Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza poetica ellenistica 2009 2-3-4 dicembre 2009
SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA C’È
LA NUOVA COMPOSIZIONE EPICA SOSTENUTA DALLA LEZIONE DI ESIODO ...
Il nostro viaggio di studio, che da nove settimane abbiamo intrapreso nel territorio della sapienza poetica ellenistica, ci ha portate, ci ha portati – già dalla scorsa settimana – davanti ad un significativo paesaggio intellettuale che, anche questa sera, dobbiamo continuare ad osservare.
Sappiamo che il fenomeno delle nuove Scuole di pensiero ellenistiche – che vanno nascendo in questo periodo, tra il IV e il III secolo a.C., e i cui programmi studieremo a suo tempo – coinvolge contemporaneamente lo sviluppo della scienza, la speculazione filosofica e la produzione letteraria e, proprio nel periodo dell’Ellenismo, vengono composte nuove opere, vengono creati nuovi generi letterari, primo fra tutti il genere del “romanzo” il quale, come sappiamo, riuscirà bene a mettere in evidenza “l’emergenza delle passioni” individuali: una caratteristica significativa (c’è ci dice la più significativa) dell’età ellenistica. E l’interessante paesaggio intellettuale che si trova di fronte a noi, e che stiamo ammirando, riguarda proprio la produzione letteraria.
Osservando una parte di questo paesaggio culturale, la scorsa settimana abbiamo incontrato un importante scrittore che si chiama Apollonio Rodio, e non credo lo abbiate dimenticato. Apollonio Rodio è un famoso poeta, il principale rappresentante della corrente epica di stampo omerico che si sviluppa nel periodo ellenistico: che cosa significa “epica di stampo omerico”? Significa che Apollonio Rodio è stato uno dei primi grandi studiosi ed interpreti dell’Iliade e dell’Odissea: dobbiamo ricordare (lo abbiamo studiato qualche Percorso fa in compagnia di Erodoto) che la struttura – la divisione in 24 canti e il completamento di alcune lacune – dei due grandi poemi omerici, così come noi la conosciamo, è stata messa in ordine dai grammatici alessandrini proprio nel periodo dell’Ellenismo. Apollonio Rodio ha quindi una grande ammirazione per l’opera di Omero (dobbiamo precisare che la figura di Omero è avvolta nella leggenda: Omero è un genere letterario e rappresenta una lunga sequela di cantori orfici) e il valore artistico dell’epica omerica consiste nel fatto di essere soprattutto opera di fantasia e di concepire l’idea de “l’arte per l’arte”.
Apollonio Rodio apprezza il fatto che, nei poemi omerici, la fantasia è insaziabile, è cosmogonica perché non si accontenta di questo mondo, ma (come nel caso di Ulisse) vaga anche nei regni del mistero e dell’oltretomba. Apollonio Rodio ha quindi una grande ammirazione per la fantastica opera di Omero e il suo obiettivo di scrittore è quello di rinnovare – a tre secoli circa di distanza – l’epica omerica. Ma questa scelta lo mette in contrapposizione con l’ambiente alessandrino dove primeggia la figura di Callimaco di Cirene, il suo maestro, il quale ha tutta un’altra mentalità: questo personaggio, Callimaco di Cirene, lo abbiamo citato più volte la scorsa settimana e più tardi lo incontreremo da vicino perché si trova qui, sul versante opposto a quello di Apollonio, nel paesaggio intellettuale che abbiamo di fronte.
Apollonio – a causa della pesante e celebre diatriba che si scatena tra lui e Callimaco sulla forma da dare alle composizioni di carattere epico – si trasferisce a Rodi e lì, su questa bella isola, la più grande del Dodecaneso (l’avete visitata in settimana l’isola di Rodi?), Apollonio trova l’ispirazione e la determinazione per scrivere un poema per mezzo del quale è entrato a pieno titolo nella Storia della Letteratura universale. Apollonio diventa cittadino onorario di Rodi e acquisisce anche il titolo di “Rodio”: un appellativo onorifico che accompagna per sempre il suo nome. È tanta la fama di cui comincia a godere il poema di Apollonio che lo scrittore (il quale si prende una bella rivincita) viene richiamato in patria, e gli viene anche concesso il privilegio di diventare direttore della Biblioteca di Alessandria.
Il poema per cui Apollonio Rodio è diventato famoso – come ben sapete – s’intitola Argonautiche; la scorsa settimana noi abbiamo preso contatto con quest’opera che si compone di 4 libri nei quali Apollonio narra la mitica e celebre impresa di Giasone che, insieme ai suoi 53 compagni, gli Argonauti, a bordo della nave Argo, va alla conquista del vello d’oro, un talismano che dà il potere a chi lo possiede e che è custodito gelosamente, nella regione della Colchide, sulle sponde del Mar Nero, dal re Eeta, padre di una fanciulla, dotata di arti magiche, che si chiama Medea.
Abbiamo detto che Apollonio Rodio vorrebbe imitare Omero ma, da intellettuale ellenista, ha un’altra mentalità: è un erudito, è uno studioso di mitologia e non ha più l’ispirazione sacrale di un cantore epico (e poi l’epica di stampo omerico è ormai inimitabile); quindi l’opera di Apollonio diventa un capolavoro originale di sapienza poetica ellenistica proprio perché in essa fa difetto il tradizionale sentimento eroico che Apollonio non è più in grado neppure di immaginare perché, in età ellenistica, il mito è ormai diventato “mitologia” cioè una materia di studio: un grande e profondo serbatoio di allegorie su cui fare ricerca.
Il “mythos”, tra il IV e il III secolo a.C., non è più la rappresentazione di una voce sacra, non ha più un’ispirazione di carattere divino con una portata di valore liturgico come nella sapienza poetica orfica, ma, con l’Ellenismo, i miti sono ormai diventati un vasto catalogo di avventure leggendarie, un argomento per sviluppare narrazioni di carattere avventuroso e fantastico. Il poema di Apollonio ha avuto un grande successo proprio perché ha suffragato l’idea del mito non come “discorso sacro” ma come “racconto allegorico” funzionale al nascente genere letterario del “romanzo di avventure”. Inoltre il testo del poema Argonautiche di Apollonio Rodio è anche significativo perché introduce per la prima volta il motivo erotico (sentimentale, passionale) nella materia epica: a questo proposito, la scorsa settimana ci siamo soffermati e abbiamo letto alcuni frammenti che ritraggono, con profonda finezza psicologica, l’animo del principale personaggio femminile, Medea, e sul personaggio di Medea – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – dobbiamo aprire una breve parentesi.
Questo straordinario personaggio letterario si è consolidato nel tempo: trova il suo posto nella tragedia, nel poema epico ellenistico e poi, successivamente, nel genere letterario del romanzo dove questa figura contribuisce, con le sue caratteristiche, alla creazione di nuovi personaggi. Il personaggio letterario di Medea nasce con la grande tragedia di Euripide il quale – unendo insieme, ad arte, tutte le leggende orfiche dedicate a questo tema – riesce a creare una figura terribilmente mostruosa (sappiamo che, nella cultura orfica, ciò che è mostruoso è anche meraviglioso) e, allo stesso tempo, profondamente umana. Medea è contemporaneamente violenta e tenera, lacerata nel suo intimo dal conflitto delle passioni (che diventa il tema ellenistico per eccellenza) ma, nello stesso momento, dotata di una straordinaria lucidità razionale. Medea parla a nome di tutte le donne per le quali vengono costruiti dei ruoli – come manifestazioni della più bieca ipocrisia – in funzione dei capricci degli uomini. Le contraddizioni, presenti nel personaggio di Medea, sono – per quanto drammatiche possano essere – motivi di riflessione che preparano già (sappiamo che Euripide è un precursore dell’Ellenismo) lo sviluppo della nuova poesia epica alessandrina che abbiamo cominciato a conoscere con l’opera di Apollonio Rodio.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
La Scuola consiglia di cercare, in biblioteca o sulla rete, il testo della “Medea” di Euripide e, con la dovuta pazienza, di leggerne o di rileggerne qualche pagina …
La tragica trama di questo capolavoro, non solo della Letteratura ma della Storia del Pensiero Umano, è universalmente conosciuta e, quindi, ricordiamo solo che siamo a Corinto, e Medea, abbandonata con grande superficialità dal marito Giasone, si vendica uccidendo non solo la nuova sposa (la giovane principessa Glauce) ma anche i due figli che Medea ha avuto dal marito, il quale deve sopravvivere per riflettere sul fatto che: “l’esistenza umana – scrive Euripide – non è una sequela di fugaci avventure ma è un terreno dove coltivare gli affetti che mutano con il mutare del tempo ma ai quali conviene restare fedeli così come sono puntuali le stagioni che, ciclicamente, ravvivano la vita degli esseri umani”, e questo è un significativo ammonimento sul fatto che l’amore non è solo temporanea infatuazione ma è un cammino comune durante il quale le persone coinvolte devono saper cambiare passo insieme, a seconda delle stagioni. Il finale della rappresentazione di questa tragedia prevede che, su un carro trainato da due draghi alati (deus ex machina), Medea venga trasportata ad Atene presso il re Egeo e non si sa se sarà processata e condannata.
