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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA C’È LA SEPARAZIONE TRA IL MONDO DELLA CULTURA E QUELLO DELLA POLITICA ...

Lezione N.: 
7

Prof. Giuseppe Nibbi     Lo sapienza poetica ellenistica 2009     18-19-20 novembre 2009

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA C’È LA SEPARAZIONE

TRA IL MONDO DELLA CULTURA E QUELLO DELLA POLITICA ...

     Nell’itinerario della scorsa settimana, attraversando il territorio della sapienza poetica ellenistica e seguendo la scia della parola-chiave "passione", abbiamo avuto a che fare con il termine "furore". In particolare il termine "furore" ci si è presentato dinnanzi inserito nel titolo di un libro, di cui abbiamo fatto conoscenza, intitolato, appunto, Del furore d’aver libri. Ormai sappiamo che il libro intitolato Del furore d’aver libri contiene un’opera scritta nel 1756 dal bibliofilo abate padovano Gaetano Volpi che ha per titolo Varie Avvertenze Utili, e necessarie agli Amatori de’ buoni Libri, disposte per via d’Alfabeto. Sappiamo che queste Varie Avvertenze Utili sono un manuale che contiene, in ordine alfabetico – come se fosse una piccola enciclopedia (il Volpi, difatti, vive alla metà del Settecento in piena epoca illuministica ed enciclopedica) – 144 voci che spiegano fino a dove può spingersi l’amore per i libri e il furore di possederne.

     La scorsa settimana abbiamo lasciato qualcosa in sospeso dicendo che c’è ancora una cosa che lega l’abate editore Gaetano Volpi alla parola "furore". Che cosa lega ancora Gaetano Volpi alla parola "furore"? C’è un motivo non tanto di carattere intellettuale ma piuttosto di natura autobiografica che lega ulteriormente Gaetano Volpi alla parola "furore". E a noi, che stiamo attraversando il territorio della sapienza poetica ellenistica nel quale la parola "furore" rappresenta un termine significativo, questo fatto – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – non può sfuggirci.

     A questo proposito, per imbastire la nostra riflessione e per compiere la nostra ricerca dobbiamo ricorrere all’opera di un personaggio. Questo personaggio è, ancora una volta, un abate (e gli abati caratterizzano il Settecento anche perché sono, tra gli intellettuali, quelli che fanno maggiormente riferimento all’Ellenismo) e si chiama Fortunato Federici. L’abate Fortunato Federici è un benedettino cassinese che svolge il ruolo di coadiutore-assistente alla Biblioteca dell’Università di Padova, ed è il più importante biografo della famiglia Volpi. Le cose che abbiamo potuto dire sui Volpi e sulla loro Casa editrice le abbiamo potute attingere dalle notizie raccolte nel libro scritto da Fortunato Federici e pubblicato nel 1809 presso il Seminario di Padova con il titolo Annali della Tipografia Volpi-Cominiana colle notizie intorno la vita e gli studj de’ fratelli Volpi.

     E allora, che cosa lega Gaetano Volpi alla parola "furore" e che cosa ci racconta l’abate Fortunato Federici in proposito? La parola "furore" compare nel racconto, ricco di pathos, della morte di Gaetano Volpi. Questo racconto è emblematico e carico di allusioni significative che servono a caratterizzare fino alla fine il personaggio di Gaetano Volpi. La sua morte è avvenuta nel 1761 quando aveva 72 anni e Fortunato Federici la racconta attraverso una serie di avvenimenti che, per molti versi, ricordano le motivazioni psicologiche esplorate dallo scrittore Elias Canetti nel suo romanzo intitolato Auto da fé che      abbiamo incontrato più di una volta nei nostri Percorsi.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Se qualcuna o qualcuno di v oi non ha ancora letto, o deve rileggere, il romanzo Auto da fé di Elias Canetti, scritto nel 1935 ma pubblicato molto più tardi, colga l’occasione perché le tematiche che emergono sul territorio che stiamo attraversando sono attinenti con questa lettura…

     E ora leggiamo come l’abate Fortunato Federici ci racconta – in modo emblematico e carico di allusioni significative – la morte di Gaetano Volpi:

LEGERE MULTUM….

Fortunato Federici, Annali della Tipografia Volpi-Cominiana colle notizie intorno

la vita e gli studj de’ fratelli Volpi (1809)

 Negli ultimi giorni di sua vita più che per l’innanzi non lo era stato, venne fortemente da melanconia oppresso, la quale per lo spavento sopraggiuntogli nell’avere d’improvviso veduto un incendio suscitatesi appresso della propria casa, degenerò in furore sì, che da una finestra si lasciò cadere, e ritornato per quella scossa nella libertà de’ sentimenti, pochi giorni dopo placidamente spirò nel dì 18 febbraio dell’anno 1761 settantesimosecondo dell’età sua.

La morte di lui fu dolorosa ad ogni ordine di persone. Gli ecclesiastici piansero la perdita di un chiaro esempio, i letterati il loro fautore e ministro, i poveri l’affettuosissimo padre, e tutti la persona di pura religione, di costume virtuoso, il saggio benefico alla società, il cristiano filosofo.

     La vista di un incendio – e il fuoco è nemico dei Libri e delle Biblioteche – fa sì che in Gaetano Volpi la malinconia si trasformi in furore. Questi elementi: la malinconia, il furore, l’incendio distruttore dei Libri, la Biblioteca come luogo del mistero e come palazzo della sapienza diventano componenti, spesso utilizzate, nel genere letterario del "romanzo".

     In funzione della didattica della lettura e della scrittura, pensando alla figura di Gaetano Volpi, la mente si orienta – come abbiamo detto – sul romanzo Auto da fé.

     Il protagonista di questo romanzo è un sinologo (uno studioso di cultura cinese) e si chiama Peter Kien, ed è il padrone di una grande biblioteca, la più fornita biblioteca domestica della città. Il professor Kien vive distaccato dal mondo, in totale assenza di veri contatti umani, e solo in compagnia dei suoi libri crede di sentirsi veramente realizzato: è un autentico bibliomane. A poco a poco però questa chiusura, che lo studioso si è imposto, viene sottoposta ad un progressivo sfaldamento, ed egli si accorge della presenza di altri esseri umani che vivono intorno a lui e decide anche di sposare la governante che, per lungo tempo, ha protetto i suoi studi e i suoi libri…

     Ma ora non si può e non si deve raccontare la trama di questo racconto: leggete o rileggete questo significativo romanzo che trova il suo posto sul territorio ellenistico che stiamo attraversando. Anche lo scrittore Elias Canetti porta con sé elementi che sono tipici dell’Ellenismo e che dobbiamo, brevemente, ricordare: Elias Canetti amava ricordare che la sua patria è l’ecumene e non è difficile capire perché.

     Elias Canetti (1905-1994) è nato in Bulgaria da genitori ebrei sefarditi di origine spagnola e quindi, in casa, parla lo spagnolo, ma i suoi genitori tra loro, nell’intimità, parlano il tedesco. A scuola Elias parla in bulgaro e studia anche il francese e l’inglese. Inoltre, con la lingua tedesca – una lingua a lui sconosciuta e resa in qualche modo magica dall’uso che ne fanno i genitori –, questo bambino poliglotta ha un rapporto speciale e doloroso. Infatti Elias impara il tedesco dopo l’improvvisa e prematura scomparsa del padre: glielo insegna, con pazienza e fatica, sua madre come se fosse un impegno d’amore indirizzato al marito morto.

     Questa singolare esperienza Elias Canetti la racconta in un bellissimo romanzo autobiografico che s’intitola La lingua salvata – un testo che abbiamo già incontrato in altri itinerari – e che probabilmente molte e molti di voi hanno già letto: in questo significativo romanzo autobiografico, tra le righe, si esalta il valore della koiné (un altro importante concetto ellenistico), il valore di una lingua che possa essere davvero lo strumento adatto a comunicare i sentimenti e la passione.

     Elias Canetti è vissuto a Vienna dove si è laureato in chimica (come Primo Levi) e poi, dopo l’annessione dell’Austria alla Germania nazista, nel 1938 si trasferisce a Londra. Canetti scrive per il teatro alcune significative commedie: Nozze (1932), Commedia della vanità (1952), Le vite a scadenza (1952). Sappiamo già che nel 1935 pubblica il romanzo Auto da fé che viene considerato uno dei capolavori del ‘900.

