Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale 29 febbraio 01-02 marzo 2012
NEL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO IMPERIALE
C’È LA SATIRA, IL PRIMO GENERE LETTERARIO ORIGINALE
DELLA CULTURA LATINA ...
La scorsa settimana nel corso del nostro viaggio che attraversa il territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale” abbiamo incontrato il poeta Quinto Ennio che è considerato il più importante autore della Storia della Letteratura latina dell’età arcaica, e i manuali ci spiegano che questo suo primato dipende dal fatto di aver scritto il poema nazionale della Roma repubblicana che s’intitola Annales [Annali]. Questo poema lo imparavano a memoria gli scolaretti romani durante la lezione di Storia i quali si trovavano di fronte l’opera di un poeta che fa lo storico. E noi abbiamo studiato e abbiamo capito che quando i miti diventano paralleli alla storia sono i poeti che muovono la penna: ci guadagna la “poesia” mentre la “storia”, forse, ci guadagna un po’ meno come disciplina. I manuali di Letteratura latina si dimenticano di dire la cosa più significativa: che Quinto Ennio è un autore importante perché ha trasformato in poesia epica i “miti paralleli” di area latina e il fatto che abbia creato il poema nazionale della Roma repubblicana è la conseguenza di questo esercizio intellettuale, è il risultato di come Quinto Ennio muova la penna. Ciò che rimane dagli Annales [Annali] di Ennio – 600 versi su 30000 – è, purtroppo, un materiale troppo frammentato per dare addito ad una lettura che non sia solo motivata dallo studio filologico.
Abbiamo detto la scorsa settimana che per apprezzare la costruzione dei suoi versi – l’applicazione alla lingua latina del “verso esametro greco” – i frammenti di Ennio bisognerebbe poterli leggere in lingua originale e nella loro forma originale. In funzione della didattica della lettura e della scrittura otto giorni fa abbiamo fatto l’esperienza di leggere un frammento dagli Annales [Annali] di Ennio: il cosiddetto frammento de “L’auspicio per la fondazione di Roma”. E poi ci siamo domandate e domandati se ci sia qualcuno che abbia cercato di cogliere lo spirito, retorico e celebrativo, di Ennio usando la leggerezza per rendere l’esercizio della lettura un fatto più giocoso e gratificante ma non per questo meno riflessivo.
Sappiamo che c’è uno scrittore, Alberto Cavaliere – il quale, a suo tempo, si è definito solo “un chimico con la vocazione del giornalista” – che rifacendosi allo schema del poema di Ennio si è divertito a mettere la storia romana in versi così come si trovava nei libri scolastici degli anni ’30. Perché lo ha fatto? Lo ha fatto con intento satirico cercando anche di non incorrere nei divieti della censura del regime. Con Alberto Cavaliere questa sera abbiamo un appuntamento.
In conclusione dello scorso itinerario, facendo riferimento alla tragedia di Ennio intitolata Le Sabine, abbiamo letto come ha interpretato, a suo modo, questa tragedia – il cosiddetto “ratto delle Sabine” è una tragedia [nel senso di sciagura e di situazione dolorosa] che nasconde il primordiale tema della “questione femminile” che transita dal “mondo di Janus” all’area dei “miti paralleli” –; ebbene, abbiamo letto come Alberto Cavaliere abbia interpretato a suo modo, con apparente leggerezza, questa tragedia, e ci siamo rese e resi conto che l’apparente frivolezza di Cavaliere – se così si può dire – è caustica. Ma chi è Alberto Cavaliere?
Lo scrittore Alberto Cavaliere non vuole certo essere paragonato a Quinto Ennio che lui considera un grande e inimitabile poeta difatti nella presentazione di “Storia Romana in versi” scrive: «Non sono certo Ennio l’omerico poeta che | della romana storia fu il primo gran profeta, | io sono solo un chimico e scrivo per diletto, | ed il mio verso esametro risulta assai imperfetto». Alberto Cavaliere, però, è sicuramente un aedo moderno, un cantore tragico, un rapsodo contemporaneo che, a suo modo, ha voluto reagire nei confronti della retorica buffonesca introdotta nel nostro paese da una dittatura che ha ridotto la cultura latina ad una quinta di cartapesta.
Alberto Cavaliere è nato a Cittanova in provincia di Reggio Calabria nel 1898, è vissuto a Roma, a Milano, ed è morto nel 1967 a Milano, dopo un tragico incidente stradale avvenuto a San Remo. Cavaliere ha svolto la professione del giornalista pubblicista, è stato redattore de “La Domenica del Corriere”, de “L’Illustrazione italiana”, e di famose riviste satiriche: del “Travaso delle idee”, del “Bertoldo”, de “Il Becco giallo”, del “Marc’Aurelio” ed è stato collaboratore di “Stampa sera” e de “L’Avanti!”. Alberto Cavaliere il 2 giugno 1946 è stato eletto all’Assemblea Costituente nelle liste del Partito Socialista.
L’Assemblea Costituente, come sapete, ha avuto il compito di scrivere la Costituzione del nuovo Stato democratico. Dopo la votazione finale del testo della Carta Costituzionale [il 27 dicembre 1947] Cavaliere ha affermato – e non per scherzare – che, forse, sarebbe stato necessario: “scriverne un testo anche in versi per favorire la conoscenza del Documento fondamentale dello Stato democratico da parte di tutti, perché tutti potessero più facilmente, a cominciare dalle bambine e dai bambini nelle Scuole, imparalo a memoria”. Forse Cavaliere aveva ragione e per donarlo a Sandro Pertini [tutte e tutti voi lo avete sentito nominare], che lo aveva allora incoraggiato a fare questa operazione “pubblicistica”, ha scritto un incipit per il “Documento costituzionale messo in versi” che è stato ripreso e sviluppato anni dopo:
«Due giugno quarantasei il popolo italiano
vota per la repubblica non vuole più un sovrano.
Vota il popolo intero finalmente anche le donne.
L’Italia repubblicana è nata con le gonne.
Democrazia vuol dire popolo che decide,
che pensa, sceglie, elegge chi sono le sue guide.
... continua la lettura ...
Questo lavoro – di mettere la Costituzione in versi – è stato realizzato, qualche anno fa in una Scuola elementare dalla maestra Anna Sarfatti ed è stato pubblicato [con la prefazione di Teresa Mattei] con il titolo La Costituzione: abbecedario delle cittadine e dei cittadini.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Questo libretto lo trovate in biblioteca, lo potete leggere e lo potete regalare a una bambina o a un bambino perché possa fare un esercizio di lettura in funzione dell’Educazione civica…
Alberto Cavaliere da giovane ha lavorato in un laboratorio chimico, infatti era laureato in chimica, anche se – e forse ve lo ricordate perché è proprio per questo motivo che lo abbiamo incontrato qualche anno fa – al primo esame di chimica fu sonoramente bocciato! E la prima opera che Cavaliere ha scritto [dopo la prima guerra mondiale] e poi ha pubblicato [dopo la seconda guerra mondiale, nel 1946], incuriosisce veramente perché s’intitola: Chimica in versi (rime distillate). Ha scritto anche romanzi, opere storiche, ma soprattutto raccolte di versi, di cui la più importante insieme alla Chimica è, come sappiamo, la Storia romana in versi [scritta, semi-clandestinamente, negli anni ’30, circolava nel 1937].
