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NEL PAESAGGIO INTELLETTUALE DELLA FILOSOFIA CRISTIANO-LATINA AI SUOI ALBORI NASCE, ALLA SCUOLA DI TOURS, LA CORRENTE DIALETTICA …

Lezione N.: 
9

Prof. Giuseppe Nibbi    La sapienza poetica e filosofica dell’età medioevale            3-4-5  dicembre  2014

Cenacolo  - Leonardo da Vinci

NEL PAESAGGIO INTELLETTUALE DELLA FILOSOFIA CRISTIANO-LATINA

AI SUOI ALBORI NASCE, ALLA SCUOLA DI TOURS, LA CORRENTE DIALETTICA …

           

   Questo è il nono itinerario, il penultimo itinerario dell’anno 2014, del nostro viaggio di studio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età medioevale” e ci troviamo ancora di fronte al “paesaggio intellettuale della Filosofia cristiano-latina ai suoi albori”.

   La Filosofia cristiano-latina prende, come sappiamo, le mosse nell’ambito del movimento della Scolastica, dal IX secolo, quando Giovanni Scoto Eriùgena, con la sua opera nata sull’impulso proveniente dalla Scuola di Toledo, contribuisce a mettere in circolo nelle Scuole d’Occidente il pensiero di Platone [i Dialoghi] e quello di Aristotele [la Fisica, la Metafisica, l’Etica] nella loro versione più autentica. Dall’incontro tra il “Mondo delle Idee” di Platone, il “sistema dialettico delle categorie” di Aristotele e il pensiero neoplatonico [delle Enneadi di Plotino, del Dionigi Areopagita di Proclo e dell’Isagoge di Porfirio] prende forma una visione della Realtà conforme con i principi della dottrina del Cristianesimo e questo quadro diventa il primo modello di riferimento intorno al quale si sviluppa il movimento della Filosofia cristiano-latina ai suoi albori. Gli intellettuali scolastici, che operano nell’ambito della Filosofia cristiano-latina ai suoi albori, capiscono che, riuscendo a far conciliare i potenti sistemi di Platone, di Aristotele e di Plotino, utilizzandone gli apparati strutturali, potranno potenziare tre verità fondamentali, tre concetti basilari per l’ortodossia cristiana: quello di Dio, trinitario, ma unico e personale, autore del mondo e principio e fine di ogni cosa; quello dell’Essere umano, composto di corpo corruttibile e anima immortale e quello del Mondo, creato da Dio ma separato da Lui.

   Come abbiamo studiato la Filosofia cristiano-latina comincia a sviluppare un suo pensiero nella Scuola di Auxerre [con Eirico e Remigio di Auxerre, li abbiamo incontrati] e, soprattutto, nella Scuola di Reims con quello straordinario magister che è Gerberto d’Aurillac alias papa Silvestro II, il pontefice dell’anno Mille. Abbiamo studiato come Gerberto d’Aurillac – il più importante tra i primi pionieri della Filosofia cristiano-latina – sappia utilizzare il tema della “sostanza soprasensibile [le idee universali in re, i concetti che danno forma alle cose stesse]” per mettere in sinergia il pensiero di Platone e di Aristotele [così come viene raffigurato nel quadro centrale dell’affresco della “Scuola di Atene” di Raffaello voluto da papa Giulio II nel 1508, come abbiamo studiato la scorsa settimana]; Gerberto d’Aurillac utilizza questo tema in modo da dare, nelle sue “Glosse su La sostanza soprasensibile”, come abbiamo studiato, un significato “logico” all’evento dell’incarnazione di Gesù Cristo, per cui: «la persona di Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo, della stessa sostanza di Dio Padre, può essere definita [secondo la dialettica aristotelica] come sinolo, come l’unità della Forma divina [il Logos in potenza da principio nella mente di Dio Padre] con la Materia umana [il corpo di Cristo non creato, ma generato da Maria Vergine]» e questo asserto [questa tesi, di stampo aristotelico] è compatibile, afferma Gerberto, con la dottrina del Vangelo. Sulla scia di questa operazione – sebbene apparentemente solo funzionale all’attività didattica della Scuola di Reims – Gerberto mette in circolo [ad uso e consumo degli intellettuali scolastici che accorrono, tacitamente, in pellegrinaggio culturale alla biblioteca di St-Remi a Reims] gli argomenti contenuti nella Metafisica di Aristotele a cominciare da quello delle “categorie” fino al tema, come vedremo tra poco, della “natura dell’intelletto umano” e delle sue “funzioni specifiche”.

   Abbiamo detto al termine dell’itinerario della scorsa settimana che per Aristotele una “cosa [un oggetto]” da valorizzare è “l’intelletto umano”. E, nel testo della Metafisica, Aristotele si domanda di quale “materia particolare” sia fatto l’intelletto e quale “forma universale” abbia. I ragionamenti di Aristotele su questo tema-chiave [su quale sia la natura dell’Intelletto e quali siano le sue funzioni] vengono utilizzati da Gerberto, nel corso delle sue Lezioni alla Scuola di Reims, per dare impulso allo sviluppo della “dialettica” come se fosse una vera e propria “disciplina” – non come un semplice strumento del sapere, come pensa Aristotele – ma come un vero e proprio “sapere” capace, mediante le sue regole, di conoscere e di interpretare la Realtà, e nelle Scuole dell’XI secolo [ormai stiamo gravitando intorno all’anno Mille] la “dialettica” prende un’importanza [come tra poco vedremo] tale per cui tende ad assoggettare a sé anche le verità di Fede provocando delle grandi tempeste ideologiche e favorendo la formazione – nell’ambito del nascente movimento della Filosofia cristiano-latina [siamo di fronte a questo “paesaggio intellettuale”] – delle prime due correnti di pensiero contrapposte: i “dialettici” e gli “antidialettici”. Nel corso di questo itinerario vedremo chi sono e dove operano i principali rappresentanti del movimento dei “dialettici” e di quello degli “antidialettici”.

   Ma ora, a proposito di Gerberto d’Aurillac – che è stato, come sappiamo, promotore della fondazione della “dialettica come disciplina” – sono tre settimane che stiamo alludendo alle numerose Leggende che riguardano questo personaggio: sono tutte Leggende in senso denigratorio:  perché avviene questo, e che ruolo ha la “dialettica” nei confronti dell’apparato leggendario che fiorisce attorno alla figura di Gerberto d’Aurillac, alias papa Silvestro II?

