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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA C’È IL “GIARDINO” (O L’ORTO) DOVE SI COLTIVA L’AMICIZIA ...

Lezione N.: 
12

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sapienza poetica ellenistica  13-14-15  gennaio  2010

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA  C’È  IL “GIARDINO”

(O L’ORTO) DOVE SI COLTIVA L’AMICIZIA ...

     Ben tornate e ben tornati a Scuola: buon anno a tutte e a tutti voi!

     Il nostro Percorso sul territorio della sapienza poetica ellenistica riprende il suo cammino. Nella prima parte, nella parte autunnale del nostro viaggio, sono stati molti i temi culturali che abbiamo affrontato ponendoci di fronte ad una serie di paesaggi intellettuali che abbiamo incontrato strada facendo, e molte sono state le riflessioni che abbiamo fatto in funzione della didattica della lettura e della scrittura.

     Come abbiamo annunciato prima della vacanza natalizia questa sera ci troviamo ad Atene: dopo aver trascorso l’autunno soprattutto ad Alessandria siamo tornati nell’Ellade. Sappiamo già che Atene – con l’affermazione delle capitali dell’Ellenismo (Alessandria, Antiochia, Pergamo) – ha perso parte del suo prestigio e in questa città rimane soltanto una parvenza dell’Accademia di Platone e del Liceo di Aristotele ma sappiamo (come abbiamo detto più di una volta) che, in questa fase di crisi, sorgono però, in sordina, altre Scuole.

     Queste Scuole si presentano libere da vincoli nei confronti dell’Accademia platonica e del Liceo aristotelico e propongono, in chiave ellenistica, nuovi modelli e nuove dottrine di vita: propongono in modo nuovo – rispetto al pensiero di Platone e di Aristotele – i temi dell’etica e della politica che continuano a rimanere, tuttavia, i più importanti.

     Queste nuove Scuole filosofiche, che nascono e fioriscono durante il periodo ellenistico, presentano, nonostante le loro diverse prospettive e la loro accanita rivalità, alcuni tratti comuni di cui abbiamo già parlato lasciando poi in sospeso l’argomento perché siamo state attratte e siamo stati attratti da un paesaggio intellettuale dove facevano bella mostra di sé la poesia epica e la poesia elegiaca: due generi letterari che non potevamo non prendere in considerazione.

     Nelle nuove Scuole ellenistiche si sviluppano tendenze di carattere individualistico rispetto alla filosofia precedente: il pensiero di Platone e di Aristotele (che abbiamo studiato nell’anno 2008-2009), guardava prima di tutto alle esigenze della comunità. Nasce quindi, in queste nuove Scuole ellenistiche, un forte interesse per la vita del singolo individuo, della singola persona, e per le sue difficoltà materiali e spirituali. Nelle nuove Scuole ellenistiche matura una riflessione che tende a delineare non tanto la figura della cittadina e del cittadino quanto piuttosto la figura della persona saggia perché i legami degli individui con la polis diventano sempre più tenui, quindi la persona deve imparare ad essere saggia non per partecipare al governo della polis, ormai ingovernabile (il divario tra cittadini e Istituzioni è diventato oramai  incolmabile), ma la persona deve acquisire saggezza per saper amministrare bene il proprio corpo e il proprio spirito, il proprio cuore e il proprio intelletto.

     Il fenomeno delle nuove Scuole ellenistiche coinvolge anche la contemporanea produzione letteraria (e, come abbiamo già ricordato, nelle ultime settimane dell’anno 2009, ad Alessandria, abbiamo incontrato due grandi personaggi della Storia della Letteratura: Apollonio Rodio e Callimaco di Cirene che hanno attirato la nostra attenzione): nascono, quindi, nuove opere, si creano nuovi generi letterari e comincia a prendere corpo anche il genere del romanzo il quale, come sappiamo, mette in evidenza l’emergenza delle passioni individuali, e questa è una caratteristica significativa dell’età ellenistica che investe anche i programmi delle nuove Scuole. In che senso? Le nuove Scuole ellenistiche diventano il luogo dove ci si pone una domanda fondamentale: di fronte alla novità dell’emergenza delle passioni la persona come deve agire? Le passioni possono galoppare libere da vincoli di sorta oppure è necessario mettere loro le briglie per poterne governare il corso? Per rispondere a queste domande dobbiamo far visita alle nuove Scuole ellenistiche ed è questo che faremo.

     C’è un concetto che caratterizza le nuove Scuole ellenistiche ed è il concetto di individualismointeso come momento di assunzione di responsabilità della singola persona di fronte alla crisi morale e civile della società, di fronte alla latitanza delle Istituzioni. Quindi nell’Ellenismo il termine individualismonon rappresenta un concetto negativo perché nasce in alternativa a quella che è stata chiamata la egolatria(ego significa io) che descrive il potere del monarca assoluto che pretende di essere idolatrato da tutti come un’entità superiore che ingloba in se stessa tutta la società, mentre il pensiero ellenista ribadisce il fatto che il tessuto sociale è formato da singoli individui i quali hanno tutti gli stessi diritti e gli stessi doveri.

     E allora, quali sono queste nuove Scuole che vengono fondate ad Atene e di cui abbiamo elencato i tratti comuni? E l’eredità di Platone (dei Dialoghi) e di Aristotele (della Fisica, della Metafisica e dell’Etica) quanto incide ancora su queste nuove Scuole che, apparentemente, sembrano farne a meno?

     Per studiare il pensiero del fondatore della prima Scuola ellenistica che incontriamo questa sera dobbiamo – come abbiamo preannunciato prima della vacanza – entrare in un Giardino. In questo Giardino – un piccolo modesto giardino, sebbene ben curato – ci attende un personaggio molto significativo della Storia del Pensiero Umano: Epicuro di Atene o di Samo.

     Chi non ha mai sentito parlare di Epicuro? Diciamo subito che la maggior parte delle persone che lo sentono nominare pensano a qualcosa che è ben diverso da ciò che Epicuro ha detto e ha fatto perché una cattiva tradizione – così come succede per Platone e per l’aggettivo platonico– ha fatto in modo che il pensiero di questo importante personaggio sia stato travisato e quindi il compito primario di un Percorso di didattica della lettura e della scrittura è quello di fare chiarezza, di ridurre l’ignoranza in proposito.

     Il temine epicureocontinua comunque ad essere interpretato – e anche i dizionari partecipano a questo gioco – in modo ambiguo: si pensa ad un individuo «che conduce una vita dedita ai piaceri, un sensuale, un crapulone, un gaudente». Chi legge quel che rimane dei testi di Epicuro non trova nulla di tutto questo ma bensì scopre l’immagine di una persona assai morigerata. E questo fatto trova una conferma da parte di uno dei nostri informatori per eccellenza, che incontriamo puntualmente nei nostri Percorsi (e anche lui figlio dell’Ellenismo), Diogene Laerzio, il quale nella sua opera intitolata Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi scrive:

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Diogene Laerzio, Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi

Epicuro in una lettera ad uno dei suoi discepoli scrisse: «Il mio corpo trabocca di dolcezza quando vivo a pane e acqua, e sputo sui piaceri della vita sontuosa, non per loro medesimi, sia chiaro, ma per gli incomodi che essi comportano». In un’altra lettera scrive ad un amico: «Mandami una pentolina di formaggio perché io possa, di tanto in tanto, gozzovigliare».

     Chi è Epicuro di Atene oppure di Samo: che cosa sappiamo di lui? Epicuro è nato nel 341 a.C. sull’isola di Samo e questo fatto ha una sua valenza che necessita di una spiegazione.

     L’isola di Samo è, dopo Rodi, la più grande delle Sporadi meridionali e si trova (e con l’atlante potete osservare la sua posizione) a soli due chilometri dalla costa dell’Anatolia (l’odierna Turchia). Samo è attraversata da una catena montuosa che culmina, a ovest, nel monte Kerketéas che è alto ben 1433 metri. L’isola ha un clima mite e, in inverno, piove spesso, e questo fatto la rende ricca di vegetazione e soprattutto di corsi d’acqua che costituisce l’autentica ricchezza  dell’isola. Il clima, la vegetazione, i buoni vini (il famoso moscato di Samo), le aree archeologiche, le belle spiagge rendono piacevole un soggiorno a Samo.