Storia romana in versi c’interessa perché Cavaliere dice di aver parafrasato il grande poeta Ennio naturalmente in una chiave diversa. La chiave di Cavaliere non è quella del poema epico ma bensì del poemetto lirico brioso in chiave ellenistica, che è una chiave che ci fa sorridere perché è comica ed è dotata di leggerezza, di semplicità, ma è anche un veicolo di sapienza, perché, Cavaliere, la Storia romana la racconta com’è nei libri di testo. Poi naturalmente – e questo negli Annales di Ennio non c’è, se non involontariamente – Cavaliere persegue un preciso intento satirico: vuole contrapporre i suoi versi giocosi alla retorica degli anni ’30 che ha trasformato la cultura latina [la sapienza poetica] in romanite acuta [in una grave malattia]! Intrecciato con questi versi fluidi e giocosi c’è un trattato di Storia che può essere un valido e piacevole sussidio ad uso delle studentesse e degli studenti: è una divertente lettura, istruttiva, che invita soprattutto a riflettere sul concetto di “mito parallelo alla storia” che è il tema principale del paesaggio intellettuale che stiamo osservando in questa fase del nostro viaggio sul territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale”.
Leggiamo l’inizio di Storia romana in versi dove la leggenda corre parallela alla storia.
LEGERE MULTUM….
Alberto Cavaliere, Storia romana in versi [Anno di pubblicazione 1948]
In tempi lontanissimi, avvolti dal mistero,
in cui vaga lo spirito fra la leggenda e il vero
quando non esistevano ancor carta ed inchiostro,
cose che tanto abbondano invece, al tempo nostro,
né v’erano storiografi, filosofi, scrittori
sorse su un colle un umile borgata di pastori,
così modesta e povera che un solco ebbe per cuna.
... continua la lettura ...
Ennio [che è ancora qui accanto a noi] nicchia un po’ beffardo ma deve riconoscere che il poemetto brioso di Cavaliere ha rispettato il catalogo che lui ha predisposto nel II secolo a.C. e che ha lasciato la sua impronta nei secoli. Catone il Censore [anche lui è qui vicino a noi], contrariamente a ciò che si possa pensare, è molto divertito e approva l’ironia antiretorica di Cavaliere perché Catone, come sappiamo, è contrario al fatto che i miti corrano paralleli alla storia: la luce del mito – pensa Catone – è troppo abbagliante e favorisce i dittatori, mentre il buio degli avvenimenti remoti c’insegna che la storia la dobbiamo fare ora, facendo il nostro dovere. Chissà se Catone il Censore gradisce ciò che Alberto Cavaliere ha scritto, in versi, su di lui? Non ci resta che leggere:
LEGERE MULTUM….
Alberto Cavaliere, Storia romana in versi [Anno di pubblicazione 1948]
Ora, i Romani rustici, a furia di contatti
coi raffinati popoli da loro già disfatti,
cominciano a corrompersi e ad imitar quel lusso
ch’ebbe su questi popoli un sì funesto influsso,
con che s’illustra in pratica l’adagio secolare:
chi con lo zoppo bazzica impara a zoppicare.
... continua la lettura ...
Catone il Censore è addirittura entusiasta! E, a questo punto – siccome Catone è una persona pragmatica e curiosa e ama l’agricoltura e l’agricoltura ha a che fare con la chimica – vorrebbe sapere qualcosa anche sul libro di Alberto Cavaliere intitolato Chimica in versi (rime distillate). Possiamo non accontentarlo? Sarebbe una scortesia e poi, forse, interessa anche a noi la Chimica in versi.
Sappiamo già che Cavaliere ha scritto la Chimica in versi (rime distillate) da giovane studente dopo una solenne bocciatura all’esame di chimica. Cavaliere, allora, aveva già la vocazione per fare l’aedo, il rapsodo e, quindi, per imparare la Chimica – che era per lui una materia arida e refrattaria – la mise in versi, e si ripresentò all’esame preparato in modo formidabile. Anche questo libro è stato pubblicato subito dopo la guerra, nel 1946, e suscitò curiosità tanto a livello scolastico, quanto nel campo della critica letteraria.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Cercatelo in biblioteca, sfogliatelo e leggetene qualche verso...
Benedetto Croce ha detto: «Dopo una simile definizione dell’ossigeno, contenuta nella Chimica in versi di Alberto Cavaliere, come si può odiare la vita?». E il critico Guido Manacorda nella prefazione al libro ha scritto: «I primi a deliziarsene saranno certamente gli studenti di chimica delle Università italiane perché, a detta degli intenditori, non c’è reazione o formula che faccia una grinza. Ma, tutti gli studenti, assieme alla gaia e musicale esposizione delle esperienze chimiche, troveranno anche qualche divagazioncella che tornerà assai utile a sollevare i loro spiriti nel torbido periodo della preparazione agli esami. Veramente in Alberto Cavaliere c’è la vena poetica di un aedo che sorpassa la bizzarra virtuosità del discioglimento in metri popolari di una materia arida e refrattaria».
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Avete mai avuto a che fare con la Chimica?...
Scrivete quattro righe in proposito...
Ma ascoltiamo come Alberto Cavaliere, nell’introduzione, presenta la sua opera:
LEGERE MULTUM….
Alberto Cavaliere, Chimica in versi (rime distillate) Introduzione
Da giovane studente, bizzarro e dissoluto,
non andai mai d’accordo col piombo e col bismuto;
anche il vitale ossigeno mi soffocava; il sodio,
per un destino amaro, sempre rimò con odio;
m’asfissiò forte a scuola, prima che in guerra, il cloro;
forse perfino, in chimica, m’infastidiva l’oro.
... continua la lettura ...
Che aria tira sul territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale” dopo Ennio? Tira un’aria vivace e anticonformista: perché?
