Prof. Giuseppe Nibbi La sapienza poetica e filosofica dell’età medioevale 7-8-9 gennaio 2015
Stemma della Repubblica di Amalfi
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ MEDIOEVALE COMPAIONO I NORMANNI,
E SI VERIFICA LA “FUGA DA BISANZIO” …
Ben tornate e ben tornati a Scuola, e che il 2015 sia un anno “di “studio e di cura” proficuo per tutte e per tutti noi! Con il 2015 entriamo nel 32° anno di vita [di presenza, di sopravvivenza o di resistenza] di questa esperienza didattica, e il “buon anno” corrisponde soprattutto ad un ringraziamento a tutte voi e a tutti voi che promuovete l’attività di Alfabetizzazione culturale e funzionale. Il vostro è un faticoso e paziente impegno civile e politico in quanto siete cittadine e cittadini che volete affermare il diritto-dovere all’apprendimento che è legato all’applicazione dell’articolo 34 della Costituzione che sancisce l’esistenza di una “Scuola pubblica aperta a tutti” per tutto l’arco della vita [e “dare applicazione ai principi contenuti nella Carta costituzionale è politica”: la citazione è di Piero Calmandrei]. Un ringraziamento, quindi, a voi che testimoniate la presenza, sempre più evanescente a livello nazionale, della Scuola pubblica degli Adulti nelle vostre attività quotidiane.
Un ringraziamento [e un incoraggiamento] a chi promuove l’esercizio della lettura a casa propria e nelle istituzioni pubbliche. Un ringraziamento a chi si dedica all’esercizio della scrittura [e un incoraggiamento a chi sta per farlo] dalle quattro righe in proposito [richieste dal REPERTORIO ...] fino al numero di pagine adatto per comporre una lettera o un articolo o una poesia o un brano o un libro intero e, dal 2013 ad oggi, un certo numero di persone ha fatto stampare i propri testi: [Alberta, Manola, Ida, Cristina, Walter, Adriana, Maria Chiara]; per ultimo, in senso cronologico, Lorenzo che ha scritto un lungo racconto Indifferenza contro - scandito con la metrica del diario, dal 1991 al 2006, per conservare memoria degli errori e degli orrori della guerra dei Balcani [consapevole, e noi con lui, del fatto che gli errori e gli orrori sembrano non aver mai fine e c’è una proliferazione di guerre nel mondo, ma bisogna perseverare e la scrittura è uno strumento efficace in proposito].
E poi un ringraziamento a chi, prendendo spunto dall’esperienza scolastica, ha messo in pratica la propria capacità di investire in intelligenza per partecipare e anche per fondare Associazioni culturali [a Bagno a Ripoli, a Impruneta, a Fiesole, a Firenze] e dedica il proprio tempo e il proprio impegno per farle funzionare perché sa, e noi sappiamo, che non bisogna mai perdere la volontà di imparare. Buon anno “di studio e di cura” per tutte e per tutti noi.
Inizia, con l’undicesimo itinerario, la seconda parte di questo Percorso di Alfabetizzazione culturale in funzione della didattica della lettura e della scrittura [che va da Natale a Pasqua, e che comprende tutta la stagione invernale fino alla prossima primavera senza soste: quest’anno non ci sono vacanze né pre-pasquali né post-pasquali] e, quindi, riprendiamo il nostro cammino sul territorio della “sapienza poetica e filosofica dell’Età medioevale”.
Nei dieci itinerari che abbiamo percorso nello scorso anno – dal IX all’XI secolo – abbiamo potuto osservare gli scenari culturali collocati in due paesaggi intellettuali: il “paesaggio intellettuale della Scolastica alle sue origini” nel quale abbiamo incontrato un certo numero di personaggi soprannominati i “precursori” e il “paesaggio intellettuale della Filosofia cristiano-latina ai suoi albori” dove abbiamo incontrato, nelle loro Scuole, un certo numero di studiosi chiamati gli “ordinatori”.
In che cosa cercano di “mettere ordine” [nelle Scuole di Auxerre, di Reims, di Tours, di Corbie, di Amiens, di Fonte Avellana (abbiamo frequentato molte Scuole lo scorso anno!)] questi intellettuali? Cercano di mettere ordine in quello che è diventato il tema centrale della Scolastica: quello del rapporto travagliato tra la Fede e la Ragione, e da questa attività di riordino scaturiscono due eterogenee linee di tendenza [che - come abbiamo già osservato - caratterizzano lo scenario del “paesaggio intellettuale della Filosofia cristiano-latina ai suoi albori” facendo sì che l’alba lasci il posto al nuovo giorno], e a queste due linee di tendenza è stato dato il nome di “razionalismo” e di “misticismo” e questi due termini sul piano culturale avranno una lunga vita. Il “razionalismo” cerca di risolvere con la sola Ragione i principali problemi teologici e fideistici, mentre il “misticismo” sostiene che anche la Ragione è subordinata all’illuminazione divina.
È con la comparsa di questo scenario intellettuale che, alla metà dell’XI secolo, termina quello che è stato chiamato il periodo Alto-medioevale o dell’inverno del medioevo e inizia la cosiddetta Età della primavera e dell’estate del medioevo che è caratterizzata dalla fioritura e dalla maturazione di grandi sistemi di pensiero.
Prima di continuare il nostro viaggio sul sentiero specifico che ci porta ad attraversare il territorio della Scolastica sotto il profilo della Storia del Pensiero Umano in funzione della didattica della lettura e della scrittura, secondo la natura del nostro Percorso, dobbiamo conoscere quali rivolgimenti antropologici, sociali e politici avvengono sul territorio europeo dopo l’anno Mille.
Dopo l’anno Mille il sistema feudale – che ha dominato per due secoli sulle campagne – comincia a sgretolarsi mentre si ripopolano e si rianimano le città che erano state abbandonate nel lungo periodo dell’implosione determinato dalla “caduta” dell’impero romano, e con l’insediamento dei vescovi-conti, con il patrocinio dell’imperatore, nei centri urbani tornano a svilupparsi tutti quei traffici che, nel bene e nel male, determinano la crescita delle città: noi lo abbiamo già constatato questo sviluppo frequentando un certo numero di Scuole cittadine. E quindi, se diamo un’occhiata al territorio che, in questo momento, stiamo attraversando, vediamo un gran numero di città con le loro mura, con la prima versione della loro cattedrale in costruzione e con le loro Scuole.
