra tra noi e i nostri vicini, e che avremo bisogno di soldati, bene addestrati, per difenderci e per aggredire». «Non potranno bastare i cittadini da soli a difendere e ad aggredire?» domanda Glaucone. «No – risponde Socrate –, se è valido il principio che abbiamo accettato fin dall’inizio: che ognuno faccia il suo mestiere e non quello degli altri».

     L’intento di Platone, dopo aver dato vita nello Stato alla classe degli agricoltori, degli artigiani e dei lavoratori del terziario, è quello di istituire anche la categoria dei militari e di farne definire a Socrate le caratteristiche: continuiamo a leggere.

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Platone, Repubblica Libro secondo

«Questi soldati, – dichiara Socrate – che chiameremo i Custodi dello Stato, dovranno essere miti con i compagni e duri con i nemici». «E come è possibile, o Socrate, trovare uomini – risponde Glaucone – con un carattere mite e coraggioso nel medesimo tempo?». «Formandoli – dichiara Socrate – con la musica e con la ginnastica». «Nella musica – chiede Glaucone – fai rientrare anche le composizioni letterarie?». «Tutto quello che dipende dalle Muse è musica – risponde Socrate – a eccezione delle favole false». «Di quali favole – domanda Glaucone – intendi parlare?». «Di quelle di Omero, di Esiodo e di altri poeti» risponde Socrate. «E che cosa trovi, o Socrate, di criticabile in questi poeti?» ribatte Glaucone. «Di criticabile in questi poeti – afferma Socrate – trovo il fatto che mostrino gli dèi e gli eroi con tutte le nostre debolezze, che ci parlino di divinità che spergiurano e che si lasciano sopraffare dall’ira, di eroi che piangono e di dèi che ridono». «Di dei che ridono?» domanda Glaucone. «Sì, che ridono – ribadisce Socrate – giacché è disdicevole essere troppo facili al riso e non si può approvare chi, come Omero, scrive versi del genere: "Inestinguibili risate scoppiarono tra i numi beati / come videro Efesto in faccende girar per la casa". Ora io penso che queste cose, anche se vere, non dovrebbero mai essere raccontate ai bambini o alle persone immature, ma sarebbe opportuno tacerle o al massimo farle conoscere a un numero ristretto di persone, dopo aver sacrificato agli dèi una vittima di raro pregio e grandi dimensioni».

     Il Libro secondo della Repubblica termina con questo ammonimento di Platone che invita a interpretare la mitologia secondo un criterio morale. Platone è un censore molto severo – e chi possiede strumenti di persuasione occulta avrà senz’altro da dire che l’autore della Repubblica è un gran bacchettone – perché invita a non proporre alle bambine e ai bambini modelli fantastici che non abbiano un valore educativo e quindi i poeti devono attribuire agli dèi solo caratteri moralmente positivi: Platone sarà anche un bacchettone ma, come possiamo constatare, mette il dito su una piaga che è andata non rimarginandosi ma allargandosi nel tempo. Gli dèi – divini o soprattutto umani che siano e, al tempo di Platone, erano soprattutto gli umani potenti ad atteggiarsi a dèi – non possono ingannarci mostrando false immagini di sé. I poeti, quindi, – afferma Platone – devono attribuire agli dèi la semplicità, la sincerità, la costanza, la tenacia, e, così facendo, costruiranno l’idea di un Dio che è fondamentalmente buono, misericordioso, e causa di soli beni, mentre gli dèi, così come vengono presentati – esaltati per le loro caratteristiche immorali –, sono solo causa di mali che inquinano la società della polis.

     Nel Libro terzo della Repubblica Platone prescrive quale modello di istruzione è necessario proporre per educare i Custodi dello Stato e precisa quale musica e quale ginnastica debba essere proposta. Secondo lui bisogna abolire le musiche ioniche o lidie perché sono troppo sdolcinate e potrebbero produrre «combattenti smidollati», quindi meglio i canti corali dorici o frigi, che possono infondere coraggio e amore verso la patria. Il fatto è – afferma Platone – che anche una educazione basata solo sulle arti marziali può risultare pericolosa: potrebbe formare non persone pensanti ma individui aggressivi, incapaci di comunicare con gli altri mediante lo strumento della parola. Alcuni dei Custodi, di conseguenza, saranno più bravi a comandare e altri a essere comandati.