Come mai – ci si è sempre domandati – Medea non riceve (per direttissima, sul palcoscenico) una punizione esemplare per i suoi orrendi delitti? Il messaggio (la forte provocazione) di Euripide è evidente: Medea è già stata fortemente punita dal comportamento di un mediocrissimo marito che s’incapriccia di un’altra ma che, soprattutto, pretende di disegnare anche un rispettabile ruolo, quasi istituzionale, per la moglie tradita purché accetti docilmente, con ipocrisia, la nuova situazione.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
I monologhi di Medea nella tragedia di Euripide sono composizioni poetiche di straordinario valore e la Scuola ne consiglia la lettura o la rilettura facendo presente il fatto che si può leggere il testo di una tragedia seguendo anche solo le parole di un personaggio e, in questo genere letterario, i personaggi sono ben identificati con il loro nome …
I monologhi di Medea sono straordinari per la profonda verità che contengono: Medea, per amore di Giasone, ha rinunciato alle cose più care (è emigrata dalla sua terra d’origine, ha abbandonato suo padre e sua madre, ha rinunciato ai suoi poteri magici dopo aver provocato la morte di suo fratello che la inseguiva) e quindi decide di farsi giustiziera nei confronti di un marito che è, fin dall’inizio della storia, non un eroe (come lui vorrebbe far credere) ma solo un piccolo avventuriero. Sappiamo che, durante l’Ellenismo, presso le corti, compare la figura sociale dell’avventuriero (arrivista senza scrupoli, cinico adulatore) e la figura letteraria di Giasone, già nella tragedia di Euripide, richiama questo modello e naturalmente anche Apollonio Rodio nelle Argonautiche tiene in considerazione questo carattere.
Se noi adesso dovessimo anche solo fare l’elenco di tutte le opere che il personaggio di Medea ha ispirato nel corso dei secoli non ci basterebbe il tempo di questo itinerario.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Per essere al corrente fate voi una piccola ricerca – utilizzando l’enciclopedia o la rete – sulle opere che vedono la figura di Medea come protagonista…
Ora noi ne ricordiamo solo una di queste opere che può essere ascoltata perché il dramma di Medea è stato anche messo in musica da molti compositori.
Su libretto dello scrittore Ernest Hoffman (uno scrittore che incontreremo ancora prossimamente), il musicista Luigi Cherubini (nato a Firenze nel 1760, emigrato in Francia nel 1786, e morto a Parigi nel 1842) ha musicato un’opera dal titolo Medea, rappresentata a Parigi nel 1797. In Italia la prima rappresentazione della Medea di Luigi Cherubini ha avuto luogo solo nel 1909 alla Scala di Milano. La musica di quest’opera – considerata un capolavoro – rende magistralmente l’atmosfera tragica dell’azione e rivela il genio di Cherubini che unisce in sé spontaneità e riflessione e che è capace di sintetizzare i diversi gusti musicali: italiano, francese e tedesco. Dalle pagine della Medea di Cherubini (in particolare dall’ouverture) ha avuto da imparare qualcosa anche lo stesso Beethoven.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Se in biblioteca c’è la possibilità di prendere in prestito un’incisione della Medea di Luigi Cherubini potete ascoltarne qualche brano: dopo aver conosciuto meglio il carattere del personaggio l’esperienza dell’ascolto risulta ancora più suggestiva…
La figura di Medea ha ispirato anche molte opere pittoriche e due autori in particolare hanno creato delle tele significative in proposito, sono: Eugène Delacroix (1798-1863) e Gustave Moreau (1826-1898)… Anche in questo caso potete fare una ricerca tanto in biblioteca quanto sulla rete per osservare come questi due pittori hanno immaginato la figura di Medea, e che volto le hanno dato…
Nel concludere l’itinerario della scorsa settimana abbiamo detto che ci saremmo soffermati ancora sul testo delle Argonautiche per prendere in considerazione un frammento tratto dal Libro II dove l’autore descrive un singolare duello. In un poema epico tradizionale di stampo omerico, come l’Iliade, i duelli si svolgono tra eroi che combattono a lancia e spada. Nelle Argonautiche Apollonio Rodio descrive – con il ritmo incalzante che lui sa usare – un duello che nasce da sfida lanciata in modo tradizionale ad un eroe da un re prepotente il quale però non vuole combattere a lancia e spada bensì vuole (come se fosse affetto da bullismo) fare a pugni: nessun eroe omerico avrebbe accettato un confronto del genere. Il pugilato era, fin dall’antichità, una delle prove previste nelle gare olimpiche ma veniva praticato solo nell’ambito dei giochi: i duelli sono una cosa (sono la guerra) e i giochi sono un’altra cosa (sono la pace). Apollonio Rodio vorrebbe far rivivere i fasti dell’epica antica ma ormai ha un’altra mentalità e confonde i piani in nome della narrazione avventurosa e incalzante che precorre il genere letterario del “romanzo”.
Ora leggeremo questo frammento e ci accorgeremo (senza bisogno di fare un confronto con i duelli “a lancia e spada” raccontati nell’Iliade) che questo modo di scrivere è, tanto nelle forme quanto nei contenuti, un modo nuovo di interpretare la poesia epica: è un modo in chiave ellenistica. Il re dei Bebrici si chiama Amico e, nonostante il nome, è il più arrogante degli uomini, e sfida, secondo una legge indegna, persino i suoi ospiti nel pugilato: così fa anche con gli Argonauti appena sbarcati sulla sua terra senza neppure chiedere chi siano e quale sia il motivo del loro viaggio. È l’argonauta Polluce – il fratello gemello di Castore, i luminosi fratelli di Elena e anche di Clitennestra (Elena – altrettanto luminosa – non l’avevamo ancora citata quest’anno!): Castore, Polluce ed Elena sono, ufficialmente, i figli di Tindaro (in realtà solo Clitennestra è figlia di Tindaro) perché noi sappiamo che, come in molti altri casi (come ci racconta Ovidio nelle Metamorfosi), anche qui c’è lo zampino di Zeus che, sotto forma di cigno, ha amato Leda poco prima che sposasse Tindaro –. È quindi l’argonauta Polluce, figlio di Zeus, che accetta la sfida pugilistica di Amico.
Questa pagina che ora leggiamo contiene anche la prima avvincente cronaca di un incontro di pugilato della Storia della Letteratura: il linguaggio che Apollonio Rodio utilizza – facendo un grande sfoggio di erudizione – tende a conservare e a mettere in evidenza il maggior numero di riferimenti provenienti dal profondo serbatoio della mitologia ma lo stile epico ha ormai definitivamente cambiato registro.
LEGERE MULTUM….
Apollonio Rodio, Argonautiche (Libro II)
Erano in quel paese le stalle e la casa di Amico, il feroce signore dei Bebrici,
al quale diede la vita Melia, una ninfa bitinia, unitasi al dio Posidone, loro progenitore.
Era il più arrogante degli uomini, e perfino per i suoi ospiti aveva stabilito una legge indegna:
nessuno poteva andarsene prima d’essere messo alla prova nel pugilato contro di lui, e così uccise molti vicini.
E anche allora venne presso alla nave, ma non degnò di chiedere, nella sua alterigia,
chi fossero, né il motivo del viaggio,ma subito, in mezzo a tutti, disse queste parole: “Sentite, navigatori, ciò che dovete sapere.
È legge che mai nessuno straniero, una volta giunto tra i Bebrici, possa andarsene prima d’avere levato
contro le mie le sue mani; perciò scegliete tra voi un uomo, il più forte,
e fatelo combattere con me qui subito al pugilato. Se invece trascurerete e calpesterete i miei editti,
una dura necessità, dolorosa, cadrà su di voi”.
Così disse, pieno d’orgoglio, e all’udirlo li prese una rabbia selvaggia, e più di tutti
Polluce fu offeso da quelle minacce; si levò subito a nome dei suoi compagni,
e rispose: “Chiunque tu sia, trattieni la tua crudele violenza, e a noi non mostrarla;
obbediremo alle tue leggi; così come dici: io stesso di mia volontà mi offro
per affrontarti”. Così disse apertamente: e Amico lo fissò roteando gli occhi,
come il leone colpito dall’asta, attorno a cui si affaticano i cacciatori sui monti,
ed anche accerchiato da una gran folla, non se ne cura, ma vede un uomo soltanto,
quello che l’ha per primo ferito, e non l’ha ucciso. Il figlio di Tindaro depose il ricco mantello, morbido,
quello che un giorno una donna di Lemno gli diede in dono ospitale; Amico buttò per terra il manto scuro,
doppio, fermato da fibbie, e il bastone ruvido, d’olivo montano, che usava portare.