Si tratta di città-stato, rette da un governo comunale, e questo è il fenomeno nuovo: il più importante avvenimento strutturale e antropologico del Medioevo è la nascita della città. Tutte le città medioevali sono cinte da mura e la costruzione delle mura è una necessità collettiva alla quale tutti partecipano in varia misura: la partecipazione alla costruzione delle mura è assicurata dal pagamento delle tasse stabilite dal governo comunale per tutti i cittadini che devono a pagare il dazio sul sale, sulla farina e sui generi di prima necessità che entrano nella cerchia muraria, e con il denaro riscosso viene retribuita la manodopera salariata che costruisce le mura, e nasce la corporazione dei “muratori” a tutela del loro lavoro. Le città si ampliano proprio in relazione al respiro delle mura che vengono erette su un tracciato sempre più vasto, e per definire il perimetro delle nuove mura, i governi comunali fanno previsioni non solo sulla crescita della popolazione, ma anche sullo sviluppo delle forze produttive. La costruzione delle città, quindi, è uno degli atti creativi più originali del Medioevo – c’è persino una giustificazione di carattere teologico in proposito, su cui rifletteremo – e su questo atto creativo si basa lo sviluppo dell’Europa moderna: i costruttori non si limitano a ricalcare, quando esiste, il vecchio nucleo romano, ma essi, adeguandosi alla natura del terreno, inventano un organismo urbano che definisce la forma delle città per i successivi 500-600 anni [noi viviamo ancora in mezzo alle strutture urbane medioevali] e la città cresce attraverso una somma di iniziative individuali stimolate dalla proprietà privata dei suoli, ma le singole iniziative devono però sottostare ad alcuni regolamenti edilizi stabiliti dal governo comunale. Ma ricapitoliamo con ordine.
Il vero cambiamento strutturale – che sta alla base di quella che è stata chiamata la “rinascita” avvenuta dopo l’anno Mille sul territorio europeo occidentale – è dato dal fenomeno dell’urbanizzazione [la città così come noi la conosciamo oggi è nata dopo l’anno Mille], un fenomeno che fa nascere una nuova categoria di persone apparentemente libere: i cittadini. Mentre i contadini sono servi della gleba, oggetti legati indissolubilmente al padrone della terra che coltivano, i cittadini [in teoria, mettiamo subito le mani avanti] sono i soggetti del “comune”, e il Comune [una parola nuova, prima di adesso sconosciuta] è una “convivenza” in cui non si è più “l’uomo di un uomo” ma si è “una persona con la persona” in un rapporto di fraternità che è anche autonomia, garanzia di sviluppo e di iniziativa creatrice. Naturalmente non tutti i cittadini hanno potuto usufruire di questo status di persona con la persona perché, di fatto, la componente dello sfruttamento nei rapporti tra le persone all’interno della città non è mai venuta meno, anzi, la maggior parte dei cittadini vive in una situazione di dipendenza, ma ciò che conta, come spesso succede, è che un cambiamento formale effettivamente è avvenuto con i suoi lati positivi e anche con tutti i suoi lati negativi.
Tra i cittadini appartenenti ai vari ceti che formano il governo comunale si distinguono quelli che danno vita ad una nuova classe sociale: la borghesia. Il termine “borghesia” deriva dalla parola germanica “borgo” che identifica l’agglomerato di case che si è sviluppato attorno ai castelli e che si è poi, gradualmente, trasformato in città. Il ceto borghese inizia, dopo l’anno Mille, una lunga marcia che lo porterà a diventare una classe egemone sul piano economico e poi su quello politico: da prima alla borghesia appartengono quei cittadini che si dedicano agli scambi commerciali degli oggetti [dei manufatti] prodotti dagli artigiani ma ora, dopo l’anno Mille, la borghesia comincia a dedicarsi ad organizzare e a gestire la produzione. Per la produzione di manufatti la borghesia si avvale di manodopera salariata che viene pagata in denaro e in proporzione al lavoro svolto, quindi, formalmente, sembra scomparire il sistema della schiavitù che, dal tempo dei Romani, vigeva ancora con il feudalesimo.
Naturalmente nei grandi latifondi posseduti dai nobili feudatari che vivono nel contado, lontano dalla città, sopravvive, e continuerà a sopravvivere, una forma di semischiavitù [la corvèe, simile a quella praticata dagli Etruschi: si lavora in cambio del vitto e della protezione], ma il sistema feudale è in declino e i servi della gleba si trasformeranno gradualmente in contadini a mezzadria: la “mezzadria” è un patto tra i contadini e i padroni della terra in cui i contadini ricevono circa la metà dei prodotti agricoli ottenuti col loro lavoro.
Ma, dopo l’anno Mille, il sistema di accumulazione della ricchezza messo a punto dalla borghesia diventa più dinamico e più complesso e nasce anche un “nuovo dizionario, un novello glossario” contenente termini che prima non esistevano e che noi abbiamo ereditato. Per mettere in moto il sistema si ricorre alle risorse provenienti dalla produzione agricola, e i proprietari di grandi superfici agrarie si trasferiscono nella città dove possono accumulare ogni anno il denaro ricavato con la vendita dei prodotti e, oltre a cercare di acquistare nuove terre per incrementare la produzione agricola, hanno adesso nella città la possibilità di investire il loro denaro in attività mercantili [neppure un soldo torna ad essere investito in campagna per migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei contadini: comincia a crescere il divario tra la città e la campagna].
Il sistema che permette alla borghesia di accumulare velocemente la ricchezza, rispetto al sistema agrario soggetto al ciclo delle stagioni, è costituito da tre fasi: l’acquisto di materie prime al più basso prezzo possibile, la trasformazione delle materie prime in prodotti finiti mediante l’impiego di manodopera pagata con il minor salario possibile, e la vendita dei prodotti al maggior prezzo possibile. In questo modo i mercanti-borghesi accumulano la “differenza di valore” tra ciò che hanno speso per produrre la merce e ciò che sono riusciti a ricavare rivendendola e questa differenza di valore costituisce “il profitto [nuova parola del novello glossario economico]”. L’accumulazione del profitto – sotto forma di edifici, di terreni e soprattutto sotto forma di monete d’oro – costituisce “il capitale mercantile [altra nuova importante parola del novello glossario economico]”.