     Si formano così nella polis, secondo questa logica, tre categorie di individui: quelli che governano (i filosofi), quelli che difendono (i soldati) e quelli che producono (gli agricoltori, gli operai e gli artigiani). La Repubblica di Platone concepisce quindi uno Stato costituito da tre categorie di cittadini, nel quale chi nasce in una categoria non finisce col rimanerci per tutta la vita, può essere promosso per i suoi meriti o retrocesso per i suoi demeriti, ma il fatto più significativo è che la classe di chi governa (i filosofi) non può e non deve avere alcun privilegio, deve sottomettersi a ferree regole di vita, ad una moralità irreprensibile e ad uno stile di vita fondato sulla nulla-tenenza (contrariamente verrà retrocesso). Platone – mentre su altre questioni vuole provocare, vuole scandalizzare – non considera utopiche queste regole perché tutti pensano in cuor loro che dovrebbe essere così.

     Leggiamo – a questo proposito – un frammento dal Libro terzo della Repubblica:

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Platone, Repubblica Libro terzo

«Quando si agisce a fin di bene – precisa Socrate – è lecito anche dire le bugie. Noi dunque diremo ai nostri cittadini: "Siete tutti fratelli, ma la divinità, mentre vi plasmava, ha mescolato dell’oro in quelli che erano destinati a governare, dell’argento negli ausiliari adibiti alla difesa della polis e del bronzo nei produttori di beni materiali". «E se un giorno un cittadino di una classe superiore – chiede Glaucone – si accorgesse di avere un figlio fatto di bronzo, cosa dovrebbe fare?». «Dovrebbe inserirlo – risponde Socrate – senza accampare privilegi tra i lavoratori, così come, reciprocamente, se da costoro nascesse un figlio con chiare tracce d’oro e d’argento, sarà compito dei Custodi sottrarlo ai genitori per elevarlo al rango dovuto». «E diventerebbe ricco?» domanda Glaucone. «Niente affatto – risponde Socrate – nessuno dei Custodi sia esso filosofo o soldato, dovrà mai avere sostanze personali. Solo il popolo dei lavoratori potrà continuare a possedere proprietà terriere. Per quanto riguarda invece il cibo, i Custodi riceveranno tutto quello che sarà necessario al loro benessere. Prenderanno i pasti insieme, vivranno insieme e metteranno tutto in comune». «E non pensi, o Socrate, che così vivendo sarebbero infelici? – chiede Adimanto – Perché pur avendo in pugno lo Stato, non ne potrebbero ricavare alcun profitto, né essere generosi con le etère o avere case belle e spaziose». «Il fatto è, mio caro Adimanto, – risponde Socrate – che l’obiettivo che ci siamo prefissati non è quello di rendere felice una classe o un individuo, ma tutto lo Stato nel suo insieme. Tieni conto che tanto la grande ricchezza quanto la miseria rendono la persona infelice, perché l’una produce lusso, pigrizia e l’esplosione della violenza, e l’altra grettezza, lavoro scadente e la diffusione della violenza». «Ma in tutti gli Stati che conosco – ribadisce Adimanto – esistono ricchezza e povertà!» «Sì – replica Socrate – perché invece di essere Stati unitari, sono costituiti da due classi, quella dei ricchi e quella dei poveri, l’una nemica dell’altra, come nel gioco delle pòleis (Qui Platone cita un gioco popolare: un misto tra il gioco dell’Oca, la Dama e Monopoli, dove su una scacchiera di sessanta spazi ogni giocatore deve conquistare quanti più lotti può)»

     Platone – dopo aver definito la struttura sociale dello Stato ideale – nel Libro quarto della Repubblica – passa a trattare del tema della giustizia in relazione al singolo individuo-. Come nello Stato – afferma Platone – ci sono tre classi di cittadini (filosofi, difensori e produttori) così in ogni persona ci sono tre anime.

     Ma leggiamo e ascoltiamo come Platone ci spiega la sua "psicologia": si tratta di un argomento di cui Platone parla in diversi dialoghi con delle varianti.