     Per decenni Canetti lavora a un saggio fondamentale, pubblicato nel 1960, che s’intitola Massa e potere: è un’opera sui meccanismi psicologici del controllo sociale dove Canetti dimostra che l’indottrinamento è l’esatto contrario del concetto di educazione. Infine Canetti ha scritto una serie di volumi autobiografici: La lingua salvata (1977), Il frutto del fuoco (1980), Il gioco degli occhi (1985) e La tortura delle mosche (1992). Canetti nel 1981 ha ricevuto il premio Nobel, ed è morto a Zurigo nel 1994.

     Adesso – per constatare come la tematica di questo testo ci riguardi da vicino –possiamo leggere un frammento dell’inizio di Auto da fé. Due persone – non sono ancora le otto del mattino – s’incontrano davanti alla vetrina di una libreria:

LEGERE MULTUM….

Elias Canetti, Auto da fé (1935)

 «Che fai qui, bambino?». «Niente».

«E allora perché ci stai?». «Così …».

«Sai già leggere?». «Oh sì».

«Quanti anni hai?». «Nove compiuti»,

«Cosa ti piace di più: una tavoletta di cioccolata o un libro?». «Un libro».

«Davvero? Ma bravo. Allora è per questo che te ne stai qui?». «».

«E perché non l’hai detto subito?». «Papà mi sgrida».

... continua la lettura ...

     Il personaggio del professor Kien c’invita a riflettere su una situazione molto particolare che viene a determinarsi nel periodo del primo Ellenismo. Se il professor Kien (è solo un’ipotesi che formuliamo) fosse vissuto ad Atene al tempo dell’Ellenismo sarebbe emigrato anche lui ad Alessandria – come hanno fatto molti intellettuali platonici ed aristotelici – attratto dalla grande Biblioteca pubblica e dal Museo? A noi viene spontaneo pensare che il professor Kien non sarebbe emigrato ad Alessandria ma sarebbe rimasto ad Atene a proteggere la sua Biblioteca domestica.

     E questa è la situazione che si determina nel periodo del primo Ellenismo: ci sono intellettuali (la maggioranza) che decidono di mettersi al servizio del potere, a disposizione dei voleri del monarca assoluto. Bisogna dire che i re degli Stati ellenistici forniscono agli intellettuali che decidono di servire le monarchie assolute tutti gli strumenti necessari per la gestione delle Scuole pubbliche purché questi programmi scolastici siano (almeno ufficialmente) asserviti agli interessi del potere e purché questi studiosi non si occupino di politica. Poi ci sono intellettuali che decidono di tenersi a debita distanza dalle Istituzioni pubbliche e dai centri del potere e si rinchiudono nel privato allontanandosi volontariamente dalla politica, fondando Scuole domestiche, istituti autonomi: questo è il fenomeno delle cosiddette "nuove Scuole ellenistiche", il fenomeno che ha dato il maggior impulso alla Storia del Pensiero Umano.

     Qual è la prima constatazione, la prima considerazione che possiamo fare? La prima constatazione e considerazione che possiamo fare è che tanto gli studiosi organici al potere e chiamati a gestire le Scuole pubbliche, quanto gli intellettuali che fondano nuove Scuole autonome dalle istituzioni statali non si occupano più di politica e questo è un aspetto che caratterizza l’Ellenismo nei confronti dell’epoca precedente: il mondo della cultura si allontana dalla "politica", dalla disciplina che Platone e Aristotele hanno privilegiato nelle loro opere. Il parlamento, la bulé, era la struttura centrale della polis ellenica e attirava l’interesse degli intellettuali perché vi potevano esercitare l’oratoria e la retorica in funzione dell’attività legislativa: con gli Stati ellenistici le assemblee legislative (e l’agorà, la piazza dove ci s’incontra per discutere di politica) sono state ormai definitivamente sterilizzate e sono state sostituite dalla corte che ha una funzione decorativa, di accompagnamento e di esaltazione della figura del monarca. Anche le strutture culturali statali – nella visione dei monarchi ellenistici – devono assolvere a questa funzione apologetica: a creare l’immagine divinizzata del sovrano. Il Museo di Alessandria, per esempio, è una struttura che comprende sale per conferenze, un osservatorio astronomico, sale di lettura, sale di anatomia, giardini botanici e un giardino zoologico; è quindi naturale che gli scienziati di ogni parte del mondo ellenizzato emigrino ad Alessandria. Tolomeo poi assicura una buona sistemazione a chi possiede delle competenze di carattere letterario o scientifico. I letterati che ruotano attorno alle strutture pubbliche alessandrine sono in numero maggiore rispetto agli scienziati, ma tuttavia sono proprio gli scienziati – soprattutto di formazione aristotelica – ad imprimere alla cultura alessandrina l’orientamento dominante.

     Il fatto è che, in epoca ellenistica, lo studio della cultura scientifica diventa fine a se stesso perché l’idea utopica di Platone – il governo dei Saggi nullatenenti – che (come sappiamo) finalizza il sapere (la conoscenza) alla gestione del potere (alla politica) si è ormai spenta del tutto nella mente dei nuovi intellettuali i quali lasciano il governo nelle mani del re e dei suoi consiglieri (i quali devono essere dotati più di scaltrezza che di cultura).

     Gli scienziati, e anche i letterati, si dedicano totalmente alla ricerca, ed è così che la separazione tra la cultura e la politica diventa evidente: l’età della Grecia classica – l’età del patto tra il sapere e il potere (propiziato da Platone nella Repubblica) – è finita.

     Gli scienziati alessandrini, ospiti di Tolomeo, hanno anche le loro idee filosofiche (sappiamo che sono Platonici e Aristotelici) ma il loro modo di pensare non ha nessuna importanza: diventa importante la ricerca specialistica, i cui risultati non minacciano il potere ma vengono utilizzati solo per accrescerne il prestigio, per abbellirne l’immagine. Il sapere scientifico viene così a trovarsi separato dalla filosofia ma mantiene le distanze anche dalla tecnica, eccetto, in piccola misura, dalla tecnica militare, che è necessaria al potere.

     Quindi succede che gli artigiani – e anche i medici e tutti coloro i quali svolgono una professione – non traggono vantaggi pratici dalle conquiste scientifiche ma continuano a svolgere la loro arte in modo empirico e questo comporta anche un loro declassamento sociale, perché – come abbiamo visto – finiscono col prevalere altre attività come il commercio, la carriera militare o l’attività di cortigianeria che si manifesta, soprattutto, con la capacità di adulazione: un’attitudine che diventa una vera e propria professione.

     Difatti emerge, in epoca ellenistica, la figura dell’adulatore di professione che ha come obiettivo quello di essere aggregato e mantenuto a corte perché, con le monarchie assolute, la corte diventa il perimetro privilegiato entro il quale esercitare la pratica artificiosa (il rituale) dell’adulazione, e quello dell’adulatore (del finto adulatore) – a cominciare dal processo di divinizzazione che investe la figura di Alessandro – diventa un vero e proprio mestiere.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Ci sono anche adulazioni, lusinghe, elogi fatti con sincerità e con autentica riconoscenza che si presentano come situazioni gratificanti: quando, in quali circostanze, avete ricevuto un sincero elogio che vi ha fatto particolarmente piacere?...

     L’attitudine all’adulazione è una caratteristica che appartiene anche alla cosiddetta figura ellenistica dell’avventuriero: una figura che viene ad assumere, dall’inizio, un ruolo significativo nel genere letterario del "romanzo" che, come sappiamo, si va formando proprio in quest’epoca. L’avventuriero è un personaggio che utilizza anche l’adulazione per raggiungere i suoi fini: è un arrivista che non possiede né un vero ingegno né particolari competenze e, soprattutto, non possiede qualità morali; anzi, senza incertezze né esitazioni, utilizza lo strumento dell’immoralità: la figura dell’avventuriero si distingue quindi da quella del cavaliere. Difatti, mentre il cavaliere, animato dalle virtù, finisce per soccombere, l’avventuriero ordisce, senza scrupoli, i propri intrighi e riesce, con successo, a fare carriera.

     A questo proposito, adesso, dobbiamo cogliere l’occasione per aprire ancora una parentesi in funzione della didattica della lettura e della scrittura per dire che il personaggio dell’avventuriero – un personaggio che ha avuto molto successo nella Storia della Letteratura – è stato ben tratteggiato in un romanzo di cui la Scuola consiglia la lettura, o la rilettura, che s’intitola Bel-Ami, scritto da Guy de Maupassant nel 1885.