Ma la vera innovazione sta nell’introduzione dell’idea della “velocità” che fa diventare il concetto della “lentezza” antico e superato. La “velocità” di accumulazione del capitale è proporzionale alla velocità con cui vengono prodotte le merci e alla velocità con cui esse vengono rivendute: ad ogni ciclo il denaro si trasforma in merci, che a loro volta si trasformano in una quantità più grande di denaro, da investire nuovamente in merci nel modo più veloce possibile.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quale di queste parole – agilità, dinamismo, efficienza, fattività, produttività, alacrità, solerzia, sollecitudine – mettereste per prima accanto alla parola “velocità”…
In quale situazione avete dovuto agire velocemente?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Poiché è difficile vendere una grande quantità di merci nella stessa città in cui le merci vengono prodotte, la prospettiva del profitto stimola la ricerca di mercati lontani – noi [prima della vacanza] attraverso il testo del romanzo intitolato Viaggio alla fine del millennio di Abraham B. Yehoshua, del quale abbiamo letto l’incipit, abbiamo visto all’opera il mercante ebreo Ben-Atar che si muove in perfetto accordo con il suo socio musulmano Abu-Lutfi – e in questi mercati lontani, oltre a vendere le proprie merci, i mercanti-borghesi acquistano altri prodotti pregiati da rivendere in patria a un prezzo maggiorato. Chi riesce a risparmiare sull’acquisto delle materie prime e sul salario dei lavoranti ha inoltre un maggior margine di profitto e può vendere le sue merci a prezzi inferiori di altri mercanti, facendo loro “concorrenza [altra parola nuova del novello glossario economico]” conquistando così nuovi mercati. Il “mercato [e questo termine diventa la parola principale del novello glossario economico]” è il motore dell’intero sistema economico fondato dalla borghesia, un sistema che ben presto prende il nome di “capitalismo mercantile”.
Per mercato non si deve intendere soltanto la piazza della città dove avviene la vendita dei prodotti. Dopo l’anno Mille il termine “mercato” designa l’insieme degli operatori economici che si trovano anche in luoghi distanti tra loro, ma che sono legati da uno stesso giro di contrattazioni. Per esempio il “mercato della lana” comprende non solo una vasta area geografica intorno al Mediterraneo, ma anche tutti i produttori e i mercanti interessati a questo tipo di commercio [da Amiens a Firenze, da Firenze a Tangeri, da Tangeri a Bisanzio, da Bisanzio a Edimburgo]. Ed è il mercato, ossia l’insieme delle contrattazioni tra mercanti e produttori, che determina in un certo momento il “valore di una certa merce”, ed è lo stesso mercato che, attraverso le sue richieste, indica quali sono le merci che si vendono più facilmente e che è più utile produrre: di conseguenza il mercato, che nasce da una serie di richieste individuali, diventa alla fine un “regolatore impersonale della produzione” ma, in realtà, sono i più abbienti [quelli che dispongono di maggiori risorse] che determinano l’indirizzo del mercato e che stabiliscono il valore delle merci. Il valore delle merci e, quindi, il margine di profitto sono stabiliti dalla borghesia attraverso il controllo del “costo della manodopera salariata” che viene considerata, sul mercato, come una vera e propria merce e voi capite a questo punto che i valori che il concetto di “comune” proclama non valgono per tutti.
Lo sviluppo del sistema mercantile, dopo l’anno Mille, è legato all’aumento della quantità di denaro circolante: non è infatti possibile trasformare la merce in denaro e il denaro in merce all’infinito e, di conseguenza, se c’è poco denaro in circolazione le città più ricche coniano e immettono sul mercato, in una certa misura, monete d’oro con peso fisso e garantito dalla zecca e, di conseguenza, s’intensifica, dopo l’anno Mille, la ricerca di metalli preziosi non tanto per il valore che l’oro e l’argento hanno di per se stessi, ma per il vantaggio che essi assicurano ad una più rapida circolazione delle merci.
La borghesia predica che tutti i cittadini possono accumulare ricchezza ma, in realtà, l’accumulazione di capitale è più facile per chi già lo possiede e può impegnarlo per impedire agli altri un’analoga accumulazione. L’inventiva, la libera iniziativa, il miraggio del profitto, la ricerca dei mercati, l’abilità nel concludere affari, la fiducia riscossa presso gli altri mercanti, la mancanza di scrupoli, lo sfruttamento della manodopera e, soprattutto, la concorrenza nella conquista dei mercati sono gli aspetti messi in moto da questo sistema economico creato, dopo l’anno Mille, dalla borghesia che prende il nome di “capitalismo mercantile”: questo sistema si afferma e crea le sue basi nella città.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Il mercato è un’attività e un luogo d’incontro molto caratteristico: quale mercato frequentate, che cosa comprate, che cosa vi piace del mercato?… C’è nella vostra memoria un mercato che ricordate particolarmente?…
Scrivete quattro righe in proposito…
In relazione alle cose che abbiamo detto succede che in Italia molte città nelle quali emerge la borghesia, favorite dalla loro naturale posizione costiera [la penisola italiana ha più di ottomila chilometri di coste] raggiungono, prima delle città di terraferma, un notevole grado di ricchezza e d’indipendenza politica: tra queste città – dette “Repubbliche marinare” – primeggiano Amalfi, Venezia, Pisa e Genova.