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Platone, Repubblica Libro quarto

 «In ciascuna persona» dice Socrate «ci sono tre anime fra loro diverse: c’è la prima, che serve a ragionare e che chiamo "razionale", c’è la seconda che chiamo "passionale" e che la rende intrepida, e c’è la terza che fa desiderare l’amore, il cibo e l’acqua e che chiamo "appetitiva". Ora, per mostrare come queste tre anime si comportino, vi racconterò un aneddoto: un giorno Leonzio, figlio di Aglaione, stava salendo dal Pireo, quando vide alcuni cadaveri appena deposti dal boia. Un po’ il giovanotto moriva dalla voglia di guardare e un po’ aveva paura di farlo; finché, vinto dal desiderio, li osservò e disse: "Eccoli a voi, occhi sciagurati, saziatevi pure di questo bello spettacolo!". In quel caso l’anima intrepida e passionale si era alleata con l’appetitiva contro quella razionale. Ebbene, perché ci sia giustizia, è necessario che il coraggio (la classe dei difensori) sia sempre al servizio della razionalità (la classe dei filosofi) e mai degli appetiti di chiunque sia».

     La psicologia o lo scienza dell’anima è trattata – abbiamo detto – assai ampiamente da Platone in dialoghi diversi e con delle significative varianti. Nel dialogo intitolato Fedro Platone affronta l’argomento dell’anima con delle differenze rispetto al testo della Repubblica. L’anima "razionale" o "intellettiva" – afferma Platone nel testo del Fedro – ha sede nella testa, poi parla di un’anima "irrazionale", suddivisa a sua volta in anima "irascibile" con sede nel cuore, e anima "concupiscibile" con sede nella pancia e con un’immagine poetica Platone paragona l’anima "razionale" ad un auriga che tenga a freno i due cavalli di un carro volante, rappresentati rispettivamente dall’anima irascibile (un buon cavallo che riesce a tenere il volo) e dall’anima concupiscibile (un cavallo non di razza che punta sempre verso il basso, verso la materia). L’anima "razionale" – sostiene sempre Platone nel testo del Fedro – è la sola che possa giungere alla conoscenza delle Idee, mentre l’anima "irascibile" alimenta in noi il coraggio, l’ardimento, lo sdegno, e l’anima "concupiscibile" si lascia trascinare dai sensi verso i bisogni e i piaceri materiali. La conseguenza di questo è che solo l’anima "razionale" può usufruire dell’immortalità, mentre le altre due anime (irascibile e concupiscibile) sono destinate a morire col corpo. L’anima "razionale" – sostiene Platone nel Fedro – è messa dal Demiurgo nel nostro corpo al momento della nascita affinché possa espiare una colpa misteriosa (il tema del "peccato originale" è sempre in agguato in tutte le culture), una colpa commessa non si sa bene quando: Platone, a questo proposito, non è preciso e non è in grado di dare delle spiegazioni. La purificazione dell’anima avviene – secondo Platone – in questa vita terrena ma non è detto che tale purificazione sia completa al momento della morte: in questo caso l’anima è condannata a incarnarsi successivamente in più corpi (è il concetto della "metempsicosi", secondo il pensiero pitagorico), fino a raggiungere quella perfetta purificazione che le permetterà di ritornare al mondo Iperuranio a contemplare le Idee.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Che cosa vorresti fare con l’anima razionale (con la testa) e con l’anima passionale (con il cuore) e con l’anima appetitiva (con la pancia)?

Scrivi tre righe in proposito…

     Nel Libro quinto della Repubblica c’è un argomento delicatissimo che ha procurato spesso a Platone l’accusa di avere ispirato il totalitarismo e di aver coinvolto la figura di Socrate in una tematica scandalosa. Di che cosa si tratta? Leggiamo:

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Platone, Repubblica Libro quinto