   È evidente che insegnare “a ragionare in modo dialettico” – come Gerberto ha fatto alla Scuola di Reims – contribuisce ad aprire la mente delle persone e a svuotare di senso le superstizioni e le credenze irrazionali, creando un argine nei confronti dell’ignoranza che viene utilizzata come un valido strumento di potere da parte della “casta aristocratico ecclesiastica” dalla quale Gerberto, come monaco e come intellettuale, vuole distinguersi. Il testo sul quale puntiamo la nostra attenzione [in funzione della didattica della lettura e della scrittura] è di un autore medioevale che si forma in una Scuola di orientamento “dialettico” e che, quindi, tende a raccogliere le Leggende sulla figura di Gerberto d’Aurillac, alias papa Silvestro II, con un intento ironico per smontare la presunta veridicità di queste dicerie affermando esplicitamente che derivano dal fatto che Gerberto d’Aurillac è stato uno straordinario personaggio che, per la sua erudizione, ha precorso di secoli i tempi in cui è vissuto. Ma di quale opera e di quale cronista medioevale stiamo parlando?

   Le Leggende sulla figura di Gerberto d’Aurillac, alias papa Silvestro II, sono state raccolte e commentate dal monaco benedettino inglese Guglielmo [William] di Malmesbury [1080 o 1095 - 1143 circa] dell’abbazia di Malmesbury, nel Wiltshire [nel Wessex, la parte sud-occidentale dell’Inghilterra], diventato noto come storico e cronista. Guglielmo di Malmesbury è un intellettuale scolastico dotato di uno spirito particolarmente curioso ed attento, e si è nutrito delle numerose opere presenti nella grande biblioteca della sua abbazia, in particolare di quelle di Beda il Venerabile – un monaco studioso vissuto in Età alto-medioevale tra il 674 e il 735, grande divulgatore della filosofia e delle Opere di Agostino di Ippona [Confessioni, La città di Dio, La Trinità] tanto da influenzare profondamente il cristianesimo inglese –; Guglielmo di Malmesbury nel corso dei suoi studi raccoglie una collezione di storie medioevali e decide di riscriverle sotto forma di racconto popolare con uno stile simile a quello che ha utilizzato il Venerabile Beda in una delle sue opere intitolata Historia ecclesiastica gentis Anglorum [Storia ecclesiastica degli Inglesi]. Sebbene nell’abbazia di Malmesbury Guglielmo abbia ricevuto una formazione riguardante la dialettica, la logica e la fisica, le discipline alle quali si è dedicato con maggior impegno sono state l’etica e la storia. Guglielmo ha scritto diverse opere di carattere storico [molte agiografiche, vite di Santi], e la più nota e importante s’intitola Gesta regum [Le gesta dei re] la cui prima versione risale al 1125. Per curiosità dobbiamo dire che nella sua opera intitolata Storia della chiesa di Gladstone vi è il primo riferimento, considerato leggendario dall’autore, dell’arrivo in Inghilterra del sacro calice dell’Ultima Cena di Gesù poi noto come Santo Graal.

   L’Abbazia di Malmesbury, dedicata ai santi Pietro e Paolo, è stata fondata come monastero benedettino intorno al 676 dal letterato e poeta Aldelmo di Malmesbury, e nell’XI secolo era dotata di una delle biblioteche più grandi, per dimensioni e per numero di volumi, in Europa ed era considerata una delle sedi europee più importanti per lo studio.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con una guida della Gran Bretagna e navigando in rete – dove trovate delle belle immagini – fate una visita all’Abbazia e alla cittadina di Malmesbury, buon viaggio…

 

   E ora leggiamo una pagina tratta dall’opera Gesta regum [Le gesta dei re] di Guglielmo di Malmesbury dove raccoglie, con un intento ironico, più di centovent’anni dopo la sua morte, le Leggende sulla figura di Gerberto d’Aurillac, alias papa Silvestro II.

 

LEGERE MULTUM….

Guglielmo di Malmesbury, Gesta regum [Le gesta dei re]

La grande sapienza di Gerberto d’Aurillac è all’origine di leggende sinistre, che lo hanno messo in relazione con le arti magiche e con il demonio.

Nella tradizione popolare è passato con l’appellativo di «papaligo», come se fosse un «mago» capace di arrivare al soglio pontificio grazie ad un «patto col diavolo», e molte fandonie sono state dette sulla sua persona e sono fioriti molti racconti denigratori.

Alla morte di papa Gregorio V i Romani non hanno osato innalzare al soglio pontificio un loro candidato, ma hanno atteso l’arrivo a Roma dell’imperatore Ottone III e del suo prescelto per la fine di marzo del 999: questi era Gerberto, che si trovava al seguito dell’imperatore come suo consigliere.

Gerberto d’Aurillac è stato un genio che ha illuminato di luce vivissima l’epoca sua, e la grande erudizione di questo monaco e poi pontefice, specialmente nel campo delle scienze, è stata così inquietante per la massa ignorante e superstiziosa che si presumeva, e lo presumevano anche i nobili e gli ecclesiastici aristocratici, che egli non l’avesse acquistata in modo naturale.  Si credeva che Gerberto possedesse un libro di incantesimi che aveva rubato a un filosofo arabo in Spagna. Gerberto sarebbe fuggito, inseguito dal derubato che era in grado di rintracciare il ladro tramite le stelle, ma si nascose appeso a un ponte di legno dove, sospeso fra cielo e terra, era invisibile al mago.

Si pensava che, con le formule magiche scritte in questo libro, potesse tramutarsi in corvo e magiare gli occhi dei suoi nemici e che potesse trasmettere la peste ad intere città, decimandole.

Trasferitosi presso l’arcivescovo Adalberto a Reims, suo amico, ha fatto politica attiva a favore degli Ottoni, ha tenuto la cattedra di filosofia, ha scritto e raccolto codici rari nella biblioteca, e si racconta si sia costruito un Golem, un uomo d’argilla forte e ubbidiente, che poteva usare come un servo e aveva la testa d’oro nella quale Gerberto aveva imprigionato un demonio e a questa testa poneva dei quesiti particolarmente difficili e il Golem rispondeva con un cenno del capo e la soluzione che il demonio gli dava era chiamata il «salto di Gerberto».

Si racconta che interrogando il Golem probabilmente egli ha avuto la chiave del proprio destino: «scandit ad R Gerbertus in R post papa viget R». Con la R infatti iniziano le tre sedi fondamentali della sua carriera ecclesiastica: Reims, Ravenna e Roma.

Si racconta inoltre che avesse stipulato un patto con un demonio donna chiamato Meridiana, che sarebbe apparso dopo che egli aveva rifiutato il suo amore terreno e con l’aiuto del quale avrebbe raggiunto il trono papale, e in un’altra leggenda si narra che Meridiana gli apparve dopo che Gerberto vinse il papato giocando a dadi con il diavolo. Secondo la leggenda, Meridiana disse a Gerberto che, nel caso avesse celebrato una messa a Gerusalemme dialogando  con gli infedeli, il diavolo sarebbe venuto a prenderlo. Gerberto chiese conferma alla testa d’oro del suo Golem, che gliela diede. Quindi Gerberto, dopo aver cancellato un pellegrinaggio a Gerusalemme andò a celebrare una messa nella chiesa di Santa Croce in Gerusalemme a Roma e vide all’improvviso Meridiana e capì che la profezia era compiuta e si sentì male poco dopo e, morendo, chiese ai cardinali di tagliare il suo corpo e di spargerlo per la città, per fargli espiare le sue colpe e salvarsi.