La poesia epica di Ennio, che mette in versi i “miti paralleli latini” come se fossero la storia gloriosa della nazione romana, viene esaltata dal potere costituito perché rafforza l’orgoglio di essere cittadini romani, ma nella società civile gli intellettuali più giovani, che sono cresciuti studiando a memoria gli Annales di Ennio, si rendono conto perfettamente che quest’opera è molto valida dal punto di vista formale e rappresenta un meraviglioso esempio di creatività nell’arte poetica, ma dal punto di vista del contenuto è “falsa”, è artefatta perché la realtà, rispetto al mito, era ed è un’altra cosa. E lo stesso Ennio aveva già reagito in proposito scrivendo – sempre in versi esametri – un’opera intitolata Saturae [Le satire] della quale purtroppo ci rimangono solo alcuni frammenti che non permettono di capire quale sia l’intento dello scrittore; si fa un’ipotesi, molto accreditata, in proposito: Ennio si lamenterebbe del fatto che la lettura e lo studio della sua opera epica, gli Annales, non sproni – come secondo lui dovrebbe – i cittadini a comportarsi meglio dal punto di vista morale e non basta sentirsi orgogliosi di essere Romani, bisogna anche essere cittadini onesti.
Nel II secolo a.C. nella società romana, a cominciare dal Circolo degli Scipioni, si sviluppa un dibattito dal quale nasce un movimento di giovani intellettuali appartenenti al ceto equestre – quindi benestanti, indipendenti dal punto di vista economico e liberi di dire ciò che pensano – che si dedicano al genere letterario della “satira”: il primo genere letterario che può essere considerato tipicamente latino ed autonomo rispetto alla cultura greca. In Grecia si faceva “satira” ma non era mai stato creato un genere apposito: si satireggiava dentro le forme della poesia lirica, in particolare nella lirica giambica. A Roma, attraverso il genere letterario della “satira”, un gruppo di giovani scrittori decide di esprimere la propria opinione personale nei confronti della realtà contemporanea così come si presenta, cioè in modo ben diverso da quella manipolato attraverso le narrazioni leggendarie di stampo mitologico.
Il genere letterario della “satira” diventa uno strumento, ora ironico, ora sarcastico, per esercitare la critica morale, politica, culturale e questo genere è destinato a svilupparsi con esiti di grande valore letterario nel territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale” e, anche per questo motivo, si radicherà, nei secoli, su tutto il percorso della Storia del Pensiero Umano.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Qual è oggi la “satira” che apprezzate di più? ...
Scrivete quattro righe in proposito...
Nel frattempo, mentre stavamo dicendo tutte queste cose, ci siamo anche mosse e mossi e abbiamo proceduto sul sentiero che attraversa il territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale” e ora ci troviamo nei pressi di un altro interessante paesaggio intellettuale. Questo nuovo paesaggio si trova a breve distanza da quello che ci siamo appena lasciate e lasciati alle spalle: quello dell’epica omerica di Ennio, del “miti latini paralleli alla storia”. Il nuovo paesaggio intellettuale che abbiamo raggiunto ha una conformazione del tutto diversa da quello precedente e in esso vedremo apparire quelle che sono state chiamate le “nuove tendenze della poesia latina”. [Nella mostra testa ben fatta abbiamo collocato fino a questo momento i seguenti paesaggi intellettuali: quello del “mondo di Janus”, quello del “teatro delle origini”, quello dei “miti paralleli”, e ora quello delle “nuove tendenze poetiche”].
Con queste “nuove tendenze” termina il cosiddetto periodo arcaico della Letteratura latina e, come abbiamo già detto, emerge un nuovo genere letterario: la satira, il primo genere letterario che può essere considerato tipicamente latino ed sufficientemente autonomo rispetto alla cultura greca. Chi è il primo esponente di questa nuova tendenza poetica, chi è il primo autore che usa la satira per esprimere la propria opinione personale nei confronti della realtà contemporanea, la realtà del II secolo a.C. a Roma? A Roma, nel II secolo a.C., il primo autore ad usare la satira per esprimere la propria opinione personale nei confronti della realtà contemporanea è Gaio Lucilio. Chi è Gaio Lucilio?
Prima di rispondere a questa domanda non dobbiamo dimenticarci che stiamo leggendo un romanzo, quindi, prima di occuparci di Gaio Lucilio – il quale apprezza senz’altro il freddo realismo di questo testo – continuiamo a leggerlo. Il romanzo in questione è stato scritto da Irène Némirovsky nel 1931 e s’intitola Come le mosche d’autunno di cui abbiamo già letto quattro capitoli. Stiamo leggendo questo romanzo perché si tratta di un’ipotesi di sviluppo letterario: molti elementi della trama di questo racconto, come sappiamo, si trovano nella trama di un dramma perduto di Lucio Ambivio Turpione riassunto da Cicerone nella sua opera intitolata De officiis [I doveri]. Irène Némirovsky mette in scena la mitica figura di Vesta nel realistico personaggio della vecchia nutrice Tat’jana Ivanovna la quale, per essere fino in fondo fedele ai suoi doveri, si ritrova emigrata in un bel luogo, la Parigi dell’inizio del XX secolo, però quello non è il suo mondo, non è il mondo nel quale – giusti o sbagliati che siano – possa ritrovare i suoi valori.
Leggiamo il quinto capitolo di Come le mosche d’autunno nel quale troviamo anche la spiegazione del titolo di questo breve romanzo.
LEGERE MULTUM….
Irène Némirovsky, Come le mosche d’autunno
I Karin arrivarono a Parigi all’inizio dell’estate e presero in affitto un piccolo appartamento ammobiliato in rue de l’Arc-de-Triomphe. A quel tempo Parigi era invasa dalla prima ondata di emigrati russi, che si stipavano tutti a Passy e nei dintorni dell’Etoile, istintivamente attratti dalla vicinanza del Bois de Boulogne. Quell’anno il caldo era opprimente.
L’appartamento era piccolo, buio, soffocante; odorava di polvere, di vecchie stoffe; i soffitti bassi sembravano pesare sulla testa; dalle finestre si vedeva il cortile, lungo e stretto, con i muri imbiancati a calce che riflettevano spietatamente il sole di luglio. Fin dal mattino venivano chiuse imposte e finestre, e in quelle quattro stanzette buie i Karin vivacchiavano fino a sera, senza uscire, sconcertati dai rumori di Parigi, respirando con fastidio il tanfo degli scarichi e delle cucine che saliva dal cortile. Camminavano avanti e indietro da una parete all’altra, in silenzio, come le mosche d’autunno, allorché, passati il caldo e la luce dell’estate, svolazzano a fatica, esauste e irritate, sbattendo contro i vetri e trascinando le ali senza vita.
Seduta tutto il giorno in una stanzetta guardaroba in fondo all’appartamento, Tat’jana Ivanovna rammendava gli abiti. La domestica tuttofare, una ragazza normanna fresca e rubiconda, massiccia come un cavallo da tiro, socchiudeva ogni tanto la porta e gridava: «Ma non vi annoiate?». Pensando di farsi capire meglio dalla straniera, articolava nettamente le parole, come quando ci si rivolge ai sordi, e la sua voce squillante faceva tremare il paralume di porcellana della lampada.