A questo punto Socrate fa per andar via, ma Adimanto lo afferra per la tunica e lo trattiene. «A nostro avviso – afferma Adimanto –, tu ci derubi di una parte del discorso. Hai creduto di cavartela dicendo che tra i Custodi viene messo tutto in comune, anche le donne? E in che modo si attuerebbe questa comunanza?». «Non è facile affrontare simili discorsi – risponde Socrate alquanto imbarazzato – la soluzione che propongo, amici carissimi, è inconsueta e le mie parole potrebbero sembrare un’utopia». «Ma tu, o Socrate, non esitare – risponde Adimanto – dal momento che quelli che ti ascoltano non sono né increduli, né ostili». «Allora seguite il mio ragionamento: supponiamo di considerare le donne pari agli uomini». «Come sarebbe a dire – chiede Adimanto – pari?». «In grado di svolgere le stesse funzioni dei Custodi, in modo che l’unica differenza esistente stia nel fatto che le prime sono più deboli e i secondi più vigorosi». «Ma è impossibile – ribatte Adimanto». «Se diamo loro – risponde Socrate – la stessa educazione che abbiamo riservata ai Custodi, non è impossibile». «Ma sarebbe davvero ridicolo! – ribadisce Adimanto». «Che cosa ci trovi – chiede Socrate alzando la voce – di tanto ridicolo?». «Per esempio che le donne – risponde Adimanto sorridendo – facciano la ginnastica nude insieme agli uomini!». «E come vuoi – ribadisce Socrate – che possano essere d’aiuto allo Stato, se prima non le istruisci a dovere, nude o vestite che siano?». «D’accordo, ma questa tua idea – dice Adimanto – è dirompente come un’ondata che si abbatte sulle nostre abitudini». «Se ti sembra già alta la prima ondata, – prosegue Socrate – sta’ ora attento alla seconda. Queste donne, come dicevo, saranno date agli uomini: tutte a tutti e nessuna a uno soltanto. Anche i figli saranno allevati in comune, in modo che non ci sia genitore che possa riconoscere i propri». «E con quale criterio – chiede Adimanto un po’ sconcertato – si accoppieranno uomini e donne?». «I migliori con le migliori secondo gli accoppiamenti che stanno meglio insieme, – risponde Socrate – i peggiori con le peggiori, e per non avere proteste da parte di questi ultimi, faremo finta di ricorrere a un ingegnoso sorteggio, così che per ogni accoppiamento sgradito l’unica colpevole sarà la sorte. Ripeto che anche le bugie possono essere lecite, se vengono dette per nobili scopi». «E i figli? – chiede un po’ preoccupato Adimanto». «Quelli dei migliori verranno allevati in un nido d’infanzia dalle madri col seno più turgido, escogitando un sistema affinché nessuna possa riconoscere la propria creatura. Quelli dei peggiori, invece, verranno ospitati in un luogo segreto e celato alla vista». «E con quali vantaggi? – chiede dubbioso Adimanto». «Non riuscendo a identificare la prole, i Custodi – risponde Socrate – non potranno anteporre la famiglia allo Stato e nessun giovane oserà mai colpire un anziano nel timore che si tratti del proprio genitore. Per quanto concerne la guerra, i giovani più dotati fisicamente verranno portati sul campo di battaglia perché possano assistere agli scontri. Monteranno cavalli veloci per mettersi in salvo in caso di sconfitta. Impareranno ad ammirare i soldati coraggiosi e a disprezzare i vigliacchi. Chi di loro combatterà dando prova di valore, verrà incoronato dai suoi stessi compagni».

     Prima di accusare Platone di apologia di totalitarismo è necessario riflette sulle condizioni in cui si trova l’Ellade nel V e nel IV secolo a.C.. L’Ellade, a quei tempi, è una regione dal territorio montuoso disseminato da tante piccole città, che sono isolate l’una dall’altra e sono quasi sempre nemiche tra loro. Le guerre tra le varie polis – tutte di natura economica – sono all’ordine del giorno e la sconfitta per una città significa la morte per quasi tutti i maschi adulti e la riduzione in schiavitù per le donne e per i bambini. La sopravvivenza nell’Ellade è legata alle alte e poderose mura della polis, ad un’Acropoli che sia ben collocata e ad un esercito ben addestrato nella difesa e nell’attacco. Platone ha appena vent’anni quando assiste sconvolto alla sconfitta di Atene per opera di Sparta. Il generale spartano Lisandro, dopo aver distrutto l’esercito ateniese, fa abbattere le Lunghe Mura e, dopo aver fatto uccidere o deportare tutti gli esponenti democratici, mette al loro posto gli oligarchi che subito ne approfittano per instaurare un regime di terrore.

