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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, DI PLATONE E DI ARISTOTELE C’È IL SISTEMA DELLA DIALETTICA ARISTOTELICA ...

Lezione N.: 
27

Prof. Giuseppe Nibbi         Lo sapienza di Socrate Platone Aristotele         6-7-8 maggio 2009

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, DI PLATONE E DI ARISTOTELE

C’È IL SISTEMA DELLA DIALETTICA ARISTOTELICA ...

     Nell’affresco intitolato La Scuola di Atene accanto alla figura di Platone – dipinta da Raffaello con il volto di Leonardo da Vinci – c’è l’altrettanto maestosa figura di Aristotele. Quindici giorni fa – percorrendo la corsia che attraversa il territorio dell’Ellade – abbiamo studiato, nelle sue linee generali, la vita di Aristotele.

     Sulle fattezze del volto della figura di Aristotele ne La Scuola di Atene sono stati fatti, dalle addette e dagli addetti ai lavori, lunghi studi e molte osservazioni, e oggi possiamo dire con certezza che questo volto non rappresenta alcun personaggio particolare, insomma non è il ritratto di qualche persona reale, e allora: che cosa rappresenta? Oggi tutte le studiose e gli studiosi sono orientati nel dire che la figura di Aristotele ne La Scuola di Atene rappresenta l’ideale dell’Uomo rinascimentale. Raffaello, molto probabilmente, è chiamato – dai membri del gruppo di studio che lo supporta (Giulio II, Fedra Inghirami e Bramante) – a realizzare un quadro che contenga il modello della persona ideale nel mondo moderno così come è stato descritto, questo modello, da Baldassar Castiglione nel Libro del Cortegiano e, su questo argomento, abbiamo riflettuto qualche mese fa, strada facendo. Nella figura maestosa di Aristotele – dal punto di vista formale – risalta un volto che ha, tuttavia, un aspetto convenzionale: ha le fattezze delle statue antiche in cui viene rappresentato Platone. Il volto di Aristotele ne La Scuola di Atene assomiglia al volto che hanno le statue che raffigurano Platone e questa scelta è comprensibile perché i membri del gruppo di studio che lavorano sul contento dell’affresco sono tutti neoplatonici!

     Nella figura maestosa di Aristotele risalta poi soprattutto la mano, la famosa mano che sta in concomitanza con il dito puntato verso l’alto di Platone: la mano di Aristotele è tesa in avanti, in modo tale da non indicare solo e semplicemente la terra, ma esprime un atteggiamento intellettuale più complesso. Che significato ha il gesto di Aristotele? Con il gesto della mano Aristotele sembra dire che: "È necessario salvare i fenomeni, i fenomeni fisici, che ci stanno di fronte".

     Ma noi dobbiamo osservare – e lo abbiamo già notato una volta, mesi fa – che lo sguardo di Aristotele è fisso decisamente sul dito di Platone: perché Raffaello ha dipinto – è stato invitato a dipingere – la figura di Aristotele in questa posa? Lo sguardo di Aristotele fisso sul dito di Platone serve per completare un ragionamento: il ragionamento che Aristotele ha compiuto attraverso le sue opere.

     E ora sintetizziamo questo ragionamento facendo una considerazione: non esiste un Platone spiritualista che indica il "cielo" e un Aristotele materialista che indica la "terra": questa è un’interpretazione molto superficiale (che, purtroppo, ha resistito per secoli), è solo un’affermazione riduttiva. Aristotele, con la sua mano tesa e con il suo sguardo fisso sul dito di Platone, dice: "È necessario salvare il fenomeni fisici, i quali hanno valore se riconosciamo in essi le idee, le parole e i simboli che li trascendono". Che significato ha questa affermazione? Significa che una persona può conoscere i fenomeni fisici, è in grado di decodificarli solo attraverso il linguaggio della metafisica. Che significato ha questa affermazione?

     Bisogna procedere con ordine: secondo l’ordine stabilito da un "magister" come Aristotele. Aristotele viene considerato da Dante (che lo ammira particolarmente), nella Commedia, un "magister" per eccellenza: ricordiamo tutti a memoria i famosi versi del Canto IV dell’Inferno:

Poi che innalzai un poco più le ciglia,

vidi il maestro di color che sanno

seder tra filosofica famiglia.

Tutti lo miran, tutti onor gli fanno:

quivi vid’io Socrate e Platone, che

innanzi agli altri più presso gli stanno;

     E sintesi migliore non potrebbe esserci.

     A detta di tutte le studiose e gli studiosi, però, Aristotele non appare simpatico come Socrate, che è un alfabetizzatore di strada, e neppure come Platone che è un grande poeta: Aristotele è un "magister" e, per questo motivo, appare come una persona pedante (non è detto che, avendolo conosciuto più da vicino come abbiamo fatto quindici giorni fa, sia poi davvero così pedante), certamente Aristotele è una persona molto ordinata, soprattutto nel presentare il suo sistema di pensiero per iscritto attraverso le sue opere: questo fatto non gli ha giovato, è stato considerato uno scrittore noioso da leggere e questa caratteristica si è trasferita anche sulla sua persona tanto che molte e molti intellettuali hanno fatto a meno di studiarlo. Questo è un errore perché se non si conosce il pensiero di Aristotele (il catalogo delle parole-chiave e delle idee principali della sua filosofia), è come se non si conoscesse un pezzo di mondo. Per conoscere e per capire il pensiero di Aristotele – per lo meno nelle sue grandi linee – bisogna procedere con ordine perché il sentiero che percorriamo questa sera è particolarmente impervio.

     Però, prima di incamminarci sul sentiero aristotelico, dobbiamo aprire una parentesi in funzione della didattica della lettura e della scrittura. Quindici giorni fa, percorrendo il ventiseiesimo itinerario, abbiamo letto la pagina iniziale di un romanzo, pubblicato nel 2000 dallo scrittore portoghese José Saramago, intitolato La caverna. Questo romanzo fa esplicito riferimento al pensiero di Platone: ad uno dei racconti mitici più famosi, il "mito della Caverna", contenuto nel testo del dialogo platonico intitolato Repubblica di cui abbiamo studiato la struttura di base. Leggiamo ancora alcune pagine da questo romanzo oltre che per incentivarne la lettura anche per entrare – se così si può dire – in sintonia con Aristotele il quale inizia la sua grande riflessione partendo da una delusione: Aristotele, come fedele discepolo di Platone, avrebbe voluto che il pensiero del maestro dell’Accademia fosse certo, fosse sicuro, fosse indubbio, fosse inequivocabile, ma invece si rende conto che non è così perché ravvisa nel discorso platonico una contraddizione fondamentale che lo costringe e lo stimola a ripensare su nuove basi tutto il sistema.