Trovarono subito un luogo adatto lì accanto, e fecero sedere sulla sabbia, divisi, i loro compagni.
Nell’aspetto e nella statura erano in tutto diversi. L’uno sembrava un parto mostruoso
del tremendo Tifeo, o della Terra medesima (quelli che generò nella collera contro Zeus);
l’altro, il Tindaride, assomigliava all’astro che ha i raggi più belli, quando
si leva al crepuscolo. E così splendido era l’eroe figlio di Zeus, con le guance fiorite
di leggera peluria e gli occhi splendenti, ma la forza e il vigore d’una belva.
Muoveva le braccia, provando se erano ancora agili come in passato e non le avevano appesantite
né le fatiche né il remo. Non così Amico: restava in disparte, in silenzio,
fissando gli occhi sopra di lui, e il cuore fremeva dal desiderio di trargli il sangue
dal petto. Nel mezzo, un servo di Amico, Licoreo, pose ai piedi di ognuno due guanti di cuoio, aspri,
asciutti, induriti come due cesti e Amico si rivolse al rivale con parole superbe: “Ti darò quelli che vuoi, senza sorteggio,
perché tu dopo non abbia a rimproverarmelo. Mettili attorno alle mani; presto saprai, e potrai dire anche
ad altri, quanto io valgo sia nel tagliare le dure pelli di bove, sia nel coprire di sangue le guance degli uomini”.
Così disse, e Polluce non volle ribattere ai suoi insulti;
con un dolce sorriso prese senz’altro quei guanti che gli giacevano ai piedi, e tosto
gli vennero accanto Castore e il figlio di Biante, il grande Talao, e velocemente glieli allacciarono
e aggiunsero molte parole d’esortazione a combattere; lo stesso fecero all’altro Areto ed Ornito, e non sapevano,
stolti, di farlo per l’ultima volta, secondo un crudele destino. Quando furono pronti coi guanti indossati, dall’una parte
e dall’altra, alzarono le mani pesanti a coprire la faccia, e si scagliarono furiosamente l’uno sull’altro.
Era il re dei Bebrici come il flutto che si solleva violento contro
una rapida nave, ed essa evita appena, grazie alla saggezza del suo esperto pilota,
che l’onda impetuosa penetri dentro i suoi fianchi; così incalzava il Tindaride, cercando di fargli paura,
e non gli lasciava trarre respiro, ma quello sempre schivava
i suoi assalti e grazie all’intelligenza restava incolume sempre. Presto ebbe capito qual era l’arte selvaggia di Amico,
dov’era invincibile e dove esposto alla sconfitta:allora si fermò risoluto, e prese a ribattere colpo su colpo.
Come battono i falegnami coi martelli i cunei aguzzi conficcandoli a forza a tenere assieme le tavole della nave,
e i colpi rimbombano senza tregua l’uno sull’altro, così da ambo le parti risuonavano guance e mascelle,
e si levava un digrignare infinito di denti. L’uno di fronte all’altro, non cessavano mai di colpirsi,
fin quando entrambi furono vinti dall’affanno angoscioso. Si scostarono un poco e asciugarono
l’abbondante sudore dalla fronte, ansimando respiri sfiniti, e poi di nuovo entrambi si scagliarono l’uno sull’altro,
come due tori che furibondi si scontrano, al pascolo, per una giovenca. …
Qualche commentatore ha voluto insinuare che in questo brano – dal ritmo incalzante – ci sia una metafora in più che si riferisce allo scontro epocale, al duello, tra Apollonio Rodio e Callimaco di Cirene. I versi di questo episodio potrebbero anche essere una risposta all’opera ingiuriosa, intitolata Ibis, che Callimaco ha scritto per denigrare Apollonio. La figura del re Amico potrebbe rappresentare Callimaco che, alla fine, le busca ben bene da Polluce, che è l’eroe con il quale Apollonio potrebbe identificarsi tenendo anche conto del fatto – a detta di alcune studiose e di alcuni studiosi di filologia ellenistica – che a Kàmiros, la città nella quale Apollonio, come sappiamo, ha abitato nel suo esilio a Rodi, c’era un tempietto dedicato proprio a Castore e Polluce: ma queste sono solo supposizioni che è comunque interessante mettere in evidenza. Però più che altro a noi, studentesse e studenti in viaggio, interessa capire – mentre osserviamo lo sviluppo della Letteratura durante il periodo dell’Ellenismo – attraverso quali generi letterari è andata consolidandosi quella struttura narrativa che poi verrà chiamata il “romanzo”.
E la parola “romanzo” ci ricorda il fatto che, la scorsa settimana, non abbiamo avuto il tempo di concludere la lettura di un episodio tratto dal romanzo Bel-Ami scritto da Guy de Maupassant e pubblicato nel 1885. Sappiamo che il protagonista di questo racconto (che ci ha accompagnato in queste ultime due settimane) si chiama Georges Duroy ed è un arrivista senza scrupoli, un avventuriero senza talento: la figura dell’avventuriero, spregiudicato arrivista e spudorato adulatore, si afferma durante il periodo dell’Ellenismo nelle corti delle monarchie assolute e avrà, da subito, un ruolo anche nella Letteratura. Le studiose e gli studiosi di filologia ellenistica si sono sempre domandati se il personaggio di Giasone – che abbiamo conosciuto nelle Argonautiche di Apollonio Rodio e che risale (come abbiamo studiato poc’anzi) alla Medea di Euripide – sia una “persona avventurosa” o sia un “avventuriero”: tra queste due cose c’è una bella differenza e i comportamenti di Giasone sono conformi a quelli di un avventuriero e non a quelli di una persona avventurosa.
Georges Duroy ha potuto cominciare la sua scalata sociale anche grazie ad un amico, suo ex compagno d’armi e poi giornalista, Charles Forestier, che è da tempo ammalato. Quando le sue condizioni di salute s’aggravano, Charles si trasferisce con la moglie a Cannes per giovarsi del clima favorevole della Costa Azzurra e Georges Duroy riceve una richiesta di aiuto da parte della moglie di Charles perché venga ad aiutarla ad assisterlo visto che la sua morte è imminente e loro non hanno parenti. Charles, con l’arrivo di Georges, anche se lucidamente consapevole del suo destino, sembra sentirsi meglio e decide di fare una gita in riviera per acquistare delle ceramiche, e l’autore vuole che l’ultimo atto della vita di Charles Forestier sia quello di scegliere un oggetto di forma greca, in stile ellenistico: Guy de Maupassant sceglie questa metafora per dare una specie di “assoluzione laica”, un’assoluzione di carattere culturale (che contrasta con quella religiosa che, forzatamente, il moribondo riceverà) a questo personaggio che crede nella bontà e nella solidarietà e che, in mezzo a tanta mediocrità ed ambiguità, tutto sommato è uno dei pochi che l’autore vorrebbe salvare. Durante il viaggio di ritorno in carrozza dalla passeggiata rivierasca le condizioni di Charles si aggravano inesorabilmente.
Leggiamo dunque il racconto esemplare della morte di Forestier, assistito in modo ipocrita ed interessato da Duroy, per capire come la scrittura di Guy de Maupassant risenta del modello della tragedia secondo lo stile di Euripide (di cui ci siamo occupati la scorsa settimana e anche questa sera) e risenta anche del ritmo incalzante del modello dell’epica ellenistica secondo lo stile di Apollonio Rodio di cui abbiamo imparato a riconoscere i caratteri essenziali.
LEGERE MULTUM….
Guy de Maupassant, Bel-Ami (1885)
Il tepore del letto non servì ad acquietare l’accesso che continuò sino alla mezzanotte; finalmente i narcotici intorpidirono gli spasimi mortali della tosse. Il malato rimase ad occhi aperti, seduto sul letto, fino all’alba.
Per prima cosa, chiese il barbiere, perché ci teneva ad aver la barba fatta tutti i giorni. Volle alzarsi, per farsi radere, ma dovettero rimetterlo immediatamente a letto, e cominciò a respirare con un fiato così corto, così duro, così penoso, che la signora Forestier, allarmata, fece svegliare Duroy che era andato a coricarsi poco prima, per pregarlo di cercare il medico.