     Samo, 2500 anni fa, è stato uno dei principali centri della civiltà ionica: il luogo dove, per la prima volta, il movimento della sapienza poetica orfica ha operato una sintesi e ha prodotto un Manifesto culturale. Le idee di questo Manifesto culturale si possono cogliere soprattutto con una visita al Museo archeologico allestito presso il Municipio della cittadina di Sàmos (il capoluogo che porta lo stesso nome dell’isola).

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura

Utilizzando, in particolare, la guida della Grecia potete fare un’escursione sull’isola di Samo per visitare i suoi tre principali centri abitati: Sàmos, Kokàri e Karlovàssi … Dobbiamo ricordare che a Samo non è nato solo Epicuro ma anche l’astronomo Aristarco e soprattutto Pitagora, il matematico che abbiamo incontrato nel Percorso dello scorso anno nello spazio rinascimentale de La Scuola di Atene di Raffaello A questo proposito, sempre con l’ausilio della guida della Grecia, potete anche (mediante l’esercizio della lettura) visitare, sulla costa del sud dell’isola, la pittoresca cittadina di Pithagòrio (che fino al 1955 si chiamava Tigàni): documentatevi perché l’isola di Samo non è un luogo così lontano …

     Abbiamo già detto che Samo, circa 2500 anni fa, è stato il primo centro veramente importante della civiltà ionica. A Samo si è sviluppata la più autorevole Scuola di ingegneria, di scultura e di cesellatura dell’età arcaica. Questa Scuola non ha solo un programma di carattere tecnico, non insegna esclusivamente a costruire oggetti di gran pregio, ma è anche un istituto di carattere teorico che educa a riflettere sul fatto che, per diventare brave artigiane e bravi artigiani, è necessario lo studio e l’esercizio della poesia. La disciplina poetica – secondo il programma della Scuola di Samo – serve per favorire lo sviluppo di una serie di competenze fondamentali: l’acquisizione del senso della proporzione, dell’armonia, dell’euritmia (il senso della misura) e poi per capire meglio i concetti della compiutezza, della completezza e della perfezione (molte e molti di voi ricorderanno che la lingua greca, per definire questi concetti, usa un solo termine: tέleios téleios). Quindi, se le artiste e gli artisti – così come prescrive il Manifesto della Scuola di Samo –, non si fossero applicati nella disciplina poetica non avremmo le statue, i templi, gli edifici e tutti gli oggetti preziosi che la cultura dell’Ellade ci ha lasciato in eredità.

     Dobbiamo ricordare che nel cosiddetto Heráion di Samo (e se consultate la guida della Grecia incontrerete questo famoso monumento): il grande tempio in onore della dèa Héra (la dèa Héra è la sposa di Zeus, andava trattata con il massimo rispetto e noi – qualche anno fa – l’abbiamo conosciuta per la sua gelosia nei confronti di Latona, una fanciulla della quale il marito si era seriamente invaghito). Negli scavi dell’Heráion è stato rinvenuto il capolavoro scultoreo della Scuola di Samo: si tratta di una statua della dèa Héra.

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La cosiddetta Héra di Samo è uno straordinario reperto archeologico ed è conservato al museo del Louvre, a Parigi: avete mai visto questa statua ? … Non è difficile trovarne un’immagine sulla rete, andate alla ricerca …

     Ora possiamo rispondere alla domanda che ci siamo poste, che ci siamo posti sul perché abbia una valenza positiva il fatto che Epicuro sia nato sull’isola di Samo: qui, Epicuro ha potuto respirare fin da bambino un clima culturale, e anche economico, favorevole rispetto ad altri luoghi, compresa Atene che sta vivendo un periodo di crisi che si dimostrerà irreversibile. I genitori di Epicuro – Neocle e Cherestrate – sono ateniesi, provengono dal demo Gargetto, uno dei quartieri più popolari di Atene. Epicuro, a Samo, cresce in una comunità formata quasi esclusivamente da cittadini ateniesi i quali (compresi i suoi genitori), undici anni prima della sua nascita, avendo perso il lavoro nell’Attica sono emigrati (a causa di una delle tante crisi economiche causate dalle scelte del mercantilismo liberista: un sistema che aveva preso il sopravvento nelle polis) e sono andati (erano circa duemila) a fondare una colonia agricola e artigianale nell’isola di Samo dove le condizioni di vita erano migliori.

     Epicuro è il secondo di quattro fratelli e suo padre fa il maestro di scuola, insegna a leggere, a scrivere e a far di conto alle bambine e ai bambini di questa colonia. Quindi Epicureo – oltre ad avere delle doti sue proprie – ha avuto come primo precettore il padre ed è per questo motivo che acquisisce molto presto, fin da piccolo, delle ottime competenze intellettuali e sembra che addirittura a dodici anni (invece di frequentare la scuola pubblica di secondo grado, pari alla nostra scuola media) sia stato ammesso alla Scuola di filosofia del maestro Pànfilo, un platonico (anche lui un emigrato) residente a Samo.

     Lo scrittore Sesto Empirico (che abbiamo già incontrato più di una volta) nella sua opera intitolata Contro i Matematici racconta il primo giorno di scuola di Epicureo:

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Sesto Empirico, Contro i Matematici   X, 18

Questo fu il comportamento che tenne il giovane Epicuro di Samo il primo giorno di frequenza della scuola di secondo grado.

Disse il maestro agli alunni: «Da principio sorse il Caos». A questo punto Epicuro alzò la mano e chiese: «E da dove sorse il Caos?». Il maestro rispose: «Questo noi non lo possiamo sapere, è un argomento riservato ai filosofi». Epicuro replicò: «E allora è meglio andare direttamente dai filosofi». Si alzò, prese la sua cartella, salutò e andò via.

     Epicuro però non ha mai fatto nessun accenno alla sua esperienza di studente alla Scuola filosofica del platonico Panfilo.

     Sappiamo che quando raggiunge la maggiore età viene chiamato ad Atene per fare il servizio militare (per assolvere all’efebìa: l’efebo è un giovane che passa dall’adolescenza alla maggiore età e comincia ad avere dei doveri nei confronti della polis). Durante il servizio militare Epicuro conosce un certo Menandro che diventerà un grande commediografo e, strada facendo, lo incontreremo.

     In questo momento ad Atene – siamo nel 323 a.C. – l’Accademia di Platone (la cosiddetta prima Accademia) è diretta da Senocrate di Calcedonia (questo personaggio lo abbiamo incontrato lo scorso anno nello spazio rinascimentale de La Scuola di Atene di Raffaello, Senocrate era succeduto nel 339 a.C. a Speusippo, il primo scolàrca dopo la morte di Platone avvenuta nel 347 a.C.). Senocrate di Calcedonia rinnova il programma dell’Accademia disegnando il percorso di studi in tre filoni: quello dialettico (imparare a parlare bene per essere in grado di pensare meglio), quello fisico (studiare le forme che compongono l’Universo) e quello etico (imparare a riconoscere nelle cose l’idea del Bene) e quindi l’insegnamento non è più dato da un solo scolàrca ma da più insegnanti.

     Non lontano dall’Accademia Aristotele sta tenendo le sue ultime Lezioni al Liceo che ha preso il nome di Scuola peripatetica (perché gli studenti passeggiano studiando). I rapporti tra l’Accademia e la Scuola peripatetica, in questo momento, sono buoni perché Aristotele e Senocrate – che sono stati entrambi discepoli di Platone – si conoscono bene, hanno viaggiato e hanno lavorato insieme prima di riapprodare ad Atene per seguire ognuno la propria strada.

     È molto probabile che Epicuro abbia seguito qualche percorso di studio tanto all’Accademia quanto alla Scuola peripatetica e Cicerone, nella sua opera intitolata Sulla natura degli dèi, scrive: «Epicuro ad Atene ha potuto ascoltare le Lezioni di Senocrate». Epicuro però non ha mai voluto ammettere di essere stato a lezione né all’Accademia né alla Scuola peripatetica.