Amalfi, posta sul golfo di Salerno, è stata la più fiorente città marinara del sud, superando Napoli, Gaeta, Bari. Amalfi faceva parte dei possedimenti bizantini ma, trascurata dal governo di Costantinopoli, provvede per conto proprio ad allestire una flotta e a governarsi: tutti i cittadini, con determinate prerogative di genere e di censo, riuniti a Parlamento eleggono il duca, il capo della città per un anno. Il governo repubblicano, nel quale domina la borghesia, favorisce in modo particolare i commerci e la navigazione. Nel X secolo Amalfi è già un centro attivissimo di commercio col Levante [un nuovo termine per indicare i territori prospicienti alle coste orientali del Mediterraneo]: A Costantinopoli, ad Antiochia, ad Alessandria, al Cairo gli Amalfitani affittano e comprano fòndachi [edifici con magazzini per depositare e conservare le merci, con uffici per tenere l’amministrazione e con alloggi per i mercanti; la parola “fòndaco” deriva dall’arabo “fundaq” che, a sua volta, deriva dal greco “pàndokos”] e fanno costruire chiese. Nelle città del Levante gli Amalfitani portano soprattutto prodotti agricoli campani e caricano damaschi, armi, profumi, spezie, tappeti, indaco che poi rivendono nell’Italia centrale e settentrionale. La moneta amalfitana, il “tarì” comincia ad avere corso in tutti i porti del Mediterraneo e gli Amalfitani raccolgono il primo codice di leggi marittime, le famose Tavole Amalfitane, adottate da gran parte degli Stati mediterranei. Il merito più importante degli Amalfitani è stato quello di aver introdotto in Occidente l’uso della “bussola”, inventato dai Cinesi 2500 anni fa, ripreso dagli Indiani e poi nel VII secolo utilizzato dagli Arabi che portano questo strumento nel Mediterraneo di Levante facendolo conoscere agli Amafitani che lo perfezionano e inventano la leggenda che sia stato un cittadino amalfitano, chiamato Flavio Gioia [e mai esistito], ad inventare la bussola. Amalfi, per circa due secoli, ha goduto di prosperità e d’indipendenza, ma alla fine dell’XI secolo è stata sottomessa dai Normanni [che hanno conquistato e unificato tutta l’Italia meridionale e vedremo chi sono] e ha anche dovuto subire la concorrenza di Pisa, sua rivale, nel mar Tirreno.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Con la guida della Campania e navigando in rete fate un’escursione ad Amalfi e visitate la Cattedrale che comincia ad essere costruita subito dopo l’anno Mille ed è un bell’esempio di architettura arabo-sicula, e le porte in bronzo, ben conservate, sono state fatte giungere da Costantinopoli verso il 1065… Buon viaggio ad Amalfi…
Abbiamo detto che nel 1131, sebbene Amalfi riesca a mantenere una certa autonomia amministrativa, entra a far parte del principato di Salerno che, a sua volta, cadrà successivamente nella sfera d’influenza dei Normanni.
Non possiamo dimenticare a questo punto del nostro viaggio che, nella prima metà dell’anno Mille, i Normanni hanno influenzato la storia dell’Europa settentrionale e d’Italia meridionale in particolare. Il popolo dei Normanni, di origine germanica [“Normanni” significa “Uomini del Nord”], proviene dalla Scandinavia e durante l’Alto-medioevo questa gente vive di incursioni piratesche lungo le coste del Mare del Nord e del Mar Baltico. I Normanni sono arditissimi navigatori e sfidano le tempeste su agili imbarcazioni spingendosi fino in Islanda, in Groenlandia e sulle coste del Labrador in America settentrionale. Nel X secolo, durante l’impero carolingio, saccheggiano più volte le coste settentrionali della Francia, finché ottengono nel 911 di potersi stanziare in questa regione che da loro ha preso il nome di Normandia. Qui i Normanni si convertono al cristianesimo, assimilano dai Franchi la lingua e la legislazione conservando però il loro spirito avventuroso che li spinge, nel secolo successivo [nell’XI secolo], a due grandi spedizioni dalle quali traggono origine due regni: quello d’Inghilterra e quello di Sicilia.
I Normanni [piccoli gruppi di giovani dell’aristocrazia normanna] giungono nell’Italia meridionale, tra la fine del X e il principio dell’XI secolo, come pellegrini per imbarcarsi a Brindisi verso la Terra santa e rimangono affascinati dal clima e dalle bellezze delle regioni dell’Italia del sud il cui territorio è diviso e agitato dalle lotte fra i bizantini, gli arabi, i duchi longobardi e le città comunali e capiscono, essendo dei guerrieri, che si poteva offrire loro un’ottima occasione per combattere come mercenari, e una cinquantina di cavalieri normanni scendono nell’Italia del sud per la prima volta nel 1016 in aiuto dei nobili pugliesi che erano insorti contro i bizantini e, dopo essersi fatti apprezzare come combattenti, questi giovani normanni si stabiliscono, s’inseriscono [s’accasano] nelle città del sud e tra questi ci sono anche i fratelli della famiglia Drengot. Un membro di questa famiglia, il condottiero Rainolfo [o Rainulfo] Drengot forma un piccolo esercito di centoottanta cavalieri normanni ben addestrati e comincia a prestare i suoi servizi in una terra dall’alto tasso di conflittualità: inizialmente serve il principe di Salerno Guaimaro IV e per suo conto assoggetta i feudatari salernitani che si erano ribellati, poi Rainolfo viene assunto dal duca Sergio IV di Napoli e per suo conto respinge l’esercito di Pandolfo III principe di Capua che aveva invaso il ducato napoletano. A questo punto Rainolfo Drengot può combattere per conto proprio e conquista [intorno ad Aversa] un territorio e il principe di Salerno, il duca di Napoli e anche l’imperatore Corrado II, nel 1030, devono riconoscere queste conquiste e sotto Rainolfo Drengot si forma la Contea di Aversa, il primo nucleo dello Stato normanno nell’Italia meridionale.
Aversa è un sito normanno da visitare.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Utilizzando la guida della Campania e navigando in rete fate un’escursione ad Aversa in provincia di Caserta situata nella fertilissima piana dell’entroterra napoletano, anche se l’aspetto della cittadina è settecentesco tuttavia rimane l’impronta antica: il Duomo, rifatto nel ‘700, conserva l’abside e la cupola ottagonale della primitiva costruzione in stile arabo-normanno dell’XI secolo, buon viaggio, Aversa non è lontana da qui…
Questa esperienza induce altri gruppi, altre famiglie, di Normanni a scendere in Italia, e fra questi quello dei fratelli Altavilla, i figli di Tancredi, il capostipite degli Altavilla, signore di Hauteville [una piccola contea nella penisola francese del Cotentin]. Ebbene dal 1040 Guglielmo, Drogone, Unfredo, Goffredo, Roberto [detto il Giuscardo] e poi Ruggero I e Ruggero II di Altavilla con la forza delle armi, con l’astuzia e sfruttando le discordie dei vari staterelli e il malcontento delle popolazioni [scontente tanto del governo bizantino che di quello papalino] riescono in poco tempo a crearsi un vasto dominio e, combattendo contro gli arabi, i bizantini, i feudatari locali, le città comunali, unificano le regioni meridionali d’Italia facendone, nel corso di circa un secolo, uno dei più potenti Stati del Mediterraneo. Ma procediamo con ordine.