     Anche Cipriano Algor – che è il protagonista del romanzo La caverna – subisce una profonda delusione, sebbene di altro tipo: pensava che il sistema economico attuale gli avrebbe sempre consentito di svolgere il suo onesto lavoro di artigiano, di vasaio (di demiurgo) invece lo espelle inesorabilmente costringendolo a inventarsi un altro prodotto e a farsi molte inquietanti domande. È questo un tema di grande attualità perché oggi molti vengono espulsi dal mondo del lavoro e molti altri non ci entrano mai definitivamente ma precariamente: la colpa è della "crisi", si dice, peccato che la crisi non abbia mai dei nomi e dei cognomi.

     E ora leggiamo:

LEGERE MULTUM….

José Saramago, La caverna (2000)

 Cipriano Algor avviò il furgone. Si era distratto con la demolizione dei palazzi e ora voleva recuperare il tempo perduto, parole, queste, insensate più di ogni altra, un’espressione assurda con la quale supponiamo di ingannare la dura realtà che nessun tempo perduto è recuperabile, come se, al contrario di questa verità, fossimo convinti che il tempo che credevamo per sempre perduto, avesse in definitiva deciso di restare immobile là dietro, aspettando, con la pazienza di chi ha tutto il tempo, che ci accorgessimo della sua mancanza. Stimolato dalla premura suscitata dai pensieri su chi è arrivato prima e chi arriverà dopo, il vasaio fece rapidamente il giro dell’isolato e imboccò la strada a destra che delimitava l’altra facciata dell’edificio.

... continua la lettura ...

     Aristotele sa che il grande merito di Platone è quello di aver nettamente distinto il mondo delle cose dal mondo dei valori. La vita umana – sostiene Platone – è fatta di cose sperimentalmente definibili però acquista un significato solo attraverso i valori (l’idea del Bene, del Bello, del Giusto), e l’esistenza dei valori rappresenta la "verità" cioè rappresenta il vero motivo per cui la vita valga la pena di essere vissuta: se viviamo unicamente per le cose materiali saremo sempre infelici. I valori sono trascendenti, stanno al di sopra della realtà e sono separati dalla realtà: sono collocati in un mondo – afferma Platone – che, quindi, risulta essere difficilmente raggiungibile. La realtà, in definitiva, – secondo il sistema di Platone – è formata da due mondi nettamente separati tra loro e impenetrabili: il mondo delle cose e il mondo delle Idee, e Platone – come sappiamo – cerca di risolvere in vari modi questa aporia, questa contraddizione.

     Aristotele sottopone il sistema platonico ad una critica rigorosa e pensa che nella realtà non può esistere questo dualismo, e si propone di superare questa contraddizione: i valori ideali – afferma Aristotele – pur rimanendo distinti dalle cose sensibili sono nelle cose stesse. Se così non fosse – sostiene Aristotele – la nostra vita terrena non potrebbe contenere in se stessa le ragioni del proprio essere. Secondo Platone le Idee sono l’essenza delle cose, e allora – afferma Aristotele – se le Idee sono l’essenza delle cose: come possono stare in un altro mondo diverso da questo che è il mondo delle cose? Secondo Platone le Idee sono immutabili mentre il mondo delle cose è soggetto al divenire, al cambiamento e allora – afferma Aristotele – come possono le Idee immutabili essere causa di questo mondo in trasformazione? Ciò che è Universale (le Idee) – afferma Aristotele – non può essere staccato dal particolare (dalle cose), ma Universale e particolare devono essere fusi in unità.

     Quindi la realtà – secondo Aristotele – è "unione" di Universale e di particolare e questa "unione" è la caratteristica di ogni sostanza, cioè di ogni singolo elemento individuale che sia una persona, un animale, una pianta o un oggetto. In ogni singolo elemento, e cioè nella sostanza individuale, ci sono dunque due componenti. In ogni sostanza individuale c’è – afferma Aristotele – una componente universale detta "forma" (in greco "morfé" oppure "eidos") che è il principio vitale ed è l’elemento intelligibile, e poi c’è una componente particolare detta "materia" (" üle") che è la passività ed è l’elemento indecifrabile. La "materia" è il sostrato, non ancora formato, che è pronto però a ricevere una determinata "forma" (fate conto di avere in mano un pezzo di argilla). Siccome la materia "può" assumere una determinata forma, Aristotele la chiama "potenza", in greco "dìnamis". La forma poi, poiché è "l’attuazione" di questa possibilità che ha la materia, viene chiamata da Aristotele: "atto", in greco "praxis". Il pezzo di argilla che avete in mano è "dìnamis", è una potenza, e la forma che gli date (qualunque sia) è "praxis", è un "atto". In questo modo – afferma Aristotele – una sostanza, in quanto composta di forma e di materia, è contemporaneamente "atto-praxis" e "potenza-dìnamis". Così il fiore sarà "atto" rispetto al seme (cioè sarà l’attuazione della forma che era in potenza nel seme) e sarà "potenza" rispetto al frutto (cioè avrà in sé la possibilità di produrre il frutto).

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Scegli un materiale di tuo gradimento, pensa a una forma che ti piace: a quale oggetto reale (a quale sostanza) vuoi dare esistenza?…

     Questa operazione – quella di dare esistenza alla materia con una forma – oggi l’avrete fatta chissà quante volte: il pensiero di Platone e di Aristotele non sta fuori dal mondo, ma nelle cose che noi facciamo normalmente per dar vita al mondo. Ogni sostanza cioè ogni elemento individuale (una persona, un animale, una pianta o un oggetto) è potenza e atto: "atto" rispetto all’elemento che lo segue nella gerarchia degli esseri, e "potenza" rispetto all’elemento che lo precede. Si forma così una "trafila di esseri" ciascuno dei quali – afferma Aristotele – è contemporaneamente potenza ed atto. Questa "trafila" però – scrive Aristotele – non può procedere all’infinito né in un senso né nell’altro: deve avere un fondamento. Questa "trafila degli esseri" è fatta come una "catena" costituita da anelli e quindi, perché abbia un fondamento, è necessario che ci sia un primo anello e un ultimo anello.

     Aristotele disegna questo suo sistema in un’opera – quella che viene considerata la più celebre opera di Aristotele – che s’intitola Metafisica. Leggiamo che cosa scrive Aristotele nel testo della Metafisica a proposito della trafila degli esseri:

LEGERE MULTUM….

Aristotele, Metafisica

 Della trafila degli esseri si dovranno ammettere allora un primo e un ultimo termine. Il primo termine sarà un Atto puro, cioè un atto senza potenza perché altrimenti si verrebbe ad ammettere un nuovo e superiore anello nella catena; l’ultimo termine sarà una pura potenza, cioè una materia prima senza alcuna determinazione formale cioè priva e "prima" di ogni forma.