     Sappiamo che quando muore Alessandro Magno comincia un lungo periodo di fibrillazione e Samo cade sotto l’influenza del nuovo re macedone Perdicca il quale espelle dall’isola tutti gli emigrati ateniesi, compresi i genitori e i fratelli di Epicuro che sono costretti a trasferirsi nella città di Colofone sulla costa della Ionia. Epicuro li raggiunge e lì, a Colofone, fonda insieme ai suoi tre fratelli e ad uno schiavo di nome Mis, la sua prima Scuola.

     Sulla costa antistante alla polis di Colofone c’è la cittadina di Theos dove c’è una Scuola ben rinomata nella quale insegna Nausifane, un discepolo di Democrito che coltiva l’atomismo. Epicuro, che condivide e sostiene le idee dell’atomismo, frequenta, probabilmente con impegno, questa Scuola anche se, in seguito, sosterrà di non aver imparato niente e – come c’informa Diogene Laerzio – definirà il povero Nausifane un mollusco, un illetterato e un uomo da poco. Dobbiamo constatare che Epicuro persegue un atteggiamento di questo tipo (che è un atteggiamento sbagliato): ci tiene – come scrive Cicerone sempre nella sua opera intitolata Sulla natura degli dèi dove non è tenero con lui a questo proposito –, ci tiene a essere considerato un autodidatta e rifiuta qualsiasi relazione del suo pensiero con quello degli altri.

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Ogni persona in molte cose è autodidatta ma non ammettere di aver imparato qualcosa da altri non un atteggiamento positivoVoi in che cosa siete state e siete stati autodidatti?

Scrivete quattro righe in proposito

     Nel 311 a.C., insieme ai suoi fratelli e allo schiavo Mis, Epicuro si trasferisce a Mitilene sull’isola di Lesbo e apre ufficialmente la prima scuola che possiamo definire epicurea. L’iniziativa di Epicuro non ha molto successo prima di tutto perché a Mitilene è ancora forte l’influsso della Scuola poetica di Saffo e poi perché il suo programma didattico, che elimina la religione e la politica, non viene compreso e inoltre le Scuole platoniche e quelle peripatetiche offrono piani di studio ampi e ben collaudati. Ma Epicuro non si arrende e decide di trasferire la Scuola a Làmpsaco nella regione della Misia dove era nato il culto di Priapo e dove si è sviluppata una tradizione di studi atomisti e qui molte persone cominciano a frequentare la Scuola epicurea.

     Così, nel 306 a.C., Epicuro decide di fare il balzo in avanti e si trasferisce ad Atene, nella grande città, dove, in breve tempo, la sua Scuola diventa un’istituzione molto rinomata. Il programma epicureo – come c’informa Diogene Laerzio – si diffonde, ben presto, in tutta la Grecia, in Asia Minore, in Egitto e anche in Italia e non c’è città dell’Ecumene nella quale non ci sia una numerosa comunità epicurea.

     Abbiamo citato Diogene Laerzio e quindi diamo ancora a lui la parola perché ci deve dare un’informazione importante a proposito della Scuola di Epicureo:

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Diogene Laerzio, Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi

Quando giunse ad Atene da Làmpsaco Epicuro comperò, per ottanta mine, una casa e un orto in aperta campagna, ed è quest’orto che ha dato il nome a tutta la scuola: gli Epicurei saranno chiamati Quelli dell’orto [hoi apo ton kepon]” …

     Che cosa dobbiamo dire a proposito di questo frammento? Dobbiamo dire che è necessario stare attenti alle parole perché, di solito, la dicitura che troviamo nelle traduzioni non è quelli dell’ortobensì è quelli del Giardino, ma, in greco, la parola kepos kepossignifica prima di tuttoorto (un pezzo di terra dove si coltiva la verdura) piuttosto che giardino (uno spazio di terreno dove si coltivano fiori e piante ornamentali) e allora come mai, nelle traduzioni, ha prevalso il temine Giardino (e anche con la G maiuscola)? Il termine giardinoè senza dubbio più elegante ma probabilmente c’è un’altra ragione che spiega questo fatto ed è legata a come quest’orto viene tenuto: l’orto della casa di Epicuro è tenuto come se fosse un giardino nel quale – allude Diogene Laerzio – non si piantano fiori ma cetrioli, rape, cavoli, insalate varie che crescono belli e profumati come se fossero bellissimi fiori e questo per merito del pensiero di Epicuro (potrebbe essere una nuova forma di concimazione quella di leggere i frammenti delle opere di Epicuro nel proprio orto, ammesso che lo si possegga per lo meno sul terrazzo).

                 C’è poi un ulteriore motivo per cui questo orto [kepos]”, viene definito un giardino e, in questo caso, per dare una spiegazione è necessario mettere in evidenza la parola-chiave fondamentale intorno alla quale ruota il pensiero di Epicuro: la parola amicizia [philìa]”. In una Scuola come quella di Epicuro, che è basata sull’amicizia (naturalmente questo concetto va approfondito), l’ingresso non può che essere libero e nella cultura dell’Ellade l’entrata agli orti non è libera (l’orto, dalla Rivoluzione del Neolitico, è sempre stato uno spazio recintato e la frutta e la verdura sono sempre stati considerati dei beni preziosi) mentre i giardini sono spesso pubblici e, quindi, per estensione di significato: un orto a cui tutti hanno libero accesso è da considerarsi come un giardino e il Giardino di Epicuro è frequentato da persone di ogni condizione sociale, da uomini e da ragazzi, da meteci e da schiavi, da notabili ateniesi e da bellissime etere e tutti costoro, sebbene molto diversi tra loro, all’interno di questo spazio hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri.

     Sappiamo che la presenza delle donne nel Giardino di Epicuro ha fatto subito scandalo tanto da scatenare contro il maestro di Samo tutta una serie di accuse molto gravi. Sappiamo che esiste un vero e proprio catalogo delle maldicenze contro Epicureo. Si dice che Epicuro e il suo discepolo Metrodoro convivessero con cinque etere: Leonzio, Mammario, Edia, Erozio e Nicidio, e che dormissero tutti insieme nello stesso letto.

     Ma leggiamo che cosa scrive in proposito – a proposito di pettegolezzi nei riguardi di Epicuro – Diogene Laerzio:

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Diogene Laerzio, Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi

E secondo quel che riferisce Teodoro nel quarto libro della sua opera Contro Epicuro, in un’altra lettera a Temista egli scrive di essere solito abbandonarsi ad ogni follia con lei nel vino. Aggiungono i suoi detrattori che fu in corrispondenza con molte altre etere e specialmente con Leonzio, di cui anche Metrodoro fu innamorato. E viene anche citato un passo della sua opera Del fine, così:

Non so quale bene io possa concepire, se eccettuo i piaceri del gusto o le gioie d’amore o i piaceri che derivano dall’udito o dalla contemplazione della bellezza.

E un passo di una sua lettera a Pitocle:

Alza la tua vela, amico, e sfuggi ogni cultura, qualunque essa sia.

Ed Epitteto lo chiama cinedòlogo, ovvero predicatore di sconcezze, e lo critica molto aspramente.

Inoltre Timocrate, fratello di Metrodoro e discepolo di Epicuro, dopo aver abbandonato la scuola, in un’opera intitolata Delizie, riferisce che Epicuro era così dedito alla dissolutezza che vomitava due volte al giorno e narra che egli stesso a stento riuscì a sfuggire a quei notturni trattenimenti filosofici e a quell’associazione di iniziati. E che Epicuro molte lacune aveva nella preparazione scientifica, ma ancora maggiore ignoranza mostrava nelle questioni della vita quotidiana, e che le sue condizioni fisiche erano così pietose che per molti anni non poté alzarsi dalla sedia gestatoria; e che spendeva una mina al giorno per la mensa, come scrive egli stesso in una lettera a Leonzio e nell’altra Ai filosofi in Mitilene. E che vivevano insieme con lui e con Metrodoro molte etere e tra queste Mammario, Edia, Erozio e Nicidio. E che nei trentasette libri Della natura Epicuro ripete spessissimo le stesse cose e polemizza continuamente con gli altri e specialmente con Nausifane, come risulta da questa citazione testuale:

Ma vadano alla malora! Che egli (Nausifane) pure quando dava alla luce qualcosa, quasi tra le doglie di un parto, lasciava uscire dal suo labbro le vanterie sofistiche, come tanti altri servi sciocchi.