Guglielmo Altavilla [detto Braccio di ferro] fonda nel 1042 la Contea normanna di Melfi nelle Puglie e va anche ad insidiare il territorio del principato di Benevento che fa parte dello Stato pontificio [riceve sotto banco l’approvazione dell’imperatore Enrico III il quale fa finta di dolersi con il papa ma, in realtà, vuol tenersi buoni i Normanni] e questa situazione allarma il papa Leone IX che muove l’esercito contro Guglielmo Altavilla nella primavera del 1053 . Argiro, il catapano bizantino in Italia [o catepano, il governatore, l’amministratore delegato, dal termine greco “kat’epánō, al di sopra”] inizialmente dichiara che si sarebbe schierato in difesa del papa ma poi non interviene [non è né attrezzato né autorizzato da Costantinopoli: i rapporti tra Roma e Costantinopoli sono assai tesi e da Bisanzio non arrivano ordini], e l’esercito papale viene sconfitto da Guglielmo Altavilla presso Civitate nel giugno del 1053; il papa viene fatto prigioniero e condotto a Benevento, e ottiene la liberazione venendo a patti con i Normanni che vogliono essere rispettosi nei confronti del papato [difatti Guglielmo lascia al Patrimonio di San Pietro la città di Benevento] ma pretendono e ottengono che gli venga riconosciuto il dominio sulle terre che hanno conquistato: nasce il ducato normanno di Melfi.
Melfi, in provincia di Potenza, è un altro sito normanno da visitare: questa cittadina è posta in bella posizione su un colle vulcanico nella parte settentrionale del Monte Vùlture e conserva quasi intatta la cerchia muraria normanna presso il Castello. A Melfi, oltre al maestoso Castello normanno e al Museo Nazionale Archeologico [ricco di reperti dalla preistoria all’età medioevale, compreso l’importante “sarcofago di Rapolla” del II secolo, da valorizzare], c’è da visitare il Duomo, più volte ristrutturato a causa dei terremoti, che conserva ancora il campanile originale del 1153. Da Melfi [sono solo 5 chilometri e mezzo] si può fare un’escursione al pittoresco paese di Rapolla dove, oltre a fare le cure termali, si può visitare una Cattedrale gotica molto interessante, e poi, da qui [sono solo 31 chilometri] si possono raggiungere, nel comune di Rionero in Volture, pittoresca cittadina alle falde sud-occidentali del Vùlture, i laghi di Monticchio che occupano il doppio cratere dell’antico vulcano in un bellissimo e romantico paesaggio boscoso, e con la funivia si può salire [ma si può anche andare a piedi] sul Monte Vùlture [1326 metri] per godere del panorama dal Gargano alle Murge e all’Appennino campano-lucano.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Utilizzando la guida della Basilicata e navigando in rete fate un’escursione a Melfi, a Rapolla, ai Laghi di Monticchio e al Monte Vùlture...
Buon viaggio, questi luoghi non sono lontani da qui...
Adesso, a questo punto del nostro viaggio e riflettendo su ciò che abbiamo accennato sui difficili rapporti est-ovest, dobbiamo diventare consapevoli di un fatto epocale: la Chiesa cristiana si spacca definitivamente [è la prima grande spaccatura della storia della Chiesa] e questo fatto crea anche una netta cesura tra l’Oriente e l’Occidente tra il mondo greco e quello latino. Dal 1054 la storia dell’Ecumene cristiana non è più la stessa ed emerge un’idea – che ha anche dei precisi connotati letterari – contenuta nell’espressione: “fuga da Bisanzio”. E, anche in questo caso, dobbiamo procedere con ordine.
I Bizantini non sostengono il papa contro i Normanni [l’imperatore bizantino vorrebbe aiutare il papa mentre il patriarca di Costantinopoli non vuole assolutamente sostenere il papato e prevale la sua posizione per cui il catapano bizantino in Italia non riceve ordini] e questo mancato aiuto peggiora ancor di più i già tesi rapporti tra la Chiesa latina di Roma e quella greca di Costantinopoli [queste due realtà avevano cominciato a differenziarsi nel VI secolo al tempo di Giustiniano e noi sappiamo che le questioni religiose fanno sempre da paravento alle lotte - interne ed esterne - per la conquista del potere politico]; infatti, mentre papa Leone IX è prigioniero a Benevento dei Normanni, la Chiesa greca di Costantinopoli [nonostante l’imperatore bizantino Costantino IX sia riluttante ad entrare in conflitto con il papa] ribadisce la sua posizione teologica sulla figura dello Spirito Santo che contrasta con la visione della Chiesa latina: la Chiesa latina ritiene che il presente sia il “tempo del Figlio [di Gesù risorto]” rappresentato in terra dal suo vicario, il papa, successore di Pietro mentre la Chiesa greca sostiene che il presente è il “tempo dello Spirito Santo” fatto discendere dal Padre per mezzo del Figlio su tutti gli Apostoli come “consolatore [parakletòs]” in attesa del ritorno di Gesù.
Il patriarca di Costantinopoli Michele Cerulario si dimostra molto intransigente nel sostenere la centralità dello Spirito Santo e utilizza questo tema come un pretesto perché vuole la rottura con Roma: la sua ambizione è che Costantinopoli diventi il centro della cristianità e in questo progetto è appoggiato, oltre che dal clero e dal popolo, anche dal contendente dell’imperatore Costantino IX, Isacco I Comneno che, difatti, aiutato da Michele Cerulario [che lo incorona in Santa Sofia] ne prende il posto.