Tat’jana Ivanovna scuoteva vagamente la testa, e la ragazza ricominciava a trafficare con le sue pentole. Andrej era stato mandato in collegio al mare, in Bretagna. Poco dopo se ne andò Kirill. Aveva ritrovato la sua compagna di cella, l’attrice francese che era stata con lui in prigione a San Pietroburgo nel 1918 e che al momento faceva la vita della ricca mantenuta. Era una bella ragazza, una bionda prosperosa che non badava a spese e andava pazza per Kirill. Il che semplificava le cose. Ma a volte, quando rientrava a casa all’alba e gli capitava di guardare il cortile sotto le sue finestre, Kirill avrebbe voluto essere steso su quel lastricato rosa e farla finita una volta per tutte con l’amore, i soldi e le loro complicazioni.
Poi gli passava. Si comprava dei bei vestiti. Beveva. Alla fine di giugno partì per Deauville con l’amante.
A Parigi, quando verso sera il caldo si attenuava, i Karin uscivano, per andare al Bois, al Pavillon Dauphine. I genitori si fermavano lì, ad ascoltare mestamente le orchestrine, a ricordare i giardini di Mosca. Loulou invece, insieme ad altri ragazzi e ragazze, passeggiava lungo i viali ombreggiati recitando versi e dedicandosi al gioco dell’amore.
Loulou aveva vent’anni. Era meno bella di una volta, magra e con movenze brusche come quelle di un maschio, la pelle scura, ruvida, bruciata dal vento della lunga traversata, l’espressione stranita, annoiata e crudele. Quella vita fatta di spostamenti continui e di pericoli le era piaciuta, la trovava eccitante. Adesso, a tutto il resto preferiva quelle passeggiate nell’ora del crepuscolo parigino, le lunghe serate silenziose nei bistrot, i localini affollati, con il loro odore di gesso e di alcol e il rumore dei biliardi che arrivava dalle sale sul retro … Verso mezzanotte andavano a casa dell’uno o dell’altro e ricominciavano a bere, a scambiarsi carezze nel buio. I genitori dormivano; sentivano vagamente il grammofono suonare fino a giorno. Non vedevano, o non volevano vedere.
Una notte Tat’jana Ivanovna uscì dalla sua camera per raccogliere i panni messi ad asciugare in bagno il giorno precedente e poi dimenticati; doveva rammendare un paio di calze per Loulou. Lavorava spesso di notte. Le bastavano poche ore di sonno, e alle quattro o alle cinque era già in piedi, e cominciava ad aggirarsi silenziosa per le stanze, senza entrare mai in salotto.
Quella notte aveva sentito dei passi e delle voci in anticamera; i ragazzi dovevano essere andati via da un pezzo … Vide la luce filtrare da sotto la porta del salotto. «Hanno dimenticato un’altra volta di spegnerla» pensò. Aprì, e solo allora udì il grammofono, che suonava, circondato da una montagna di cuscini; la musica, bassa e ansimante, sembrava giungere attraverso una parete d’acqua. La stanza era immersa nella semioscurità. Solo una lampada, velata da un drappo rosso, illuminava il divano su cui era distesa Loulou, apparentemente addormentata, riversa all’indietro, il vestito aperto sul petto: fra le braccia teneva un giovane dal viso pallido e delicato. La vecchia si avvicinò. Dormivano davvero, le labbra ancora accostate, i volti appiccicati l’uno all’altro. Un odore di alcol e un fumo denso riempivano la stanza, e il pavimento era ingombro di bicchieri, bottiglie vuote, dischi, posacenere stracolmi, cuscini che recavano ancora impressa la forma dei corpi.
Loulou si svegliò, fissò lo sguardo su Tat’jana Ivanovna, sorrise; gli occhi dilatati, abbuiati dall’alcol e dall’eccitazione, avevano un’espressione di indifferenza beffarda e di stanchezza estrema. Mormorò sottovoce: «Che cosa vuoi?».
I lunghi capelli sciolti penzolavano sul tappeto; fece un movimento per sollevare la testa, emise un gemito: la mano del giovane era stretta intorno alle ciocche scomposte. Le liberò con uno strattone, si sollevò a sedere.
«Che cosa c’è?» ripeté impaziente.
Tat’jana Ivanovna guardò il ragazzo. Lo conosceva bene per averlo visto spesso dai Karin, da bambino: era il principe Georgij Andronikov. Si ricordava dei suoi lunghi riccioli biondi, dei suoi colletti di pizzo. «Buttalo subito fuori di qui, hai capito?» disse improvvisamente, a denti stretti, il vecchio volto tremante e livido.
Loulou alzò le spalle.
«Va bene, basta che stai zitta … Se ne va subito …».
«Lulička» mormorò la vecchia.
«Sì, sì, taci, per amor di Dio…».
Spense il grammofono, si accese una sigaretta, quasi subito la gettò via, poi ordinò in tono secco: «Aiutami».
In silenzio misero in ordine la stanza, raccolsero i mozziconi di sigaretta, i bicchieri vuoti. Loulou aprì le imposte e aspirò avidamente l’aria fresca che saliva dalle cantine.
«Che caldo, eh?».
La vecchia non rispose: distoglieva lo sguardo da lei con una sorta di selvaggio pudore.
Loulou si sedette sul davanzale della finestra e iniziò a dondolarsi pian piano canticchiando. Sembrava aver smaltito la sbornia, ma non aveva un bell’aspetto: sulle guance, sotto la cipria cancellata dai baci, affioravano macchie violacee; i grandi occhi cerchiati guardavano dritto davanti a sé, profondi e vacui.
«Insomma, si può sapere che cos’hai, nijanja? Tutte le notti è la stessa storia» disse con voce calma, arrochita dall’alcol e dal fumo. «E a Odessa, Dio mio…E sulla nave…Non ti eri mai accorta di niente?».
«Che vergogna!» mormorò la vecchia con un’espressione di disgusto e di dolore. «Che vergogna! … E i tuoi genitori dormono qui accanto…».
«E allora? Questa poi! Ma, sei matta, njanja? Non facciamo niente di male. Beviamo un po’, ci baciamo, che male c’è? Credi che i miei genitori non facessero lo stesso quando erano giovani?».
«No, figliola mia».
«Ah, è questo che pensi?».
«Anch’io sono stata giovane, Lulička. È passato tanto tempo, ma mi ricordo ancora del sangue giovane che mi ardeva nelle vene. Credi che siano cose che si dimenticano? E mi ricordo le tue zie, quando avevano vent’anni come te. Eravamo a Karinovka, in primavera… Ah, che bel tempo che faceva quell’anno… Tutti i giorni passeggiate nel bosco e in barca sul lago… E la sera si ballava dai vicini, o da noi… Ognuna aveva il suo innamorato, e spesso se ne andavano tutti insieme in troika, al chiaro di luna… La tua povera nonna diceva: “Ai nostri tempi…”. Ma cosa credi? Loro sapevano benissimo che ci sono cose lecite e altre proibite… Qualche volta, al mattino, venivano in camera mia a raccontarmi quello che l’uno o l’altro aveva detto… Così un giorno si sono fidanzate, si sono sposate e hanno vissuto con la loro parte di felicità o di disgrazia, onestamente, fino al giorno in cui Dio le ha chiamate… Sono morte giovani, come sai, una di parto e l’altra, cinque anni dopo, di una febbre maligna… Eh sì, mi ricordo… Avevamo i più bei cavalli della zona, e a volte tuo papa, che allora era un giovanotto, i suoi amici e le tue zie, insieme ad altre ragazze, se ne andavano a cavalcare nella foresta, con i lacchè che li precedevano con le torce…».