     Quindi Aristotele, in realtà, non ammette l’esistenza concreta di questa "materia prima" perché tutto ciò che esiste – secondo il suo ragionamento –, appunto perché esiste, deve constare di potenza ed atto. Aristotele concepisce questa "materia prima" come una pura astrazione logica, cioè in quanto logicamente "astraibile" da ogni forma: difatti noi possiamo solo pensare ad una materia che non è ancora contrassegnata da alcuna forma. Il pezzo di argilla che abbiamo in mano è "materia prima" per modo di dire perché, anche se non lo abbiamo ancora lavorato, ha comunque una forma, e quindi il concetto di "materia prima" è astratto ma è pensabile in ragione del fatto che abbiamo in mente una forma da dare e noi la realtà la facciamo esistere nel momento in cui pensiamo di creare il passaggio dalla potenza all’atto.

     Questo ragionamento creativo in cui la persona ipotizza ed attua il passaggio dalla potenza all’atto è, per Aristotele, il "divenire". Le commentatrici e i commentatori del testo della Metafisica hanno denominato il concetto del "divenire" con il termine di "dialettica aristotelica". Dobbiamo subito dire che per secoli – per tutto il periodo del medioevo – la "dialettica aristotelica" è stata il punto di riferimento delle studiose e degli studiosi per interpretare la realtà.

     Leggiamo come Aristotele nel testo della Metafisica presenta il concetto del "divenire":

LEGERE MULTUM….

Aristotele, Metafisica

 Il "divenire" consiste nel passaggio dalla potenza all’atto: poiché ogni realtà sostanziale è "sinolo" di materia e di forma (Aristotele utilizza il termine "sýnolon" che definisce l’unità della sostanza, l’unione di materia e di forma; la parola "sýnolon" è composta da "sýn" che significa "insieme" e "hòlos" che significa "tutto") sarà quindi anche potenza ed atto, e realizzerà in sé il divenire rispetto agli esseri che lo seguono e lo precedono nella gerarchia dell’Universo. Per esempio: il fiore, già seme, diverrà frutto, attuando la forma che ha in sé.

Vi sono quattro specie di "divenire": quello che chiamerò "sostanziale", e cioè la nascita e la morte dei singoli individui; quello in base alla "quantità", e cioè accrescimento e diminuzione; quello in base alla "qualità", e cioè mutamento o alterazione, per esempio quando ciò che è bello diventa brutto; quello in base allo "spazio", e cioè il movimento vero e proprio.

Questo "divenire" è prodotto da quattro cause fondamentali che sono: la "causa efficiente", ossia ciò che dà la spinta al divenire, come nel caso di una statua è lo scultore; la "causa materiale", ossia la materia che diviene, nella realizzazione di una statua è il marmo; la "causa formale", ossia la forma assunta dalla materia, la forma che lo scultore dà al marmo; la "causa finale", ossia il fine a cui tende questo divenire, il fine che lo scultore si propone di raggiungere con la statua.

Queste quattro cause rimangono distinte quando a produrre è una persona, cioè in quei casi in cui il divenire non si attua senza l’intervento di un artefice esterno; ma nelle produzioni e nei mutamenti naturali la causa efficiente e quella finale si identificano con la causa formale: infatti il fine a cui tende il seme – e cioè il fiore – è contemporaneamente la forma che il seme mira ad attuare e la causa efficiente che origina il suo divenire e la sua trasformazione in fiore. …

     Abbiamo detto che questa dialettica – questa catena potenza-atto – impone ad Aristotele, per l’impossibilità di procedere all’infinito, un primo ed ultimo anello: il primo anello Aristotele lo chiama "Atto puro". L’Atto puro si presenta come una perfezione suprema che ha attuato in sé tutto ciò che c’era da attuare e che quindi non ha in sé nulla di potenziale: in altre parole non ha da raggiungere alcun fine fuori di sé. L’Atto puro aristotelico è una pura Forma (con la F maiuscola), libera da ogni contaminazione della materia. L’Atto puro non deve attuare alcun fine: sarà il mondo delle cose, quindi, a tendere a Lui come al fine ultimo e come alla causa finale di ogni essere. Aristotele, con una certa ironia, scrive che questo Atto puro potrebbe essere identificato con un’entità divina, con Dio.

     Difatti la Metafisica di Aristotele diventa nel medioevo – in particolare dopo l’anno Mille – il trattato di teologia più studiato, anche se chi lo studia lo fa a suo rischio e pericolo, e abbiamo già incontrato Averroè, a questo proposito, come autore del grande Commento sulla Metafisica di Aristotele. Dopo l’anno Mille la grande operazione attuata dal movimento della Scolastica (questo movimento culturale lo studieremo in modo più particolareggiato in futuro) è stata quella di cristianizzare la Metafisica di Aristotele: difatti il termine "metafisica" ha assunto un significato del tutto nuovo rispetto a quello delle origini che significa semplicemente "opera scritta dopo la Fisica".

     Il concetto dell’Atto puro aristotelico si presta perfettamente a disegnare l’idea di Dio ma le affermazioni fatte esplicitamente da Aristotele nel testo della Metafisica hanno complicato le cose per molto tempo. Aristotele nel testo della Metafisica afferma che: «L’Atto puro potrebbe essere Dio ma se fosse Dio secondo il concetto della religione, sarebbe dovuto intervenire, creando, giudicando, provvedendo, nelle cose del mondo, ma se riflettiamo – afferma Aristotele – a un Dio con le caratteristiche dell’Atto puro, appunto perché perfetto, non è dato intervenire nelle cose di questo mondo e se gettasse uno sguardo sul genere umano sarebbe preso dal ridere come gli spettatori di fronte alla commedia, per cui l’Atto puro non può che essere un Motore Immobile». Aristotele, rimanendo coerentemente fermo nell’ambito della ragione, afferma che L’Atto puro anche se fosse Dio, essendo una "pura Forma non contaminata dalla materia e priva di potenzialità", non potrebbe essere "provvidenza" ma è un Motore Immobile. Queste affermazioni fanno di Aristotele, nel medioevo, un eretico, un blasfemo ma ci penserà Tommaso d’Aquino (a suo rischio e pericolo) ad utilizzarlo con grande intelligenza e a portarlo nell’ambito del Cristianesimo.

     L’idea aristotelica del Motore Immobile ha fatto riflettere per secoli le studiose e gli studiosi.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

A che cosa ti fa pensare la parola "motore": ad un apparato, ad un dispositivo, ad un congegno oppure ad un motivo, ad uno stimolo, ad un impulso?… Quale altra parola, o quale episodio da raccontare, ti fa venire in mente il termine "motore"?

Scrivi quattro righe in proposito…

     Ma ascoltiamo che cosa scrive Aristotele a proposito del Motore Immobile:

LEGERE MULTUM….

Aristotele, Metafisica

 Del Motore Immobile diciamo: "motore" perché muove il mondo, vale a dire lo attrae come Causa finale, e "immobile" perché a sua volta come Perfezione suprema non è mosso da nulla. Il Motore Immobile è l’Atto puro e quindi Assoluta perfezione: in Lui allora l’essenza implica l’esistenza, cioè è causa di se stesso perché altrimenti, venendo a dipendere da altro per la propria esistenza, non sarebbe più perfetto.