Papa Leone IX manda una delegazione a Costantinopoli [capeggiata dal cardinale Umberto di Silvacandida] per discutere sul tema della figura dello Spirito Santo ma Michele Cerulario attacca il papato, disconosce la superiorità romana [per giunta il papa è prigioniero a Benevento dei Normanni] e dichiara che ogni patriarcato è “autocefalo [ha una propria testa e non prende ordini da Roma]”; allora la delegazione papale minaccia nei suoi confronti la scomunica, ma Cerulario convoca il sinodo delle Chiese orientali e dichiara eretico il papa di Roma e, a sua volta il papa, appena viene informato dei fatti, rimuove e scomunica Michele Cerulario e tutti gli ecclesiastici che si schierano con lui. Ma il patriarca di Costantinopoli [forte dell’appoggio del suo clero e del popolo] non desiste e lancia un anatema contro Roma [citando l’Apocalisse di Giovanni, i primi due versetti del capitolo 17] proclamando “ortodossa” la sola Chiesa greca, e il papa, che intanto è tornato libero a Roma, naturalmente controbatte con un ulteriore anatema: è il 1054 e questa spaccatura – sebbene i rapporti siano molto cambiati [ricordate l’abbraccio tra papa Paolo VI e il patriarca Atenagora a Gerusalemme nel gennaio del 1964] – non si è ancora sanata definitivamente.
Ma in che cosa consiste la contesa sul tema dello Spirito Santo che, dalla metà dell’anno Mille, divide la Chiesa greca dalla Chiesa latina? Il tema è piuttosto complesso soprattutto per quanto riguarda i numerosi passaggi storici attraverso i quali questa polemica è andata [per ben 674 anni] evolvendosi, e ora noi cerchiamo di ridurre l’argomento ai minimi termini, all’essenziale.
Al concilio di Nicea del 325 nel testo del “Credo ” [del Simbolo niceno] compare l’espressione: «Credo nello Spirito Santo che è Signore e dà la vita» e non viene aggiunto altro [i vescovi avevano già litigato terribilmente sulla natura del Figlio e, quindi, sulla figura dello Spirito Santo si arriva ad una sintesi e si glissa, si passa oltre] ma nel 380, cinquant’anni dopo, durante il concilio di Saragozza i vescovi più vicini alla Chiesa di Roma, che hanno la maggioranza, decidono di aggiungere nel testo del “Credo”, contigua all’espressione relativa allo Spirito Santo, una frase che completi la professione di fede: «[Credo nello Spirito Santo che è Signore e dà la vita] e procede dal Padre e dal Figlio» e, in latino, il termine «dal Figlio» viene tradotto «filioque [il suffisso “que” significa “e” quando si vuole rafforzare la congiunzione]» come dire che il Padre e il Figlio sono “uniti [sono in comunione]” rispetto alla processione, alla discesa e all’azione dello Spirito Santo che deve essere considerato “un dono che viene concesso dal Padre e dal Figlio [filioque]”. Questa affermazione [la Dichiarazione di Saragozza] nasce dal fatto che in Oriente i vescovi nei loro sinodi hanno cominciato a riflettere [guardando con preoccupazione al primato, che viene attribuito dal potere politico, al vescovo di Roma] sul fatto che la figura alla quale bisogna affidarsi in questo tempo della Storia della salvezza è, prima di tutto, quella dello Spirito Santo piuttosto che quella del successore di Pietro e vicario di Cristo in terra, il papa, perché – come dice il testo del secondo capitolo degli Atti degli Apostoli – la “potenza” dello Spirito Santo, a Pentecoste, l’hanno ricevuta tutti gli Apostoli senza distinzioni.
Inoltre la Chiesa greca ribadisce che “lo Spirito Santo è un dono del Padre” perché negli Atti degli Apostoli, nell’incipit del primo capitolo, è scritto che Gesù risorto, prima di ascendere al cielo, seduto a tavola insieme agli Apostoli dice: «Mi raccomando non allontanatevi da Gerusalemme ma aspettate il dono che il Padre ha promesso e del quale io vi ho parlato. Giovanni infatti ha battezzato con acqua, voi invece, fra pochi giorni sarete battezzati con lo Spirito Santo». Queste considerazioni portano a far sì che la Chiesa greca di Costantinopoli non accetti il termine “filioque” perché risulta “non ortodosso” rispetto alla Scrittura e, quindi, il sinodo dei vescovi della Chiesa greca a larghissima maggioranza proclama che lo Spirito procede “non dal Padre e dal Figlio [filioque]” ma bensì procede “dal Padre attraverso il Figlio [per filium]”.
La questione si placa temporaneamente e passa in secondo piano per via dell’implosione [dal 476] dell’impero romano d’Occidente ma nel 589 durante il concilio di Toledo i vescovi presenti ribadiscono che «lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio [filioque] e illumina la persona del successore di Pietro, il vescovo di Roma, il papa, il vicario di Cristo in terra nel governo di tutta la Chiesa». Questa dichiarazione [la Dichiarazione di Toledo] provoca la reazione di Costantinopoli e dei patriarcati orientali, che ormai si considerano autonomi [autocefali] rispetto a Roma, e sono più che mai fermi nel proclamare che «lo Spirito Santo procede dal Padre per il Figlio [per filium]». Ed ecco che le due espressioni “filioque” e “per filium” diventano due manifesti di natura politica: con il “filioque” si vuole ribadire il primato del vescovo e della Chiesa latina di Roma mentre con il “per filium” si vuole sostenere l’autonomia dei patriarcati delle Chiese greche orientali.
Carlo Magno, alla nascita del Sacro romano impero nell’800, impone che in tutte le chiese dello Stato carolingio venga cantato il Credo con la formula del “filioque”. Nell’867 il patriarca Fozio di Costantinopoli [eletto a furor di popolo: Fozio è un personaggio che abbiamo incontrato più volte nei nostri viaggi per le sue doti letterarie, è autore di un’opera importante intitolata “Biblioteca”] in un’enciclica, che diventa l’arsenale delle dichiarazioni contro la Chiesa di Roma, dichiara eretica l’espressione “filioque” e a sua volta viene scomunicato dal papa Niccolò I, e la controversia si perpetua [come abbiamo visto] fino al 1054 quando si consuma la definitiva rottura. Per secoli, intorno a questo avvenimento epocale, si è parlato di frattura, spacco, squarcio, strappo, incrinatura, crepa, lacerazione tra la Chiesa greca [l’Oriente] e Chiesa latina [l’Occidente] e sono stati fatti vari tentativi per ricucire lo strappo [pensiamo al Concilio di Firenze dal 1439 al 1443], però, tutti naufragati.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quale di queste parole – frattura, spacco, squarcio, strappo, incrinatura, crepa, lacerazione – vi fa ricordare un’esperienza che avete vissuto? ...