«Già» disse con amarezza Loulou indicando il piccolo salotto triste e buio e la vodka scadente in fondo al bicchiere che stava distrattamente rigirando fra le dita. «A quanto pare, lo scenario è cambiato…».
«E non è il solo» borbottò la vecchia, guardando Loulou con espressione desolata. «Figliola mia, perdonami. Con me non hai bisogno di vergognarti, ti ho vista nascere… Non hai commesso peccato, almeno? Sei ancora ragazza?».
«Ma certo, njanjuška» disse Loulou. Le tornò in mente una notte di bombardamenti a Odessa, quando era rimasta in casa del barone Rosenkranz, l’ex governatore della città; lui era in prigione e suo figlio abitava lì da solo. I cannoni avevano iniziato a sparare così all’improvviso che lei non aveva avuto il tempo di tornare a casa, ed era rimasta fino all’alba nel palazzo deserto con Sergej Rosenkranz. Che ne era stato di lui? Morto, probabilmente… Il tifo, la fame, una pallottola vagante, la prigione… Non c’era che l’imbarazzo della scelta, davvero. Che notte … I dock incendiati… Dal letto dove facevano l'amore vedevano le falde di petrolio in fiamme spandersi sul porto … Ricordava la casa sull’altro lato della strada, con la facciata distrutta e le tende di tulle che oscillavano nel vuoto… Quella notte …la morte era stata così vicina … Ripeté meccanicamente: «Certo, njanjuška…».
Ma Tat’jana Ivanovna la conosceva bene: scosse la testa, serrando in silenzio le vecchie labbra.
Georgij Andronikov gemette, si voltò pesantemente, poi mezzo addormentato balbettò: «Sono ubriaco fradicio».
Andò barcollando fino alla poltrona, affondò la faccia tra i cuscini e rimase lì inerte. «Lavora tutto il giorno in un garage, adesso, e muore di fame. Se non ci fosse il vino… e il resto, varrebbe forse la pena vivere?».
«Tu offendi Dio, Loulou».
Tutt’a un tratto la ragazza nascose il viso tra le mani e scoppiò in singhiozzi disperati. «Njanjuška …Vorrei essere a casa! Nella nostra casa!» ripeteva torcendosi le dita con un gesto strano e nervoso che la vecchia non le aveva mai visto fare. «Perché veniamo puniti così? Non abbiamo fatto niente di male!…».
Tat’jana Ivanovna le accarezzò con dolcezza i capelli spettinati, impregnati di un odore intenso di fumo e di vino.
«È la santa volontà di Dio».
«Ah, mi hai seccata, non sai dire altro!».
Si asciugò gli occhi, alzò con violenza le spalle. «Dai, lasciami stare! …Vattene, sono stanca e ho i nervi a fior di pelle. Non dire niente ai miei … A che servirebbe? Daresti loro un dispiacere inutile, e non otterresti niente, credimi … Niente. Sei troppo vecchia, non puoi capire». …
A Roma, nel II secolo a.C., il primo autore ad usare la satira per esprimere la propria opinione personale nei confronti della realtà contemporanea è Gaio Lucilio. Gaio Lucilio è uno scrittore che si impegna in un solo genere letterario, quello della satira. È un tipo vivace e anticonformista, è indipendente dal punto di vista economico perché è un benestante che appartiene al ceto equestre, ha amici potenti, e queste prerogative gli consentono di esercitare, all’interno della società romana, una critica libera, quasi sempre sarcastica, polemica e aggressiva. Lucilio usa un linguaggio vario, il più vicino possibile alla lingua parlata, come dice lui stesso, in modo da essere capito dalla gente comune.
Il tono mordace con cui si esprime e l’andamento discorsivo e narrativo dell’esposizione costituiscono gli elementi fondamentali di un modello che hanno poi utilizzato tutti i poeti satirici posteriori. Questo modello è stato perfezionato nel tempo tanto che Orazio, più di un secolo dopo, rimprovera a Lucilio la prolissità e la scarsa cura della forma e lo chiama “fangoso [lutulentum]”, come un torrente che scende rovinoso dai monti. Tuttavia Orazio – lo incontreremo al termine di questo viaggio – se è diventato, nell’età di Augusto, un maestro di stile qualche cosa deve anche a Lucilio, così come devono qualcosa a Lucilio anche Persio e Giovenale che sono due grandi scrittori satirici di età imperiale [li incontreremo nel prossimo viaggio di studio]. Chi è Gaio Lucilio?
Gaio Lucilio è nato a Sessa Aurunca nella Campania settentrionale nel 180 a.C., come sostengono, con argomenti inequivocabili, le studiose e gli studiosi moderni di filologia: questa puntualizzazione dobbiamo farla perché fino all’età moderna si è pensato che Lucilio fosse nato nel 148 a.C. come aveva affermato san Gerolamo alla fine del IV secolo.
Il fatto che Lucilio sia nato a Sessa Aurunca [l’antica Suessa fondata dagli Aurunci], costituisce un invito a fare una visita a questa cittadina che si trova in provincia di Caserta. Abbiamo già ricordato qualche anno fa, nel corso di uno dei nostri viaggi, che Sessa Aurunca è uno dei vertici di un ideale triangolo che unisce il cospicuo sito archeologico dell’antica Minturnae che si trova lungo la via Appia proprio sul confine tra il Lazio e la Campania nei pressi del ponte sul fiume Garigliano che unisce queste due regioni, e la nuova Minturno in provincia di Latina [in Lazio] che è una cittadina di aspetto medioevale che guarda il Tirreno da un colle ai piedi dei monti Aurunci; ebbene, all’interno di questo triangolo [i cui vertici sono: l’antica Minturnae, la nuova Minturno e Sessa Aurunca] – andate ad osservarlo sulla carta geografica questo frammento di territorio – potrebbe sorgere un “parco plotiniano”, in riferimento al filosofo Plotino [siamo destinate e destinati ad incontrarlo ancora perché il Neoplatinismo nasce e si sviluppa sul territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale”]: c’è da meravigliarsi che in questa bella zona tra il Lazio e la Campania non ci sia ancora un “parco plotiniano”. Ma torniamo a Sessa Aurunca che si affaccia, con i suoi monumenti romani, medioevali e barocchi, sul versante meridionale dell’antico vulcano di Roccamonfina: il pittoresco paese di Roccamonfina merita di essere visitato, così come, sempre nei dintorni, merita di essere visitato il “ponte degli Aurunci”. Sessa Aurunca non ha dato i natali solo a Gaio Lucilio ma anche ad altri importanti personaggi: fate una ricerca, in proposito, per scoprire che attinenza abbia Sessa Aurunca con Il Galateo di monsignor Della Casa.