Una parte dell’iscrizione sulla tomba di Gerberto, eretta da papa Sergio IV, recita: «Iste locus Silvestris membra sepulti venturo Domino conferet ad sonitum [Questo luogo, all’arrivo del Signore, renderà al suono dell’ultima tromba i resti sepolti di Silvestro]» ma la traduzione erronea di «conferet ad sonitum» con «emetterà un suono» ha dato adito alla leggenda che le ossa del mago Gerberto sbatacchino subito prima della morte di un papa. E un’altra leggenda si è diffusa negli ambiti della curia romana, credulona a suo vantaggio, secondo la quale la sua tomba s’inumidirebbe alla morte di un cardinale e da essa fuoriuscirebbe dell’acqua alla morte di un papa.

 

   Questa pagina, scritta intorno al 1125, è molto interessante perché ci fa capire l’atteggiamento di ironica diffidenza che si coltivava nelle abbazie, lontane dal Vaticano, nei confronti della curia romana che [“credulona a suo vantaggio”], nella gestione del potere, ai fini di denigrare i potenziali nemici [dagli intellettuali scolastici agli Arabi infedeli], semina la superstizione, le credenze irrazionali e l’ignoranza.

   Queste Leggende hanno avuto un forte impatto sull’immaginario collettivo medioevale e hanno continuato ad essere tramandate, e [come sappiamo] dal 1508 sono sconfinate in Età moderna perché i nemici di Giulio II, che, come abbiamo appreso la scorsa settimana, ha grande stima di Gerberto d’Aurillac tanto come intellettuale quanto come papa, [nel momento in cui nasce quell’importante manifesto del neoplatonismo eclettico che è l’affresco de “La Scuola di Atene” con il suggello delle “Glosse su La sostanza soprasensibile” di Gerberto d’Aurillac] utilizzano queste “fandonie [come le chiama Guglielmo di Malmesbury]” per gettare discredito su di lui, sebbene senza ottenere grandi risultati. Ma, non solo, a questo proposito, dobbiamo ancora aprire una parentesi legata ad un avvenimento che abbiamo già ricordato [tre settimane fa] e del quale [abbiamo  detto allora] dobbiamo spiegare il significato.

   Nel 1684 papa Innocenzo XI, come sappiamo,  fa aprire, in San Giovanni in Laterano, la tomba di Silvestro II [si diceva, infatti, che si manifestassero cose strane intorno a questa tomba, e si era ripreso ad insinuare - e lo faceva nientemeno che il Re di Francia - che Gerberto d’Aurillac fosse un mago in combutta con il demonio], e il corpo viene trovato ancora intatto ma appena viene esposto all’aria si muta istantaneamente in polvere: rimangono i paramenti, la tiara e il grosso anello sul quale, come abbiamo già detto, è incisa un’emblematica dicitura «Sic transit gloria mundi: memento homo quia pulvis es et in pulverem reverteris [Così passa la gloria del mondo: ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai]». Sulla celebre citazione «Sic transit gloria mundi» dobbiamo fare una brevissima riflessione di carattere filologico: è tratta dalla Prima Lettera di Giovanni [cap.2 v.17], e poi dal XIII secolo questa frase emblematica è diventata il filo conduttore di un’opera, di autore anonimo [di ambiente benedettino o certosino], intitolata De Imitatione Christi [L’imitazione di Cristo].

   Dobbiamo conoscere la ragione per cui papa Innocenzo XI fa aprire questa tomba traendone, in proposito, un positivo auspicio: infatti, il significativo ammonimento inciso sull’anello di Silvestro II sprona questo papa ad impegnarsi in uno scontro epocale contro colui che si crede il più grande – e luminoso come il Sole – sovrano dell’universo ricordandogli che anche i potenti della terra finiscono “in polvere”. Innocenzo XI [Benedetto Odescalchi] è stato beatificato da Pio XII nel 1956 ed è sepolto in uno splendido mausoleo sotto l’altare di San Sebastiano nella basilica di San Pietro; c’è anche una statua imponente che lo ritrae [il fatto che il papa sia rappresentato con la tiara in mano e non in capo fa riflettere sul fatto che il papa deve guidare la Chiesa con la testa piuttosto che con la tiara?].

   Innocenzo XI è stato il grande nemico di Luigi XIV, il Re Sole, perché questi pretendeva la sottomissione, mascherata da autonomia nei confronti di Roma, della Chiesa francese al Regno di Francia [il gallicanismo] ed esigeva, dopo aver abolito l’obolo versato alla Santa Sede, il pagamento di pesanti regalie alla Corte francese da parte di tutti gli istituti ecclesiastici. Innocenzo XI, a costo di provocare uno scisma, ha combattuto da solo contro il Re Sole da pari a pari conducendo, nel medesimo tempo, una durissima lotta per la moralizzazione della Chiesa e della Società civile: si fidava ciecamente del suo segretario di Stato il cardinale Alderano Cibo, il quale però lo tradiva perché riscuoteva, a insaputa del papa, una pensione del Re di Francia [e gli ironici versi di Pasquino sono significativi in proposito: «È l’Odescalchi un’affamata fiera che chiede Cibo ognor, da mane a sera»], ed è stato proprio il cardinal Cibo a suggerire al Re Sole di riutilizzare le Leggende denigratorie nei confronti di Silvestro II quando Innocenzo XI dichiara che il Re Sole dovrebbe essere grato alla Chiesa perché Ugo Capeto era diventato re di Francia nel 987 per merito dell’arcivescovo di Reims Adalberone e soprattutto del suo segretario Gerberto d’Aurillac, e la monarchia francese aveva poi ottenuto nel 991, con la decisiva mediazione di Gerberto d’Aurillac, una definitiva legittimazione da parte dell’imperatore Ottone III che aveva undici anni e di cui Gerberto era il precettore. Luigi XIV risponde a papa Odescalchi con grande insolenza dicendo che lui, essendo un Borbone, con i barbari Capetingi non aveva nulla a che fare e poi lancia una ulteriore calunnia verso papa Silvestro II affermando che i re di Francia dell’epoca non avevano alcun bisogno della legittimazione di Ottone III che era succube della madre Teofane, la giovane vedova di Ottone II, che era l’amante di Gerberto d’Aurillac. A questo punto Innocenzo XI reagisce di fronte a questa ennesima ingiuria lanciata contro il suo predecessore dell’anno Mille e decide di far aprire la tomba di Silvestro II quasi a chiamarlo come testimone e ciò che avviene e il messaggio che trova diventano come una risposta contro l’arroganza del Re Sole: una risposta dello stesso Silvestro II da comunicare a tutta la Cristianità, e succede che tutti gli altri monarchi europei, e perfino i protestanti, prendono le difese di papa Odescalchi.