Scrivete quattro righe in proposito...
La frattura che rompe l’unità della cristianità nel 1054 ufficializza definitivamente, come abbiamo potuto constatare, una situazione di separazione che ormai si era determinata nei secoli anche per via della divisione dell’impero romano.
A causa della separazione tra cristianità greca e cristianità latina si manifesta pure un significativo, sebbene poco appariscente, esodo di persone da Oriente verso Occidente perché chi rimane fedele [una minoranza di intellettuali] al dettato della Chiesa di Roma [ma più che altro dovremmo dire: chi è attratto dal “richiamo dell’Occidente”] pensa sia meglio emigrare anche per evitare ritorsioni e avviene quella che è stata chiamata la “fuga da Bisanzio” che consiste non in un movimento di massa ma in un trasferimento di piccoli gruppi o di singoli individui fatto con grande discrezione: l’espressione “fuga da Bisanzio” è diventata una metafora per definire un fenomeno “sfuggente, velato, enigmatico”, e in che cosa consiste questa “ambiguità”? Le persone protagoniste della fuga da Bisanzio sono mal viste tanto nel luogo dal quale se ne vanno [Costantinopoli] perché sono considerate traditrici ma sono anche appena tollerate nel luogo [Roma] dove emigrano perché vengono considerate pusillanimi, un po’ codarde.
Noi adesso a questo proposito, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, seguiamo l’assonanza dell’espressione “fuga da Bisanzio” perché corrisponde al titolo di un libro che dobbiamo prendere in considerazione e che contiene una riflessione piuttosto complessa sul fenomeno della nostra eredità culturale. Noi cittadine e cittadini “occidentali” non riflettiamo mai [di solito per mancanza di competenza intellettuale, per ignoranza] sul fatto che molti elementi della nostra cultura li abbiamo ricevuti da Bisanzio e molti fatti della nostra storia sono in relazione con questa città ma, nello stesso tempo, in quanto “occidentali abbandonati al nostro destino quando c’è stata l’implosione dell’impero romano d’Occidente”, siamo in fuga da Bisanzio: abbandonata al proprio destino “era naturale che Roma fosse in fuga da Bisanzio” e, di conseguenza, anche se paradossalmente non ne siamo consapevoli, noi veniamo simultaneamente travolti ancora oggi dall’attrazione per Bisanzio e dal desiderio di fuggire da Bisanzio, e questo paradosso ci agita, e questa agitazione [se resa produttiva dallo studio] può essere fruttuosa sul piano della nostra capacità di investire in intelligenza, e questa idea [l’attrazione per Bisanzio e la fuga da Bisanzio] che abbiamo sintetizzato viene coltivata dall’autore del testo intitolato Fuga da Bisanzio. Fuga da Bisanzio dà il nome ad una raccolta di sette saggi: un’opera saggistica scritta sotto forma di romanzo autobiografico. L’autore di questi saggi, scritti in inglese, è un poeta russo [uno dei più importanti poeti russi del ‘900] che si chiama Josif Brodskji e qualche volta, in questi anni, lo abbiamo già citato senza mai incontrarlo da vicino.
Josif Brodskji è nato a San Pietroburgo il 24 maggio del 1940 [allora questa città si chiamava Leningrado e stava per cominciare un momento drammatico per i suoi abitanti a causa del secondo conflitto mondiale]. Il padre di Iosif, Alexandr, era ufficiale della Marina sovietica con la passione per la fotografia e questa passione si trasforma in mestiere: diventa un reporter di guerra. Mentre sua madre Maria Volpert [di famiglia ebrea] fa la contabile e traduce in tedesco. Iosif cresce negli anni difficili dello stalinismo e due anni dopo la morte del dittatore, incoraggiato dalla madre, Iosif abbandona la Scuola [anche perché c’è bisogno che lui vada a lavorare] e a quindici anni comincia a studiare da autodidatta seguendo i percorsi clandestini che tengono le intellettuali e gli intellettuali critici con il regime sovietico [ha inizio il movimento del samizdat, l’editoria clandestina] e contemporaneamente va a lavorare come tornitore in una fabbrica, cambia diversi lavori e intanto comincia a comporre le prime poesie. Soprattutto la città di San Pietroburgo diventa il testo e l’argomento della sua poesia e ritorna in continuazione in tutte le sue opere: una città sospesa, impregnata d’odori, densa di ricordi, affollata di per lo più anonimi personaggi letterari. Brodskji, quando sarà costretto ad emigrare, ritrova San Pietroburgo in Venezia, in una sorta di trasposizione fisica e letteraria, di cui ci lascia la descrizione, attraverso un significativo gioco di specchi, in un’opera intitolata Fondamenta degli incurabili.
Le poesie di Iosif Brodskji, che “colgono frammenti di vissuto guardando all’eterno”, vengono apprezzate dall’importante poeta [così voleva essere chiamata] Anna Achmatova [utilizzando la biblioteca e navigando in rete andate a conoscere questo personaggio nella cui poetica ha avuto molta influenza la conoscenza dell’opera di Dante Alighieri, ed Anna Achmatova (1889-1966) - condannata al silenzio nel 1946 e riabilitata nel 1955 - è considerata il più grande poeta russo di tutti i tempi] e, alla metà degli anni ’60, molte persone cominciano a riunirsi pubblicamente per ascoltare la indimenticabile voce nasale di Iosif Brodskji, capace, leggendo le sue poesie, di sollevare le parole e farle danzare, e questo fatto lo rende inviso al Potere Sovietico: Brodskji viene accusato di “fannullaggine sociale”, viene processato e nel 1972 è costretto ad emigrare negli Stati Uniti, dove diventa cittadino americano nel 1977, e negli Stati Uniti insegna in diverse università svolgendo contemporaneamente una vasta attività di pubblicista e di poeta. Nel 1987 riceve il premio Nobel per la Letteratura e nel discorso del conferimento – pubblicato con il titolo Dall’esilio – parla della condizione dell’esule moderno, sospeso nel tempo, nello spazio e sempre “in fuga [sempre in sospeso]”.