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Con una guida della Campania, e anche collegandovi alla rete, fate un’escursione a Sessa Aurunca per rendervi conto di quanto sia ricca di monumenti questa cittadina che è quasi interamente costruita e pavimentata in trachite – sapete che cos’è la trachite? – e, alla vista, si caratterizza per le cupole e i campanili coperti di tegole maiolicate gialle e verdi…
Buon viaggio…
Gaio Lucilio – di famiglia equestre e benestante – a Roma fa parte del circolo filo-ellenistico degli Scipioni e diventa amico di Gaio Lelio e di Scipione l’Emiliano insieme al quale combatte in Spagna nel 133 a.C.. Quando torna a Roma si dedica per un trentennio alla poesia, anche se per le sue condizioni di nascita e di censo poteva benissimo intraprendere con successo la carriera politica, ma l’ambiente politico romano è diventato per Lucilio troppo spregiudicato, preferisce stare da parte per evitare di corrompersi, preferisce scrivere sotto forma di “satira” quello che vede. Nel 106 a.C. si trasferisce a Napoli – a Roma, forse, si è fatto qualche nemico –, dove muore nel 103 a.C.. La morte di Lucilio – a Roma aveva anche tanti amici – viene celebrata con funerali di Stato [funus publicum] e questo attesta la considerazione di cui, come poeta, godeva presso i contemporanei.
Lucilio ha composto 30 libri di Satire che chiama Sermones, cioè “chiacchiere”, quasi a sottolineare il loro carattere colloquiale. I grammatici del I secolo a.C. hanno raccolto e ordinato la sua produzione non secondo l’ordine cronologico, bensì secondo il metro usato: se scritte in senari giambici o in settenari trocaici, oppure in esametri dattilici o distici elegiaci. Dell’opera di Lucilio rimangono frammenti per circa 1350 versi, tramandati per via indiretta attraverso le citazioni di altri autori.
La satira di Lucilio, in modo molto colloquiale – «Tanto per far due chiacchiere» dice il poeta – prende però di mira con severità tutti gli aspetti della Roma sua contemporanea e denuncia la disonestà e la corruzione, la superstizione degli ignoranti, il lusso sfrenato dei ricchi e lo sfarzo nei banchetti. Esalta però anche la virtù e i valori morali, lodando soprattutto coloro i quali tengono un comportamento in linea con la “humanitas”, e abbiamo già studiato il significato di questa importante parola-chiave.
Purtroppo della composizione satirica di Lucilio ci rimane un materiale molto frammentato: più che dei veri e propri brani restano delle sequenze di versi utilizzati come citazioni da molti autori nelle loro opere, per esempio ci sono una serie di frammenti di un’esilarante narrazione in forma epistolare di un viaggio del poeta da Roma in Sicilia, che conosciamo nel contenuto perché Orazio, più di un secolo dopo, la prende a modello per il celebre racconto del suo viaggio a Brindisi.
Tuttavia facciamo un esempio leggendo il testo di un frammento un po’ più articolato dell’opera di Lucilio. Nel I libro dei Sermones Lucilio descrive uno spassoso concilio degli dèi, che si svolge come una seduta del senato romano, convocato da Giove per conoscere le cause della corruzione in Roma. Appurato che la colpa della corruzione è di Cornelio Lentulo Lupo, gli dèi decidono di farlo morire di indigestione per aver mangiato troppi “lupi”, la qualità di pesce più pregiato che si pesca nel Tevere: il fatto è che Cornelio Lentulo Lupo ha uno stomaco di ferro [o di bronzo] perché è abituato a “mangiare [dovremmo dire: a magnare]” ben altro che il pesce del Tevere e non è facile farlo morire d’indigestione e – piuttosto che scomodare gli dèi che in quanto a “mangiare” non li batte nessuno – per i corrotti ci vorrebbe un giudice, un processo normale e una pena prevista dal Codice penale.
Leggiamo questo frammento molto esplicito:
LEGERE MULTUM….
Gaio Lucilio, Sermones Libro I
Giove ha convocato il concilio degli dèi dentro al Senato con l’intenzione
di conoscere come sia nato, in Roma, il fenomeno della corruzione.
Dopo un’indagine molto accurata la colpa a Cornelio Lentulo Lupo viene affibbiata.
Gli dèi decidono, senza sentir ragione, di farlo morire d’indigestione,
soprattutto perché troppi lupi ha mangiato, troppo si è riempito,
in modo smodato, la pancia di pesci pregiati
che nel Tevere ai pescatori meschini ne sono rimasti davvero pochini.
Ma Lentulo Lupo, sa come fare, ha lo stomaco di bronzo, è abituato
a “mangiare”, più che di lupi si nutre di pubblici appalti e di senatoriali concessioni e:
chi è in grado di fotterlo con le indigestioni? … Gli dèi? …Piuttosto che scomodare
gli dèi, che vivendo in alto nel cielo i primi a “mangiare”
sono loro davvero. Ci vorrebbe un giudice onesto e sincero
che istituisca un processo normale, con la pena giusta, come prevede il Codice penale.
Lentulo Lupo a nutrirsi di dolo, in questa città non è proprio il solo,
è un gran vanitoso e la sua immunità desidera ostentare
e anche quando “mangia” vuole farsi notare, sa che non saranno certo gli dèi
con le loro scialbe, laconiche, inutili decisioni a farlo morire con le indigestioni …
Abbiamo già detto che Orazio, più di un secolo dopo, rimprovera a Lucilio la scarsa cura formale e il modo troppo diretto con cui denuncia le situazioni, senza l’uso della metafora e definisce il suo stile: “fangoso [lutulentum]”. Tuttavia Orazio se è diventato, nell’età di Augusto, un maestro di stile lo deve anche a Lucilio e al suo modo di scrivere “simile ad un torrente che scende rovinoso dai monti”.