     Noi dobbiamo capire la ragione per cui Platone avverte un forte bisogno di ordine, di regola, di disciplina o, come lo chiama lui, di "giustizia". Quindi l’esempio a cui Platone s’ispira per costruire il suo particolare modello di "democrazia" è quello di Sparta, e il mitico legislatore Licurgo, l’inventore del "comunismo spartano", diventa il suo punto di riferimento ideale. La città – afferma Platone – è gravemente ammalata a causa dell’individualismo, dell’egoismo, del particolarismo e quindi sono necessari estremi rimedi. Platone, nel momento in cui deve progettare uno Stato, lo pensa di piccole dimensioni, attorniato da nemici aggressivi e tutto raccolto intorno alla polis. Le cittadine (e Platone ritiene che anche le donne debbano contare) e i cittadini di questo Stato, Platone li pensa come educati ad amare il bene della collettività e istruiti a respingere l’interesse privato: Platone coltiva un grande disprezzo per l’interesse privato (con tutto ciò che comporta a scapito della solidarietà) perché è la causa evidente della malattia della polis.

     Quando Platone fissa le dimensioni territoriali della Repubblica, non esce dai confini del circondario di Atene. Platone non riesce a concepire un impero di vaste proporzioni perché ritiene che non sia governabile e non è disposto a far passare l’idea che le cittadine e i cittadini debbano delegare: tutti devono avere – secondo le loro competenze – un ruolo attivo nel governo dello Stato. L’esperienza di Alessandro Magno e del grande apparato imperiale è ancora di là da venire.

     Dove vorrebbe situare Platone il suo Stato ideale? latone pensa che il suo Stato ideale – la Città bella, Kallipolis – non debba essere collocato in riva al mare: Platone è diffidente nei confronti dell’ambiente marino, perché pensa questo? Nel dialogo intitolato Leggi Platone, con la sua solita logica stringente, scrive:

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Platone, Leggi

 Il mare è una realtà piacevole da vivere giorno per giorno, ma alla lunga diventa una vicinanza amara e salata, giacché riempie la città di traffici e di piccoli affari, introducendo nei cittadini i germi dell’incostanza e della falsità. L’agricoltore è portato a comportarsi diversamente perché produce solo quel tanto di cui ha bisogno, o al massimo quello che gli serve per fare i baratti, mentre il commerciante non fa altro che arraffare denaro. I prodotti della terra, in quanto facilmente deperibili, si oppongono all’accumulo, il denaro invece si presta a essere conservato e procura inappagamento e infelicità e siccome il commercio viene praticato esclusivamente via mare, essendo l’Attica priva di strade confortevoli, una città marinara è anche un centro commerciale e come tale un luogo che usufruisce di scarsa serenità.

     Platone, nel dialogo le Leggi, stabilisce perfino una distanza di sicurezza di un centro abitato, di una polis, dal mare: quattordici chilometri e settecento metri e le studiose e gli studiosi non sono mai riusciti a capire come mai, su quale base, Platone abbia stabilito questa distanza che, oggi, sarebbe una distanza ideale. Chi volesse scherzare – dopo aver letto questo frammento dal dialogo le Leggi – potrebbe pensare che il dito di Platone rivolto verso l’alto ne La Scuola di Atene stia a significare che è bene vivere ad una giusta altezza sopra il livello del mare: ci piace pensare che Giulio II, Fedra Inghirami, Bramante e Raffaello si siano anche divertiti nel preparare e nel fare questo lavoro lasciando spazi aperti alla creatività interpretativa delle persone che, in avvenire, avrebbero (come stiamo facendo noi) studiato l’affresco.

     Nel corso dei secoli, a causa del dialogo Repubblica, Platone ha avuto molti critici i quali hanno sostenuto che, con la sua scrittura, sia stato l’ispiratore di tutti i totalitarismi e un nemico della libertà e della cosiddetta "società aperta". Anche il filosofo Karl Popper – proprio in un saggio intitolato La società aperta – ha criticato Platone a questo proposito (ispira una società a socialismo reale piuttosto che una società liberale) poi però ci ha ripensato quando si è accorto (qualche decennio dopo con il trionfo del liberismo) che c’era qualcosa di più pericoloso per la libertà, per la democrazia, per il degrado dell’intelligenza (che Platone aveva prefigurato con il mito della Caverna): la televisione, il sistema mediatico che "come un totem domestico – scrive Popper – cancella i principi della democrazia" .