     Lo scrittore francese Guy de Maupassant (1850-1893) è uno dei maestri del racconto moderno, insieme ad Edgar Allan Poe, ad Anton Čechov, a Luigi Pirandello, e ha scritto e pubblicato, in soli dieci anni, oltre trecento novelle e sei romanzi, di cui Bel-Ami è il secondo in ordine di produzione. Non è difficile – utilizzando l’enciclopedia, la biblioteca e la rete – trovare notizie e informazioni sull’opera e sulla vita, abbastanza breve, di questo scrittore: fate una piccola ricerca.

     In Bel-Ami Guy de Maupassant racconta la storia – ambientata a Parigi nel periodo travagliato della Terza Repubblica – di un arrivista che, senza disporre di un vero talento né di autentiche disposizioni per la scrittura, riesce a fare una rapida carriera come giornalista, per passare poi al mondo della politica vera e propria. Questo personaggio è privo di qualsiasi scrupolo e sa trarre vantaggio da tutto: dalla generosità ingenua di un amico, dai difetti o dalle colpe degli avversari, di cui si serve per ricattarli, ma soprattutto dalle donne approfittando della sua prestanza fisica e difatti "Bel-Ami" è un eloquente soprannome attribuitogli da una delle sue conquiste.

     La vicenda narrata in questo romanzo – con stringata ironia, secondo lo stile di Maupassant – è molto amara, poiché gli intrighi di Georges Duroy – questo è il nome del protagonista di Bel-Ami – tessuti con spregiudicata immoralità, sono coronati da successo e il romanzo termina senza nessuna catarsi, nel momento in cui Duroy – che è diventato, nel frattempo, Du Roy (scritto staccato in forma aristocratica) – è ormai un uomo famoso, già insignito della Legion d’onore e sul punto di fare una rapida carriera politica lanciandosi alla conquista di Parigi.

     E ora leggiamo l’inizio di questo romanzo per cominciare a fare conoscenza con il protagonista: Georges Duroy ha un fisico prestante e quindi le donne lo guardano con interesse e poi i suoi atteggiamenti mettono in evidenza che si è addestrato nell’esercito. Il romanzo è ambientato nel periodo della Terza Repubblica durante il quale ha inizio, per la Francia, la conquista coloniale in Africa del nord, nel Magreb, con tutte le conseguenze che ha comportato per questa nazione.

     Già in età ellenistica gli "avventurieri" hanno spesso alle spalle una carriera militare (spesso da mercenari), a cominciare dai diadochi, dai generali di Alessandro che, dopo lunghe guerre di successione, si fanno re senza avere propriamente delle doti di nobiltà, soprattutto di nobiltà d’animo.

     Lo scrittore c’informa che è il 28 di giugno e Georges Duroy ha in tasca esattamente tre franchi e quaranta centesimi che gli devono bastare sino alla fine del mese perché a Parigi – dove si è trasferito per far fortuna – ha trovato, per ora, solo un impiego poco remunerativo…

LEGERE MULTUM….

Guy de Maupassant, Bel-Ami (1885)

 Appena la cassiera gli ebbe dato il resto dei suoi cinque franchi, Georges Duroy uscì dalla trattoria.

Prestante per natura e per l’addestramento di ex sott’ufficiale, eresse il busto, si arricciò i baffi con un gesto militaresco che gli era consueto, e diede all’ingiro una rapida occhiata sugli ultimi commensali, una di quelle occhiate di bel giovane che spaziano come il colpo d’ali d’uno sparviero.

Le donne alzarono gli occhi su di lui: tre giovani operaie; un’insegnante di musica di mezza età, spettinata, trasandata, con un cappellino sempre polveroso e un vestito sempre di traverso; due borghesucce con i rispettivi mariti; tutte clienti abituali di quel locale a prezzo fisso.

Quando si trovò sul marciapiede, Duroy ebbe un attimo di esitazione e si chiese cosa avrebbe fatto. Era il 28 di giugno e in tasca aveva esattamente tre franchi e quaranta centesimi per arrivare sino alla fine del mese. L’equivalente di due cene senza pranzo, o di due pranzi senza cena, a sua scelta. Rifletté che il pasto del mattino costava ventidue soldi, invece dei trenta di quello della sera, e che, contentandosi del pranzo, gli sarebbe stato disponibile un franco e venti, cioè due colazioni a pane e salame, e, in più, due birre sul boulevard. Questi erano la gran spesaccia e il suo lusso della notte; e cominciò a scendere per via della Madonna di Loreto.

Camminava come al tempo in cui indossava l’uniforme degli usseri: petto in fuori, gambe leggermente arcuate come se fosse appena smontato da cavallo, e andava deciso per la strada affollata dando spallate e spintoni alla gente pur di non scansare nessuno. Portava la tuba, piuttosto appannata, un tantino reclinata su di un orecchio, e faceva risuonare i tacchi sul selciato. Aveva un’aria di sfida per chiunque e per ogni cosa: passanti, case, la città intera, come bravata di bel militare tornato borghese. Per quanto avesse indosso un abito da sessanta franchi, mostrava una certa eleganza chiassosa, un po’ qualunque, ma tuttavia innegabile. Alto, ben conformato, biondo di un biondo castano vagamente fulvo, con i baffi all’insù che parevano spumeggiare sui suoi labbri, gli occhi azzurri, chiari, forati da una pupilla piccolissima, i capelli naturalmente ondulati divisi dalla riga in mezzo al cranio, rassomigliava da vicino al giovanotto cattivo-soggetto dei romanzi popolari.

Era una di quelle serate d’estate in cui manca l’aria a Parigi. La città, calda come una serra, pareva sudasse nella notte soffocante. Dai chiusini di granito, le fogne esalavano vapori pestiferi; dalle cucine sotterranee, attraverso le finestre a raso terra, giungevano in strada miasmi nauseabondi di risciacquature e di salse rancide. I portinai, in maniche di camicia e a cavalcioni d’una sedia impagliata, fumavano la pipa sui portoni all’imbocco degli androni; e i passanti camminavano estenuati, a capo scoperto, col cappello in mano.

Quando Georges Duroy giunse sul boulevard, si fermò un’altra volta, indeciso sul da fare. Adesso gli sarebbe piaciuto arrivare sino ai Campi Elisi e al gran viale del bosco di Boulogne per cercarvi un po’ di fresco sotto gli alberi; ma era anche preso dal desiderio d’un’avventura d’amore.

Come si sarebbe presentata? Non ne sapeva nulla, ma l’attendeva da tre mesi, ogni giorno, ogni sera. Tuttavia qualche volta, grazie al suo bell’aspetto e alla sua complessione galante, gli riusciva di rubare un po’ d’amore qua e là; ma sperava sempre qualcosa di più e di meglio.

Con le tasche vuote e il sangue in subbuglio, s’infiammava incontrando le donnine che alle cantonate delle strade sussurravano: – Vieni con me, bel ragazzo? – ma non osava seguirle perché non era in condizione di pagarle; e anche si aspettava altro, altri baci, meno volgari.

Ciò non ostante, gli piacevano i luoghi dove pullulano le donne di tutti: i loro caffè, le loro sale da ballo, le loro strade; gli piaceva incontrarle, parlare, trattarle col tu, odorare i loro profumi violenti, sentirsi accanto ad esse. Tutto sommato, erano donne, donne d’amore. Non aveva per esse l’innato disprezzo dei ragazzi di famiglia.

Svoltò verso la Maddalena seguendo il flusso della folla che camminava oppressa dal caldo. I grandi caffè, pieni di gente, straripavano sul marciapiede, sciorinando la clientela sotto la vivida e cruda luce degli sporti illuminati. Dinanzi ai consumatori, sui tavolini quadrati o tondi, i bicchieri contenevano liquidi rossi, gialli, verdi, bruni, di tutte le sfumature, e nelle caraffe si vedevano brillare i grossi cilindri di ghiaccio a rinfrescare la bell’acqua limpida.

Duroy rallentò il passo e la sete gli seccava la gola.

Era preso da una sete ardente, una sete di sera estiva, e pensava alla sensazione deliziosa di una bevanda fresca che scorra nella gola. Ma se anche avesse bevuto due sole birre nella serata, addio il magro pranzo dell’indomani, ed egli conosceva fin troppo le ore fameliche di fine mese.