Il Motore Immobile non può essere attività pratica perché, in quanto perfetto, non ha più nulla da attuare: sarà dunque attività teoretica. Ma pur essendo attività teoretica ossia Pensiero non potrà avere in altro l’oggetto della propria contemplazione, perché in tal modo verrebbe a dipendere da altro e non sarebbe più perfetto. Sarà allora Pensiero del Pensiero, cioè contemplerà se stesso. Nei riguardi del mondo e del suo divenire se il Motore Immobile fosse Dio sarebbe estraneo ed indifferente. Non solo non se ne occuperebbe ma ignorerebbe perfino l’attuarsi delle varie forme nel divenire: se il Motore Immobile fosse Dio, come Forma pura e Atto puro, conoscerebbe solo le pure forme appunto perché contemplerebbe se stesso nella sua immutabile beatitudine.

     Capite benissimo come la Metafisica di Aristotele – nella sua coerente laicità – prepari la strada alla disciplina della teologia, e sarà il Cristianesimo, con il movimento della Scolastica, durante un lungo e interessante travaglio intellettuale, ad avvalersene per costruire l’immagine del Dio cristiano.

     Ma prima della Metafisica – sulla quale torneremo – Aristotele si è occupato della Fisica. Anche la Fisica di Aristotele è un’opera fondamentale nella Storia del Pensiero Umano e si compone di otto Libri (il settimo Libro ha due stesure). In che modo Aristotele si occupa della "fisica"? Se ne occupa facendo conciliare la struttura dell’Universo con la riflessione che scaturisce dai temi "metafisici" che abbiamo appena trattato. Nella Metafisica Aristotele riprende parte dei temi che ha già trattato nella Fisica (per esempio il tema del Motore Immobile) e, in questo senso la "fisica" di Aristotele viene considerata (dalle pensatrici e dai pensatori del ‘900) come una "meta-fisica" della natura.

     Nel testo della Fisica Aristotele afferma che nell’Universo si forma una scala di valori (una gerarchia) per cui dalle forme inferiori si passa alle forme superiori in vista di un Fine ultimo che è unico per tutto l’Universo e che è, appunto, la tensione verso l’Atto puro. Qui possiamo riconoscere un riferimento al concetto dell’Eros di Platone. E quali sono i gradini di questa scala di valori (di questa gerarchia) che tende a salire verso l’Atto puro e come è fatto l’Universo? Lasciamo che sia Aristotele a spiegarcelo, consapevoli del fatto che questo modello, per secoli, ha rappresentato l’immagine dell’Universo e ne siamo ancora fortemente condizionate, condizionati: leggiamo una serie di frammenti dalla Fisica.

LEGERE MULTUM….

Aristotele, Fisica

 Nell’Universo la scala di valori è formata da quattro gradi gerarchici: natura inorganica, regno vegetale, regno animale, regno umano. Tale gerarchia ha il suo culmine nell’Atto puro, aspirazione e fine ultimo di tutto l’Universo. L’Universo si divide in mondo celeste o sopralunare e mondo terrestre o sublunare. Il mondo celeste è formato dal cielo delle stelle fisse e dai cieli dei sette pianeti: Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno. In questi cieli sono fissati i vari astri. Di per sé i vari cieli sono sferici e concentrici, e infine sono dotati di uno spirito o intelligenza propria. Il mondo celeste quindi è animato e intellettuale perché sottoposto all’influsso di queste intelligenze. Il mondo terrestre è formato dalla Terra che è sferica, immobile e al centro di tutto l’Universo. Il mondo celeste è formato dall’etere o "quinta essenza", che è incorruttibile e si muove di moto circolare appunto perché questo tipo di movimento è perfetto: infatti non ha né inizio né fine e quindi è eterno, ha i suoi punti equidistanti dal centro e infine è uniforme. Il mondo terrestre invece è costituito da quattro elementi – acqua, aria, terra e fuoco – che si muovono di moto rettilineo, imperfetto: questo movimento ha sempre due limiti: l’alto e il basso, è accelerato o ritardato, non ha centro ma solo una direzione. L’etere non ha né gravità né leggerezza e quindi va in circolo. Gli altri quattro elementi che compongono la terra sono leggeri, il fuoco e l’aria, e vanno in alto, o sono pesanti, l’acqua e la terra, e vanno in basso: l’alto quindi è il luogo in cui si radunano il fuoco e l’aria, e il basso è il luogo ove confluiscono l’acqua e la terra.

     Su questa bella pagina della Fisica di Aristotele c’è da fare una importante considerazione: questo schema dell’Universo, con tutti i suoi elementi e tutte le sue caratteristiche (filtrate attraverso Averroè e Tommaso d’Aquino), costituisce la scenografia su cui Dante Alighieri rappresenta le tre cantiche della sua Commedia e quindi capite che a ridosso delle opere di Aristotele – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – incomincia (potrebbe incominciare) un altro Percorso ma noi adesso dobbiamo concludere questo viaggio e, poi, sulla Commedia di Dante, in questo momento, ci sono molti supporti in circolazione anche se la Scuola sarebbe in grado di fare un ulteriore buon lavoro di alfabetizzazione.

     Qual è il procedimento attraverso il quale l’essere umano può giungere alla conoscenza dell’Universo, della realtà: in che modo noi conosciamo le cose? Nella Fisica e nella Metafisica (queste due opere – abbiamo detto – si compenetrano) Aristotele afferma che quando nasciamo la nostra anima non conosce nulla, ma è come una "tabula rasa", cioè una lavagna ancora priva di segni su cui i sensi tracceranno le prime conoscenze. Aristotele supera l’innatismo di Platone il quale afferma – lo abbiamo studiato – che l’anima ha soggiornato nel mondo delle Idee e sa già tutto, poi, incarnandosi ha perso la memoria e quindi la conoscenza è reminiscenza, è il recupero dei ricordi. Aristotele sostiene che, mediante i cinque sensi, noi cogliamo la forma sensibile, cioè l’aspetto particolare e contingente di un determinato essere: questa fase nel suo complesso viene denominata "sensazione".

     Ma oltre ai cinque sensi speciali – il tatto, il gusto, l’olfatto, l’udito, la vista – Aristotele sostiene l’esistenza di un sesto senso, che egli chiama "senso comune", il quale ha due compiti. Il primo compito del "senso comune" è quello di farci acquisire le sensazioni, mentre il secondo compito è quello di coordinare le sensazioni (le forme sensibili) date dai vari sensi pur distinguendole l’una dall’altra in modo da evitare una confusione sensoriale che limiterebbe o escluderebbe la conoscenza: il sesto senso, il "senso comune", per esempio, distingue il gusto acre dal colore giallo, pur attribuendo entrambe le sensazioni alla sostanza del limone e, di conseguenza, pur avendo due sensazioni diverse noi ci accorgiamo che esse si riferiscono alla stessa sostanza. A questo punto le sensazioni – afferma Aristotele – vengono conservate da quella che lui chiama la "fantasia" o "immaginazione": con questa facoltà (la "fantasia" o "immaginazione") la memoria si assicura il possesso permanente delle sensazioni. Infine – afferma Aristotele – le singole immagini (le singole forme sensibili) si fondono insieme nell’immagine generica o "schema rappresentativo" che, senza uscire dai limiti della sensazione, mantiene i caratteri più salienti e comuni delle varie cose (persone, animali, piante, oggetti) con le quali siamo venute, siamo venuti a contatto, eliminando ciò che vi è di particolare nelle singole cose.