Duroy non tardò molto a tornare con il dottor Gavaut che prescrisse una pozione e diede qualche consiglio; e al giornalista che, riaccompagnandolo, gli chiedeva cosa pensasse del malato, disse: – È in agonia. Domattina sarà morto. Avvertite quella povera signora e chiamate un prete. Io non posso più fare nulla. Tuttavia sono sempre a vostra disposizione. … Duroy fece chiamare la signora Forestier: – Sta per morire. Il dottore consiglia di chiamare un prete. Cosa intendete fare?
Ella esitò a lungo, quindi, con voce lenta, dopo aver soppesato ogni cosa: – Sì, è meglio … sotto tanti punti di vista …Vado a prepararlo, vado a dirgli che un prete qui accanto desidera conoscerlo … o non so che cosa. Fatemi la cortesia di andare voi a cercarmelo, un prete, e sceglietelo. Prendetene uno che non faccia tante storie. Procurate che si contenti della confessione, e ci faccia grazia del resto.
Il giovanotto tornò con un vecchio sacerdote compiacente che capiva la situazione. Appena fu vicino all’agonizzante, la signora Forestier uscì dalla camera e si sedette, con Duroy, nella stanza accanto.
– È stato sconvolto, – disse. – Quando gli ho parlato del prete, il suo viso ha avuto un’espressione di tensione spasmodica, come se …come se avesse sentito …sentito … un alito … mi capite … Ha capito che era la fine, che ne aveva per poco …
Era pallidissima. Continuò: – Non dimenticherò più l’espressione del suo volto. In quel momento ha certamente visto la morte. L’ha vista … Sentivano il prete che parlava a voce un po’ alta perché era un tantino sordo, e diceva: – Ma no, ma no, non state poi tanto male. Siete malato, ma senza nessun pericolo. Prova ne sia che io mi trovo qui come amico, come vicino.
Non capirono la risposta di Forestier. Il vecchio continuò: – No, non vi chiedo di fare la comunione. Ne riparleremo quando starete meglio. Se, intanto, credete di approfittare della mia visita, per confessarvi, io non domanderei di meglio. Sono un pastore, io, e colgo tutte le occasioni per riportare una pecora all’ovile. Seguì un lungo silenzio. Doveva parlare Forestier, con la sua voce afona e ansimante. E, tutto ad un tratto, il prete disse in tutt’altro tono, il tono dell’officiante all’altare: – La misericordia di Dio è infinita, recitate il Confiteor, figlio mio. L’avete forse dimenticato, vi aiuto io … Ripetete con me: Confiteor Deo omnipotenti … Beatae Mariae semper … virgini … Di tanto in tanto si fermava per dar modo al moribondo di tenergli dietro. Poi disse: – Adesso, confessatevi …
La signora e Duroy erano come immobilizzati, profondamente conturbati da un’angosciosa aspettativa. Il malato doveva aver detto qualcosa.
Il prete ripeté: – Avete avuto colpevoli compiacenze? … Di quale natura figlio mio? La signora si alzò e disse semplicemente: – Andiamo un po’ in giardino; non dobbiamo stare a sentire i suoi segreti.
Andarono a sedersi su una panchina sotto un rosaio in fiore e dinanzi a un cespo di garofani che spandeva nell’aria un profumo forte e dolciastro.
Duroy, dopo qualche minuto di silenzio, domandò: – Tarderete molto a tornare a Parigi? … Ella rispose: – Oh! no. Tornerò subito dopo che tutto sia terminato. – Tra una decina di giorni? – Sì; non di più. Egli aggiunse: – Non ha più parenti?
– Nessuno, fuorché qualche lontano cugino. Suo padre e sua madre morirono che egli era ancora ragazzo. … Guardavano tutti e due una farfalla che cercava il suo cibo dentro i garofani; sbatteva rapidamente le ali andando dall’uno all’altro, e molto lentamente quando si posava su un fiore. Essi rimasero a lungo senza parlare.
Venne il domestico ad avvisarli che: – Il signor sacerdote aveva finito. Risalirono assieme. Forestier sembrava anche più magro del giorno prima. Il sacerdote gli stringeva la mano. – Arrivederci, figlio mio, tornerò domattina. E se ne andò. Appena egli fu uscito, il moribondo, ansimando, cercò di sollevare le mani verso la moglie balbettando: – Salvami … salvami … mia cara … non voglio morire … non voglio morire … Oh! salvatemi … Dite cosa c’è da fare, chiamate il dottore … prenderò qualunque medicina … Non voglio … non voglio … Piangeva. Grosse lacrime gli scendevano dagli occhi sulle guance incavate; e gli angoli della bocca scarna gli si piegavano come ai bimbi quando hanno una grossa pena.
Allora le sue mani, ricascate sulle lenzuola, cominciarono un continuo movimento, regolare e lento, come se volesse raccogliere qualcosa. La moglie, anch’essa in lacrime, balbettava: – Ma no, non è nulla. Una crisi, domani starai meglio; ieri ti sei affaticato andando fuori in carrozza. Il respiro di Forestier era più precipitoso di quello d’un cane che abbia fatto una corsa, non lo si sarebbe potuto contare, e così debole che lo si udiva appena.
Continuava a ripetere: – Non voglio morire! Oh! mio Dio! … mio Dio … mio Dio … cosa sarà di me? Non vedrò più nulla … più nulla … mai … Oh! mio Dio! Guardava davanti a sé qualcosa d’invisibile agli altri e di tremendo, di cui i suoi occhi rispecchiavano l’orrore. Le sue mani continuavano il gesto accasciante e spaventoso. Venne colto all’improvviso da un fremito che lo percorse per tutto il corpo e mormorò: – Il cimitero … per me … mio Dio! …
Non parlò più. Rimase immobile, ansimando con gli occhi sbarrati. Il tempo passava; suonò mezzogiorno all’orologio d’un vicino convento. Duroy lasciò la camera per andare a mangiare qualcosa. Tornò un’ora dopo. La signora Forestier non volle prendere nulla, il malato non si era mosso. Strascicava continuamente le dita scarne sul lenzuolo come per portarselo sul volto.
La giovane signora stava seduta in una poltrona ai piedi del letto. Duroy si sedette accanto a lei, e attesero in silenzio. Il medico aveva mandato un’infermiera che sonnecchiava presso la finestra. Duroy stava forse per assopirsi anche lui, quando ebbe la sensazione che stesse per accadere qualcosa. Aprì gli occhi proprio in tempo per vedere quelli di Forestier che si chiudevano come due luci che si spengano. Un leggero singulto sollevò il petto del morente, e due fili di sangue gli uscirono dagli angoli della bocca e colarono sulla camicia. Le mani avevano terminato l’orrenda passeggiata. Aveva finito di respirare.
La moglie capì e, lanciando una specie di grido, cadde sulle ginocchia singhiozzando sulle lenzuola. Georges, sorpreso ed atterrito, si fece macchinalmente il segno della croce. L’infermiera, svegliatasi, si avvicinò al letto e disse: – È fatta.
Duroy, che stava riacquistando il sangue freddo, mormorò con un sospiro di sollievo: – Ci è voluto meno di quanto credessi.
Passati i primi istanti di sbalordimento, dopo le prime lacrime, si diedero da fare per tutte le cose che un morto richiede. Duroy andò da una parte all’altra per tutta la giornata. Tornò a casa la sera, che aveva molta fame. La signora mangio qualcosa; quindi tornarono nella camera ardente per vegliare il defunto. Due candele ardevano sul tavolino da notte accanto ad un piatto in cui era immerso nell’acqua benedetta un ramoscello di mimosa in mancanza del bosso introvabile. Loro due soli, il giovanotto e la moglie, vicino a lui che non era più. …Ma Georges, oppresso dalla semioscurità che circondava il cadavere, considerava quello ostinatamente. Il suo sguardo e la sua mente attratti, ammaliati, da quel viso scarno che la luce vacillante delle candele faceva parere anche più incavato, non potevano staccarsene. Quello era l’amico suo, Charles Forestier, che ancora ieri gli parlava? Che cosa strana e spaventosa la fine completa di una creatura! Oh! se le rammentava, adesso, le parole di Norberto di Varenne, assillato dal pensiero della morte. «Mai che uno ritorni. Nasceranno milioni e miliardi di uomini simili, con occhi, bocca, naso, cranio con dentro il pensiero, senza che ricompaia mai più quello che ora giace in questo letto. Per qualche anno ha vissuto, mangiato, riso, amato, sperato, come tutti gli altri. E tutto è finito, per lui, finito per sempre. Si nasce, si cresce, si è felici, si aspetta, poi si muore. Addio! Uomo o donna, tu non ritornerai più su questa terra! E tuttavia ognuno porta in sé il desiderio febbrile ed irrealizzabile dell’eternità, ognuno è un universo nell’universo, ed ognuno ritorna nel semenzaio di germi per il futuro. Le piante, gli animali, gli uomini, le stelle, i mondi, tutto prende vita, poi muore per trasformarsi. E nulla ritorna, insetto, uomo o pianeta». … Un imprecisato terrore, immenso, schiacciante, gravava sull’animo di Duroy, il terrore del nulla senza confini, inevitabile, che distrugge indefinitivamente ogni esistenza, di per sé già breve e miseranda. Cominciava a piegare la fronte sotto quella minaccia. Pensava alle mosche che hanno poche ore di vita, alle bestie che hanno pochi giorni, alle persone che hanno pochi anni, alle terre che hanno pochi secoli. Quale differenza tra gli uni e gli altri? Qualche aurora di più, e basta.