Disse fra di sé: «Devo fare le dieci e poi mi berrò la birra al caffè Americano. Accidenti! Che sete ho in gola!». E guardava tutti quelli che stavano bevendo ai tavolini, tutti quegli uomini che potevano dissetarsi a loro piacimento. Passeggiava davanti ai caffè con aria spavalda e fiera, giudicando con un’occhiata, dall’aspetto, dal vestire, quanto denaro potesse avere ognuno dei consumatori. Si sentiva preso dall’ira contro quella gente tranquillamente seduta. Frugando nelle loro tasche si sarebbe trovato dell’oro, monete d’argento e spiccioli. Ognuno doveva avere, in media, due luigi; saranno stati un centinaio in quel caffè; cento volte due luigi sono quattromila franchi! Mormorava: – Porcaccioni! – pur pavoneggiandosi graziosamente. Se ne avesse potuto avere uno a un angolo di strada, in piena oscurità, gli avrebbe tirato il collo senza scrupoli, perdio, come faceva ai polli dei contadini durante le grandi manovre.

Gli tornarono in mente i suoi due anni d’Africa, il modo con cui taglieggiava gli Arabi nei piccoli posti avanzati del Sud. Un sorriso crudele e divertito gli sfiorò le labbra al ricordo di una sortita che aveva costato la vita a tre uomini della tribù Ouled-Alane e che aveva fruttato, a lui e ai suoi compagni, venti galline, due montoni, un po’ di denaro e argomento di risate per sei mesi.

I colpevoli non erano mai stati scoperti e non erano neanche mai stati ricercati, perché l’Arabo veniva quasi considerato la preda naturale dei militari.

A Parigi, le cose erano altrimenti. Non si poteva andare in giro a rubacchiare piacevolmente, sciabola al fianco e pistola in pugno, lontani dalla giustizia civile, in piena libertà. Sentiva dentro di sé tutti gli istinti del sott’ufficiale lasciato a briglia sciolta in un paese di conquista. Certo che li rimpiangeva quei due anni di deserto. Che peccato non essere rimasto laggiù! Ma era perché aveva sperato di meglio, tornando. E adesso! Ah! sì, bella roba, adesso!

Si faceva passare la lingua contro il palato, con un leggero schiocco, come per constatare quanto fosse arido.

La gente gli camminava accanto estenuata e lenta, ed egli continuava a pensare: «Belle, carogne! Mucchio d’imbecilli con del denaro in tasca!». Dava spintoni a tutti e fischiettava ariette allegre. Qualcuno che veniva urtato si rigirava brontolando; qualche donna diceva: – Che villano!

Passò davanti al Vaudeville e si fermò dinanzi al caffè Americano chiedendosi se non dovesse bere la sua birra, tanto era tormentato dalla sete. Prima di decidersi guardò l’ora all’orologio luminoso in mezzo alla strada. Erano le nove e un quarto. Conosceva se stesso fin troppo bene: appena avesse avuto davanti il bicchiere pieno l’avrebbe vuotato d’un fiato. E, dopo, cosa avrebbe fatto sino alle undici?

Passò oltre: «Me ne vado sino alla Maddalena», disse dentro di sé, «e ritornerò pian piano».

Giunto all’angolo della piazza dell’Opera, s’imbatté in un giovanotto grosso che gli parve vagamente di aver già visto altrove. Si mise a seguirlo cercando tra i suoi ricordi e ripetendo a mezza voce: – Dove diavolo mai posso aver conosciuto quello lì? Frugava nella sua mente senza riuscire a ricordarselo: poi, tutto a un tratto, per un singolare fenomeno della memoria

     Abbiamo letto la prima parte dell’incipit, dell’inizio di questo romanzo che narra le significative avventure di Bel-Ami, e, per giunta, oggi c’è un motivo in più per avvicinarsi a questo testo, un motivo per cui ha avuto un grande successo anche all’epoca in cui è stato pubblicato. Bel-Ami è uno dei primi libri scritto da un giornalista – Maupassant ha fatto il giornalista di professione – sul mondo delle redazioni dei giornali, sulle grandezze ma più ancora sulle miserie di quello che, proprio alla fine dell’800, diventa il cosiddetto "terzo potere", un potere che, proprio negli ultimi decenni del XIX secolo, viene scoprendo la sua forza in seno alla società: infatti chi ha in mano gli strumenti dell’informazione (chi controlla i giornali, chi controlla il sistema mediatico) può manipolare la realtà, può costruire il consenso, può condizionare il potere politico e soprattutto quello finanziario. Il giornalista – e negli ultimi decenni del XIX secolo il mestiere del giornalista è quasi esclusivamente un lavoro da uomini – diventa spesso, più che un attento ed obiettivo osservatore della realtà, un adulatore a pagamento.

     E ora torniamo sulla via del nostro percorso dicendo che, per fortuna, nell’età dell’Ellenismo (anche se gli avventurieri sono molto più numerosi) ci sono anche gli scienziati i quali si occupano soprattutto di matematica e di astronomia, e proprio dagli scienziati abbiamo ricevuto l’eredità più importante perché è in epoca ellenistico-alessandrina che comincia il suo cammino la scienza moderna vera e propria.

     E ora, visto che siamo nei locali della Biblioteca di Alessandria puntiamo la nostra attenzione su un elenco di opere e di autori che, in età ellenistica, hanno lasciato un’impronta importante nella Storia del Pensiero Umano e che, di conseguenza, hanno inciso sullo sviluppo intellettuale (sul modo di vedere il Mondo e l’intero Universo) di ciascuna e di ciascuno di noi: molti di questi personaggi ci sono familiari ed è bene che noi impariamo a collocarli sul territorio dell’Ellenismo.

     In primo luogo nei locali della Biblioteca di Alessandria troviamo Euclide: oggi c’è perché lui preferisce fare il pendolare tra Atene ed Alessandria. Euclide lo abbiamo incontrato anche lo scorso anno nello spazio dell’affresco intitolato La Scuola di Atene: il Maestro raffigurato da Raffaello con il compasso in mano, mentre sta dimostrando un teorema nel cosiddetto "gruppo dei geometri", sarebbe Euclide con il volto del Bramante. Euclide (330-277 circa a.C.) è ateniese di formazione ma ha pubblicato ad Alessandria la sua opera intitolata Elementi di geometria, un’opera che ha avuto subito un grande successo. In quest’opera Euclide mette in ordine e fa diventare un sistema tutte le numerose conquiste della matematica precedente, ma soprattutto codifica i "princìpi elementari" – le definizioni, i postulati, gli assiomi (queste sono tutte parole che diventano significative in età ellenistica) –; Euclide codifica i "princìpi elementari" in base ai quali la "geometria" (e anche questo termine viene coniato in età ellenistica) si costituisce come scienza totalmente autonoma, di carattere deduttivo e dotata, in virtù di ipotesi evidenziate con l’intuizione, di un’assoluta necessità logica.

     La geometria – dall’età ellenistica – è stata considerata "euclidea" fino a che non sono state elaborate le geometrie cosiddette non-euclidee. La geometria classica – alla quale Euclide ha dato il nome – ha dominato fino in età contemporanea, fino alla metà dell’Ottocento, quando il matematico russo Lobacevskij (1856) e il matematico tedesco Riemann (1866) cominciano a parlare di "geometrie non-euclidee".

     Euclide è stato il fondatore, ad Alessandria, della più importante Scuola di matematica che sia mai esistita e l’opera di Euclide – gli Elementi, in 13 Libri – ha influenzato lo studio della geometria in tutto il mondo e le edizioni si sono moltiplicate tanto in greco, quanto in latino e soprattutto in arabo. Dobbiamo ricordare (e lo abbiamo già ricordato lo scorso anno procedendo nello spazio de La Scuola di Atene) che la prima edizione completa a stampa, in latino, degli Elementi di Euclide è stata curata dallo Zamberti nell’anno 1505 e Fedra Inghirami (il bibliotecario vaticano dell’epoca, che molte e molti di voi conoscono bene) ha sùbito chiesto il finanziamento per poterla acquistare e Giulio II ha immediatamente firmato l’impegnativa.