     A questo punto nel cammino della conoscenza si attua il passaggio dallo stadio particolare a quello universale per cui dall’immagine generica viene astratta la forma intelligibile o "concetto": cioè una forma che è universale e necessaria ed è contenuta in potenza nell’immagine generica. A provocare questo processo di astrazione è "l’intelletto", cioè una facoltà superiore che può cogliere la forma intelligibile cioè l’essenza di una cosa.

     Facciamo un esempio. Quando noi, da bambine o da bambini, abbiamo cominciato a vedere, a toccare, ad annusare, ad assaggiare, a strizzare i gatti in generale e il nostro gatto in particolare abbiamo, con i sensi, fatto esperienza di sensazioni di questa sostanza felina. E, con l’immaginazione – afferma Aristotele – abbiamo conservato nella memoria queste sensazioni gattine, queste forme sensibili che, fuse insieme attraverso il "sesto senso o senso comune", hanno creato nella nostra anima – afferma Aristotele – lo schema rappresentativo del gatto, non del gatto in particolare, ma del gatto ideale, della sua forma intelligibile. Quindi con i sensi, con l’immaginazione e con il sesto senso noi abbiamo interiorizzato il "concetto" del gatto e se, ora, una di queste simpatiche bestiole (ma non sempre) entrasse qui, tutte e tutti noi saremmo in grado di dire che "è un gatto" perché in potenza nella nostra mente c’è la forma intelligibile del gatto. Questa forma, il "concetto", essendo in potenza, è così capace di mettere in atto la conoscenza e a questo punto noi possiamo dire: che questo gatto non lo conosciamo, o dire che non è un gatto ma è una gatta, o dire che è mio, o dire che è di Aristotele.

     Abbiamo detto che a provocare questo processo di astrazione è "l’intelletto", cioè una facoltà superiore che può cogliere la forma intelligibile cioè l’essenza di una cosa. Il tema dell’intelletto è problematico in Aristotele per la gioia delle commentatrici e dei commentatori che, nei secoli, si sono cimentate e cimentati su questo significativo argomento. La questione è controversa e, forse, è insolubile, perché i testi delle opere di Aristotele – a cominciare dalla Fisica e dalla Metafisica – non sono troppo chiari ma sono contraddittori.

     Aristotele, per rimanere fedele alla logica della sua dialettica per cui la realtà, per esistere, deve passare dalla potenza all’atto (se c’è un albero ci vuole un frutto, se c’è un frutto ci vuole un seme, se c’è un seme ci vuole un albero…), deve ammettere due tipi di intelletto perché se c’è un intelletto che fa conoscere, che è in atto, vuol dire che c’è anche un intelletto in potenza che giustifica questo atto, quindi l’intelletto deve essere di due tipi.

     Il primo tipo di intelletto lo chiama "passivo", e l’intelletto passivo è "in potenza" ed è capace di cogliere la forma intelligibile: con l’intelletto passivo, che è proprio di ogni singola persona, siamo capaci – afferma Aristotele – di renderci conto che un gatto corrisponde allo schema rappresentativo di un gatto, ma questa, però, è solo una parvenza di conoscenza. È una parvenza di conoscenza – afferma Aristotele – perché la forma intelligibile è in potenza nell’immagine generica e, se vogliamo conoscere davvero (questo gatto), la forma intelligibile deve passare dalla potenza all’atto: ora, siccome nulla passa dalla potenza all’atto senza l’intervento di un elemento già in atto, questo significa che sul nostro intelletto che è "passivo" deve agire, dal di fuori, un intelletto superiore, che Aristotele chiama "intelletto attivo" il quale, appunto perché è già atto, trasforma in atto il concetto contenuto in potenza nell’immagine generica. Aristotele afferma che questo "intelletto attivo" non è di alcuna persona particolare, è unico per tutti, è eterno e, pertanto, potrebbe identificarsi con l’Atto puro, col Motore Immobile: però – come abbiamo detto – la questione è controversa e forse insolubile, perché i testi aristotelici non sono troppo chiari su questo punto.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Abbiamo fatto entrare l’esemplificativo gatto di Aristotele: scrivi quattro righe (al presente o al passato) sul tuo gatto o sulla tua gatta

Se poi vuoi conoscere uno scritto molto interessante ed ironico sul gatto e sulla gatta puoi leggere – cercandolo in biblioteca – il libro intitolato Il gatto scritto dal medico e scrittore milanese Giovanni Raiberti nel 1845: è una lettura davvero divertente…

     Aristotele ha affrontato i temi della conoscenza e della logica in molte delle sue opere, una di queste opere s’intitola Categorie. Le "categorie di Aristotele" è uno degli argomenti più significativi del sistema di pensiero aristotelico.

     Leggiamo un brano tratto dal testo delle Categorie:

LEGERE MULTUM….