   Gerberto d’Aurillac è stato realmente un grande personaggio: viene da pensare che fosse davvero anche un “mago”, nel senso positivo del termine.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Il termine “mago” – attribuito a Gerberto d’Aurillac, alias Silvestro II  – significa anche “genio”, “artista”, “fuoriclasse”, “asso”, “maestro”: quale di queste parole vi piace di più da mettere per prima accanto alla parola “mago”?… 

Scrivetela…

Su uno dei tanti volumi che narrano la “Storia dei papi” e che potete richiedere in biblioteca, e navigando in rete [dove potete vedere le immagini del suo monumento funebre e la statua che lo raffigura] leggete il racconto del pontificato di papa Innocenzo XI

 È anche un esercizio propedeutico alla visita della basilica di San Pietro

 

   In questo momento quelli meno impressionati – abituati come sono al clima leggendario tipico dell’anno Mille – sono i nostri compagni di viaggio Millemosche, Pannocchia e Carestia che, dopo aver navigato in una botte, sono finiti contro le pale di un mulino ad acqua, e sono stati scaraventati sul tetto di questo edificio, lo hanno sfondato e sono finiti nel cassone della farina e, quindi, anche a loro capita, come a Gerberto d’Aurillac [sebbene non siano degni di essere paragonati a questo personaggio], di essere presi per diavoli dal mugnaio, ma tutti infarinati, tutti bianchi come sono, secondo la moglie del mugnaio, potrebbero anche essere angeli: la nostra razione settimanale di Storie dell’anno Mille ci pone di fronte a questo insolubile dilemma e, a noi, non resta che leggere.

 

LEGERE MULTUM….

Tonino Guerra  Luigi Malerba,  Storie dell’anno Mille

O ANGELI O DIAVOLI

Uno stanzone tutto bianco di farina, grandi ragnatele, quattro mole che girano macinando il grano e da una parte un cassone pieno di farina. Come tre sassi uno dopo l’altro Millemosche Pannocchia e Carestia piombano giù dal soffitto e vanno a cadere dentro il cassone della farina sollevando una nuvola bianca. Una donna che sta vicino a una macina si mette a urlare a scannagola mentre i tre si agitano dentro al cassone. Sono tutti grondanti d’acqua e perciò la farina gli si impasta addosso imbiancandoli dalla testa ai piedi. Mezzo cecati e Millemosche più guercio che mai, escono dal cassone e a tentoni cercano una via d’uscita. Si mettono a correre da una parte all’altra sbattendo contro i muri e le porte mentre la donna scappa si nasconde chiama aiuto. In mezzo al polverone di farina arriva il marito che scende da una scaletta di legno con in mano un grosso bastone. Sembra zoppo ma non lo è. Uno zoppo fa sempre più paura di uno con le gambe sane e Millemosche a forza di toccare e di muoversi dentro lo stanzone riesce finalmente a trovare la porta. Si butta fuori a testa in avanti. Seguito dagli altri due. L’uomo scende di corsa gli ultimi gradini e corre fino alla porta ma invece di uscire a inseguire i tre, la chiude di colpo e poi la ferma con un pesante catenaccio, bravo merlo.

... continua la lettura ...

 

   Il mugnaio e la moglie, per identificare i tre personaggi piovuti dal tetto, s’impegnano a ragionare in modo “dialettico”. E il tema della “dialettica” ci riporta sul nostro sentiero specifico, facendoci fare anche un passo in avanti di qualche decennio.

   Sappiamo che le Scuole di Auxerre e di Reims hanno saputo dare un impulso allo sviluppo della “dialettica” intesa come una vera e propria “disciplina”, come un “sapere” che, mediante le sue regole, s’identifica con la conoscenza stessa della Realtà, e nelle Scuole dell’XI secolo [ormai stiamo andando oltre l’anno Mille sicuri del fatto che non c’è stata la fine del mondo] la “dialettica” prende un’importanza tale per cui tende ad assoggettare a sé anche le verità di Fede provocando delle grandi tempeste ideologiche e favorendo – nell’ambito del nascente movimento della Filosofia cristiano-latina [siamo sempre di fronte a questo “paesaggio intellettuale”] – la formazione delle prime due correnti di pensiero apparentemente contrapposte: quella dei “dialettici” e quella degli “antidialettici”.

   Il movimento dei “dialettici” nasce e si sviluppa alla Scuola di Tours. Tours è la città capoluogo della Turenna, ed è situata in bella posizione su una lingua di terra tra la Loira a nord e lo Cher a sud, ed è la principale base per la visita dei Castelli della Loira. Tours è una città [oggi ha circa 140 mila abitanti] di origine gallo-romana, la cui struttura è visitabile attraverso il Museo Archeologico, che ha avuto un’intensa vita culturale nel Medioevo ed è stata anche residenza dei re di Francia. A Tours svetta la Cattedrale di St-Gatien [di San Graziano, detta la “Gatienne”, notevoli sono le vetrate del XIII secolo] e poi risulta di particolare importanza la recente basilica di San Martino che è stata eretta nel 1924, su progetto dell’architetto Victor Laloux, in stile romanico-bizantino per custodire, nella cripta, la venerata tomba di San Martino. Ma il monumento di Tours che a noi interessa di più in questo momento è l’abbazia di Marmoutier [dal latino maius monasterium, il monastero più grande] fondata da San Martino nel 372 e ricostruita da Alcuino di York nel IX secolo per fondarvi la sua Scuola nella quale, subito dopo l’anno Mille, fiorirà la corrente dei “dialettici”. L’abbazia di Marmoutier è stata distrutta nel 1818 e rimangono pochi resti [il portale della Crosse, le celle dei monaci scavate nella roccia] sebbene molto suggestivi.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida della Francia e navigando in rete fate una visita a Tours, buon viaggio       

 

   L’esponente più importante del movimento dei “dialettici” – una corrente di pensiero che vuole fondare un sapere filosofico esclusivamente basato sui principi della Ragione – si chiama Berengario [1000circa-1088] ed è il direttore della Scuola di San Martino di Tours [che, come sappiamo, è stata fondata da Alcuino di York al tempo di Carlo Magno]. Berengario di Tours è autore di molte opere di natura didattica, e tra queste dobbiamo ricordare [sulla scia di un genere letterario che ha preso campo nel X e nell’XI secolo] le Glosse sul Libro IV della Metafisica di Aristotele. Con quest’opera Berengario di Tours [intorno al 1050] provoca una vera tempesta perché scrive che non bisogna limitarsi ad usare le regole aristoteliche per una più profonda cognizione dei dogmi, ma è necessario avere il coraggio di mettere i dogmi sotto giudizio applicando al loro contenuto le “categorie” di Aristotele: l’unico sistema dialettico in grado, scrive Berengario, di aprire la strada alla conoscenza della Realtà e, di conseguenza, può essere che un dogma, formatosi nei secoli sulla scia della tradizione, perda il suo significato e, in questo caso, deve essere riformulato.