     L’opera ellenistica di Euclide ci fa venire in mente – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – un intellettuale russo (nato a Mosca) che si chiama Vasilij Kandinskij (1866-1944) il quale, dopo gli studi di giurisprudenza, affascinato dall’Impressionismo, si è dedicato alla pittura e, insieme a Paul Klee, è considerato il padre del cosiddetto "astrattismo lirico" che vuole rappresentare le sensazioni interiori ed essenziali. Perché ricordiamo Vasilij Kandinskij? Perché Vasilij Kandinskij, nel 1926, in occasione di un ciclo di lezioni che ha tenuto al Bauhaus, ha scritto un saggio intitolato Punto, linea, superficie. Quest’opera è – anche se non dichiaratamente – un commento agli Elementi di Euclide. In Punto, linea, superficie Vasilij Kandinskij prescrive lo studio e la riflessione sulle forme geometriche elementari per creare un linguaggio puro, un’arte di carattere spirituale: la Realtà materiale e tutta la Natura è racchiusa in forme geometriche e più la persona sa cogliere gli elementi geometrici nella loro purezza e nella loro essenzialità, più riesce a trasmettere alla Realtà e alla Natura un’autenticità, un’essenza spirituale, un lirismo che, poi, ha una ricaduta positiva sulla persona stessa e, di conseguenza, sulla società.

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E la Scuola consiglia, utilizzando la biblioteca, di consultare (anche solo di sfogliare) questo originale testo Punto, linea, superficie di Vasilij Kandinskij…

     Dopo Euclide dobbiamo incontrare un’altra importante figura di scienziato alessandrino: Aristarco di Samo. Aristarco di Samo (310-230 circa a.C.), dall’isola natìa, è emigrato ad Alessandria dove si è dedicato soprattutto allo studio dell’astronomia. Aristarco di Samo, in età moderna, si è guadagnato l’appellativo di "Copernico dell’antichità" perché ha formulato, per primo, in età ellenistica, la tesi che la terra gira intorno al sole (attirandosi molte accuse di empietà) e ha fatto una serie di misurazioni di tipo scientifico – utilizzando la trigonometria – sulla distanza della luna e del sole dalla terra.

     Poi dobbiamo incontrare Erofilo di Calcedonia e il suo discepolo Erasistrato di Chio: questi due personaggi li possiamo incontrare entrambi nella sala anatomica del Museo di Alessandria mentre stanno praticando, in pubblico, la dissezione di un corpo umano (una pratica che oggi chiamiamo "autopsia") e in questa loro attività hanno ottenuto particolari risultati nello studio del cervello e del sistema nervoso.

     Poi incontriamo Archimede di Siracusa (287-212 a.C.) il quale non vive ad Alessandria, vi trascorre però brevi periodi (anche lui fa il pendolare tra Alessandria e Siracusa) e quindi è rimasto sempre in contatto con l’ambiente scientifico alessandrino. Archimede di Siracusa è considerato il più grande genio matematico dell’antichità e sono note a tutte e a tutti le sue teorie sul peso specifico e sulla leva. L’immagine di Archimede, in età ellenistica, si è ingigantita notevolmente davanti all’opinione pubblica per le spettacolari applicazioni pratiche che lui ha fatto delle sue ricerche teoriche: un giorno, su una banchina del porto di Alessandria, con una leva relativamente piccola, ha sollevato una nave carica; inoltre sappiamo che, facendo riflettere in un grande specchio concavo (lo specchio ustorio) i raggi del sole, ha incendiato la flotta romana del console Marcello che assediava Siracusa.

     L’eredità di Archimede è stata raccolta ad Alessandria da Apollonio di Pèrge (262-180 a.C.), che è considerato il più grande matematico dell’età ellenistica dopo Archimede, il quale ha tenuto Scuola ad Alessandria e ha concentrato i suoi studi – ed è bene lo si sappia, per curiosità, anche se non abbiamo (e lo dico per me) le competenze necessarie per capire il tema – sulle curve piane algebriche di second’ordine ottenute dall’intersezione di un piano con un cono doppio indefinito e circolare, dette le "coniche"; a questo proposito, Apollonio di Pèrge ha scritto un’opera in 8 libri intitolata I libri delle còniche (su questi libri hanno studiato e continuano a studiare tutte le studentesse e gli studenti di matematica del mondo), e noi un esercizio che riguarda la didattica della lettura e della scrittura lo possiamo fare perché in questi libri – per dare il nome alle forme che hanno le "còniche" – appaiono per la prima volta (quindi, coniati in età ellenistica) i termini: "iperbole", "ellissi" e "parabola".

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Utilizzando l’enciclopedia potete cercare il termine “cònica” e, accanto a questo termine, è molto probabile che possiate trovare un’immagine che raffigura queste “curve piane algebriche del second’ordine”: capire il senso di queste figure (per molte e molti di noi) risulterà difficile ma un primo livello di conoscenza lo possiamo raggiungere tutte e tutti noi…

Utilizzando il dizionario potete andare a leggere le definizioni che vengono date delle parole “iperbole”, “ellissi” e “parabola”: queste parole hanno assunto significati importanti non solo a livello di linguaggio matematico… Quale altra parola – una per ciascun termine – mettereste accanto alle parole “iperbole”, “ellissi” e “parabola”?...

Scrivete, bastano tre parole…

     E ora incontriamo un’altra figura che fa parte del catalogo nel quale trovano posto i più importanti scienziati ellenistico-alessandrini: questo personaggio lo vediamo seduto allo scrittoio nel suo ufficio (che si presenta come una specie di laboratorio, come una specie di officina) di direttore della Biblioteca di Alessandria: questo personaggio si chiama Eratostene di Cirene. Eratostene di Cirene (272-192 circa a.C.) è un astronomo, è un matematico ed è un filosofo, quindi, riassume nella sua persona tre discipline che, in età ellenistica, diventano complementari: l’astronomia, la matematica e la filosofia. Anche Eratostene ha studiato ad Atene e, dopo essere emigrato ad Alessandria, è diventato il successore di Apollonio Rodio nella direzione della Biblioteca alessandrina. Eratostene di Cirene ha saputo dare un fondamentale contributo allo sviluppo della scienza nell’età dell’Ellenismo e, tra l’altro, ha realizzato il primo strumento di calcolo, chiamato "mesolàbio".

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Che strumento è il “mesolàbio” di Eratostene di Cirene?... Andate a cercare sull’enciclopedia come si configura questo strumento che serve per risolvere il problema della duplicazione del cubo: anche in questo caso sarà (per molte e molti di noi) difficile capire la reale utilità di questo strumento ma è senz’altro possibile raggiungere un primo livello di conoscenza…

     Eratostene di Cirene è stato anche il primo scienziato a calcolare, con buona approssimazione, la lunghezza del meridiano terrestre misurando, a mezzogiorno del solstizio d’estate, l’ombra proiettata da un’asta verticale in due località (Alessandria e Siene) supposte alla stessa longitudine. Eratostene di Cirene ha anche codificato un metodo matematico – basato su uno schema fisso – utile per individuare i numeri primi inferiori a un numero dato: questo metodo è stato chiamato "crivello di Eratostene".

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La parola “crivello” rimanda al termine “selezione”: il crivello è un “setaccio”… Avete mai usato un setaccio, avete mai setacciato in vita vostra?... Cosa vi fa venire in mente la parola “setaccio”?...

Scrivete quattro righe in proposito…

     Per completare il catalogo dei più significativi scienziati ellenistico-alessandrini dobbiamo, infine, incontrare (facendo un salto nel tempo in modo diacronico) Claudio Tolomeo che è vissuto nel II secolo d.C., quindi già in una seconda fase dell’età dell’Ellenismo. Tuttavia lo citiamo e lo includiamo in questo catalogo perché la sua opera – di questo personaggio sappiamo pochissimo, conosciamo le sue opere: ed è quello che conta – costituisce una sintesi della scienza ellenistico-alessandrina: questa sintesi ha costituito l’immagine che, per secoli (dall’Ellenismo all’età moderna, passando per tutto il Medioevo), le persone (con la vincolante approvazione della Chiesa di Roma) hanno avuto dell’Universo.