Aristotele, Categorie

 Il concetto o forma intelligibile è l’essenza delle cose, che è stata separata dalle cose stesse mediante il processo di astrazione attuato dal nostro pensiero: appunto in quanto essenza delle cose il "concetto" possiamo chiamarlo anche "sostanza seconda". I concetti sono collegati fra di loro: un concetto è incluso in un concetto più generale, e questo in un altro più generale ancora: il concetto di quadrato è incluso in quello di rettangolo e così via. Man mano che nella serie di concetti si sale diminuisce la "comprensione" perché diminuisce il complesso delle note che il concetto contiene in sé, e aumenta la "estensione", il numero degli esseri che esso abbraccia, infatti, per esempio, il rettangolo ha meno note del quadrato perché il quadrato richiede quattro lati e quattro angoli uguali mentre il rettangolo solo quattro angoli uguali, ma il rettangolo comprende un maggior numero di esseri, infatti i quadrati sono solo una parte dei rettangoli. Si ha dunque una gerarchia di concetti che però non può prolungarsi all’infinito, per cui si arriva da un lato – e cioè dall’alto verso il basso, nel passaggio da genere a specie – alla conoscenza degli individui che, appunto perché tali, presentano il massimo di comprensione e il minimo di estensione, per esempio: la conoscenza che abbiamo del nostro cavallo, e questi individui possono essere colti solo con i sensi; dall’altro lato – e cioè dal basso in alto, nel passaggio da specie a genere – si arriva a dieci concetti detti categorie che presentano il massimo di estensione e il minimo di comprensione, e neppure le categorie possono essere colte dall’intelletto, ma per coglierle occorrerà l’intuizione. Queste dieci categorie sono quelle di sostanza, qualità, quantità, relazione, luogo, tempo, azione, possesso, stato e passione: al di là di questi concetti sommi non si può andare perché tutti i concetti che noi possiamo "predicare", cioè affermare, di un soggetto, si riducono a queste dieci categorie. Per questo le categorie assumono anche il nome di "predicati supremi". L’analisi di un concetto nei suoi elementi costitutivi si chiama "definizione" e questi elementi sono due: il primo elemento è il "genere prossimo", cioè il concetto più generale in cui rientra il concetto da esaminare, per esempio il concetto di "essere umano" rientra nel concetto generico di "animale", il secondo elemento è la "differenza specifica" ossia la caratteristica propria di quell’ente da definire, per cui l’ente stesso si distingue da tutti gli altri enti appartenenti allo stesso genere prossimo, per esempio la "persona" si distingue da ogni altro animale per la ragionevolezza. Le dieci categorie non si possono definire, infatti esse non rientrano in un concetto più ampio perché rappresentano già altrettanti concetti sommi. Le categorie pertanto non si apprenderanno con la definizione, ma potranno solo essere intuite. Similmente i singoli individui non saranno oggetto di definizione perché ogni determinazione avrà sempre valore generico e mai specifico: del mio cavallo particolare, quand’anche dicessi che è bianco, veloce, scattante, non farei altro che fornire caratteri comuni a molti altri cavalli. Soltanto i sensi potranno quindi farci cogliere il singolo individuo: e la cosa è spiegabile in quanto il principio di individuazione – quell’insieme di note caratteristiche per cui un determinato individuo si distingue da ogni altro individuo della stessa specie – è dato dalla materia che si coglie appunto con i sensi. Solo il concetto è definibile, non la categoria né l’individuo.

     Che cosa sono le categorie? Le categorie – afferma Aristotele – sono i dieci concetti più generali oltre i quali non si può andare nella scala (nella gerarchia) delle idee, quindi, è nel quadro di questi predicati supremi – sostanza, qualità, quantità, relazione, luogo, tempo, azione, possesso, stato e passione – che sta la possibilità della conoscenza della realtà.

     Qual è adesso, secondo lo schema delle categorie, il quadro della conoscenza in riferimento a ciascuna o a ciascuno di noi ? Secondo lo schema delle categorie se la "sostanza" (il soggetto) è ciascuna o ciascuno di noi, la "quantità" è una o uno, la "qualità" è che ciascuna o ciascuno, in questo momento, è attenta o attento, la "relazione" è data per ciascuna o per ciascuno dalle compagne e dai compagni di scuola con le quali o con i quali si comunica di più, il "luogo" è questo locale, il "tempo" è che ciascuna o ciascuno è qui da una cert’ora, lo "stato" è che ciascuna o ciascuno è seduta o seduto (oppure in piedi), il "possesso" è che ciascuna o ciascuno possiede un repertorio, "l’azione" è che ciascuna o ciascuno ascolta, la "passione" è che ciascuna o ciascuno si è incuriosita o incuriosito oppure non vede l’ora di andarsene via.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Per esercizio puoi divertirti a scegliere una sostanza (un soggetto: una persona, un animale, una pianta, una cosa) e a disporla nel quadro delle categorie aristoteliche, rispondendo in modo circostanziato e particolareggiato

     Questo impianto che inquadra tutte le sostanze nel sistema delle categorie permette – secondo Aristotele – di formulare un "giudizio" sulle sostanze: sulle persone, sugli animali e sulle cose. Per verificare se un giudizio sia giusto o sbagliato è necessario – secondo Aristotele – il "ragionamento", che è quel meccanismo di pensiero che mette in relazione tra loro i vari giudizi.

     Aristotele pensa che esistano due tipi di ragionamento: quello "induttivo" che va dal particolare all’universale, e quello "deduttivo" (che è proprio della scienza) che va dall’universale al particolare. La forma tipica di ragionamento deduttivo per Aristotele è il "sillogismo" cioè quel tipo di ragionamento in cui, supposti come veri due giudizi detti premesse, si ricava da essi un terzo giudizio detto illazione.

     Ma leggiamo, a questo proposito, che cosa scrive Aristotele nella sua opera intitola Categorie nella quale fa un significativo esempio di "sillogismo" (sylloge sylloge, in greco, significa "raccolta"):

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Aristotele, Categorie

Il "sillogismo" è quel tipo di ragionamento in cui, supposti come veri due giudizi detti premesse, si ricava da essi un terzo giudizio detto illazione così per esempio dalla premessa maggiore «tutti gli uomini sono mortali» e da quella minore «Socrate è un uomo», si ricava l’illazione «Socrate è mortale». Naturalmente le premesse di un sillogismo devono essere ambedue dimostrate con un nuovo sillogismo, le cui premesse a loro volta dovranno essere provate da altri sillogismi, e così via. Ma non si dovrà procedere all’infinito: basterà giungere ai princìpi logici fondamentali, cioè a quei giudizi che non hanno bisogno di alcuna dimostrazione in quanto sono evidenti per se stessi. Questi princìpi che, appunto perché hanno la verità in se stessi, possono costituire le prime premesse di ogni dimostrazione sono tre: il "principio di non contraddizione" per cui non è possibile che la stessa cosa convenga e insieme non convenga ad un oggetto nello stesso tempo e sotto lo stesso rapporto (A non può essere non-A); il "principio di identità", per cui una cosa è identica a se stessa (A è A); il "principio del terzo escluso", per cui una cosa o è o non è, o possiede o non possiede una data proprietà, e ogni altra, e terza, eventualità viene esclusa (una cosa o è A o è non-A). Se un sillogismo deriva le sue premesse da questi primi princìpi, esso sarà "dimostrativo (apodittico)"; se le premesse sono probabili, cioè sembrano verosimili a tutte le persone o alla maggior parte di esse o ai dotti, il sillogismo si dirà "dialettico"; se le premesse sembrano probabili ma non lo sono, esso assumerà il nome di "sofistico". Naturalmente la deduzione è applicabile solo a quelle dottrine in cui la conseguenza è già contenuta nelle premesse e da queste può ricavarsi per analisi, cioè è applicabile solo al campo matematico. Nel campo del ragionamento: induzione e deduzione si fondono pertanto nel procedimento scientifico.

     È chiaro che queste affermazioni di Aristotele ci possono sembrare banali – gli studi a questo proposito (su come si "ragiona") hanno fatto molti progressi e stanno ancora continuando – ma è stato lui a codificare per primo questi procedimenti logici che oggi consideriamo elementari.