Facciamo il punto della situazione: che cosa c’è ancora da osservare nel paesaggio intellettuale della “satira” alle sue origini? C’è da fare un’affermazione significativa: tra la fine del II e l’inizio del I secolo a.C. si manifesta in Roma una nuova tendenza poetica anticonformista, legata ad un fenomeno che dobbiamo mettere in evidenza, e che abbiamo già studiato durante il viaggio di due anni fa sul territorio dell’Ellenismo: il fenomeno della penetrazione sempre più intensa della poesia alessandrina. Roma si confronta all’inizio del processo di integrazione con la cultura greca con Atene e con il mondo ellenico ma, dal III secolo a.C., il baricentro della cultura greca si sposta ad Alessandria che diventa – con la sua Biblioteca e le sue Scuole – la capitale culturale dell’Ellenismo e anche Roma entra, inevitabilmente, in sintonia con questa città. Sappiamo che la poesia lirica alessandrina [è stato per noi argomento di studio durante il viaggio dell’anno 2009-2010] rifiuta la letteratura di carattere epico o trattatistico e sperimenta forme poetiche più brevi e leggere, come, per esempio, l’epillio, un breve poemetto epico, o l’epigramma, un breve scritto di carattere erotico, celebrativo o satirico. Questa nuova tendenza si sviluppa a Roma soprattutto nell’ambito di un nuovo Circolo letterario – che si affianca e supera quello degli Scipioni –, il circolo di Quinto Lutazio Catulo. Chi è Quinto Lutazio Catulo?
Quinto Lutazio Catulo [150 circa - 87 a.C.] è stato console nel 102 e nel 101 a.C. insieme a Caio Mario fronteggiando, in questi anni, con determinazione l’invasione di due popolazioni germaniche che erano calate dal nord: i Cimbri e i Teutoni. Lutazio Catulo e Caio Mario – in un momento molto critico per Roma – sconfiggono prima i Teutoni ad Aquae Sextiae [oggi Aix les Bains] in Provenza e poi i Cimbri ai Campi Raudii [vicino a Vercelli]. In seguito Lutazio Catulo diventa un oppositore di Caio Mario perché quest’ultimo è molto ambizioso e dà il via ad una tendenza personalistica nel dirigere la Repubblica, un vizio che ne determinerà la fine. Quinto Lutazio Catulo, nell’87 a.C., è morto suicida ma non abbiamo notizie precise per commentare questo [misterioso] episodio.
Quinto Lutazio Catulo è stato un grande oratore, uno storico – ha scritto un’opera autobiografica intitolata Commentari che purtroppo è andata perduta –, è stato anche un poeta ma della sua produzione rimangono solo due epigrammi erotici. Soprattutto Quinto Lutazio Catulo è stato un sostenitore di letterati e ha fondato un Circolo letterario [il Circolo di Lutazio Catulo] per ospitare i poeti greco-alessandrini come Antipatro di Sidone e Archia di Antiochia che hanno portato a Roma nuovi generi letterari. Il Circolo di Lutazio Catulo ha raccolto un gruppo di poeti latini – Valerio Edituo, Porcio Licinio, Volcacio Sedigito, Levio e Mazio – che hanno cominciato a sperimentare forme e generi provenienti da Alessandria e hanno anticipato i cosiddetti “neòteroi”, i “poeti nuovi” dell’età cesariana, i quali si distinguono per il loro anticonformismo letterario e per aver creato una lirica soggettiva che dà voce ai sentimenti dell’autore: la Letteratura latina – sulla scia della lirica alessandrina – scopre l’intimità.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
A che cosa vi fa pensare, prima di tutto, la parola “intimità”: alla familiarità, ad un ambiente accogliente, alla riservatezza, all’interiorità, alle effusioni amorose?...
Scegliete una di queste possibilità, bastano due parole per rispondere...
Del rapporto tra la Letteratura latina e la cultura alessandrina ce ne occuperemo la prossima settimana quando raggiungeremo il paesaggio intellettuale che contiene questo grande tema che cambia i connotati della cultura romana.
Adesso, per concludere, – il concetto di “intimità” emerge in questo testo – continuiamo la lettura del romanzo intitolato Come le mosche d’autunno di cui abbiamo già letto cinque capitoli, e ora leggiamo il sesto.
LEGERE MULTUM….
Irène Némirovsky, Come le mosche d’autunno
Una domenica di agosto, dopo il ritorno di Kirill, i Karin fecero dire una messa per il riposo dell’anima di Jurij. Andarono tutti insieme a piedi in rue Daru. Era una giornata magnifica; il cielo azzurro scintillava. In avenue des Temes era in corso una fiera, con una musica sfrenata e una gran polvere. I passanti guardavano incuriositi Tat’jana Ivanovna con il solito scialle nero in testa e la lunga gonna.
La messa in rue Daru venne celebrata nella cripta della chiesa; le candele crepitavano dolcemente; negli intervalli del responsorio si udivano le gocce di cera bollente cadere sulle lastre di pietra del pavimento. «Per il riposo dell’anima del servo di Dio, Jurij …». Il sacerdote, un vecchio dalle lunghe mani tremanti, parlava con voce lenta e smorzata. I Karin pregavano in silenzio; non pensavano più a Jurij - lui, almeno, era in pace -, mentre loro avevano ancora tanta strada da fare, una strada lunga e buia. «Mio Dio, proteggimi…Mio Dio, perdonami…» dicevano. Soltanto Tat’jana Ivanovna, inginocchiata davanti all’icona che brillava flebile nell’ombra, toccava con la fronte china la pietra fredda e non pensava ad altri che a Jurij, pregava solo per lui, per la sua salvezza e il suo riposo eterno.
Terminata la messa, tornarono verso casa e comprarono delle rose fresche da una ragazza di passaggio, scarmigliata e ridente. Cominciavano ad amare la città e i suoi abitanti. Per le strade, non appena compariva il sole, ci si dimenticava di tutte le disgrazie e ci si sentiva il cuore leggero, senza sapere perché …
La domenica era il giorno di riposo della domestica. Il pranzo freddo era pronto in tavola. Mangiarono appena, poi Loulou mise le rose davanti a una vecchia fotografia di Jurij bambino.
«Che sguardo strano aveva,» disse Loulou «non lo avevo mai notato … quasi di indifferenza, di stanchezza, guardate …».
«Questo sguardo l’ho sempre visto nei ritratti delle persone che dovevano morire giovani o in maniera tragica,» mormorò Kirill turbato «come se sapessero tutto in anticipo e se ne infischiassero…Povero Jurij, era il migliore di tutti noi…». Contemplarono in silenzio la piccola foto sbiadita.
«È in pace, libero dal male in eterno».
Loulou sistemò i fiori con cura, accese due candele e le mise una per parte di fianco alla cornice. Rimasero in piedi, immobili, sforzandosi di pensare a Jurij, ma ormai provavano soltanto una sorta di tristezza raggelata, come se dalla sua morte fossero trascorsi molti anni. Invece erano soltanto due …
Elena Vassilievna, con gesti automatici, tolse delicatamente la polvere che copriva il vetro del ritratto, così come si asciugano le lacrime da un viso. Di tutti i suoi figli, Jurij era quello che lei aveva capito meno, il meno amato … «È con Dio,» pensava «è più fortunato degli altri …».
Si sentiva il baccano della festa giù in strada.
«Fa caldo, qui» disse Loulou.
Elena Vassilievna voltò il capo.