     L’opera principale dell’astronomo, geografo e matematico Claudio Tolomeo, attivo ad Alessandria nel II secolo d.C., s’intitola Sintassi matematica ma quest’opera è conosciuta nel mondo soprattutto col titolo della sua traduzione in lingua araba: Almagesto. Claudio Tolomeo porta a definitiva sistemazione le concezioni astronomiche precedenti, dovute soprattutto ad Aristotele e il cosiddetto "sistema tolemaico" (con la Terra al centro del sistema solare) s’impone incontrastato fino all’età moderna: la scenografia dell’Universo nella Divina commedia di Dante si basa sul "sistema tolemaico". Il "sistema tolemaico" domina sulla scena scientifica fino a Galileo, cioè alla pubblicazione, nel 1632, del Dialogo sopra i due massimi sistemi con il quale Galileo confuta il "sistema tolemaico" e ufficializza (a suo rischio e pericolo) il "sistema copernicano". Ma, come dicevamo, con Tolomeo siamo già nel tardo periodo alessandrino e di questo periodo ce ne occuperemo in seguito.

     Con questo catalogo abbiamo voluto sottolineare il fatto che la ricerca scientifica modernamente intesa è nata ad Alessandria d’Egitto e, anche quando la grande Biblioteca pubblica e il famoso Museo non esisteranno più, dalle città universitarie europee del Medioevo, dall’anno mille in avanti, si continuerà a fare riferimento ad Alessandria e alla cultura alessandrina ma questa è un’altra storia e la studieremo quando entreremo (in futuro) nel vasto e complesso territorio medioevale.

     Ma torniamo al tema che abbiamo trattato nella prima parte di questo itinerario. Nella prima parte di questo itinerario abbiamo detto che durante il periodo dell’Ellenismo gli intellettuali non si occupano più di politica e questo è un aspetto che caratterizza quest’epoca: il mondo della cultura e della scienza, durante l’età dell’Ellenismo, si allontana dalla "politica", mette da parte la disciplina che Platone (nel dialogo intitolato Repubblica) e Aristotele (nel trattato intitolato Politica) hanno privilegiato nelle loro opere. Come mai succede questo? Come mai gli intellettuali – nonostante siano tutti di formazione platonica e aristotelica e quindi dovrebbero avere a cuore il tema del rapporto tra l’etica e la politica – si lasciano condizionare così facilmente dai monarchi assoluti (dagli usi e costumi imposti dai monarchi assoluti) che li invitano (e, a volte, obbligandoli o blandendoli) a non occuparsi di politica? Ad Atene – nel momento in cui questa città comincia a perdere il privilegio di essere la capitale della cultura internazionale – che cosa è successo nel Liceo di Aristotele e, soprattutto, che cosa è successo nell’ambito dell’Accademia di Platone, dopo la morte dei due grandi maestri?

     Dopo la morte di Platone (nel 347 a.C.) i due scolarchi che gli sono succeduti nella direzione dell’Accademia, Speusippo e Senocrate (li abbiamo incontrati, lo scorso anno, nello spazio de La Scuola di Atene), sviluppano una serie di aspetti del pensiero platonico che – anche secondo la valutazione dei Neoplatonici di quattro o cinque secoli dopo – sono del tutto secondari nella visione del sistema platonico: tralasciano, prima di tutto, il tema della politica (il tema del rapporto tra l’etica e la politica), non coltivano più l’idea – fondamentale per Platone – di costruire la "città bella" (kallipolis). L’allontanamento dalla politica dei discepoli di Platone avviene anche perché, effettivamente, le polis in generale (le città-Stato elleniche) stanno vivendo una crisi istituzionale profonda e irreversibile: la democrazia (con il caposaldo della divisione dei ruoli istituzionali: legislativo, esecutivo e giudiziario) è stata sostituita dalla demagogia e dal populismo, e la figura dell’avventuriero – che cavalca l’immoralità per accaparrarsi il potere con il consenso popolare sostenuto dall’ormai dilagante qualunquismo – ha già le sue radici nella crisi istituzionale della polis ateniese.

     La situazione culturale nell’Accademia di Atene era già cambiata quando – mentre Platone era in Sicilia, a Siracusa, a cercare di realizzare (con scarso successo) il suo progetto politico (e chi ha viaggiato sul Percorso dello scorso anno è al corrente di questi avvenimenti che riguardano la vita attiva e pericolosa di Platone) –, intorno al 367 a.C., arriva ad Atene il filosofo, astronomo e matematico Eudosso di Cnido (anche questo personaggio lo abbiamo rammentato, lo scorso anno, nello spazio de La Scuola di Atene) il quale s’iscrive, come discepolo, all’Accademia di Platone condizionandone, nel suo complesso, tutta l’impostazione intellettuale. Eudosso di Cnido (408-345 circa a.C.) è un pitagorico di grande prestigio il quale condiziona positivamente la ricerca geometrica di Euclide (in particolare sulla "teoria delle proporzioni").

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Eudosso di Cnido è stato l’ideatore del metodo di “esaustione”, un metodo matematico che ha avuto una vasta gamma di applicazioni: provare a cercare sull’enciclopedia questo termine e troverete delle notizie interessanti in proposito…

     Inoltre, in astronomia, il sistema delle "sfere concentriche rotanti" con il quale Eudosso spiega il moto apparente dei pianeti, viene utilizzato come base da Aristotele quando concepisce la sua visione dell’Universo.

     Eudosso di Cnido, come membro attivo dell’Accademia, arricchisce di nuove prospettive il pensiero di Platone e, soprattutto, – precorrendo la mentalità ellenista – introduce in Accademia la "tendenza matematico-astronomica" e, di conseguenza, la "tendenza politica", che raccoglieva con Platone stesso già scarsi successi, comincia a passare nettamente in secondo piano. Il fatto è che Eudosso di Cnido, in Accademia, nell’introdurre e nel far sviluppare la "tendenza matematico-astronomica" utilizza le opere di Platone stesso e quindi il suo apporto viene universalmente approvato dagli accademici, a cominciare da Aristotele che, come sappiamo, ha cominciato la sua carriera in Accademia seguendo e apprezzando proprio questa impostazione di carattere scientifico.

     Per quanto riguarda la matematica, poi, Platone aveva sempre attribuito grande importanza ai numeri (àritmoi) soprattutto nel descrivere la struttura sovra-sensibile del Mondo delle Idee, dell’Iperuranio. Platone, come sappiamo, frequenta spesso la Scuola di Archita a Taranto – Archita di Taranto (anche questo personaggio lo abbiamo incontrato, lo scorso anno, nello spazio de La Scuola di Atene) è l’intellettuale che ha esportato il pensiero di Pitagora nel bacino del Mediterraneo – e quindi anche Platone ha diffuso e ha coltivato la concezione pitagorica dei numeri concepiti come realtà metafisiche; quando pensa all’idea del Bene la concepisce tanto come il vertice di un triangolo quanto come se fosse una Unità: il Bene – secondo Platone – corrisponde all’Uno (e questo concetto viene poi, qualche secolo dopo, sviluppato dal Neoplatonismo), e dall’Uno, dal Bene, per emanazione, si sviluppa una successiva Dualità composta dall’idea del Bello e del Giusto. Per Platone, quindi, il Mondo delle Idee ha la forma di un triangolo ai cui tre vertici ci sono le idee di Bontà, di Bellezza e di Giustizia.

     Questo concetto dell’Uno che è Trino e del Trino che trova la sua sintesi nell’Uno farà molta strada nella Storia del Pensiero Umano: questo concetto parte dalla concezione mistica di Pitagora che concepisce i numeri come realtà metafisiche (il numero, aritmòs, – secondo Pitagora – è l’arché, è il principio di tutte le cose) e questa concezione si sviluppa con Platone e, con Platone, assume connotati più laici che religiosi, di carattere razionale perché il concetto di idea (e le idee, per Platone, generano la realtà) corrisponde al concetto razionale di unità. L’idea – scrive Platone – è la sintesi delle cose, è il sommario del molteplice, è l’Uno che si trova nel Mondo delle Idee, al di là delle cose, ma si trova anche nel nostro intelletto, nell’ambito della nostra razionalità.