   Il fatto clamoroso è che Berengario nelle Glosse sul Libro IV della Metafisica di Aristotele analizza dialetticamente, alla luce delle “categorie”, il dogma della presenza del corpo di Cristo nel pane eucaristico [che non è stato ancora ufficializzato dalla Chiesa]: la sostanza del pane, con la consacrazione, viene sostituita dalla sostanza del Corpo pur rimanendo intatti gli accidenti o, come si diceva, le specie. Berengario vuole riaprire un’antica questione, risalente a duecento anni prima, riguardante una significativa polemica sul tema dell’Eucaristia [la “polemica di Corbie”] che ha avuto luogo nell’abbazia benedettina di Corbie, nei pressi di Amiens, in Piccardia, nell’831 tra due monaci [molto competenti di Letteratura Patristica e di Letteratura classica greca e latina] i quali sostenevano entrambi “la presenza di Gesù Cristo nel pane eucaristico” ma uno di loro, Pascasio Radberto, riteneva che “nel pane è veramente presente Cristo col suo corpo storico”, mentre il suo confratello Ratramno di Corbie asseriva che “la presenza di Gesù Cristo nel pane eucaristico è soltanto simbolica”.

   Circa due secoli dopo, Berengario, nell’ambito della Filosofia cristiano-latina ai suoi albori, propone una spiegazione su questo tema in linea con la dottrina delle categorie di Aristotele, e afferma che quando scompare la sostanza scompaiono anche gli accidenti [gli attributi], e siccome nel pane eucaristico gli accidenti [gli attributi] non scompaiono [quel pane continua ad avere il suo colore, il suo odore, il suo sapore], di conseguenza, la presenza del corpo di Cristo non può essere intesa in modo “sostanziale”, ma bensì in modo “spirituale”, in modo “simbolico” e il dogma, sostiene Berengario, va formulato dialetticamente per dare maggior credibilità al messaggio della salvezza.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

La parola “pane” è molto evocativa – indipendentemente dal valore che ha il “pane eucaristico” [scegliete voi il significato che volete dare, o sostanziale o spirituale o simbolico, a questa “verità di Fede”] –, la parola “pane” equivale all’idea stessa di alimento, di nutrimento, di sostentamento…     Qual è il pane che vi piace di più?… 

Scrivete quattro righe in proposito…

Un bel libro da leggere s’intitola “Il pane di ieri”, lo ha scritto Enzo Bianchi e lo potete richiedere in biblioteca, leggetelo perché leggere è un valore proprio come l’adagio del Monferrato che fa da premessa a questa stimolante lettura:  “il pane di ieri è buono domani [el pan ed sèira, l'è bon admàn]”…

 

   Le Glosse di Berengario di Tours suscitano un dibattito così animato e talmente vasto che non lo possiamo seguire nel suo insieme, noi ci occupiamo, fra poco, della più importante polemica che ha suscitato, ma prima, però, leggiamo come Berengario di Tours spiega – nella sua opera, commentando il pensiero di Aristotele – come si configura la disciplina della dialettica, e questa spiegazione diventa un punto di riferimento per tutti gli intellettuali scolastici del suo tempo, anche per quelli che polemizzano con lui.

 

LEGERE MULTUM….

Berengario di Tours, Glosse sul Libro IV della Metafisica di Aristotele

La dialettica è lo strumento che serve per farci conoscere come la mente umana possa inquadrare tutte le sostanze nel sistema delle categorie in modo che si possa formulare un giudizio sulle sostanze stesse, siano esse persone, animali o cose.

La dialettica è la disciplina che, attraverso date regole, permette di verificare se un giudizio sia giusto o sbagliato mediante il ragionamento, che è il meccanismo del pensiero preposto a mettere in relazione tra loro i giudizi.

S’impara da Aristotele che esistono due tipi di ragionamento: quello induttivo che va dal particolare all’universale, e quello deduttivo, proprio della scienza, che va dall’universale al particolare. S’impara da Aristotele che la forma tipica di ragionamento deduttivo è il sillogismo [sylloge, in greco, significa raccolta]”, quel tipo di ragionamento in cui, supposti come veri due giudizi detti premesse, si ricava da essi un terzo giudizio detto illazione: così, secondo l’esempio dello Stagirita [Aristotele è detto lo Stagirita perché è nato a Stagira in Tracia nel 384 a.C.], dalla premessa maggiore «tutti gli uomini sono mortali» e da quella minore «Socrate è un uomo», si ricava l’illazione «Socrate è mortale». Naturalmente le premesse di un sillogismo devono essere ambedue dimostrate con un nuovo sillogismo, le cui premesse a loro volta dovranno essere provate da altri sillogismi, e così via. Ma non si dovrà procedere all’infinito: basterà giungere ai princìpi logici fondamentali, cioè a quei giudizi che non hanno bisogno di alcuna dimostrazione in quanto sono evidenti per se stessi. S’impara da Aristotele che questi princìpi che, appunto perché hanno la verità in se stessi, possono costituire le prime premesse di ogni dimostrazione sono tre: il principio di non contraddizione per cui non è possibile che la stessa cosa convenga e insieme non convenga ad un oggetto nello stesso tempo e sotto lo stesso rapporto (A non può essere non-A); il principio di identità, per cui una cosa è identica a se stessa (A è A); il principio del terzo escluso, per cui una cosa o è o non è, o possiede o non possiede una data proprietà, e ogni altra, e terza, eventualità viene esclusa (una cosa o è A o è non-A).  Se un sillogismo deriva le sue premesse da questi primi princìpi, esso sarà dimostrativo [apodittico]”; se le premesse sono probabili, cioè sembrano verosimili a tutte le persone o alla maggior parte di esse o ai dotti, il sillogismo si dirà dialettico; se le premesse sembrano probabili ma non lo sono, esso assumerà il nome di sofistico.

 

   È chiaro che le affermazioni di Aristotele commentate da Berengario di Tours ci possono sembrare piuttosto banali – gli studi a questo proposito, su come si “ragiona”, hanno fatto molti progressi [questo però non significa che oggi gli individui stiano ragionando di più e meglio rispetto ai tempi della polis greca o della città medioevale] – ma è stato Aristotele a codificare per primo questi procedimenti logici che oggi consideriamo “elementari” ed è sempre dagli “elementi basilari” che si parte, così come hanno fatto gli intellettuali della Scolastica facendo diventare la “dialettica” una vera e propria disciplina che sarà di supporto ad altre discipline in via di formazione, come per esempio l’ontologia della quale ci potremo avvalere prossimamente nell’anno che verrà.