«Forza, uscite, ragazzi, che aspettate? Andate a prendere una boccata d’aria e a vedere la festa; quando avevo la vostra età, alle feste di corte preferivo le fiere che si tengono a Mosca la domenica delle Palme».
«Anche a me piacciono le fiere» disse Loulou.
«Allora va’» ripeté sua madre con voce stanca.
Loulou e Kirill uscirono. Nicolaj Aleksandrovič, in piedi davanti alla finestra, guardava senza vederli i muri bianchi. Elena Vassilievna sospirò. Com’era cambiato… Non si era fatto la barba… Indossava una giacca frusta e piena di macchie. Com’era stato bello e attraente, un tempo… E lei? Si guardò di sfuggita allo specchio, vide la sua faccia pallida, il gonfiore malsano della pelle, la logora vestaglia di flanella… Una vecchia, mio Dio, era una vecchia ormai! …
«Njanjuška» disse a un tratto.
Non l’aveva mai chiamata così. Tat’jana Ivanovna, che vagava silenziosa da un mobile all’altro, sistemando qua e là gli oggetti, le rivolse uno sguardo smarrito, strano.
«Sì, barinia?».
«Siamo invecchiati, vero, noi due? Ma tu non cambi mai. Fa bene al cuore guardarti… No, davvero, tu non cambi».
«Alla mia età si cambia solo nella bara» disse Tat’jana Ivanovna con un debole sorriso.
Elena Vassilievna esitò, poi abbassando la voce mormorò: «Ti ricordi di casa nostra?».
La vecchia arrossì di colpo, levò al cielo le mani tremanti.
«Eccome se mi ricordo, Elena Vassilievna!… Dio!… Potrei dire dove si trovava ogni singolo oggetto… Potrei entrare in casa e camminare a occhi chiusi!… Ricordo ogni abito che voi indossavate, quelli dei ragazzi, e i mobili, e il parco… Mio Dio!…».
«La sala degli specchi, il mio salottino rosa…».
«Il divanetto dove voi sedevate nelle sere d’inverno, quando i bambini venivano portati al piano di sotto…».
«E prima di allora? Il nostro matrimonio?…».
«Vedo ancora il vestito che avevate, i diamanti nei capelli … Il vestito era di seta cangiante, con i pizzi antichi della defunta principessa … Ah, poveri noi, Lulička non avrà mai niente di simile…».
Tacquero entrambe. Nikolaj Aleksandrovič teneva lo sguardo fisso sul cortile buio; rivedeva nella memoria la moglie come gli era apparsa la prima volta, a un ballo, quando era ancora la contessa Eleckaja, con l’ampio abito di raso bianco e i capelli d’oro… Come l’aveva amata… Ma almeno stavano invecchiando insieme… Già questa era una bella cosa… Se solo le due donne fossero state zitte!… Senza tutti quei ricordi in fondo al cuore, l’esistenza sarebbe stata sopportabile… A fatica, senza voltare la testa, sillabò a denti stretti: «A che scopo? A che scopo? È tutto finito. Non tornerà mai più. Gli altri sperino pure, se vogliono… È finita, finita» ripeté quasi con rabbia.
Elena Vassilievna gli prese la mano, portandosi alle labbra quelle dita pallide, come faceva un tempo.
«Certe cose, a volte, risalgono dal profondo dell’anima… Però non c’è niente da fare… È la volontà di Dio… Kolia, amico mio, mio diletto… Noi siamo insieme, e il resto…».
Lei fece un gesto vago con la mano, e si guardarono in silenzio, evocando dalle profondità del passato altri tratti, altri sorrisi sui loro volti di vecchi.
La stanza era buia e calda. Elena Vassilievna propose: «Prendiamo un taxi e andiamo da qualche parte stasera, ti va? Una volta c’era un ristorantino in riva al lago, vicino a Ville-d’Avray, dove siamo andati nel 1908, ti ricordi?».
«Sì».
«Può essere che ci sia ancora?».
«Può essere» disse lui alzando le spalle.
«Ci s’immagina sempre che tutto crolli con noi, non è vero? Andiamo a vedere».
Si alzarono, accesero la luce. Tat’jana Ivanovna, in piedi in mezzo alla stanza, mormorava parole incomprensibili.
«Tu resti qui, njanjuška?» chiese soprappensiero Nikolaj Aleksandrovič.
Lei parve ridestarsi; le sue labbra tremanti si mossero a lungo, come se facessero fatica ad articolare le parole.
«E dove dovrei andare?» disse alla fine.
Rimasta sola, andò a sedersi davanti al ritratto di Jurij. Fissava lui con lo sguardo, ma altre immagini le si affollavano nella memoria, più antiche e dimenticate da tutti. Volti di morti, abiti vecchi di mezzo secolo, stanze abbandonate… Ricordava il primo vagito stridulo e lamentoso di Jurij … «Come se sapesse che cosa lo aspettava» pensò. «Gli altri non hanno urlato a quel modo…».
Poi si sedette davanti alla finestra e si mise a rammendare le calze. …
La prossima settimana entreremo in quella che si chiama l’età di Cesare: Giulio Cesare è uno dei personaggi più celebri della Storia ed è universalmente noto per la sua spregiudicatezza, la sua ambiguità e la sua abilità. L’età di Cesare è un momento assai tormentato dal punto di vista politico che porta alla fine dell’Antica Repubblica; tuttavia quest’età è anche quella che vede fiorire il cosiddetto periodo classico della Letteratura latina e questo periodo ha inizio con l’esperienza dei “neòteroi”, i “poeti nuovi”, i quali si distinguono per il loro anticonformismo letterario e per aver creato una lirica soggettiva che dà voce ai sentimenti dell’autore: la Letteratura latina – sulla scia della lirica alessandrina – scopre il concetto di “intimità”. Chi sono i “neòteroi”, i “poeti nuovi” [li chiama così in modo un po’ sarcastico Cicerone] e in che cosa consiste la loro opera?
La prossima settimana però non incontreremo ancora questi personaggi perché, prima, saremo travolti da un avvenimento. Se guardiamo il calendario possiamo constatare che ci stiamo avvicinando alle Idi di marzo: e con questo, che succede? [C’è una congiura di mezzo, bisogna dissimulare in modo che vada a buon fine se no compromettiamo il nostro viaggio di studio e neppure i fratelli Taviani avrebbero vinto l’Orso d’oro alla Mostra del Cinema di Berlino]. Che cosa succede e quali contraccolpi scatena questo avvenimento?
Per rispondere a questa domanda bisogna seguire la scia dell’Alfabetizzazione e dell’Apprendimento permanente. Perché l’Alfabetizzazione culturale e funzionale è un bene comune e l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona, per questo la Scuola è qui.
Accorrete numerose e numerosi pensando che se vogliamo andare veloci, forse, è utile andare da soli ma se vogliamo andare lontano è bene andare tutti insieme.
Il viaggio continua…