     Viene fuori l’immagine di un Epicuro dedito alla dissolutezza e alla maldicenza anche se Diogene Laerzio – il quale scrive a distanza di circa cinquecento anni – etichetta come calunnie queste affermazioni. Anche Cicerone – e lo abbiamo già potuto constatare – è molto critico nei confronti di Epicuro e, in particolare, definisce la sua Scuola come «un giardino di piacere, dove i discepoli languivano in mezzo a raffinati godimenti». In effetti tutte queste innumerevoli voci calunniose che circolano contro Epicuro sono un po’ assurde e lo dimostra un fatto significativo: un certo Diotimo, uno stoico intransigente, ha scritto una cinquanta di lettere oscene, firmandole con il nome di Epicuro, e questo solo per metterlo in cattiva luce. Posidonio, un altro stoico, racconta che Epicuro aveva spinto alla prostituzione suo fratello minore. E Plutarco di Cheronea, in uno dei suoi Opuscoli intitolato Non si può vivere come prescrive Epicuro, scrive che teneva un diario dove registrava quante volte aveva fatto l’amore e con chi. In definitiva il bello di Epicuro (ciò che incuriosisce di lui) è anche l’ambiguità con cui si presenta la sua figura: per qualcuno Epicuro è stato il peggiore tra gli uomini ma per altri è stato il migliore di tutti, c’è chi lo definisce un dissoluto e chi lo considera un profeta o addirittura un santo. Tra i grandi c’è Cicerone che lo detesta, mentre Lucrezio lo ritiene un modello da imitare.

     Dobbiamo dire che ci sono state delle vere e proprie persecuzioni di carattere religioso contro gli Epicurei e questo fatto si determina quando ad un certo punto sale la tensione e lo scontro tra le varie Scuole ellenistiche. In alternativa agli Epicurei si pongono gli Stoici (e prossimamente ci occuperemo del pensiero stoico): saranno soprattutto gli Stoici più intransigenti (in tutte le Scuole ellenistiche c’è sempre una corrente che predica il fondamentalismo e che spesso s’impone) a mettere in cattiva luce gli Epicurei e, a volte, a far approvare leggi repressive con la complicità del potere politico. Abbiamo notizia – ed è sempre Diogene Laerzio ad informarci – che in Messenia i governi delle polis hanno approvato dei decreti che davano ordine all’esercito di cacciare tutti i seguaci di Epicuro e di purificare le loro case col fuoco. Anche a Creta ci sono stati degli episodi di persecuzione e – scrive Diogene Laerzio – alcune persone accusate di professare una filosofia effeminata e nemica degli Dei, furono esiliati dopo essere stati cosparsi di miele e dati in pasto alle mosche e alle zanzare, e nel caso che qualcuno di loro fosse tornato indietro, sarebbe stato buttato giù da una rupe in vesti femminili.

     Perché si crea questo atteggiamento nei confronti dell’epicureismo? Che cos’è che disturba del pensiero di Epicuro tanto da scatenare delle vere e proprie forme di persecuzione? In questo c’è qualcosa che avvicina Epicuro a Socrate: Epicuro disprezza i politici che praticano la demagogia (che usano le forme della democrazia come copertura della dittatura) e che fomentano il populismo (che si appellano agli umori delle masse esautorando le Istituzioni democratiche privandole della loro autonomia). Epicuro coltiva una grande avversione nei confronti del popolo inteso come una massa di ignoranti e di beoti: una massa strumentalizzabile a piacimento dagli uomini di potere senza scrupoli che blandiscono con menzogne e false promesse una popolazione succube e incapace di reagire per mancanza di spirito critico. Epicuro guarda all’individuo – per lui la massa non ha nulla di umano ma ha molto di animalesco – e predilige gli esseri umani più bisognosi: Epicuro assume e invita ad assumere un atteggiamento democratico verso gli inferiori, verso le persone appartenenti agli strati più bassi della società. Epicuro pratica e insegna a praticare l’amicizia (la philìa) senza fare distinzioni di classe, di ceto, di censo, di sesso, e predica questo in un mondo dove il sentimento dell’amicizia è concepibile solo tra persone dello stesso ceto sociale. L’atteggiamento di Epicuro, in questo momento storico, è da considerarsi rivoluzionario soprattutto perché investe anche la categoria degli schiavi. Epicuro accoglie (con grande scandalo dei benpensanti) gli schiavi come esseri umani a pieno titolo e, scrive Diogene Laerzio: dona a loro la sua amicizia a braccia aperte e parla loro come un vecchio amico. E questo fatto si verifica circa tre secoli prima dell’insegnamento di Gesù di Nazareth: un insegnamento che sarà, a sua volta, condannato dalle Istituzioni.

     Marco Tullio Cicerone – che abbiamo citato più di una volta questa sera e che vive e opera nel periodo del secondo Ellenismo – sul tema dell’amicizia ha scritto, nel 44 a.C., un dialogo intitolato Lelio o Dell’Amicizia in cui vuole confutare il pensiero di Epicuro su questo tema. In questo dialogo Cicerone mette in scena tre personaggi: Lelio, Fannio e Scevola l’Augere. Il protagonista di quest’opera è Lelio (si tratta di una figura letteraria) il quale è affranto per la morte di Scipione l’Emiliano che è stato un suo amico indimenticabile (Scipione l’Emiliano è morto nel 129 a.C. e quindi Cicerone racconta un avvenimento che si è svolto circa ottantacinque anni prima). Lelio inizia il suo discorso riflettendo su alcuni argomenti che riguardano l’immortalità dell’anima, poi riflette sul non-valore della morte (qui Cicerone la pensa, senza dirlo, come Epicuro) e poi sviluppa il tema del plus-valore dell’amicizia che più di ogni altra cosa umana è privilegio dei buoni e non nasce dall’utile e non tende all’utilità (come preferisce pensare Epicuro).

     Ma leggiamone un brano di questo dialogo che si presenta come uno spunto di riflessione significativo sul tema (sempre all’ordine del giorno) dell’amicizia: che cosa pesa di più nell’amicizia: l’utile o il dilettevole?

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Marco Tullio Cicerone, Lelio o Dell’Amicizia (44 a.C.)

L’amicizia, più di ogni altra cosa umana, è privilegio dei buoni e non nasce dall’utile e non tende all’utilità. L’amicizia trova il suo fondamento nella natura stessa e quanto più un individuo rivela luce di virtù, tanto più ci si sente verso di lui portati a sentimenti di amicizia, che sono nobili corrispondenze spirituali, non già volgari appetiti dei sensi. Vi sono amicizie sagge e dotte, e amicizie volgari e superficiali: non è il caso di dire che le prime sono preferibili alle altre, perché esse si fondano veramente sulla virtù e tendono al bene comune degli amici. Le sole difficoltà che si presentano quando vi siano differenze di età o di condizioni sociali sono del resto facilmente superabili con discernimento e buon senso. Può capitare che a volte le amicizie debbano essere troncate e allora occorre grande tatto, come gran cautela occorre usare, fin dal principio, quando si contraggono nuove amicizie, e gran prudenza quando si impartiscono o si accolgono le ammonizioni tra amici.

     Con questo trattatello Cicerone vuole prendere posizione contro Epicuro che ritiene l’amicizia fondata soprattutto sull’utilità (si fanno delle amicizie perché è utile); ma tutto sommato Cicerone, nei suoi ragionamenti in cui mette al centro il tema della virtù, non è così lontano dal pensiero di Epicuro perché, anche se Roma vuole distinguersi da Atene e da Alessandria, c’è sempre un filo conduttore tra il primo Ellenismo di matrice greca e il secondo Ellenismo di stampo latino.

     La dottrina che Epicuro presenta, alle frequentanti e ai frequentati della sua Scuola, è prima di tutto un sistema di vitapiù che un programma teorico di filosofia.