   Berengario di Tours, per la spregiudicatezza delle sue tesi che mettono discussione la dottrina tradizionale, in particolare quella sul “pane eucaristico”, è destinato a passare dei guai e, a questo proposito, è uno dei protagonisti della più interessante polemica che si svolge nell’ambito della Filosofia cristiano-latina ai suoi albori: di che si tratta? Procediamo con ordine.

   Nel 1047 Lanfranco da Pavia, abate e direttore della Scuola del monastero di Bec in Normandia [e futuro arcivescovo di Canterbury], scrive un libretto intitolato De sacra coena [La cena sacra] per contrastare la tesi di Berengario sulla “natura spirituale e simbolica del pane e del vino eucaristico”. In questo libretto Lanfranco definisce con il termine di “transustanziazione” la reale trasformazione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo, e sostiene che questo mutamento sostanziale avviene durante “l’elevazione del pane e del calice col vino” nel corso della celebrazione eucaristica perché in quel momento, scrive Lanfranco, si crea una “elevazione [mistica]” sul piano della “qualità”, quindi, la “transustanziazione”, scrive Lanfranco, è un mutamento della sostanza in senso qualitativo in riferimento alla “natura soprasensibile” che assume la sostanza del Corpo risorto di Gesù, come spiega Paolo di Tarso nel suo Epistolario. Nella “transustanziazione”, scrive Lanfranco, c’è quindi un passaggio dalla sostanza sensibile del pane e del vino alla sostanza soprasensibile della carne e del sangue di Gesù risorto [e si capisce che Lanfranco conosce bene le “Glosse in margine alla Metafisica di Aristotele” di Gerberto d’Aurillac] per cui, scrive Lanfranco, la sostanza sensibile del pane e del vino mantiene i propri attributi [i propri accidenti] perché non diventa simile alla sostanza materiale e deperibile della carne e del sangue del corpo di Gesù in quanto vero Uomo, ma [secondo il Vangelo di Giovanni - scrive Lanfranco - per cui il Logos, il Verbum si è fatto carne] si trasforma nella sostanza soprasensibile, impalpabile ed eterna, costitutiva della carne e del sangue del Corpo di Gesù-risorto in quanto vero Dio, una sostanza [qualitativa, che trascende la sostanza materiale] della quale agli umani non è dato coglierne gli attributi [gli accidenti] in quanto divini [sacri, separati] e frutto della verità soprannaturale del mistero della Fede. Il pane e il vino, nel mistero eucaristico, si trasformano, scrive Lanfranco, continuando a mostrarsi in quella che, in atto, è la loro “sostanza sensibile” ma, in realtà, sotto queste specie c’è, in potenza, la “sostanza soprasensibile” della carne e del sangue del Corpo di Cristo-risorto.

   E allora, per quanto macchinoso possa essere questo ragionamento, noi capiamo bene una cosa: che anche nel dogma della “transustanziazione” troviamo lo zampino di Aristotele, oltre a quello di Platone. Si capisce che la polemica tra Lanfranco da Pavia [poi di Canterbury] e Berengario di Tours avviene nell’ambito della stessa corrente, quella dei “dialettici”, anche se Lanfranco asserisce di non appartenere ad alcuna corrente.

   Naturalmente Berengario risponde con uno scritto, intitolato De sacra coena, adversus Lanfrancum [Contro La cena sacra di Lanfranco], per confermare la sua tesi e per ribadire che, proprio perché la sostanza soprasensibile, di cui parla Aristotele, ha una natura intellettuale, la presenza del corpo di Cristo nel pane eucaristico non può essere intesa in modo sostanzialmente materiale ma solo spirituale e simbolico.

   Il potere ecclesiastico, [il tribunale ecclesiastico chiamato in causa] si schiera con Lanfranco e la tesi di Berengario viene dichiarata eretica e lui, che non ritratta, viene imprigionato, viene processato e condannato nel concilio di Vercelli del 1050. A causa delle successive riaffermazioni delle sue proposizioni sull’Eucaristia, per altre sei volte [dal 1051 al 1059] Berengario, in altrettanti concilî, viene condannato, finché, stufo di stare in galera, ritratta la sua tesi nel concilio Lateranense di Roma nel 1078 e, successivamente, nel corso del concilio di Bordeaux del 1080, Berengario di Tours sottoscrive la tesi di Lanfranco affermando, sotto voce, che «le tesi in questione proclamano il messaggio della salvezza rifacendosi ad una matrice comune data dalla dialettica aristotelica».

   La tesi di Berengario di Tours [che diventa l’esponente di spicco dei “dialettici”] trova molti sostenitori i quali, tacitamente e clandestinamente, la tengono viva in molte abbazie [comincia l’importante fenomeno del “dissenso clandestino” nei confronti degli organi preposti a difendere - spesso con metodi poco ortodossi - l’ortodossia] e, quindi, dovranno ancora passare 135 anni prima che, nel 1215, nel IV Concilio Lateranense presieduto da papa Innocenzo III [Lotario dei Conti di Segni], la “transustanziazione” diventi ufficialmente dogma della Fede, ma si racconta anche che nel 1263, nel duomo di Bolsena, durante la messa celebrata dal sacerdote Pietro di Praga, dubbioso della presenza reale di Cristo, l’ostia comincia a sanguinare e, a seguito di questo miracolo, viene istituita da papa Urbano IV la festa e la processione del Corpus Domini [il Corpo del Signore].

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Fate un’escursione a Bolsena che non è lontano da qui: Bolsena, in provincia di Viterbo [nell’alto-Lazio al confine con la Toscana], è una bella cittadina [di circa 4300 abitanti] sulla sponda nord-orientale all’omonimo lago [il lago di Bolsena] e denominata la “città del miracolo eucaristico”…   Con la guida del Lazio e navigando in rete [dove trovate tante immagini suggestive] fate una visita a Bolsena, buon viaggio…

Avete fatto qualche volta l’infiorata per la processione del Corpus Domini?

Scrivete quattro righe in proposito

 

   Ma torniamo a Berengario di Tours il quale, dopo trent’anni di galera, all’età di circa ottant’anni, viene liberato e lui decide [provocatoriamente] di stabilirsi nell’abbazia di Corbie presso Amiens, in Piccardia, proprio dove nell’831 [due secoli prima] si era svolta la significativa controversia sul tema dell’Eucaristia tra Pascasio Radberto e Ratramno di Corbie [allora nessuno era stato condannato e tanto meno era finito in galera].