     Il difetto dei critici sta soprattutto nell’aver voluto giudicare Platone – come abbiamo detto – al di fuori del contesto nel quale è vissuto e nel quale ha scritto, dal quale non si può prescindere il fatto è che il contesto in cui vive Platone – soprattutto dal punto di vista morale – è quello in cui viviamo noi. Dobbiamo dire che la capacità di riflessione di Platone – e questo è il suo più grande merito – è stata enorme e quindi, qualunque sia la tematica che viene sviluppata, Platone, con il testo dei suoi dialoghi, finisce quasi sempre per avere un ruolo e quindi, puntualmente, continueremo ad incontrarlo strada facendo nei secoli a venire fino a oggi. Il merito principale di Platone è quello di aver messo in evidenza che al di sopra del mondo delle cose particolari (degli affari di ciascuno) c’è il mondo dei Valori universali (il bene di tutti) per cui la libertà corrisponde al dovere collettivo, non all’interesse individuale e questo tema platonico è oggi sentito da tutte le persone di buona volontà e Platone, sul cammino della Storia del Pensiero Umano, non cesserà mai di accompagnarci.

     E ora – per concludere – torniamo ad osservare l’affresco: ne La Scuola di Atene accanto alla figura di Platone – dipinta da Raffaello con il volto di Leonardo da Vinci – c’è l’altrettanto maestosa figura di Aristotele. Lunghi studi e osservazioni, dalle addette e dagli addetti ai lavori, sono stati fatti sul volto della figura di Aristotele, e oggi possiamo dire con certezza che questo volto non rappresenta alcun personaggio particolare, insomma non è il ritratto di qualche persona reale, e allora che cosa rappresenta? Nella figura maestosa di Aristotele risalta poi soprattutto la mano, la famosa mano che sta in concomitanza con il dito puntato verso l’alto di Platone: la mano di Aristotele è tesa in avanti, in modo tale da non indicare solo e semplicemente la terra, ma esprime un atteggiamento intellettuale più complesso ispirato anche al pensiero dei membri del gruppo che studia il contenuto dell’affresco. Che significato ha il gesto di Aristotele?

     Ma prima di rispondere a queste domande – lo faremo tra quindici giorni riflettendo adeguatamente – dobbiamo passare sulla corsia che attraversa il territorio dell’Ellade e dobbiamo domandarci: chi è Aristotele, che cosa sappiamo di lui, della sua vita? Sono in molti a narrare, per iscritto, la vita di Aristotele ed è evidente che molte notizie, molti fatti, molti aneddoti sono più vicini alla leggenda che alla storia. Diogene Laerzio, in particolare, nella sua Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi, di Aristotele parla ampiamente alludendo anche al fatto che molte notizie che lui raccoglie e riporta non sono documentabili e, quindi, noi ci atteniamo ai fatti più probabili.

     Aristotele è nato nel 384 a.C. a Stàgira, un piccolo paese della Macedonia orientale situato nella penisola Calcidica a nord del monte Àthos, là dove oggi ci sono quei famosi monasteri.

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Utilizzando l’enciclopedia o la guida della Grecia o la rete fai una visita a questi luoghi molto interessanti

     Stàgira nel IV secolo a.C. si trova in territorio macedone ma è una colonia greca fondata circa tre secoli prima da un gruppo di migranti provenienti dall’isola di Àndros. Difatti Aristotele, da bambino, parla il dialetto ionico, usato da quasi tutte le popolazioni del mar Egeo ed è la lingua in cui è scritta una parte consistente della Letteratura orfico-dionisiaca.

     Il padre di Aristotele si chiama Nicomaco, ed è un medico, ma non un medico qualunque: è il medico personale di Aminta II, il re della Macedonia. Per questo motivo Aristotele ha avuto modo di frequentare la città di Pella, la capitale del regno di Macedonia, e di fare amicizia con Filippo, il futuro re e il futuro padre di Alessandro Magno. I Macedoni erano considerati dagli Ateniesi (che si sentivano superiori a tutti) come dei "barbari", i Macedoni erano dei montanari con una cultura del corpo e del territorio diversa – ma non meno degna (più naturale, più rustica, più ecologica) – rispetto a quella degli abitanti delle polis, e ad Aristotele la frequentazione della Macedonia serve per assumere una mentalità più aperta verso l’esterno.