     La prima regola – come abbiamo detto – è proprio di carattere esistenziale e prescrive che tra le persone che frequentano la Scuola debba svilupparsi un vincolo di profonda amicizia. Epicuro – come aveva fatto anche Platone – viaggia molto e viaggia per visitare le sue Scuole sparse un po’ ovunque sul territorio dell’Ellenismo. Epicuro tiene i rapporti con le sue Scuole attraverso un fitto scambio epistolare tanto con i singoli discepoli quanto con le intere comunità. Di questo Epistolario ci sono rimasti molti frammenti e questo modo di fare (questa sollecitudine catechetica) verso le proprie Scuole ci ricorda, per molti aspetti,  l’interesse di Paolo di Tarso per le sue comunità e, di questo personaggio che opera sul territorio dell’Ellenismo ce ne siamo occupate ed occupati circa una decina di anni fa e, naturalmente, ce ne occuperemo ancora.

     Sappiamo che il periodo storico successivo alla morte di Alessandro Magno (323 a.C.) è un momento di grande insicurezza, di forti fibrillazioni. Ad Atene – come abbiamo studiato – si alternano i governanti con il sistema della tirannia: Demetrio Falerèo (che abbiamo conosciuto qualche settimana fa ad Alessandria) dopo aver governato per un decennio viene scalzato da Demetrio Poliorcete che pretende di essere venerato come un dio e va ad abitare sul Partendone. I condottieri e i tiranni godono di rapide fortune e altrettanto rapidamente cadono in disgrazia e le popolazioni – finita ormai per sempre l’epoca delle polis democratiche – vivono in condizioni di sudditanza e di alienazione e sembra che le sorti del Mondo, della vita politica e sociale, siano ormai soltanto affidate all’opera instabile e capricciosa della Tyche (il Caso). In questa situazione Epicuro, con il suo Giardino (ma sappiamo che sarebbe meglio dire con il suo orto), propone alla persona un momento di calma, come un periodo di «bonaccia», come un porto tranquillo al riparo dalla «tempesta» degli eventi dove potersi curare dagli affanni, dalle pene della vita quotidiana.

     Con la nuova Scuola ellenistica di Epicuro la cultura ateniese riprende un motivo che, a suo tempo, aveva già proposto Socrate in chiave politica (un argomento che conosciamo attraverso i Dialoghi di Platone): il tema del rapporto tra la filosofia e la medicina, nel senso che studiare significa, prima di tutto, prendersi cura del proprio intelletto (saper riflettere) per assolvere al proprio ruolo di cittadine e di cittadini nel governo della polis. Epicuro, più che in chiave politica (ormai la società ellenistica è in balia dell’antipolitica), approfondisce questo tema in chiave esistenziale dandogli un’impronta quasi drammatica e nasce un concetto nuovo di filosofia che si sviluppa con tutte le più importanti Scuole dell’Ellenismo: la filosofia è da considerarsi come l’arte della vita, la disciplina che educa a vivere, la scienza che insegna a sopportare l’esistenza e a guarire da tutti quei malesseri che la vita quotidiana procura.

     Quindi nel territorio dell’Ellenismo, sul finire del IV secolo a.C., di fronte alla progressiva dissoluzione delle sicurezze e dei punti di riferimento civili, sociali e religiosi, Epicuro propone uno stile di vita e una dottrina che tende a favorire la liberazione dell’essere umano da ogni dolore e da ogni superstizione. È chiaro che, partendo da questo presupposto, Epicuro non voglia avere nessun rapporto ed alcun legame con le altre filosofie passate e presenti e neppure con la cultura e tanto meno con la ricerca scientifica (in particolare con le discipline della geometria, della matematica e dell’astronomia). Ed è proprio in ragione di questo presupposto che nei suoi numerosi scritti (si dice che sia autore di circa trecento opere), Epicuro non riporta mai citazioni di altri autori, e ricusa tutti i suoi insegnanti e più volte sconfessa di aver avuto per maestro Nausifane: eppure la Scuola democritèa di Theos è stata molto importante per lui e da questa esperienza ha sicuramente (come vedremo) imparato molto.

     Come abbiamo detto prima – ce lo ha riferito Diogene Laerzio – Epicuro si sarebbe avvicinato alla filosofia «per disprezzo dei maestri di scuola, poiché questi non erano riusciti a spiegargli che cosa significasse in Esiodo il caos». Epicuro si presenta alle sue studentesse e ai suoi studenti, e soprattutto ai suoi avversari, come uno che ha imparato tutto da solo, uno che è stato «scolaro di se stesso», come si legge in un frammento della Lettera a Euriloco in cui scrive: «Salpa l’ancora, ragazzo, e fuggì da ogni forma di erudizione, la dialettica e la retorica non servono al filosofo, sono, caso mai, utili nei tribunali e nelle assemblee politiche, la poesia, anche quella di Omero, e la musica non devono essere oggetto di insegnamento né di discussione. Ti dichiaro beato, o Apelle, perché sei venuto alla filosofia puro da ogni forma di erudizione».

      Plutarco di Cheronea, nel suo Opuscolo contro Epicuro, di fronte a queste affermazioni, coglie l’occasione per calcare la mano e scrive: «Epicuro, dimostrandosi il più incolto degli uomini, afferma che anche nei momenti distesi dei banchetti è meglio parlare di cose militari o di grossolane scurrilità». Queste accuse non sono fondate: Epicuro è un provocatore e attira su di sé molte antipatie – soprattutto nel periodo del secondo Ellenismo – ma in verità ha studiato, ha fatto tesoro (anche se lui, provocatoriamente, lo nega) dell’insegnamento delle Scuole che ha frequentato e ha saputo ben elaborare la sua dottrina. Epicuro è convinto del fatto che le persone debbano soprattutto impegnarsi a conoscere «quale sia la vera natura dell’universo» in modo da poter smettere di vivere «in sospettoso timore delle cose che ci raccontano i miti». Certamente Epicuro non è inconsapevole del fatto che se si vogliono sfatare i miti bisogna conoscerli e quindi anche una sana erudizione è necessaria.

     Se Epicuro è convinto del fatto che le persone debbano conoscere «quale sia la vera natura dell’universo» per sfatare i miti, questo vuol dire che c’è una materia di studio da privilegiare e alla quale dedicarsi con impegno: questa materia è la fisica. Per Epicuro il maestro di fisicaper eccellenza e l’unico pensatore verso il quale abbia nutrito un po’ di stima è Democrito di Abdera, il codificatore di quella dottrina che si chiama l’Atomismo. Da questo appare evidente – anche se lui lo nega – il fatto che Epicuro dalla Scuola democritèa di Nausifane ha imparato qualcosa. Quindi per conoscere e per capire la dottrina di Epicuro è necessario studiare – come ha fatto lui – il pensiero di Democrito. Nel prossimo itinerario incontreremo Democrito di Abdera perché le sue tesi (elaborate più di un secolo prima) hanno avuto un ruolo importante nello sviluppo della Storia del Pensiero Umano nel corso dell’Ellenismo e le parole-chiave e le idee-cardine di Epicuro nel campo della fisica sono le stesse parole e le stesse idee che troviamo nei frammenti delle opere di Democrito di Abdera.

     E allora, se per quanto riguarda la fisica(vale a dire su come è fatto l’Universo, su come è fatto il mondo in cui viviamo) Epicuro si rifà alle tesi atomiste di Democrito (che dovremo, disciplinatamente, ripassare) invece per quanto riguarda il tema dell’etica (che cos’è bene per l’essere umano) il pensiero di Epicuro presenta degli elementi di novità e di grande attualità. L’etica (che cos’è bene per l’essere umano) costituisce la parte del pensiero di Epicuro che, insieme alla teologia, è stata la più fraintesa e sulla quale, non a caso, si è scatenata la polemica (come abbiamo letto questa sera) dei suoi avversari.

     Il tema dell’etica in Epicuro si sviluppa su tre filoni, su tre indirizzi fondamentali.