Volse lo sguardo altrove per non incontrare più il cadavere. La signora Forestier pareva anch’essa immersa in pensieri dolorosi. I suoi capelli biondi erano così belli sul suo volto triste che egli sentì nel cuore un leggero balsamo di speranza. Perché disperare avendo ancora tanti anni davanti a sé? E si mise a guardarla. Ella era assorta nella meditazione e non lo vedeva. Egli pensava: «C’è una sola cosa bella nella vita: l’amore! stringere tra le braccia una persona amata! Lì sta il limite della felicità umana».
Quale fortuna aveva avuto, il morto, incontrando una compagna tanto bella e intelligente! Come si erano conosciuti? Come mai ella aveva potuto accettare quale marito quel giovane mediocre e povero? Come aveva potuto farlo emergere? Allora pensò ai misteri nascosti della vita d’ognuno. Gli tornarono in mente le voci sul conto di Vaudrec che l’avrebbe dotata e fatta sposare. E lei, adesso, cosa avrebbe fatto? Chi avrebbe sposato? Un deputato, come diceva la signora de Marelle, o un qualche promettente giovanotto, un Forestier d’un ordine superiore? Aveva già qualcosa in mente, aveva fatto progetti, un piano? Ma perché si stava preoccupando di ciò ch’ella avrebbe fatto? Si pose questa domanda, e si accorse che la sua inquieta curiosità derivava da una sua idea sottintesa e segreta, ancora imprecisata, una di quelle idee che nascondiamo a noi stessi e che troviamo soltanto scavando nell’intimo dei nostri pensieri. …
Per conoscere quale idea, sottintesa e segreta, si nasconde nella mente di Georges Duroy bisogna continuare a leggere questo romanzo, intanto nelle pagine che abbiamo letto si può cogliere l’influenza di Montaigne, di Pascal e anche di Ovidio della “sapienza poetica ellenistica”.
E adesso è l’ora che noi torniamo ad osservare il paesaggio intellettuale che abbiamo dinanzi: sul versante opposto a quello in cui abbiamo incontrato Apollonio Rodio troviamo Callimaco di Cirene e, da come ci guarda, capiamo subito che è molto innervosito perché, secondo lui, di Apollonio abbiamo parlato troppo. Apollonio Rodio è stato il discepolo prediletto di Callimaco di Cirene nella sua Scuola di grammatica adiacente alla Biblioteca e collocata nei locali del Museo di Alessandria. Però ad un certo punto Callimaco di Cirene è entrato in polemica con il suo discepolo prediletto quando costui, dopo essersi specializzato sulle opere di Omero, ha cominciato ad avere le sue idee in fatto di Letteratura.
Callimaco invece ha sempre sostenuto ed insegnato che i poemi epici di tipo omerico non hanno più alcuna ragion d’essere in un periodo nuovo come quello dell’Ellenismo dove si affermano la scienza e l’erudizione. Callimaco, per farsi capire, usa un enunciato significativo per etichettare i voluminosi poemi epici del passato: «grosso libro, grosso danno» e, con questo, vuole sostenere il suo modello letterario, quello della breve composizioni, gli epilli, poemetti di soggetto preferibilmente idillico, secondo lo stile di Esiodo. Sappiamo che Callimaco non riesce a far cambiare idea al suo discepolo ed entra in aperta competizione con lui scrivendo anche un poemetto polemico intitolato Ibis (l’uccello egiziano che distrugge i rettili, che mangia le vipere e altre porcherie) contro Apollonio il quale, deriso dai suoi concittadini che preferiscono riconoscere l’autorità di Callimaco, è costretto, come già sappiamo, ad andare in esilio a Rodi dove – prendendosi la rivincita su Callimaco – si farà onore.
Ma chi è Callimaco di Cirene e quali sono le sue opere che lo hanno reso celebre e importante nella Storia della Letteratura e del Pensiero Umano? Callimaco (310-240 a.C.) è stato sempre considerato il più famoso e il più importante dei poeti alessandrini. Callimaco è nato a Cirene, ed è soprannominato il Battìade, perché discendente dal mitico personaggio di Battos che, secondo la leggenda, è stato il fondatore della città di Cirene.
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Cirene è un’antica città della Cirenaica Settentrionale (oggi in territorio libico) che è stata fondata dai Dori nel VII secolo a.C. e per alcuni secoli è stata una città indipendente governata da un proprio re… Cirene è stata occupata da Alessandro Magno nel 331 a.C. e poi, dopo la morte del condottiero Macedone è passata, in periodo ellenistico, sotto il controllo dei Tolomei ed è in questo momento che ha avuto il suo massimo splendore…
Dell’elegante città ellenistica di Cirene, oltre ai resti del vasto quartiere dell’agorà, rimangono le vestigia di molti templi: quello di Apollo, di Zeus, di Artemide, di Ade, di Iside, di Persefone, di Ècate… Negli scavi delle terme è stata trovata la celebre statua della Venere di Cirene (detta Anadiomene)…
Con l’ausilio dell’enciclopedia, di una guida della Libia o della rete, fate una visita all’importante città ellenistica di Cirene…
Una delle componenti – e lo abbiamo sottolineato più di una volta – che le nuove Scuole filosofiche ellenistiche (che prossimamente, strada facendo, visiteremo, e di cui studieremo i programmi) hanno in comune è l’attenzione verso il fenomeno letterario. Nel periodo precedente (di Platone e di Aristotele) si usa la scrittura per descrivere e per strutturare il proprio pensiero senza badare alla forma (e questo non pregiudica il fatto che nascano dei veri e propri capolavori come, per esempio, i Dialoghi di Platone o la Metafisica di Aristotele, su cui abbiamo puntatola nostra attenzione lo scorso anno) e, quindi, la scrittura si presenta come un mezzo e si scrive per pensare meglio. Nell’età ellenistica invece si vuole produrre un pensiero in modo da poter realizzare una forma di scrittura erudita, dotta, colta: la scrittura diventa un fine e si studia e si riflette per poter scrivere meglio. Siccome Aristotele, nelle sue opere (i due libri sulla Poetica), ha dettato anche delle regole che riguardano la scrittura è proprio nelle Scuole di impostazione aristotelica che si ha la massima attenzione per il fenomeno letterario.
Callimaco di Cirene va a studiare ad Atene e, insieme al poeta Arato, s’iscrive in una Scuola peripatetica di impostazione aristotelica dove si studiano soprattutto le tecniche della scrittura. Poi Callimaco – come la maggior parte degli intellettuali aristotelici e platonici che si trovano ad Atene – emigra ad Alessandria dove, per le sue competenze, riceve l’incarico di riordinare la Biblioteca e di insegnare nel Museo e, da grammatico, compie un’importante riflessione sul valore dell’arte dello scrivere e sulle forme (sui nuovi generi letterari) che la scrittura assume. Callimaco è uno scrittore eruditissimo e molto produttivo, tanto che a lui sono state attribuite ben 800 opere (tutte perdute): tra queste opere, al primo posto, ce n’era una intitolata Quadri (Pìnakes), in 120 libri. Quest’opera era una specie di enciclopedia bibliografica di tutta la Letteratura greca, divisa per generi: un enorme catalogo ragionato che serviva ad illustrare l’enorme materiale raccolto nella Biblioteca di Alessandria.
Un altro elemento importante che si va formando nell’epoca dell’Ellenismo è lo spirito enciclopedico applicato soprattutto alla ricerca scientifica, astronomica e geografica, e anche questo elemento ha le sue radici nel pensiero e nel metodo di Aristotele. Callimaco di Cirene contribuisce allo sviluppo dello spirito enciclopedico applicandolo alla vasta rete dei racconti mitici e quindi è tra i primi importanti codificatori di quella disciplina che chiamiamo la “mitologia”.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Possedete nella vostra biblioteca domestica un Dizionario mitologico e qualche libro che parla di miti greci o di altre culture?
Scrivete quattro righe in proposito…
Quale di queste parole: la fantasia, l’aspirazione, il desiderio, il timore, oppure quale altra parola, mettereste per prima accanto alla parola “mito”?