     Aristotele – racconta Diogene Laerzio – rimane orfano quando è ancora un ragazzo e viene affidato ad un cugino. Questo cugino si chiama Prosseno e lo porta con sé in Asia ad Atarneo, un villaggio sulle coste della Lidia. A diciassette anni Aristotele si trasferisce ad Atene, e si iscrive all’Accademia di Platone che, in questo momento, è la più prestigiosa di tutte le scuole dell’Ellade (e noi abbiamo assistito alla sua fondazione). È l’anno 367 a.C. e – come sappiamo – Platone si trova ancora in Sicilia a cercare di applicare i princìpi della Repubblica a Siracusa. Platone, durante la sua assenza, ha affidato il posto di scolarca dell’Accademia a Eudosso di Cnido: grande matematico e astronomo, il più grande esperto di fisica del momento.

     Il giovane Aristotele si trova bene all’Accademia e gradisce questa impostazione "scientifica" impressa alla scuola da Eudosso di Cnido perché – ci racconta Diogene Laerzio – "Aristotele fin da bambino era interessato alle scienze naturali e collezionava farfalle, insetti, pietre e piante esotiche". Aristotele resta nell’Accademia di Platone per vent’anni, prima come studente e poi come "magister". Aristotele ha avuto il tempo di assimilare bene il pensiero di Platone in modo da poterlo poi criticare a ragion veduta: "Aristotele – afferma Diogene Laerzio – è stato il più critico dei discepoli di Platone ma anche il più fedele".

     Quando Platone muore, nel 347 a.C., assistiamo ad uno scontro molto garbato ma assai combattuto tra i suoi discepoli più in vista per la successione nella direzione dell’Accademia. "In molti – scrive Diogene Laerzio – speravano di prendere il posto di Platone: Senocrate, Filippo di Opunte, Erasto, Corisco ed Eraclide Pontico e anche Aristotele contava sulla nomina a scolarca". Quando ci sono tanti concorrenti importanti a contendersi un posto spesso finisce per prevalere chi non è favorito, e così accade: scolarca dell’Accademia viene eletto – come sappiamo – Speusippo che è il nipote di Platone ma non ha la stoffa dello zio.

     Scomparso il grande maestro i discepoli più qualificati decidono di emigrare e di esportare l’esperienza didattica dell’Accademia. Aristotele lascia Atene e – insieme a Senocrate, che decide di andare con lui – torna ad Atarneo, il piccolo paese della Lidia dove è cresciuto sotto la tutela dello zio Pirosseno. Il territorio della Lidia, in questo momento, è governato da un tiranno di nome Ermia il quale è un eunuco cresciuto alla corte persiana: Ermia, che è una persona saggia, accoglie con favore questi due intellettuali che arrivano dall’Accademia di Atene e li invita ad aprire una Scuola per elevare la cultura nel territorio da lui amministrato.

     In Lidia Aristotele (e sembra strano che questo personaggio sia capace di innamorarsi) vive anche la più importante esperienza sentimentale della sua vita: Ermia ha una sorella che si chiama Pizia, come la sacerdotessa di Apollo a Delfi (c’è chi racconta che Pizia fosse una concubina di Ermia ma questo fatto della concubina – allude Diogene Laerzio – ha tutta l’aria di essere una storia che si presta per essere romanzata). Pizia è una bellissima fanciulla dai tratti orientali della quale Aristotele s’innamora appena le parla, e siccome questo amore è ricambiato, dopo un breve fidanzamento, i due si sposano: su questa storia c’informa Callimaco di Cirene. Chi è costui? Callimaco di Cirene (310-240 a.C.) è il più grande poeta elegiaco e il più famoso di tutti i poeti alessandrini perché è particolarmente dotato di grazia, di finezza, di eleganza, di preziosità e sa dare un colore anche agli argomenti più eruditi e sa dare leggerezza anche ai temi più indigesti e le sue opere sapranno ispirare i poeti latini Properzio, Ovidio e Catullo.