     Il primo indirizzo si sintetizza in una affermazione: il bene si identifica con il piacere, e questo viene definito da Epicuro un fine secondo natura e con l’espressione secondo natura Epicuro si riferisce a quella che lui considera la più importante dote naturale che la persona possiede: la sua razionalità. È la razionalità umana – scrive Epicuro – che deve ispirare sobriamente alla persona le norme dell’azione. Epicuro batte e ribatte in tutte le sue affermazioni sull’avverbio sobriamentee accompagna questo avverbio con una serie di termini – che vanno tradotti in regole e trasformati in stile di vita – su cui invita a riflettere le studentesse e gli studenti che frequentano il suo Giardino (o l’orto, che dir si voglia): la misura, la frugalità, la temperanza, la severità, la semplicità, l’autocontrollo, la parsimonia, la regolarità, la modestia, la morigeratezza, la pudicizia, la lucidità, l’essenzialità, la linearità. Queste sono le parole che Epicuro usa in concomitanza con l’affermazione: il bene si identifica con il piaceredando a questa affermazione un peso notevole sul piano della disciplina morale. Se queste parole – scrive Epicuro con ironia, ma anche con grande acume teologico – fossero gli attributi degli dèi, io potrei anche credere alla loro esistenza ed affermare che l’unico modello di vita sono gli dèi.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura

Quali di queste parole (non più di tre) – la misura, la frugalità, la temperanza, la severità, la semplicità, l’autocontrollo, la parsimonia, la regolarità, la modestia, la morigeratezza, la pudicizia, la lucidità, l’essenzialità, la linearità – voi scegliereste per prime? 

Scrivetele…

     Il secondo indirizzo della dottrina etica epicurea si sintetizza in questa seconda affermazione: il piacere è uno stato di stabile sicurezza che si identifica con l’assenza del dolore. Questa affermazione si contrappone decisamente alla sfrenata e non meditata ricerca del piacere e saranno altre scuole– come quella pirenaica, per esempio (che probabilmente incontreremo strada facendo) – ad avere una concezione più elementare, più dinamica e più superficiale del piacere (edoné). Epicuro, a questo proposito, specifica con molta chiarezza il suo pensiero e scrive: Quando parliamo del piacere non alludiamo affatto ai piaceri dei dissipati che consistono in crapule, in festini, in gozzoviglie, come credono alcuni che ignorano il nostro insegnamento o lo interpretano con malizia.

     Il terzo indirizzo della dottrina etica epicurea è caratterizzato da tre parole-chiave fondamentali: aponìa, ataraxìae autàrcheia. Epicuro spiega con molta precisione che l’assenza di dolore è intesa come rimozione del dolore fisico e questa situazione corrisponde al temine greco aponìa (senza dolore), ma soprattutto il piacere (edoné) è da intendersi come la liberazione dell’anima dai turbamenti psichici e dai timorie questa situazione corrisponde, in greco, al termine ataraxìa (imperturbabilità). L’azione è etica – sostiene Epicuro – quando è capace di eliminare le sofferenze del corpo e i turbamenti dell’anima in modo da ottenere l’autosufficienza, in greco, autàrcheia. L’autosufficienza procura l’autonomia alla persona in modo che possa imparare a governare la propria libertà: senza regole – sottolinea Epicureo – non c’è libertà. L’aponìa, l’ataraxìa e l’autàrcheia sono gli elementi che rendono la persona – scrive Epicuro, con ironia – in tutto simile agli dei.

     Epicuro probabilmente non si sarebbe mai aspettato che il suo pensiero potesse essere, a circa 2300 anni di distanza, di grande attualità. Eppure i temi che Epicuro ha proposto sobriamente – i temi di una disciplina che oggi viene chiamata la bio-etica – vengono ancora affrontati sotto l’egida – direbbe Epicuro – del mito e della superstizione, come se combattere il dolore, evitare gli accanimenti terapeutici, fare in modo che la vita arrivi al suo termine in modo dignitoso per la persona (tanto per fare alcuni esempi) siano argomenti di carattere ideologico (nel significato più deleterio del termine) piuttosto che questioni esistenziali di carattere umanitario.

     Epicuro propone alle studentesse e agli studenti che frequentano il suo Giardino (o il suo orto) un catechismo pratico, una serie di regole, che dovrebbero mettere in condizione la persona di imparare a vivere meglio e ad avvicinarsi il più possibile alla felicità. Il catechismo di Epicuro è stato sintetizzato in formule da Filodèmo di Gadara (110-30 circa a.C.), il quale è stato – a distanza di due secoli dalla morte del maestro – uno dei più importanti divulgatori dell’epicureismo a Roma e in Italia. Filodèmo è vissuto ad Ercolano ed è stato amico di Virgilio, di Orazio, di Cicerone e ha scritto anche un certo numero di Epigrammi erotici che sono stati inclusi dell’Antologia Palatina.

     Filodèmo di Gàdara ha condensato il catechismo di Epicuro in quattro formule, il cosiddetto tetrafarmaco: che cosa dicono queste quattro formule?

     La prima formula dice: Gli dei non sono da temere.

     La seconda formula dice: Nella morte non si corre alcun rischio.

     La terza formula dice: Il bene ci si procura facilmente.

     La quarta formula dice: Il male è facile da sopportare con coraggio.

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Provate a mettere, per iscritto, – secondo il vostro modo di concepire le cose – in ordine d’importanza queste quattro formule…

     Sulla prima formula – Gli dei non sono da temere– noi torneremo con una riflessione un po’ più ampia a proposito della teologia di Epicuro il quale dichiara che gli dèi esistono e ne descrive le caratteristiche.

     Per quanto riguarda la seconda formula (quella che ha sempre maggiormente attirato l’attenzione) – Nella morte non si corre alcun rischio– vale la pena leggere un celebre brano della Lettera a Meneceo:

LEGERE MULTUM….

Epicuro,  Lettera a Meneceo

Il più orribile dei mali, la morte, non è nulla per noi; poiché quando noi siamo, la morte non c’è, e quando la morte c’è, allora noi non siamo più. E così essa non ha alcuna importanza né per i vivi né per i morti, perché nei vivi non c’è e i morti non sono più. Invece, la maggior parte delle persone ora non vuole riflettere sulla morte e la considera come il maggiore dei mali, oppure la desidera come requie dei mali della vita; ma la persona saggia non ricusa la vita e non accusa la morte, perché la vita non può essere considerata un male, così come non si può credere sia un male il non più vivere. Ma come dei cibi la persona saggia non preferisce senz’altro i più abbondanti ma i più gradevoli, così non il tempo che dura di più, ma il tempo più piacevole, è dolce frutto per la persona saggia

     Anche nella terza e nella quarta formula del tetrafarmacoIl bene ci si procura facilmente e Il male è facile da sopportare con coraggio – troviamo tutto il realismo, tutta la praticità quasi disarmante del pensiero di Epicuro. Soddisfare i nostri desideri – afferma Epicuro – non significa seguire i desideri vani, come la gloria, l’ambizione, il lusso e la ricchezza, né quelli solo naturali ma bensì quelli naturali e necessari. I piaceri sessuali senza la necessaria affettività, per esempio, – scrive Epicuro – non hanno mai giovato a nessuno, ed è già molto se non nuocciono.

     Sempre nella Lettera a Meneceo Epicuro scrive:

LEGERE MULTUM….

Epicuro,  Lettera a Meneceo

Ci grida la carne: non aver fame, non aver sete, non aver freddo. Chi ottenga questo e possa sperare di continuare a ottenerlo, potrebbe gareggiare in felicità con lo stesso Zeus. Il piacere è un bene, ma non si deve ricercare qualsiasi piacere, anche a prezzo di dolore, anzi spesso occorre rifiutare molti piaceri, quando ne seguirebbe per noi un dolore maggiore e preferire al piacere immediato molti dolori per il piacere maggiore che in seguito deriva dall’averli lungamente sopportati.

L’autosufficienza [autàrcheia], il cui maggiore frutto è la libertà, è un bene grande, ma non perché in ogni caso dobbiamo attenerci al poco, ma perché, se non abbiamo molto, dobbiamo saperci contentare del poco. L’abitudine ai cibi frugali, una focaccia e un sorso d’acqua è da perseguire non come una mortificazione, ma come esercizio che ci rende intrepidi dinanzi alla sorte Non dunque le libagioni e le feste ininterrotte, né il godersi fanciulli e donne, né il mangiare tutto ciò che una ricca mensa può offrire è fonte di vita felice: ma quel sobrio ragionare che scruta a fondo le cause di ogni atto di scelta e di rifiuto, e che scaccia le false opinioni, per via delle quali un grande turbamento s’impadronisce dell’anima.