Scrivetela…
Callimaco di Cirene è stato anche un poeta esperto in ogni genere di poesia (elegiaca, epica, lirica, epigrammatica) e, per quanto riguarda la poesia epica – come abbiamo detto precedentemente – Callimaco nega la possibilità di far risorgere l’epica di tipo omerico, e pensa sia più utile invece comporre brevi poemetti, o epilli, di soggetto preferibilmente idillico, sullo stile di Esiodo. Mentre Apollonio Rodio – come sappiamo – è uno dei primi studiosi e commentatori delle opere di Omero così Callimaco di Cirene è uno dei primi studiosi e commentatori delle opere di Esiodo. In particolare Callimaco è interessato a studiare un’opera di Esiodo che s’intitola Teogonia: un’opera che, per prima, presenta i miti non tanto come fenomeno liturgico di carattere divino ma come racconti allegorici da interpretare in chiave umana. Callimaco – schierandosi contro Apollonio e contro una certa tradizione – comincia a sostenere che il valore artistico di Esiodo non è inferiore a quello di Omero. L’epica omerica – sostiene Callimaco – è soprattutto opera di fantasia, insaziabile e cosmogonica (investe tanto il mondo vivi come quello dei morti), ed è il frutto dell’inventiva di molti cantori: è “arte per l’arte” e ha certamente i suoi pregi. Ma l’epica di Esiodo – sostiene Callimaco – non è da meno, anzi, è più in linea con i nuovi tempi perché è soprattutto opera di ragione: ragione pratica, umile, realistica, è “arte per la vita”.
Esiodo – secondo Callimaco – è più affine alla situazione di grave crisi sociale, politica ed economica in cui viene a trovarsi l’Ellade in questo momento storico. Dopo la morte di Alessandro si acuisce la crisi inarrestabile delle polis (a cominciare da Atene) e, con la disgregazione dell’impero greco-macedone, si assiste al sopravvento delle monarchie assolute in cui la violenza e la corruzione manomettono inesorabilmente la giustizia (chiudono i tribunali cittadini) e il lavoro (aumenta il numero degli schiavi): tutto questo porta al decadimento dello spirito eroico (e, secondo Callimaco, diventa un fatto anacronistico coltivarlo) e porta all’atrofizzazione delle facoltà fantastiche in nome di una visione più fredda e realistica delle cose che presuppone la creazione di nuove forme poetiche che possano inglobare la riflessione filosofica, la meditazione esistenziale e la narrazione storica. Esiodo – come cantore del popolo che cerca di trarre faticosamente dalla terra e dal mare i propri mezzi di sussistenza – appare a Callimaco come un precursore dell’era post-ellenica e, quindi, ne studia e ne mette in ordine le opere: i poemetti intitolati Le Opere e i giorni e Teogonia.
Adesso quindi è necessario – in quanto precursore dell’Ellenismo – ripassare, molto brevemente, l’opera di Esiodo così come Callimaco di Cirene l’ha posta al centro della sua riflessione nella Scuola alessandrina dove insegna. Noi, ultimamente, abbiamo incontrato Esiodo in compagnia di Erodoto (penso che molte e molti di voi se lo ricorderanno) nell’anno 2006 durante il Percorso sulla sapienza poetica orfica e poi lo abbiamo incontrato anche, brevemente, nell’anno 2007 durante il Percorso sulla sapienza poetica beritica perché lo scrittore ebreo alessandrino del Libro della Sapienza – uno dei libri più famosi del catalogo sapienziale e poetico della Bibbia (e lo abbiamo studiato) – conosce bene e s’ispira alle parole-chiave e alle idee-cardine che caratterizzano le opere di Esiodo: è possibile che questo scrivano ellenistico (che frequenta la Biblioteca di Alessandria) le conosca proprio attraverso il lavoro di ricerca e di interpretazione di Esiodo compiuto da Callimaco di Cirene.
La figura di Esiodo non è, come quella di Omero, avvolta nella leggenda e questo è uno dei motivi per cui tanto Erodoto quanto Callimaco preferiscono Esiodo: Omero è il simbolo di un mondo fantastico, Esiodo è un poeta in carne ed ossa capace di sentimenti e di passioni. Callimaco, studiando le opere di Esiodo, mette in evidenza importanti particolari biografici: Esiodo è nato nel VII secolo a.C. ad Ascra, un piccolo villaggio della Beozia posto ai piedi del monte Elicona che è uno dei monti sacri alle Muse. È sempre un’esperienza interessante fare o rifare un viaggio in questi luoghi dell’Ellade…
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Con l’atlante, l’enciclopedia, la guida della Grecia e la rete potete fare un breve viaggio nella regione della Beozia visitando tre posti significativi: per prima la cittadina di Livadiá, che è il capoluogo della Beozia (lì ci sono le Gole dell’Erkinas, sapete di che cosa si tratta?), poi la cittadina di Orhomenós – Orcómeno (a Orcómeno Callimaco ci domanderebbe: sapete chi è Minias e che cos’è il Tesoro di Minias? Fate un piccola ricerca) e infine di Herónia - Cheronea (e sapete che qui è nato un famoso personaggio, lo scrittore Plutarco di Cheronea: quando è nato?)…
Buon viaggio, buona ricerca e, se trovate delle risposte, scrivetele: bastano quattro righe…
Callimaco, studiando le opere di Esiodo, capisce che suo padre ha vissuto per lungo tempo in Asia Minore (probabilmente nella città di Cuma) e si è dedicato al commercio marittimo, ma gli affari non devono essergli andati molto bene, deve aver fatto fallimento e, di conseguenza, è tornato in Beozia per dedicarsi all’agricoltura e alla pastorizia. Esiodo, nella sua opera intitolata Teogonia, scrive: «Da bambino ho pascolato il gregge sul monte sacro alle Muse e le Muse mi sono apparse e mi hanno insegnato il bel canto». Quest’affermazione è un’allegoria per dire che ha frequentato una Scuola di sapienza poetica orfica per cantori: ha frequentato un Museo (la casa delle Muse), sul modello della Scuola di Saffo che ha avuto una vasta diffusione in tutta l’Ellade.
Poi è stato proprio Callimaco di Cirene a mettere in evidenza, per primo, il fatto che Esiodo ha avuto un fratello, Perse, il quale era uno scioperato, uno scialacquatore, un furbo, un avventuriero, un profittatore: infatti, alla morte del loro padre, cerca di far propria tutta l’eredità a scapito di Esiodo corrompendo anche i giudici.
Gli eroi di Omero sono frutto della fantasia, gli avventurieri, invece, – come il personaggio di Perse – esistono davvero nella realtà e bisogna guardarsene: Esiodo, per primo, descrive in modo molto realistico la figura del profittatore, senza talento e senza scrupoli, che diventa un significativo modello letterario dall’Ellenismo in poi. Esiodo, a questo proposito, scrive una serie di esortazioni morali rivolte al fratello Perse che costituiscono il contenuto dell’opera intitolata Le Opere e i Giorni.
Le Opere e i Giorni è un poemetto – e questo genere letterario interessa molto a Callimaco di Cirene – indirizzato da Esiodo al fratello Perse, formato da 828 esametri e scritto in lingua ionica antica: la stessa lingua di Omero usata non in modo epico ma in modo realistico. Quest’opera – nel testo della quale troviamo alcune parole-chiave fondamentali della Storia del Pensiero Umano – si può dividere in quattro parti: le esortazioni al lavoro, i precetti sull’agricoltura e sulla navigazione, i precetti morali e il calendario dei giorni fasti e nefasti, dei giorni propizi per seminare, per potare, per raccogliere: Il Sesto Caio Baccelli è l’erede di quest’opera.
In questo poemetto c’è un filo conduttore, c’è un motivo fondamentale (condiviso tanto da Erodoto quanto da Callimaco di Cirene): sulla terra, nel mondo, c’è il dolore (lύph-lúpe) e tutti gli esseri umani devono fare i conti con questa realtà. Secondo Esiodo gli esseri umani sono chiamati a misurarsi prima di tutto con il dolore (lúpe) piuttosto che con l’onore (timé), e gli esseri umani non sono eroi ma possono attenuare il dolore – scrive Esiodo – attraverso due atteggiamenti fondamentali: impegnandosi nel lavoro (érgon) e battendosi per la giustizia (díke).
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Quale parola vi fa venire in mente il fatto che è doveroso impegnarsi sul lavoro?… E quale parola vi fa venire in mente il fatto che è necessario battersi per la giustizia?…
Scrivete due parole in proposito…
Nel testo del poemetto Le Opere e i Giorni troviamo la “favola del nibbio e dell’usignolo” che è considerato il primo esempio di favola nella letteratura greca. In questa favola l’uccello rapace aggredisce e uccide l’usignolo semplicemente perché è il più forte e usa i suoi artigli per fare il proprio interesse senza tener conto del valore sociale che ha la bella voce dell’usignolo che delizia disinteressatamente tutte le persone che lo ascoltano cantare. Con questa favola lo scrittore vuole condannare la violenza e l’ingiustizia per affermare che solo la virtù (areté) – ed è virtuosa la persona che si guadagna da vivere con il proprio lavoro – può rendere felici.