     Eudosso di Cnido studia il tema dei numeri e del pensiero matematico nelle opere di Platone e tende ad accentuarne le caratteristiche metafisiche in chiave pitagorica. Questa interpretazione di Platone contribuisce a favorire – come abbiamo visto – lo sviluppo della matematica nell’età ellenistica. Ma Platone da "politico" diventa "mistico"

     Eudosso di Cnido studia poi come Platone, nelle sue opere, si sia occupato di astronomia. Noi sappiano che Platone è andato a studiare la materia in Oriente dove c’erano le Scuole più accreditate e, difatti, la sua formazione astronomica ha uno sviluppo dominato dalle influenze egiziane e assiro-babilonesi: gli apporti di queste influenze sono presenti nell’ultima opera di Platone, nel dialogo intitolato Nomoi, Le Leggi. Quest’ultimo dialogo è l’opera più ampia di Platone ed è incentrata sul tema dello Stato ma comprende nella sua trama tutti i temi e tutti i motivi del pensiero platonico. Platone afferma – è questo è il motivo conduttore di quest’opera – che tutti gli esseri umani tendono verso l’Uno, tendono verso l’idea del Bene, quindi, tutta la politica (tutta l’attività umana) è soggetta a una finalità morale assoluta che viene di volta in volta ribadita a introduzione delle diverse leggi. Questa finalità morale assoluta investe tutto l’Universo per cui – scrive Platone nel X libro delle Leggi – non bisogna avere del Cosmo solo una concezione materiale e meccanicistica ma anche spirituale. Gli astri non sono fatti soltanto di polvere e di pietre – come sosteneva Anassagora (personaggio che abbiamo incontrato lo scorso anno nello spazio de La Scuola di Atene) – ma hanno uno spirito (Platone non è molto chiaro in proposito), hanno un’intelligenza che riflette tutta l’antica sapienza sacerdotale. Eudosso di Cnido interpreta queste riflessioni di Platone come se il maestro volesse affermare che i corpi celesti sono vere e proprie divinità visibili nei cui ritmi è possibile divinare, presagire il futuro. Questa interpretazione di Platone conduce verso quelle credenze astrologiche che –come sappiamo – avranno grande sviluppo nell’età ellenistica.

     La riflessione che abbiamo fatto in questa seconda parte dell’itinerario di questa sera ci serve soprattutto per affermare che il pensiero originale di Platone e di Aristotele subisce già delle modifiche sostanziali quando ancora i due grandi maestri sono in vita e la trasformazione del pensiero di Platone e di Aristotele – l’allontanamento dal tema (l’etica in funzione della politica) che loro hanno privilegiato – continuerà nel corso dell’Ellenismo. Questo fatto fa sì che le opere di Platone (i Dialoghi) e di Aristotele (la Fisica, la Metafisica e l’Etica) che noi conosciamo oggi, per paradossale che possa sembrare, non erano conosciute dai loro contemporanei, se si eccettua la stretta cerchia dei discepoli che custodivano gelosamente i loro scritti che cominceranno ad essere rivalutati qualche secolo dopo con il Neoplatonismo.

     Per concludere questo ragionamento possiamo dire che le grandi risposte sull’impegno politico e sul senso dell’esistenza – che sono il patrimonio perenne del platonismo e dell’aristotelismo – non sono quelle che cercava l’inquieta coscienza degli intellettuali ellenisti. Gli intellettuali ellenisti (soprattutto quelli emigrati ad Alessandria) preferiscono rimuovere queste due tematiche fondamentali – il tema della politica e quello dell’etica (il tema del rapporto indispensabile tra l’etica e la politica) –, per dedicarsi con impegno alle discipline della matematica e dell’astronomia.

     Ad Atene – a mano a mano che si affermano le capitali dell’Ellenismo – rimane soltanto una parvenza dell’Accademia di Platone e del Liceo di Aristotele ma, in questa fase di crisi, sorgono altre Scuole, libere da vincoli e queste nuove Scuole propongono, in chiave ellenistica, nuovi modelli e nuove dottrine di vita: propongono, in modo nuovo, i temi dell’etica e della politica. Queste nuove Scuole filosofiche, che nascono e fioriscono durante il periodo ellenistico, presentano, nonostante le loro diverse prospettive e la loro accanita rivalità, alcuni tratti comuni.

     Questa sera ci rimane solo il tempo per dire che le nuove Scuole ellenistiche propongono programmi per la formazione della "persona saggia" e quindi vogliono essere un’alternativa nei confronti di figure – moralmente non edificanti – che caratterizzano l’Ellenismo come gli avventurieri, i cortigiani, gli adulatori: figure prive di scrupoli al servizio dei potenti, figure emergenti nel genere letterario del "romanzo" .

     E, a questo proposito, per concludere leggiamo ancora due pagine, la seconda parte, dell’inizio del romanzo Bel-Ami nel quale Guy de Maupassant ci presenta un personaggio emblematico da questo punto di vista.

LEGERE MULTUM….

Guy de Maupassant, Bel-Ami (1885)

Frugava nella sua mente senza riuscire a ricordarselo; poi, tutto a un tratto, per un singolare fenomeno della memoria, lo stesso uomo gli apparve meno grosso, più giovane, vestito con l’uniforme degli usseri. Esclamò ad alta voce: – Guarda, Forestier – e, allungato il passo, andò a battere una manata sulla spalla del giovanotto. L’altro si rigirò, lo guardò, poi disse: – Cosa volete da me, signore?

Duroy si mise a ridere: – Non mi riconosci?

– No.

– Georges Duroy del 6° usseri.

Forestier tese tutte e due le mani: – Ah! vecchio mio! come va?

– Benone, e tu?

– Oh! io, mica tanto; figurati che ora ho i polmoni di carta velina; ho la tosse sei mesi su dodici, dopo una bronchite che presi a Bougival l’anno che son tornato a Parigi, quattr’anni fa, ormai.

– Ma guarda un po’! E hai invece un aspetto florido.

E Forestier, prendendo a braccetto il compagno di altri tempi, si mise a parlargli della sua malattia, gli raccontò le diagnosi, i consulti e i consigli dei medici; la difficoltà per lui, di poter seguire le loro prescrizioni, per via della sua professione. Gli ordinavano di svernare nel Mezzogiorno; ma gli era forse possibile? Era sposato, e giornalista apprezzato.

– Faccio la politica de La Vita francese. Faccio il Senato per La Salvezza, e, di tanto in tanto, la cronaca letteraria per Il Pianeta. Come vedi, ne ho fatta della strada!

Duroy lo guardava stupito. Lo trovava molto mutato, assai maturo. Adesso aveva l’aspetto, i modi di uomo posato, sicuro di sé, una pancia di uomo che fa dei buoni pranzi. Una volta era magro, agile e smilzo, spensierato, spaccone, chiassone e sempre brillo. In tre anni, Parigi ne aveva fatto tutt’un altro uomo, grosso e serio, con qualche capello bianco alle tempie benché non avesse più di un ventisette anni.

Forestier gli chiese: – Dove andavi?

Duroy rispose: – In nessun posto. Facevo un giretto prima di tornarmene a casa.

– Ebbene, vuoi accompagnarmi a La Vita francese dove ho certe bozze da correggere? Poi ce ne andiamo a bere una birra insieme.

– D’accordo.

E si misero a camminare tenendosi sotto braccio, con la facile familiarità che sussiste tra compagni di scuola e di servizio militare.

– E tu, cosa fai a Parigi? – chiese Forestier.

Duroy alzò le spalle: – Crepo semplicemente di fame. Una volta congedato, volli venire qui per per far fortuna, o, piuttosto, per vivere a Parigi, e sono oramai sei mesi che mi sono impiegato alle ferrovie del Nord, a mille e cinque l’anno, non un soldo di più.

Forestier sussurrò: – Perbacco! non c’è da scialare.

– Lo dico anch’io. Ma come vorresti che facessi altrimenti? Sono solo, non conosco nessuno, non posso farmi raccomandare da nessuno. Non è la buona volontà che mi manchi: sono i mezzi.

Il compagno lo guardò dalla testa ai piedi, da uomo pratico che sta valutando, poi disse in tono convinto: – Vedi, mio caro, qui tutto dipende dalla faccia tosta. Un uomo un po’ furbo diventa più facilmente ministro che capo ufficio. Bisogna imporsi, non chiedere. Ma come diavolo mai non hai trovato di meglio che un posto d’impiegato alla Nord?

Duroy continuò: – Ho cercato dovunque; non ho scoperto nulla. Ma in questi giorni ho qualcosa in vista, mi è stato offerto d’entrare come cavallerizzo nel maneggio Pellerin. Lì, a dir poco, avrò un tremila franchi.