La virtù non ha validità in se stessa, ma solo in quanto serve ad eliminare i turbamenti, per questo il massimo bene è la prudenza [frònesis] la quale ci insegna che non è possibile vivere piacevolmente se non vivendo saggiamente e bene e giustamente, e di contro che non è possibile vivere saggiamente e bene e giustamente se non anche piacevolmente. I valori autentici sono quelli etici e la persona saggia può e deve appropriarsene. Se la persona saggia vuole conservare l’atarassìa [l’imperturbabilità] deve una buona volta liberarsi dal carcere delle occupazioni imposte dalle chimere del sistema e dalla falsa politica dei dèspoti.

     Il catechismo di Epicuro contiene una serie di parole-chiave molto significative che assumeranno (come vedremo a suo tempo) un ruolo fondamentale nella costruzione della cosiddetta Letteratura dei Vangeli (la quale è, o dovrebbe essere, alla base della nostra identità culturale) che si avvale della lingua greca dell’Ellenismo: il Cristianesimo, dagli anni 50 con l’Epistolario di Paolo di Tarso, comincia ad estendersi sull’onda della sapienza poetica ellenistica.

     Dal catechismo di Epicuro abbiamo visto emergere ora due termini importanti: la sobrietà e la prudenza. Non sono queste soltanto due belle parole se – a detta di tutte e di tutti gli esperti – la crisi (in primo luogo di carattere morale) che stiamo attraversando dipende soprattutto dalla mancanza di sobrietà e di prudenza. La sobrietà e la prudenza sono due concetti cardine dell’etica epicurea che devono caratterizzare lo stile di vita della persona la quale deve tendere sempre a raggiungere emozioni equilibrate. Scrive Epicuro nelle sue Massime: Di tutti i beni che la saggezza ci porge, il più prezioso è l’amiciziae – come abbiamo detto – questa è la chiave per capire il suo pensiero. Per Epicuro è necessario costruire una società che speri nell’amicizia prima ancora che nella giustizia, e l’amicizia – scrive Epicuro nelle sue Massimeè un bene che si deve propagare da persona a persona. Se sostituiamo la parola philìa (amicizia) con la parola agape (amore fraterno) possiamo considerare Epicuro un anticipatore di Paolo di Tarso. Ogni mattina – scrive Epicuro nelle sue Massimel’amicizia fa il giro della terra per ridestare tutte le persone, affinché si possano felicitare a vicenda. Epicuro – che è anche un poeta, un grande cultore della prosa poetica – con questo pensiero descrive l’amicizia come un mezzo di comunicazione che, pur nascendo dall’utilità (prima di tutto l’amicizia è utile), finisce per identificarsi col piacere (poi l’amicizia è anche dilettevole) e per diventare il fine ultimo della vita (infine l’amicizia è consolante e crea una condizione psicologica che favorisce lo studio tra chi la coltiva). Nell’etica epicurea si tende sempre a raggiungere emozioni medie: un buon pasto ma senza esagerare, una casa dignitosa ma non lussuosa, un rapporto amoroso ma valorizzato dall’affetto. Secondo Epicuro (e questa è una delle sue Massime più celebri): La troppa quiete è accidia e l’esagerata attività è follia. Ebbene l’amicizia deve essere un sentimento equilibrato [eunomìa]” che sta a metà strada tra l’indifferenza [non coinvolgente] e l’amore [troppo coinvolgente].

     E ora, per concludere – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – incontriamo due amici molto speciali. Il sentimento dell’amicizia è diffuso in tutta la Storia della Letteratura. Abbiamo scelto di incontrare questi due amici perché – senza che loro lo sappiano – esaltano, con la dovuta moderazione, il senso di utilità che l’amicizia possiede e questo fatto sarebbe piaciuto molto ad Epicuro. Come si chiamano questi due amici? Questi due amici si chiamano Bouvard e Pécuchet e sono i personaggi di un famoso romanzo, che porta il loro nome, Bouvard e Pécuchet, scritto, e non terminato, da uno scrittore che tutte e tutti voi conoscete: Gustave Flaubert. I personaggi di questo romanzo, pubblicato postumo nel 1882, sono due persone semplici, due impiegati che, per la precisione, fanno i copisti: uno in una ditta di commercio, l’altro al Ministero della Marina. Bouvard e Pécuchet sono due uomini mediocri, ingenui, patetici, comici e anche un po’ imbecilli, i quali raccolgono i frutti dell’educazione che hanno ricevuto. Hanno ricevuto – sottolinea Flaubert – un’educazione che li ha preparati a non pensare con la propria testa: pensano infatti, come la maggior parte delle persone  – allude Flaubert – per luoghi comuni. E le persone – pensa Flaubert parafrasando Epicuro – o le educhi o le subisci. Gustave Flaubert quindi non è solo Madame Bovary.

     Bouvard e Pécuchet sono due antieroi e l’amicizia che nasce tra loro, e che imparano utilmente a coltivare, diventa la consolazione della loro vita. Bouvard e Pécuchet sono nati ambedue nel 1791 e si conoscono a Parigi nella calda estate del 1838. Bouvard è vedovo e senza figli, Pécuchet è scapolo e senza parenti. Bouvard è alto, robusto, ha i capelli biondi e ricciuti, Pécuchet è magro, ha i capelli neri e lisci e un grande naso. Tre anni dopo il loro incontro i due inseparabili amici decidono di trasferirsi in campagna e di fare un viaggio insieme attraverso il sapere umano e cercano di studiare l’archeologia, la letteratura, la medicina, la religione: questa è una formidabile idea di Flaubert che conduce le lettrici e i lettori – attraverso i due personaggi – alla dissacrazione dei luoghi comuni e alla catalogazione delle cosiddette idee chic, delle frasi fatte, di quel grande stupidario, di quella gigantesca discarica dell’intelligenza alla quale attinge la maggioranza delle persone e a tutt’oggi questo avviene più che mai e quindi la Scuola consiglia di leggere questo romanzo come antidoto.

     Purtroppo Gustave Flaubert (1821-1880) non è riuscito a portare a termine quest’opera e tra le sue carte è stato ritrovato lo schema dell’ultima parte del romanzo.

     Adesso leggiamo l’incipit, leggiamo le prime due pagine di questo romanzo nelle quali si racconta l’inizio emozionante” [l’inizio di una relazione è sempre emozionante] di un’amicizia che si presenta con tutte le sue caratteristiche positive: l’utilità, il diletto, la consolazione, la motivazione per la conoscenza. Occorre poi far attenzione a come la conversazione tra i due protagonisti si dipani per luoghi comuni…

LEGERE MULTUM….

Gustave Flaubert, Bouvard e Pécuchet  (1882)

Con quel caldo - trentatré gradi - in corso Bourdon non c’era un’anima. Lì sotto, come una riga diritta, il canale Saint-Martin, faceva convogliare la sua acqua color d’inchiostro, delimitata da due chiuse. In mezzo al canale stazionava un barcone carico di legname, e sulla sponda era allineata una doppia fila di botti. Al di là, tra le case, separate da cantieri, il grande cielo terso si ritagliava in rettangoli di azzurro oltremare; e, accesi dal riverbero del sole, il bianco delle facciate, l’ardesia dei tetti, il granito delle calate facevano abbagliare la visita. Un indistinto brusio saliva laggiù nell’aria di piombo, e tutto pareva intorpidito dall’ozio domenicale e dalla tristezza del giorno estivo. Due uomini comparvero. Uno proveniente dalla Bastiglia, l’altro dall’Orto botanico. Il più alto, vestito di tela, veniva avanti col cappello buttato sulla nuca, il panciotto sbottonato, la cravatta in mano. Il più piccolo, che spariva dentro un soprabito marrone, procedeva a testa bassa, con un berretto in capo dalla visiera a punta. Giunti che furono in mezzo al corso, si sedettero nello stesso momento sulla medesima panchina. Per tergersi il sudore, si tolsero i copricapo e li posero accanto a sé, e fu così che il più piccolo poté leggere su quello del vicino il nome: Bouvard, mentre il vicino leggeva su quello dell’altro: Pécuchet.