La seconda opera importante di Esiodo – che interessa particolarmente a Callimaco di Cirene – s’intitola Teogonia ed è un poemetto in 1022 esametri, un trattato mitologico, il più importante trattato di mitologia antica che ci sia rimasto: quest’opera è soprattutto un dizionario di nomi sul quale gli studiosi – a cominciare da Callimaco nella sua Scuola in Alessandria – hanno potuto estendere le loro ricerche sul senso, sul valore e sul significato del “mito”.
Esiodo è lo scrittore che mette in scena la figura di Prometeo, e Prometeo è probabilmente il personaggio tra i più universali del mytos greco: un modello che continuerà, e che continua a riprodursi nella Storia della Letteratura. Esiodo, in concomitanza con il personaggio di Prometeo, nella Teogonia sviluppa il primo racconto complesso e articolato sul tema delle origini.
Nell’epica eroica di Omero non si parla del tema delle origini (gli eroi sono eterni), Esiodo, da persona mortale, si pone questo significativo tema esistenziale.
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Il completamento della frase: «Io sono di origini …» dà inizio alla composizione di quattro righe di autobiografia, scrivetele…
Che cosa narra il primo racconto sulle origini che ci tramanda Esiodo e perché dobbiamo ancora raccontarlo a grandi linee? Prometeo – scrive Esiodo nella Teogonia – è il creatore del genere umano e, d’accordo con Zeus, crea l’uomo formandolo con l’argilla. Prometeo è il demiurgo, è il vasaio, è l’artigiano primordiale, e questo racconto ricorre spesso nelle narrazioni che hanno per tema la “creazione” (dall’Epopea di Gilgamesh al Libro della Genesi ai Dialoghi di Platone). Ma Zeus vuole la razza umana del tutto sottomessa, schiava, priva di genio inventivo, mentre il titano Prometeo disobbedisce al dio e dona agli esseri umani il fuoco (dona lo spirito, dona l’anima), cioè il germe, la scintilla della conoscenza. Prometeo ruba la scintilla del fuoco della conoscenza dal carro del Sole e la porta in terra.
Allora Zeus, per riassoggettare gli uomini, crea Pandora, la prima donna: è bella, è avvenente, è seducente ma è maligna e traditrice (povere donne, non c’è cultura che non le veda e non le senta così, le prime donne!). Pandora possiede il vaso contenente tutti i mali che devono servire per contaminare la terra e indebolire gli uomini e Prometeo diffida di lei, diffida di quel modello (questo modello di donna, per lui, non è la “donna”), e non si lascia convincere: sarà suo fratello – il bonaccione Epimeteo – a farsi subito conquistare da Pandora e a cadere in tentazione aprendo il famoso vaso fatale di Pandora. Al genere umano resta solo la speranza (élpis) che si trova nel vaso insieme a tutti i mali.
Per aver ragione del ribelle Prometeo Zeus deve usare la violenza e, per punirlo, lo fa incatenare ad una roccia sul Caucaso dove, quotidianamente, un avvoltoio gli rode il fegato. Ma anche da prigioniero Prometeo non si piega e Zeus lo teme perché sa che lui conosce un segreto, un vaticinio che riguarda il destino del dio supremo: sa che Zeus è minacciato dalla nascita di un figlio futuro e Zeus vorrebbe sapere il quando, il come e il perché di questa faccenda che insidia la sua esistenza, e quindi gli promette la liberazione in cambio della rivelazione di tutti i particolari di questo vaticinio delle Parche che insidia l’esistenza di Zeus.
Ma Prometeo non vuole tanto la salvezza e la liberazione per sé, la vuole e la chiede per l’Umanità: chiede, per il Genere umano, la liberazione dall’ignoranza: che è il male peggiore. Prometeo rivela a Zeus il segreto che lui non conosce: ma come (ci domandiamo), Zeus, il re degli dèi, non conosce neppure le cose che lo riguardano da vicino? Zeus non è né onnisciente, né onnipotente ma piuttosto un ignorante prepotente. Zeus – conosciuto il misterioso vaticinio – libera Prometeo (lo fa liberare da Ercole) però, poi, non mantiene (come tutti prepotenti) la promessa di liberare l’Umanità dall’ignoranza, e lo scontro continuerà e continua tutt’ora.
Ma Zeus avrebbe le possibilità di liberare l’Umanità dall’ignoranza, visto che il primo ad essere ignorante è proprio lui? Prometeo è più sapiente di Zeus perché rappresenta il simbolo del valore della sapienza, della conoscenza. L’opera di Esiodo fa l’inventario degli dèi per archiviarli come fenomeni religiosi. La figura di Prometeo rappresenta il fatto che l’essere umano può trasformare il mondo con la conoscenza, simboleggiata dal fuoco, e questo indipendentemente dal volere di Zeus, il quale pretende che nulla cambi per mantenere il suo potere fondato sull’ignoranza.
Perché abbiamo ripercorso a grandi linee il pensiero di Esiodo? Lo abbiamo ripassato (a grandi linee) per dire anche che Calliamaco di Cirene – insieme a tutte e a tutti gli intellettuali ellenistici, anche se su posizioni differenti – condivide in pieno la denuncia contro l’ignoranza che emerge dalle opere di Esiodo. E nelle opere di Esiodo – il precursore più antico dell’Ellenismo – Callimaco trova l’impulso necessario per costruire, attraverso la Scuola di grammatica dove insegna, il suo programma di diffusione dell’erudizione, della conoscenza, della cultura. Callimaco di Cirene ritiene che la scrittrice e lo scrittore debba essere esperto in ogni genere di poesia: elegiaca, epica, lirica, epigrammatica.
Di Callimaco di Cirene ci sono rimasti solo i frammenti di una serie di opere, tuttavia questi “brandelli poetici” sono stati sempre considerati molto importanti nel quadro della sapienza poetica ellenistica anche perché questa forma frammentaria ha spronato molti poeti ellenistici successivi a compiere operazioni di ricerca e di ricomposizione.
Questa sera, per concludere, ci occupiamo solo di un testo perché ormai ci manca il tempo per conoscere il catalogo di ciò che resta delle opere di Callimaco di Cirene: riprenderemo il filo del discorso la prossima settimana.
Callimaco – come sappiamo – ha scritto un poemetto elegiaco intitolato Ibis, contro Apollonio Rodio che, con le sue Argonautiche, vorrebbe superare il maestro. Il testo dell’Ibis di Callimaco, che viene spesso citato da molti autori nelle loro opere, è però andato perduto: è un’opera fantasma (una delle tante, purtroppo). Sappiamo che Callimaco chiama Apollonio con l’ingiurioso nome di Ibis perché questo uccello (è una metafora) si ciba di tutto, anche di ogni porcheria, anche di sterco. Il testo di questo poemetto si presentava, ancora una volta, come un esercizio di ricerca sapienziale ed era formato da un lungo inventario di maledizioni, di imprecazioni e d’invettive tratte dalla vasta rete dei racconti mitologici: Callimaco non odia Apollonio (ha delle forti divergenze con lui ma, in fondo, lo stima: è stato il suo discepolo prediletto e se ragiona con la sua testa è anche merito del maestro) ma tuttavia coglie l’occasione per sommergerlo con la sua enorme (in questo caso “pesante”) erudizione.
Nella ricostruzione di quest’opera possiamo contare sull’aiuto di un nostro abituale compagno di viaggio Publio Ovidio Nasone (44 a.C.-17 d.C.) perché ha scritto, con lo stesso titolo, Ibis, un poemetto satirico contro una persona molto potente che non nomina la quale, a Roma, continua a perseguitarlo. Ovidio scrive questa satira a Tomi (molte e molti di voi sono ben informati su Ovidio): Tomi è (era allora) una località sperduta nei pressi dell’odierna città rumena di Costanza sulla costa del Mar Nero non lontana dalla foce del Danubio, il grande fiume che fa da confine orientale tra l’impero romano e il territorio abitato dalle tribù del Geti, detti anche Daci. Ovidio è stato spedito in esilio da Augusto perché l’imperatore è geloso del suo successo, ed è diffidente nei confronti delle sue opere: il poeta, infatti, con i suoi versi mitologici non compie solo un esercizio di erudizione in perfetto stile ellenistico, ma, con grande capacità allusiva, ironizza sul potere del monarca assoluto il quale vorrebbe cristallizzare, vorrebbe imbalsamare ogni cosa (compreso il suo corpo in via di divinizzazione) mentre tutto è destinato a trasformarsi e questo è il senso di quest’opera straordinaria intitolata Le metamorfosi.