     La sostanza più complicata su cui indagare è – anche per Aristotele – l’anima. A questo proposito – come gia sappiamo – Aristotele ha scritto un’opera significativa intitolata Anima, in greco Perì Psiches, in latino De Anima. Quest’opera l’abbiamo già incontrata sulla corsia che attraversa lo spazio dell’affresco rinascimentale, de La Scuola di Atene, perché – come sicuramente ricordate – nel Rinascimento ha avuto un notevole successo, ma dobbiamo anche ricordare il penetrante commento di Hegel (che abbiamo incontrato qualche Percorso fa) al De Anima di Aristotele. Quando nell’autunno scorso (durante il quinto e il sesto itinerario), con Fedra Inghirami, siamo andati in ricognizione nell’ufficio di Giulio II, per osservare a quali letture il papa si stava dedicando, abbiamo visto, aperto sul suo tavolo anche – insieme ad altri testi – il Commento al Commento al "De Anima" di Aristotele di Alessandro di Afrodisia scritto da Pietro Pomponazzi, il personaggio più significativo tra i Neoaristotelici rinascimentali.

     Ma che cosa scrive Aristotele a proposito dell’anima? Leggiamo un frammento dalla sua opera:

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Aristotele, Anima

 L’anima è la forma del corpo, cioè rappresenta il fine per cui il corpo esiste: materia e forma sono indissolubili, e pertanto l’anima sarà indissolubile dal corpo. Nella gerarchia degli esseri abbiamo trovato vari gradi e questi gradi si ritrovano nella vita dell’anima, per cui ad ogni tipo di esseri corrisponde un determinato tipo di anima.

Il "grado vegetativo" è proprio delle piante, degli animali e degli umani e provvede alla nutrizione e alla riproduzione; il "grado sensitivo" è proprio degli animali e degli umani, e provvede alla sensibilità e al movimento; il "grado intellettivo" è proprio della persona e, come dice il nome, provvede all’intellezione. Il grado superiore può assolvere le veci del grado inferiore: così nella persona il grado intellettivo assolve le funzioni proprie del grado vegetativo e sensitivo. Abbiamo parlato di "gradi" e non di "anime" infatti non vi sono tre anime (come afferma Platone), ma vi è una sola anima con tre funzioni che tendono tutte insieme allo stesso fine, cioè alla vita della persona.

     Per quanto riguarda il tema dell’immortalità o della mortalità dell’anima il pensiero di Aristotele è piuttosto oscuro a questo riguardo. Dalla sua argomentazione si può ritenere – come pensano i Neoaristotelici rinascimentali – che Aristotele considerasse l’anima mortale, infatti, come sappiamo, tranne che per l’Atto puro e per la Materia prima, il rapporto di unità tra la materia e la forma è sempre indissolubile e quindi non è concepibile che l’Anima, che è la forma, possa vivere separata dal corpo, che è la materia. E poi, se si ammette un unico intelletto attivo universale, l’immortalità (o meglio l’eternità) è riservata a questo intelletto attivo, mentre i singoli intelletti passivi (cioè le singole persone) sono mortali.

     L’opera di Aristotele sull’Anima contiene una riflessione molto significativa: mentre le piante e gli animali agiscono inconsapevolmente in vista di un fine loro proprio che è la perpetuazione della specie, la persona, secondo Aristotele, è chiamata ad un destino più alto: quello di valorizzare la vita sino ai massimi livelli dell’attività spirituale. L’anima umana – afferma Aristotele – è dotata di parti superiori come l’immaginazione, la memoria, l’intelletto produttivo ed è per questo che la psicologia aristotelica passa dal campo della fisica a quello della metafisica. E l’opera intitolata Anima funge proprio da cerniera tra la Fisica e la Metafisica.

     E con questa considerazione dobbiamo ritornare quindi alla Metafisica dalla quale il nostro corposo itinerario di questa sera ha preso le mosse.

     Che cos’è la Metafisica di Aristotele? Intanto il titolo di Metafisica è stato dato ai testi che compongono quest’opera ben tre secoli dopo la morte di Aristotele: il termine greco Ta meta ta physika significa letteralmente "Opera da leggere dopo [meta] la Fisica". Quest’opera è formata da quattordici libri e contiene i testi delle Lezioni tenute da Aristotele al Liceo e poi alcune parti (non molte pagine e facilmente identificabili) che le studiose e gli studiosi considerano non autentiche. Qual è il tema conduttore della Metafisica? In questo Percorso, rispetto alla Metafisica di Aristotele, possiamo solo rispondere a questa prima fondamentale domanda: ci vorrebbe un Percorso intero per studiare la Metafisica di Aristotele! Di solito lo studio di quest’opera – nei suoi temi specifici – viene demandato al periodo medioevale perché è proprio durante l’età di mezzo (in particolare dall’anno Mille in avanti) che le Opere di Aristotele vengono studiate con maggior interesse e anche noi, quindi, torneremo sulla Metafisica di Aristotele (dopo aver acquisito ora queste prime chiavi) quando (un futuro bisogna darselo), sui sentieri della Scolastica, attraverseremo gli affascinanti territori medioevali.

     Qual è il tema conduttore della Metafisica? Aristotele afferma che i "valori ideali" (le idee, le parole, i simboli), pur rimanendo distinti dalle cose sensibili, sono nelle cose stesse, e le cose hanno un senso proprio perché contengono "valori ideali". E la "metafisica" – questo titolo che è nato come un termine strumentale per indicare gli scritti da leggere dopo (meta) la Fisica – ha quindi dato il nome ad una disciplina che si occupa della ricerca dei valori ideali presenti nelle cose materiali e difatti, scrive Aristotele, ogni persona aspira a questa ricerca e deve imparare a metterla in atto.

     La Metafisica di Aristotele inizia con una frase fulminante che dà un senso alla vita delle persone e la si impara a memoria senza nessuna difficoltà questa frase e la si sussurra tutte le volte che ci si sente attratte e attratti da un interesse intellettuale: «(Pàntes àntropoi toù eidène opègonte fusei) Tutti gli esseri umani per natura tendono al sapere.», così inizia il testo della Metafisica di Aristotele e questa frase dovrebbe essere scritta (anche idealmente) sulla porta di tutte le Scuole. Questa affermazione – «Tutti gli esseri umani per natura tendono al sapere.» – significa che una cosa ha valore non per l’oggetto che è, ma per l’idea, per le idee, per il significato ideale, che contiene in sé. Noi entriamo in possesso di una cosa non quando ce ne appropriamo in quanto oggetto materiale ma quando siamo in grado di conoscerne il valore ideale: la tensione per sapere quale sia il valore ideale di una cosa – se in quella cosa c’è l’idea di bene, di buono, di bello, di giusto – è l’esercizio della "metafisica".

     Si ha l’impressione che l’Umanità non abbia ancora imparato a riflettere, prima di tutto, in termini "metafisici": oggi nella società globalizzata, prima di tutto, si ragiona in termini di "mercato", e il mercato – allude Aristotele – è una cosa utile, positiva, efficace; e allora perché è spesso come una bilancia squilibrata (che fa i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri), questo avviene – allude Aristotele – perché non si valorizzano le idee di bene, di buono, di bello, di giusto, contenute in questa cosa.