Forestier lo fermò di colpo: – Non pensarci neanche, sarebbe idiota anche quando tu ne guadagnassi diecimila. Ti chiuderesti l’avvenire per sempre. Nel tuo ufficio, almeno, sei nascosto, nessuno ti conosce, puoi venirne via, se hai capacità, e fare la tua strada. Ma una volta che tu fossi cavallerizzo, non c’è più niente da fare. Sarebbe come se tu fossi maggiordomo in una casa dove il Tutta-Parigi va a pranzo. Quando tu abbia dato lezione d’equitazione agli uomini della società o ai loro figli, essi non potranno mai più abituarsi a considerarti loro uguale.

Tacque, rifletté un momento, poi domandò: – Hai la licenza liceale?

– No. Mi è andata male due volte.

– Non importa, dato che hai fatto gli studi sino in fondo. Se ti parlassero di Cicerone o di Tiberio sapresti all’incirca di cosa si tratta?

– All’incirca.

– Bene, nessuno ne sa di più, eccettuati una ventina d’imbecilli che non sono mai nel caso di doversi trarre d’impaccio. Non è difficile esser considerato istruito, credi a me; tutto sta nel non farsi mai pizzicare in flagrante delitto d’ignoranza. Ci si barcamena, si scansano le difficoltà, si gira l’ostacolo, e tappi la bocca agli altri servendoti di un dizionario. Gli uomini sono tutti più stupidi delle oche e più ignoranti delle talpe.

Parlava da uomo in gamba, sicuro di sé, che conosce la vita, e sorrideva guardando la folla che passava. Ma tutto a un tratto si mise a tossire e dovette fermarsi fino a che l’attacco non gli fu passato; poi, con tono scoraggiato: – Non è fastidioso non potersi liberare da questa bronchite? E siamo in piena estate. Oh! l’inverno prossimo andrò a Mentone a curarmi. Tanto peggio per il resto; la salute prima di tutto.

Giunsero al boulevard Poissonnière, dinanzi a una grande porta a vetri dove, sul retro, erano incollate le due facciate di un giornale spiegato. Tre persone si erano fermate a leggerlo.

Al disopra della porta, come un richiamo, era scritto a grandi lettere di fuoco disegnate dalle fiammelle del gas: La Vita francese. E la gente che passava lì davanti, bruscamente investita dalla luminosità di quelle tre parole smaglianti, appariva improvvisamente in piena luce, ben visibile, chiara e netta come in pieno giorno, e poco più in là rientrava nell’ombra.

Forestier spinse la porta: – Entra, – disse. Duroy entrò, salì una scala lussuosa e sporca che si vedeva fin dalla strada, giunse a un’anticamera dove i due uscieri salutarono il suo amico, e si fermò in un salotto d’attesa, polveroso e consunto, tappezzato di falso velluto di un verde piscioso, crivellato di macchie e corroso in più punti, come se fosse stato rosicchiato dai topi.

– Accomodati, – disse Forestier. – Torno tra cinque minuti.

E disparve da una delle tre porte che davano in quella stanza.

Uno strano odore, speciale, inspiegabile, l’odore dei locali di redazione, stagnava là dentro. Duroy se ne stette fermo, alquanto intimidito e, soprattutto, sorpreso. Di tanto in tanto qualcuno gli passava davanti correndo, entrando da una parte e uscendo dall’altra senza che neanche avesse il tempo di guardare chi fosse.

Qualche volta erano dei giovani, giovanissimi, molto indaffarati, con in mano dei fogli che palpitavano per la corsa; qualche altra erano compositori tipografi ai quali s’intravedeva, sotto il camice sporco d’inchiostro, il colletto candido della camicia e i pantaloni di panno fine simile a quello delle persone eleganti; ed essi tenevano in mano con molta precauzione delle strisce di carta stampata, bozze fresche, ancora umide. Qualche volta entrava un signore piccolino, vestito con eleganza troppo ricercata, con la prefettizia troppo serrata alla vita, i pantaloni che gli modellavano le gambe, le scarpe troppo a punta che gli stringevano il piede, probabilmente un cronista mondano che veniva a portare il resoconto della serata.

Arrivavano anche altri uomini, gravi, importanti, con la tuba alta e a tesa piatta, come se questa foggia li distinguesse dagli altri.

Forestier ricomparve tenendo sotto braccio un uomo alto e magro tra i trenta e i quarant’anni, in abito da sera e cravatta bianca, molto bruno, con i baffi assai appuntiti e un’aria insolente e soddisfatta di sé.

Forestier gli disse: – Addio, caro maestro.

L’altro gli strinse la mano: – Arrivederci, mio caro – e discese la scala fischiettando, con il bastone sotto l’ascella.

Duroy domandò: – Chi è?

– È Giacomo Rival, capisci, il famoso cronista, quello dei duelli. Ha corretto ora le sue bozze. Garin, Montel e lui sono i tre primi cronisti di spirito e d’importanza che ci siano a Parigi. Qui guadagna una trentina di mila franchi l’anno per due articoli la settimana. E mentre se ne andavano, s’imbatterono in un ometto con la zazzera, grosso, d’aspetto un po’ sudicio, che stava salendo le scale ansando.

Forestier salutò profondamente: – Norberto di Varenne, – disse, – il poeta, l’autore di Soli spenti, un altro che ha una grossa paga. Ognuno dei racconti che ci dà costa trecento franchi, e il più lungo non arriva a duecento righe. Ma andiamocene al Napolitano, sto morendo di sete.

Appena seduti al tavolino del caffè, Forestier gridò: – Due birre – e ingollò la sua d’un fiato, mentre Duroy beveva a piccoli sorsi, assaporandola e godendosela, come una bevanda preziosa e rara.

L’amico taceva, pareva riflettesse; poi, all’improvviso: – Perché non provi a fare il giornalista?

L’altro lo guardò sorpreso; poi disse: – Ma il fatto è che non ho mai scritto nulla.

– Be’! si prova, si comincia. Io stesso potrei servirmi di te per le informazioni, mandarti in giro, andare a intervistare la gente. Per cominciare avresti duecentocinquanta franchi e i mezzi di trasporto rimborsati. Vuoi che ne parli al direttore?

– Ma certo che vorrei.

– Senti, fai una cosa, vieni a cena da me domani sera; ci saranno soltanto altre cinque o sei persone, il principale, Walter, con la moglie, Giacomo Rival e Norberto di Varenne, che hai visto ora, più un’amica di mia moglie. Siamo intesi?

Duroy era esitante, vergognoso, perplesso. Finì per mormorare: – È che non ho un abito adatto.

Forestier era stupefatto: – Non hai la marsina? Accidenti! Non se ne può fare a meno. Senti, a Parigi è meglio non avere il letto piuttosto che non avere la marsina.

Poi, ad un tratto, frugando in un taschino del gilè, ne cavò fuori una manciatina di monete d’oro, prese due luigi, li mise davanti al suo ex compagno d’armi, e, in tono cordiale e familiare: – Me le renderai quando potrai. Noleggia o compera a rate, dando un anticipo, la roba che ti occorre; insomma aggiustati, ma vieni a pranzo da me, domani, alle sette e mezza, via Fontaine 17.

Duroy, imbarazzato, prese il denaro balbettando: – Sei molto gentile, ti ringrazio molto, sta certo che non lo dimenticherò mai

     Continuate voi a leggere questo romanzo (ne leggeremo ancora due pagine la prossima settimana): intanto potete andate anche voi a cena da Forestier, e poi leggendo potrete scoprire se Duroy lo dimenticherà o non lo dimenticherà questo favore che è il primo di molti altri!

     Avete sentito che il giudizio di Guy de Maupassant nella Parigi del 1885 è molto severo: «Gli uomini sono tutti più stupidi delle oche e più ignoranti delle talpe». Sembra non sia cambiato molto rispetto a un secolo fa, soprattutto in Italia, sul fronte dell’ignoranza e perciò la Scuola deve (dovrebbe) intensificare le campagne di alfabetizzazione culturale e funzionale: questa sera abbiamo incontrato molti personaggi, matematici astronomi scienziati (sui quali potete fare ricerca).

     La prossima settimana abbiamo appuntamento, nella Biblioteca di Alessandria, con un poeta epico (esiste ancora l’epica?) che si chiama Apollonio Rodio. Sapete chi è e che cosa scrive? Se volete conoscere, capire e applicarvi la Scuola è qui perché l’Apprendimento permanente è un diritto di ogni persona…

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Novembre 20, 2009