Ovidio – che non tornerà più a Roma, ma morirà in esilio – per comporre il suo poemetto satirico intitolato Ibis ha certamente mutuato da Callimaco non solo il titolo ma ne ha anche preso a modello il genere e si pensa abbia anche imitato le imprecazioni stesse del maestro alessandrino. Però, mentre per Callimaco la litania di maledizioni invocate sulla testa del malcapitato Apollonio è soprattutto un gioco della fantasia alla ricerca di nuovi artifici stilistici, per Ovidio, invece, oltre alla consolazione che dà la scrittura creativa, c’è anche l’esplosione di un odio profondo contro chi l’ha esiliato: ma, nonostante le maledizioni, Augusto morirà nel suo letto.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Però si presume che Ovidio, nella condizione dell’esilio, abbia anche – nonostante la sofferenza – imparato molte cose (è venuto a contatto con una cultura diversa che non conosceva) come si può leggere nel bel romanzo intitolato Dio è nato in esilio scritto dall’antichista rumeno, emigrato a Parigi, Vintila Horia…
La Scuola consiglia di leggere (o di rileggere perché molte e molti di voi lo hanno già letto) questo significativo romanzo di pregevole fattura ellenistica: lo si trova in biblioteca…
E ora leggiamo alcuni frammenti dall’Ibis di Publio Ovidio Nasone in modo da farci un’idea di come si configurasse l’opera omonima di Callimaco di Cirene: si tratta di Invettive, con la I maiuscola, perché sono sostenute da una notevole erudizione di carattere mitologico, ed è un esempio di come l’invettiva possa diventare “opera d’Arte”.
LEGERE MULTUM….
Publio Ovidio Nasone, Ibis
Che Acheloo,
il dio fluviale, figlio di Oceano e Teti, barbuto e con corna taurine,
prima che Eracle, lottando con lui per conquistar Deianira, lo vinca ed un corno
gli spezzi, generando dalle gocce del sangue perduto le sirene dalla voce soave,
che Acheloo ti faccia annegare nel fiume Acheronte.
Che il traghettatore Caronte non ti possa salvare e la tua anima non possa entrare
nella casa dell’Ade ma resti a vagare in eterno, disperata, sui bordi
dell’Abisso infernale e neppure l’Eleusina Persefone, prima donatrice del grano
al genere umano, che muore e rinasce ogni anno, ti possa venire in aiuto.
Che Acheloo ti faccia annegare nel fiume Acheronte.
Che Afrodite,
la dèa dell’amore, nata dalla schiuma del mare fecondata da Urano,
ti possa giocare uno scherzo fatale: ti possa invitare suadente al suo talamo
e poi, giunto voglioso, te lo faccia trovare occupato dai figli suoi
generati con Ares: Phobos (la paura) e Deimos (il terrore). Che tu non possa risultare simpatico
né all’uno né all’altro e ti rincorrano per quel che ti resta da vivere e, sempre angosciato,
tu debba fuggire senza trovare riparo sicuro perché il panico
è il male più oscuro. Che tu possa essere abbandonato dalla ninfa Driope,
che tu invocherai invano, così come ella ha abbandonato Pan, dopo averlo partorito,
inorridita dal suo aspetto ferino. Che Afrodite ti possa giocare uno scherzo fatale.
Che Febo Apollo,
figlio di Zeus e di Latona, dio della luce, della musica e della profezia, guaritore,
patrono della medicina e padre di Asclepio, ma anche spietato uccisore.
Che Febo Apollo ti possa colpire con la sua freccia mortale.
Pensa che farai la fine di Achille, dal piede veloce, se ti può consolare!
Sappi che tu assomigli molto ad uno dei figli di Niobe e, nelle tue smorfie
ci sono i tratti del serpente Pitone. Non ha mai fallito un colpo l’arciere divino.
Che Febo Apollo ti possa colpire con la sua freccia mortale. …
Oggi gli insulti, le maledizioni, gli improperi, le invettive vengono sintetizzati in atteggiamenti banali: si alza un dito (il medio) o al massimo due (l’indice e il mignolo) e questa è roba da ignoranti e la società dell’ignoranza ci circonda anche per quanto riguarda le invettive. La cultura ellenistica, anche in questo caso, mostra tutta la sua superiorità: la maledizione, l’insulto, l’invettiva, cessa di essere fine a se stessa e diventa un esercizio erudito.
Dobbiamo ulteriormente riflettere sul termine “erudizione” seguendo l’indicazione che ci dà Marco Tullio Cicerone (e lo incontreremo a suo tempo) in una delle sue Lettere:
LEGERE MULTUM….
Marco Tullio Cicerone, Lettere
… Mi chiedi che senso abbia la vita, ebbene, noi propriamente viviamo nel momento in cui dedichiamo il nostro tempo a coltivare la nostra erudizione, e questo non per vantarci di sapere tante cose e neppure per avvantaggiarci nella carriera, ma per dare valore all’esistenza quotidiana. Sappi che anche quando dobbiamo lanciare un’ingiuria è bene sia ammantata dall’erudizione: sostenuta da una saggia citazione e da un’allegoria che faccia riflettere il destinatario. …
Apollonio Rodio, Callimaco di Cirene, Publio Ovidio Nasone devono fare ricerca, devono studiare la mitologia per comporre i loro versi ingiuriosi: altrimenti le maledizioni non hanno nessuna efficacia: di quale efficacia stiamo parlando? Le maledizioni non attaccano: l’efficacia che possono avere per chi, riflettendo e studiando, le compone è di carattere intellettuale perché la conduzione, anche in questo caso, di un’indagine in campo mitologico favorisce non solo la conoscenza di tanti racconti leggendari ma soprattutto promuove l’incontro con le allegorie, con le metafore e quindi stimola l’esercizio dell’interpretazione dei significati, che è un esercizio fondamentale in funzione della didattica della lettura e della scrittura.
Dovremmo esercitarci anche noi a lanciare maledizioni, improperi, invettive in funzione della nostra crescita culturale? Noi che siamo concittadini di Dante sappiamo che “l’invettiva” è un vero e proprio genere letterario e possiamo dire che l’autore della Divina Commedia ha imparato bene la lezione degli Ellenisti.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
…Memori dell’esempio dei frammenti che abbiamo letto tratti dal poemetto Ibis di Publio Ovidio Nasone che ha seguito la scia della perduta opera omonima di Callimaco di Cirene, provate anche voi – utilizzando un Dizionario dei miti (se non lo possedete lo trovate in biblioteca) – a scrivere alcune invettive di carattere erudito giocando con i personaggi e con le allegorie della mitologia, seguiamo il consiglio di Cicerone: «Sappi che anche quando dobbiamo lanciare un’ingiuria è bene sia ammantata dall’erudizione»…
La prossima settimana saremo sempre di fronte a questo vasto paesaggio intellettuale e ci occuperemo ancora delle opere di Callimaco di Cirene. Il testo più celebre di Callimaco di Cirene – per quel che ne rimane – è il poemetto in distici elegiaci intitolato La Chioma di Berenice che fa parte del IV Libro di un’opera che s’intitola Cause (Aitia). Sappiamo che La Chioma di Berenice è anche una costellazione che ci guarda dall’alto dei cieli e a noi appare (a sud-est dell’Orsa Maggiore) come una piccola costellazione anche se in essa si trovano diverse galassie. E così il nostro paesaggio intellettuale arriva ad estendersi anche in cielo e questo viaggio continua sulla terra ma con lo sguardo rivolto al firmamento: un firmamento – così come noi oggi lo vediamo – che è andato configurandosi proprio nel periodo dell’Ellenismo.
Nel prossimo itinerario – il penultimo dell’anno 2009 (e così abbiamo già cavalcato anche il primo decennio del nuovo millennio) – noi non osserveremo ancora da vicino La Chioma di Berenice (intesa come opera di Callimaco di Cirene): studieremo tra quindici giorni ciò che resta di questo poemetto in distici elegiaci.
E poi, a proposito di firmamento, sappiamo che anche la Stella cometa – quella descritta nel testo del Vangelo secondo Matteo (e che fa bella mostra di sé nel presepio) – si è messa in movimento: siamo in tempo di Avvento, e non si dica che il nostro Percorso non rispetta l’anno liturgico! Bisogna dire che l’anno liturgico, disegnato dalla Letteratura dei Vangeli, è un prodotto culturale dell’Ellenismo e l’idea dell’Avvento, in particolare, è legata al concetto del “mettersi in cammino sulla strada della conoscenza”!
Ragion per cui il viaggio continua, la Scuola è qui per proporre un’esperienza di studio e per invitare alla riflessione…