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Puoi fare, utilizzando l’enciclopedia, o la biblioteca o la rete, una piccola ricerca su Callimaco di Cirene e sulle sue opere

     Ebbene, Callimaco di Cirene in una delle sue raccolte poetiche intitolata Giambi – in cui segue i princìpi estetici della Scuola di Aristotele – sintetizza un pensiero che è risultato comune a molte persone: è veramente difficile immaginarsi Aristotele innamorato, sembra quasi una contraddizione pensando alla pedanteria con cui esprime il suo pensiero ma, come dice Callimaco in un suo famoso verso: «Aristotele s’innamorò di Pizia perché anche i carboni, quando sono accesi, brillano come le stelle». Viene voglia di impararlo a memoria questo verso: non ci sono controindicazioni per farlo!

     Ma l’amore non distoglie Aristotele dal suo lavoro di "magister" e quindi decide di separarsi da Senocrate e di fondare una sua Scuola ad Assos e, tre anni dopo, ne apre un’altra a Mitilene, il capoluogo dell’isola di Lesbo, insieme a Teofrasto.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Teofrasto, discepolo di Aristotele, è un personaggio importante che ha scritto un’opera famosa per cui è diventato il fondatore di una disciplina particolare: quale?…

Fai – con l’enciclopedia, in biblioteca, o sulla rete – una piccola ricerca in proposito…

     Purtroppo la Lidia viene assoggettata dall’impero persiano in espansione ed Ermia viene fatto prigioniero. Aristotele si rifugia con Pizia in Macedonia dove ha cominciato a regnare il suo amico d’infanzia Filippo il quale gli affida l’incarico di educare, di istruire e di formare suo figlio Alessandro, un ragazzo quattordicenne destinato a diventare fra pochi anni il Mega Alexandros Mega Alexandros, Alessandro Magno. Il rapporto tra il maestro Aristotele e lo studente Alessandro sembra sia stato piuttosto conflittuale e su questo tema gli aneddoti non si contano. Aristotele ha certamente cercato di insegnare al suo illustre allievo il concetto del "giusto mezzo" (un argomento di cui parleremo prossimamente) ma non sembra che, a questo proposito, Aristotele abbia ottenuto buoni risultati: il Mega-Alexandros ha sempre esagerato.

     Nel 340 a.C. Alessandro diventa re di Macedonia e Aristotele ne approfitta subito per tornare ad Atene come ex maestro del personaggio più potente del mondo. Intanto il suo ex collega Senocrate – che era ritornato anche lui ad Atene – è diventato scolarca dell’Accademia di Platone. Aristotele – sebbene sia in buoni rapporti con Senocrate – entra in competizione con lui e decide di aprire una Scuola per proprio conto e prende in affitto un edificio pubblico, detto il Liceo perché è vicino ad un tempietto dedicato ad Apollo Licio. La Scuola di Aristotele, il Liceo, è stata chiamata anche "peripatetica" perché il maestro aveva l’abitudine d’insegnare passeggiando e, in greco, il termine "perìpatos" vuol dire "passeggio".

     Il Liceo, in breve tempo, supera in prestigio l’Accademia e Aristotele, quindi, dovrebbe essere soddisfatto ma invece lo rattrista la morte della moglie Pizia e il fatto di non avere figli. Aristotele, dopo qualche anno, si risposa con la sua giovane governante che si chiama Erpillide, dalla quale avrà anche un figlio, Nicomaco.

     Nel 323 a.C., ancora nel fiore degli anni, muore Alessandro Magno e contemporaneamente gli Ateniesi si sollevano contro i dominatori Macedoni e contro tutti quelli che li avevano appoggiati: Aristotele è uno di questi e quindi fugge (non è Socrate) e si nasconde a Calcide, nell’isola Eubea, dove aveva ereditato una casa e un terreno da sua madre. Purtroppo non fa in tempo ad ambientarsi perché muore dopo pochi mesi, siamo nel 322 a.C. e Aristotele ha compiuto da poco sessantatré anni.

     Il 322 a.C. è un data significativa nella Storia della cultura orfico-dionisiaca, perché con la morte di Aristotele termina il Periodo Attico e ha inizio una nuova era: il Periodo Ellenistico che nasce proprio sull’eredità intellettuale di Platone e di Aristotele.

     Platone lo abbiamo incontrato (lo incontreremo ancora): che cosa ci ha lasciato in eredità Aristotele?

     Tra quindici giorni lo sapremo perché il nostro viaggio – dopo aver celebrato il 25 aprile e il 1° maggio – continua, la Scuola è qui…

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Aprile 24, 2009