     E qui – nella Metafisica – appare il primo tema significativo: i valori ideali che sono contenuti nelle cose (in tutte le cose) sono già "in atto" nelle cose stesse (ci sono davvero i valori dentro le cose) oppure sono "in potenza" e spetta alla persona metterli in atto (bisogna metterceli dentro i valori alle cose)? Aristotele non dà una risposta: la Scolastica medioevale su questo primo tema significativo costruisce diverse linee di tendenza contrapposte, ma questi argomenti – come abbiamo detto – sono collocati su un altro territorio, sugli itinerari di viaggi futuri. Questi concetti – contenuti nella Metafisica – Aristotele ha cominciato ad elaborarli come studente dell’Accademia di Platone e le studiose e gli studiosi affermano che i due apparati di pensiero – quello di Platone e quello di Aristotele – si completano in modo mirabile.

     Aristotele – come ci ha già detto Diogene Laerzio – è stato il discepolo dell’Accademia che ha ripensato più a fondo il pensiero di Platone tanto da creare un sistema nuovo. Un sistema che però – come possiamo capire osservando La Scuola di Atene – non avrebbe potuto aver inizio senza l’apporto del "dito" di Platone rivolto verso l’alto.

     La figura di Aristotele al centro de La Scuola di Atene è – come tutti i personaggi che abbiamo incontrato nello spazio dell’affresco – uno straordinario contenitore di idee. I membri del gruppo di studio che programmano il contenuto dell’affresco ritengono che dalla figura di Aristotele debbano emergere i contenuti di almeno tre delle sue opere: la Fisica, l’Anima e la Metafisica. Queste opere – come abbiamo detto più volte – sono state, per lungo tempo, considerate ufficialmente, dagli apparati ideologici religiosi, eretiche e blasfeme, ma, paradossalmente, dall’anno Mille, le opere di Aristotele, in maniera organica insieme ai dialoghi di Platone, vanno a formare la piattaforma ideologica, salda e potente, su cui viene costruita la dottrina del Cristianesimo. E questo singolare paradosso della Storia della Cultura, della Storia del Pensiero Umano, è molto interessante come oggetto di studio.

     In attesa di studiare questo singolare paradosso nei suoi particolari più rilevanti nel corso dei Percorsi futuri, la prossima settimana, a questo proposito, prenderemo in considerazione alcune linee di tendenza in funzione di questo nostro Percorso, di questo viaggio di studio che ci ha messo in contatto con la sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele.

     E ora, per concludere, e anche per capire come i concetti della Metafisica di Aristotele entrino nella Letteratura, ritorniamo sul testo del romanzo del quale abbiamo già letto alcune pagine. La Letteratura spesso descrive il mondo per mettere in evidenza che una cosa ha valore non per l’oggetto che è ma per le idee di bene, di buono, di bello, di giusto, che una cosa contiene in sé.

     Riprendiamo il testo de La caverna dal punto in cui siamo arrivati a leggere: il protagonista, il vasaio Cipriano Algor, è fortemente irritato, al Centro commerciale hanno voluto solo la metà dei suoi oggetti di terracotta e gli hanno detto, per ora, di non portarne più, ma lui ha capito che dovrà cessare la fornitura e quindi, scoraggiato e irritato, decide di fermarsi con il suo camioncino nella zona più malfamata della periferia pronto a farsi rapinare dai baraccati che vivono lì. Ma tutto si svolge in modo diverso da come lui ha pensato: perché è vero che ci sono le "cose" con la loro consistenza materiale ma è altrettanto vero che ci sono anche i "valori" con la loro potenzialità ideale e sono proprio questi che danno un senso alle cose, al mondo, alla vita, e allora leggiamo.

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José Saramago, La caverna (2000)

 Il vasaio fermò il furgone, abbassò i vetri da un lato e dall’altro, e attese che spuntasse qualcuno a derubarlo. Non di rado succede che certi avvilimenti d’animo, certi scossoni della vita spingano la vittima a decisioni drammatiche come questa, se non peggiori. Arriva un momento in cui la persona sconvolta o ingiuriata ode una voce urlare dentro la sua testa, Perduto per dieci, perduto per cento, e allora, secondo le peculiarità della situazione in cui si trova e del posto dove lei lo ha trovato, o spende gli ultimi soldi rimasti per un biglietto della lotteria, o lancia sul tavolo da gioco l’orologio che aveva ereditato dal padre e il portasigarette d’argento che le ha dato la madre, o scommette ciò che possiede sul rosso malgrado abbia visto che il colore è uscito cinque volte di seguito, o esce da solo dalla trincea e corre con la baionetta abbassata contro la mitragliatrice del nemico, oppure ferma questo furgone, abbassa i vetri, poi apre gli sportelli e si mette ad aspettare che, con i randelli del solito, con i rasoi di sempre e le necessità del momento, vengano a saccheggiarlo dalle baracche, Se quelli non li hanno voluti, se li prendano questi, fu l’ultimo pensiero di Cipriano Algor. Passarono dieci minuti senza che nessuno si avvicinasse per commettere l’anelato latrocinio, un quarto d’ora trascorse senza che neppure un cane randagio fosse salito sulla strada a fare la sua pipì contro la ruota e fiutare il contenuto del furgone, e stava ormai per scadere la mezz’ora quando finalmente si avvicinò un uomo sudicio e di pessimo aspetto che domandò al vasaio,

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     Le figure di Platone e di Aristotele, dipinte da Raffaello una accanto all’altra ne La Scuola di Atene, indirizzano la nostra mente verso Toledo (e sapete dove si trova!) intorno all’anno Mille. Il primo millennio dell’era cristiana inizia con una significativa operazione culturale: a Toledo, in territorio iberico amministrato dagli Arabi, intorno all’anno Mille si riuniscono intorno ad un tavolo intellettuali arabi, ebrei, cristiani e laici. Su questo tavolo ci sono, apparecchiate, le opere di Aristotele e di Platone. Questi intellettuali di diverse culture si sono riuniti per chiedersi: che cosa ci unisce? E si danno anche una risposta: le parole-chiave e le idee-cardine del pensiero di Platone e di Aristotele possono essere un punto d’unione.

     Perché la sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele è un punto d’unione tra culture diverse? Bella domanda alla quale, la prossima settimana, solo in piccolissima parte potremo dare una risposta perché, in realtà, questa domanda si colloca su un altro territorio e noi non possiamo sconfinare che per pochi passi perché dobbiamo rimanere fedeli allo spazio che stiamo attraversando e al viaggio che abbiamo intrapreso in autunno e che sta per avviarsi, sulla ali della primavera, verso la conclusione ma ci sono ancora tre itinerari (più uno, ridotto al minimo), e quindi in viaggio continua.

     La Scuola è qui…

 

Lezione del: 
Venerdì, Maggio 8, 2009