   A Corbie l’abate e i confratelli benedettini accolgono Berengario con grande rispetto e cordialità restituendogli la cattedra di magister e lui – fino alla morte, avvenuta nel 1088 – continua ad insegnare la “dialettica” presso la Scuola episcopale di Amiens che aveva la sede adiacente all’antica cattedrale romanica dedicata a San Firmino di Pamplona, morto martire ad Amiens e contemporaneo di San Martino [ed è bene sapere anche che, secondo la tradizione, nei pressi di Amiens San Martino, ancora legionario romano, aveva diviso il mantello con il mendicante].

   La città di Amiens [fondata dai Galli Ambiani, da cui prende il nome] si trova nel dipartimento della Somme [i Romani, che la conquistarono intorno al 50 a.C., per la sua posizione strategica la chiamarono Samarobriva, che significava “ponte sulla Somme”]. Amiens è il capoluogo della regione della Piccardia [siamo del nord-est della Francia] ed è una città di circa 137 mila abitanti che possiede un buon porto fluviale sulla Somme e si trova in posizione strategica sulla rotta che collega Parigi a Calais e questo fatto ha giovato positivamente alla sua economia. Ad Amiens c’è ancora una fiorente industria tessile, che già nel Medioevo produceva, complici i benedettini, una varietà di lana molto pregiata, tinta di azzurro mediante una pianta che abbonda nella regione, la “Isatis tinctoria [chiamata anche  “guado” o “gualdo”]”. Non sorprende quindi che, per via della floridezza commerciale di cui la città ha goduto, ad Amiens ci sia una enorme cattedrale gotica. La cattedrale gotica di Notre-Dame di Amiens – la costruzione di una prima cattedrale gotica [seguita da una seconda che ne amplia il volume] ha inizio dal 1152 dopo che un incendio ha distrutto la basilica romanica di San Firmino – con i suoi oltre 7000 metri-quadrati di superficie è la più vasta delle cattedrali francesi, e la sua struttura costituisce uno degli esempi più significativi che dimostra quanto sia grandiosa l’architettura “gotica”.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida della Francia e navigando in rete fate una visita ad Amiens che, tra l’altro, ha dato ai natali ad un celebre scrittore: andate anche a scoprirne l’identità, buon viaggio… 

 

   Tutto questo parlare di sostanza in relazione al pane e al vino – sebbene in senso eucaristico –, non può che richiamare l’idea del nutrimento corporeo e del sostentamento materiale, per cui a Millemosche, Pannocchia e Carestia, che parallelamente seguono il nostro Percorso in funzione della didattica della lettura e della scrittura, viene ancor più fame di quella che già hanno. Riescono a mangiare qualcosa? Sì, riescono a mangiare un oggetto non propriamente commestibile, ma il guaio è che: l’appetito viene mangiando, e questo adagio ha valore soprattutto nel Medioevo quando è bene non stuzzicare la fame, non destare il can che dorme, non punzecchiare il podice alla cicala.

 

LEGERE MULTUM….

Tonino Guerra  Luigi Malerba,  Storie dell’anno Mille

SI MANGIA

Sarà un caso ma ogni volta che Millemosche Pannocchia e Carestia trovano qualcosa da mangiare c’è sempre il padrone li vicino o se non c’è salta fuori subito dopo. La gallina il porco il bue la pecora il cavallo hanno sempre un padrone. Il pane la polenta la farina, lo stesso. Anche le mele le zucche i ceci le fave hanno un padrone, però qualche volta è abbastanza lontano e qualche volta dorme. Il padrone degli animali invece non dorme mai. Se per caso dorme e si sveglia all’improvviso perché il ladro ha fatto rumore, allora è il più cattivo di tutti. È capace di ammazzarti come ridere. Ancora ancora per un porco o per un bue ma morire per un’oca o una gallina è una gran brutta morte. Resta il fatto che mangiare è molto difficile e quando uno non mangia da un po’ di tempo è difficile anche scappare per via delle gambe che non stanno in piedi. Millemosche Pannocchia e Carestia però scappano lo stesso, bianchi come tre fantasmi, al buio, per una strada di campagna che va a finire in mezzo a una boscaglia. Uccellacci notturni volano via spaventati sbattendo le ali al loro passaggio. I tre si fermano in mezzo al bosco a pensare. Il pensiero è questo: gli uccelli sono buoni da mangiare, anche quelli notturni tipo civette gufi e pipistrelli. Con il vantaggio che non hanno un padrone.

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   Noi, invece, non ci possiamo ancora addormentare: adesso – sempre osservando il “paesaggio intellettuale della Filosofia cristiano-latina ai suoi albori” [al quale siamo di fronte] – dobbiamo cominciare a riflettere sulla nascita della corrente “antidialettica” ma questo argomento lo studieremo la prossima settimana, adesso abbiamo appena il tempo di introdurre questo tema.

   Si potrebbe pensare che la nascita della corrente “antidialettica” avvenga per reazione all’utilizzo di questa disciplina ma, in realtà, non è così perché gli intellettuali antidialettici non sono schierati “contro la dialettica” ma contestano l’uso che ne viene fatto, anzi, gli intellettuali antidialettici, per distinguersi dai dialettici, hanno più che mai bisogno della “dialettica” e, quindi, non disdegnano affatto questa disciplina: di conseguenza il termine “antidialettica”, che è stato utilizzato per definire questa corrente, non è propriamente conforme all’attività intellettuale che ha prodotto.

   La discriminante tra  “dialettici” e “antidialettici” riguarda soprattutto il tema del rapporto tra la Fede e la Ragione. I “dialettici” mettono al primo posto la Ragione e preferiscono pensare che “per credere, per coltivare la Fede” bisogna far un uso corretto [orientato verso l’idea del Bene e sostenuto da regole certe] della Ragione, mentre gli “antidialettici” mettono al primo posto la Fede e ritengono che “per ragionare bene, in modo corretto” bisogna prima di tutto avere Fede e, quindi, nella scala dei valori che porta alla conoscenza, al primo posto non pongono la “dialettica” ma bensì la “mistica”, ed è la “mistica” che deve illuminare la “dialettica” e non viceversa, ma la “dialettica” ha, comunque, un ruolo importante.