- To’, la stessa idea, abbiamo avuto! di mettere il nome sulle calotte dei nostri cappelli!

- Naturale! Qualcuno, all’ufficio, potrebbe per sbaglio prendersi il mio!

- Anch’io ho pensato la stessa cosa! Anch’io sono impiegato!

Allora si osservarono meglio. L’aspetto simpatico di Bouvard conquistò subito Pécuchet. Quegli occhi celestini, sempre semichiusi, sorridevano nel colorito acceso del volto. I pantaloni ad arcata di ponte che ricadevano a fisarmonica su scarpe di castoro, modellavano il ventre, stringevano alla cintola la camicia, che si gonfiava a sboffi. I capelli biondi, che da sé s’arricciolavano in leggere ciocche, davano al viso un che d’infantile.

Dal canto suo Bouvard era colpito dall’aspetto grave di Pécuchet. Il cranio a pera era così fittamente guarnito di ciocche nere e lisce, da far pensare che portasse la parrucca. Il viso era tutto profilo, a causa del naso che si prolungava a proboscide. Aveva le gambe, chiuse in tubi di lasting, più corte del torso, la sua voce era forte, cavernosa.

- Come si starebbe bene in campagna! - uscì ad esclamare.

Sì, ma la campagna intorno a Parigi, obiettò l’altro, era resa insopportabile dal chiasso delle troppe trattorie all’aperto. Pécuchet lo ammise, e aggiunse anche che della capitale cominciava ad esser stufo; Bouvard annuì, - Ah per questo, anch’io! - E, mortificati, i loro occhi andavano dai mucchi di pietra da costruzione, all’acqua sudicia in cui galleggiava un fastello di paglia, alla ciminiera di fabbrica che si drizzava all’orizzonte, e i nasi si arricciavano ai miasmi di fogna che inquinava l’aria. Volsero le spalle, ed ebbero allora davanti a sé il muro di cinta del Granaio pubblico. Per quanto sembrasse incredibile, osservò Pécuchet, all’aperto il caldo si faceva sentir di più che in casa! Bouvard gli suggerì di togliersi il soprabito; lui s’infischiava di quel che potesse dire la gente!

Passò un ubriaco, che barcollava, zigzagando per tutto il marciapiede. Un operaio, di certo, e i due attaccarono a parlare di politica. Le loro opinioni collimavano, solo che Bouvard era forse un tantino più liberale.

Con strepito di ferraglia, in una nube di polvere, passarono, diretti verso Bercy, tre calessi presi a nolo, che, con una sposina munita del rituale mazzo di fiori, scarrozzavano dei signori in cravatta bianca, delle dame infagottate sino alle ascelle, due o tre fanciulle e un collegiale. Spettacolo che portò i due a parlare della donna: questo essere frivolo, lunatico, testardo. Il che non toglieva che la donna fosse spesso migliore dell’uomo, ma, a volte, anche peggiore! Meglio, insomma, far a meno di esse, non per niente Pécuchet era rimasto scapolo.

Bouvard: - Io sono vedovo e senza figli!

- E se ne trova bene, non è vero? - Senonché alla lunga viver soli era ben malinconico.

A questo punto apparve una coppia che passava lungo il canale: un soldato e una ragazza allegra. Mora, con un viso livido segnato dal vaiolo, la ragazza strascicava i piedi e dondolava le anche, appesa al braccio del guerriero.

Quando l’ebbe oltrepassata, Bouvard si permise una battuta oscena. Pécuchet si fece di porpora, e, certo per evitare di rispondere, richiamò l’attenzione del compagno su un reverendo che avanzava. Lemme lemme, l’ecclesiastico passò davanti ai due scese lungo il viale di magri olmi che costeggiavano il marciapiede, e appena là in fondo il tricorno sparì, rifiatando Bouvard dichiarò di sentirsi meglio ora, perché detestava i gesuiti. Senza prenderne le difese, Pécuchet tuttavia lasciò capire che per la religione nutriva un certo rispetto.

Intanto si faceva sera, nelle case di fronte qualche persiana aveva rialzato gli sportelli, la strada cominciava ad animarsi. Suonarono le sette. Mai a corto di argomenti, i due seguitavano a intrattenersi insieme, alle osservazioni seguivano gli aneddoti, alle considerazioni filosofiche i punti di vista personali. Denigrarono il Genio Civile, il monopolio dei tabacchi, il commercio, i teatri, la Marina, l’intero genere umano, col risentimento di chi ha patito amare delusioni. Ognuno, ascoltando l’altro, riscopriva qualcosa di sé che aveva scordato. E per quanto l’età in cui si è facili a commuoversi fosse trascorsa per entrambi, provavano un piacere nuovo a stare insieme, una specie di appagamento: l’incanto dell’amicizia al suo sbocciare.

Più volte s’erano alzati da sedere, avevano fatto insieme la strada dalla diga chiusa a monte a quella a valle, erano tornati a sedersi, col proposito ogni volta di separarsi, ma ogni volta privi della forza necessaria, come prigionieri d’un incantesimo.

Il momento venne tuttavia che si decisero, e già nel congedo le loro mani si stringevano, quando Bouvard disse di colpo: - Ma perché non potremmo cenare insieme? - E Pécuchet subito: - È quello che mi dicevo anch’io, ma non osavo proporglielo!

E si lasciò condurre in un ristorantino dove si sarebbero trovati bene, ch’era proprio di fronte al Municipio.

Bouvard ordinò. Pécuchet diffidava dei piatti piccanti: mettono il fuoco in corpo. Fu questo lo spunto per una discussione di medicina.

Ah, la scienza! quanti vantaggi reca all’umanità! E quanti problemi restano da chiarire, quante ricerche da fare ad averne il tempo! Ahimè, che la necessità di guadagnarsi il pane, il tempo se lo portava via tutto, anche se ogni sera rimaneva, ad entrambi, qualche momento da dedicare allo studio!

E qui, alla scoperta che tutti e due erano copisti - Bouvard in una ditta di commercio, Pécuchet al Ministero della Marina - dalla sorpresa alzarono le braccia al cielo, e per poco non si abbracciarono di sopra il tavolo.

     Questa amicizia che si presenta come abbiamo detto con tutte le sue caratteristiche positive –  l’utilità, il diletto, la consolazione, la motivazione per la conoscenza – ha un’impronta epicurea (Gustave Flaubert conosce bene la sapienza poetica ellenistica) e ad Epicuro sarebbe piaciuto questo romanzo anche per la dissacrazione dei luoghi comuni.

     Abbiamo detto che tre anni dopo il loro incontro i due inseparabili amici, Bouvard e Pécuchet, decidono di trasferirsi in campagna e di fare un viaggio insieme attraverso il sapere umano e noi la prossima settimana li incontreremo ancora.

     Ma soprattutto la prossima settimana incontreremo ancora Epicuro che ci ha invitate ed invitati tutti nel suo Giardino (o Orto, che dir si voglia) perché vuole spiegarci come è fatto l’Universo, vuole tenerci una lezione di fisica. Epicuro scrive nelle sue Massime: Di tutti i beni che la saggezza ci porge, il più prezioso è l’amiciziae – come abbiamo detto – questa è la chiave per capire il suo pensiero. Ma perché dobbiamo coltivare l’amicizia? Da che cosa dipende il fatto che dobbiamo coltivare l’amicizia con tutte le sue caratteristiche positive: l’utilità, il diletto, la consolazione, la motivazione per la conoscenza? Secondo Epicuro la ragione per cui dobbiamo coltivare l’amicizia dipende da come è fatto l’Universo. Che cosa significa questo? E come è fatto l’Universo per Epicuro?

     Per sapere come è fatto l’Universo per Epicuro dobbiamo interpellare Democrito di Abdera il quale, la prossima settimana, ci ha dato appuntamento.

     Il viaggio continua e anche in questo nuovo anno la Scuola è qui perché l’Apprendimento permanente è un diritto di ogni persona e la cultura non è un cumulo di nozioni , ma un grande e complesso paese da visitare

 

Lezione del: 
Venerdì, Gennaio 15, 2010