   Chi è il principale esponente del movimento “antidialettico”? [Sarebbe più corretto chiamarlo “mistico” questo movimento, ma questa denominazione è stata riservata ad altre Scuole che incontreremo strada facendo]”. Il principale esponente del movimento “antidialettico” si chiama Pietro di Damiano [meglio conosciuto come San Pier Damiani] nato a Ravenna nel 1007. E l’appellativo “di Damiano [in latino “Damiani”]” deriva dal nome del fratello [Damiano] che gli ha fatto da padre. Pier Damiani è un teologo, un vescovo, un cardinale, un santo, proclamato dottore della Chiesa nel 1828 da papa Leone XII ed è vissuto nel monastero di Santa Croce in Avellana. Quando nel 1057 viene nominato cardinale [da papa Stefano IX (o X)] si rende conto che non fa per lui [non si confà con la sua mentalità da monaco] vivere nella curia romana [era solito dire: «Sum Petrus, ultimus monachorum servus (Sono Pietro, ultimo servo dei monaci)»] e, quindi, ritorna nel suo monastero con l’intenzione di iniziare un’opera riformatrice e moralizzatrice della Chiesa [agisce con l’appoggio incondizionato di papa Stefano IX (o X), Federico dei duchi di Lorena, abate di Montecassino, un principe che si è fatto monaco benedettino e che, tra l’altro, è morto a Firenze ed è stato sepolto nella Chiesa di Santa Reparata, oggi Santa Maria del Fiore]. Pier Damiani afferma: «La Chiesa ha bisogno di rinascere nel modo in cui è nato Gesù, c’è bisogno di un “Natalis Ecclesiae [un natale della Chiesa]”».

   Ma di questo personaggio, della sua opera e del luogo nel quale è vissuto ce ne occuperemo la prossima settimana, ora dobbiamo constatare che Pier Damiani, nonostante svolga un’intensa attività di riformatore, è profondamente deluso per gli scarsi risultati raggiunti, riesce tuttavia a gettare dei semi, ma la sua delusione aumenta progressivamente per il fatto che nessun cardinale segue il suo esempio.

   Certamente ricordate che stiamo accompagnando, nel viaggio che sta compiendo, un’altra persona profondamente delusa: il mercante ebreo Ben-Atar che, come sapete, è il protagonista del romanzo intitolato Viaggio alla fine del millennio di Abraham B. Yehoshua, del quale, nelle ultime due settimane, abbiamo letto alcune pagine dell’incipit. Nell’estate del 999 Ben-Atar, a bordo di una solida nave a vela, viaggia da Tangeri [dal luminoso Maghreb arabo], lungo le coste atlantiche fino all’imboccatura della Senna per raggiungere la Parigi carolingia che, allora, è ancora solo un nebbioso borgo nordico. Ben-Atar, pur essendo un ebreo osservante, ha due mogli, secondo l’uso islamico, perché nella città in cui abita può avvalersi della legge che consente la poligamia.

   Ben-Atar va a Parigi anche perché la moglie ebrea askhenazita di suo nipote Raphael Abulafìa disapprova questa scelta e, di conseguenza, Ben-Atar vuole essere giudicato da un qualificato tribunale ebraico in merito alla sua opzione: vorrebbe che la posizione giuridica sua e delle sue due mogli fosse chiara secondo la legge umana e secondo la fede divina. Ben-Atar è profondamente deluso perché pensa che ci dovrebbero essere principi certi e inequivocabili per garantire i diversi modi di vivere delle persone, dando loro la possibilità di scegliere secondo l’unica identità che conta, quella umana. Il giudizio sul comportamento di Ben-Atar [come abbiamo ripetuto più di una volta], dopo un ampio dibattito sulla natura e sulle regole della convivenza, rimarrà sospeso a causa di un evento inaspettato che potrete conoscere leggendo quest’opera nella sua interezza.

   E ora, per concludere, leggiamo altre due pagine, sempre dell’incipit, di questo romanzo: la curiosa nave di Ben-Atar [imbarcazione militare trasformata in vascello commerciale] è arrivata all’imboccatura della Senna [e si notano i falò di chi controlla le rive del fiume] ma prima di imboccarne il corso per risalirne la corrente fino a Parigi, i protagonisti del racconto si concedono un momento di riflessione aiutati da quella straordinaria bevanda rituale [per ebrei e cristiani] che, sebbene proibita ai mussulmani, è pur sempre gradita a tutti: il vino, la bevanda dei franchi [come viene etichettata in questo caso, visto che c’è una giara di Bordeaux a bordo], dal profumo e dal sapore molto allettanti.

 

LEGERE MULTUM….

Abraham B. Yehoshua, Viaggio alla fine del millennio

Dapprincipio, per riguardo verso la fede dei compagni di viaggio, Ben-Atar ha pensato di rifiutare la grossa giara propostagli venti giorni prima nel porto di Bordeaux in cambio di una di olio d’oliva e accontentarsi di qualche sorso del dolce vino di uva passa che ha portato da casa per adempiere ai precetti del Kiddush e dell’Havdalah [Tradizionali benedizioni ebraiche per l’inizio e il termine del sabato o di altra festività].   Ma proprio il comandante lo ha incoraggiato a non rinunciare alla bevanda dei franchi, dal profumo e sapore molto allettanti. Per marinai, anche se maomettani, bere vino non è da considerasi peccato, ha spiegato Abd el-Shafi, che lunghi anni trascorsi in mare non solo hanno fatto diventare un rude marinaio ma anche un’autorità per tutto ciò che riguarda la navigazione. Perché se è vero che tutti gli uomini della Terra si dividono in tre categorie - i vivi, i morti e coloro che solcano i mari, che non sono né vivi né morti ma possono solo sperare -, allora non c’è niente di meglio che del buon vino per infondere speranza. E così il comandante, ora che nota l’ebreo bere il vino nel silenzio della notte, scivola velocemente dalla sommità dell’amaca più alta e gli si avvicina Anche lui è ansioso di trarre da quel nettare un po’ di speranza, non per una donna in attesa ma per l’ingresso nel fiume: si augura che l’estate l’abbia lasciato abbastanza profondo e ampio affinché la pingue nave possa penetrarvi senza onta o danno. 

... continua la lettura ...

 

   Noi, invece, dobbiamo spingerci fino ad osservare ancora che cosa ci propone il “paesaggio intellettuale della Filosofia cristiano-latina ai suoi albori” dove nasce e si sviluppa quella corrente di pensiero che è stata chiamata “antidialettica”. Sappiamo che il principale esponente del movimento “antidialettico” si chiama Pier Damiani e lo incontreremo la prossima settimana quando percorreremo l’ultimo itinerario dell’anno 2014, l’ultimo itinerario prima della vacanza natalizia. E, a questo proposito, Pier Damiani, monaco intransigente e cardinale riformatore, afferma: «La Chiesa ha bisogno di rinascere nel modo in cui è nato Gesù, c’è bisogno di un “Natalis Ecclesiae [un natale della Chiesa]”». Questa affermazione, in se stessa, non è difficile da capire: quali sono, però, le implicazioni culturali che questa affermazione comporta intorno all’anno Mille?

   Per rispondere a questa domanda dobbiamo seguire il Percorso dell’Alfabetizzazione culturale e funzionale con lo spirito utopico che lo studio porta con sé consapevoli del fatto che non si deve mai perdere la volontà d’imparare.

   Il viaggio continua: non mancate alla celebrazione del trentunesimo “Natale di studio” di questa esperienza didattica che, del Natale, vanta la “precarietà”…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Dicembre 5, 2014