Brodskji si è impegnato per tutta la vita a cercare di far capire che bisogna diffondere la cultura non solo rendendola superficialmente percepibile [come fenomeno di spettacolo o di imposizione ideologica] ma la cultura è per lui il risultato di un’attività di studio permanente e, nello specifico, si è battuto perché il difficile linguaggio della poesia fosse considerato come un vettore per la comprensione della realtà. Ha cercato di chiarire come l’estetica sia la madre dell’etica [la ricerca del bello ci spinge al bene] perché “«uno sguardo [scrive Brodskji] incapace di riconoscere la simmetria delle cose è anche incapace di essere giusto, e la simmetria delle cose è data dalla parola». «La parola [scrive Brodskji] è l’unica divinità che si possa riconoscere. Tutto il resto, corpo compreso, una trappola, capace di una fissità innaturale, una corazza per la parola, parola che dobbiamo imparare a far risuonare come un’onda».
Iosif Brodskji – personaggio inquieto – è morto il 28 gennaio del 1996 [era ancora giovane] a Brooklyn e poi è stato sepolto, trovando finalmente riposo, a Venezia sull’isola di San Michele.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
In biblioteca – e sulla rete c’è più di un sito dedicato a questo scrittore – potete trovare le opere tradotte in italiano di Iosif Brodskji: “Fermata nel deserto”, “Poesie 1972-1985”, “Fuga da Bisanzio”, “Il canto del pendolo”, “Dall’esilio”, “Fondamenta degli incurabili”, “Marmi”, “Poesie italiane”, “Dolore e ragione”, “Discovery, una poesia per bambini”...
Consultate questi testi: leggere la poesia non è un esercizio facile di per sé ma tentando [“cedendo alla tentazione”, scrive Anna Achmatova], a volte, se ne esce soddisfatte e soddisfatti, incuriosite e incuriositi... «La poesia [scrive Anna Achmatova] ci fa vedere non come il mondo è ma come il mondo diventa»...
Noi adesso vogliamo incontrare Iosif Brodskji nella sua veste di prosatore e di saggista erudito che sa trattare temi complessi con spirito autobiografico: leggiamo qualche pagina tratta dal saggio Fuga da Bisanzio che è il titolo di uno dei sette scritti che compongono quest’opera e che dà il nome all’intera raccolta.
Non è una lettura facile perché si presume che la lettrice e il lettore abbia frequentato un Percorso di Alfabetizzazione viaggiando sul territorio dell’Età tardo-antica [conosca Costantino e la sua strumentalizzazione del simbolo della “croce”, conosca Elena che scopre la “vera croce” ed Eusebio di Cesarea che cristianizza Costantino], e viaggiando sul territorio dell’Età alto-medioevale [conosca Giustiniano e Teodora e i drammi del familismo gerarchico] e viaggiando sul territorio dell’Età medioevale [conosca il tema della frattura tra la Chiesa greca e la Chiesa latina] in modo da sapersi orientare nel groviglio degli argomenti, nell’intreccio delle metafore e nel dilemma degli interrogativi [Era naturale che Roma fosse in fuga da Bisanzio?].
Noi, che siamo in viaggio tra Oriente ed Occidente sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età medioevale”, un po’ di competenza l’abbiamo acquisita: sappiamo che molti elementi della nostra cultura li abbiamo ricevuti da Bisanzio e molti fatti della nostra storia sono in relazione con questa città ma, nello stesso tempo, in quanto “occidentali, a suo tempo, abbandonati al nostro destino” sappiamo che siamo anche in fuga da Bisanzio e, di conseguenza, siamo consapevoli che l’attrazione per Bisanzio [che è una bellissima città che raccoglie molto di ciò che siamo diventate e diventati] e la fuga da Bisanzio [perché non possiamo rinunciare a Roma che ci fa essere quello che siamo], queste due situazioni contrastanti figlie del paradosso ci mettono in agitazione, e questo sentimento coltivato con lo studio può essere produttivo sul piano della nostra capacità di investire in intelligenza: questa idea [l’attrazione per Bisanzio e la fuga da Bisanzio] viene coltivata da Iosif Brodskji in questo saggio scritto, per frammenti, con lo stile del romanzo. Leggiamo dieci [su 46] di questi frammenti per scoprire quali sono i frutti di questa coltivazione.
LEGERE MULTUM….
Iosif Brodskij, Fuga da Bisanzio
Il mio desiderio di andare a Istanbul, che fu Bisanzio, non è mai stato un desiderio autentico. Non sono nemmeno sicuro che si debba usare la parola, «desiderio». D’altra parte sarebbe improprio parlare di un semplice capriccio o di una pulsione subconscia. Vada per desiderio, dunque, e diciamo pure che in parte il desiderio prese forma in seguito a una promessa che feci a me stesso nel 1972, al momento di dire addio alla mia città, Leningrado, che fu San Pietroburgo - la promessa di circumnavigare il mondo abitato seguendo la latitudine e seguendo la longitudine (ossia il meridiano di Pulkovo) su cui si trova Leningrado, e Istanbul dista soltanto un paio di gradi da quel meridiano, in direzione ovest.
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Abbiamo letto dieci dei quarantasei frammenti [assaggi] di cui si compone questo saggio: i testi saggistici diventano sempre un terreno di ricerca e naturalmente, anche in questo caso, sono molti gli argomenti sui quali Iosif Brodskij ci invita a riflettere [anche perché ci ha riflettuto lui medesimo] e sui quali potremmo soffermarci. Si capisce che Brodskij ha letto e utilizza l’opera di Costantino [o Michele] Psello, e dobbiamo sapere chi è questo personaggio attivo nel corso dell’anno Mille.
Costantino Psello – che da monaco ha preso il nome di Michele – è vissuto alla Corte di Costantinopoli negli anni tra il 1018 e il 1081 [quindi sta sulla nostra strada]. Costantino o Michele Psello è il più importante intellettuale bizantino del suo tempo: professore di filosofia nell’Università di Costantinopoli, è stato il principale consigliere di quattro imperatori e ha scritto molte opere [lettere, discorsi, orazioni, trattazioni giuridiche, teologiche, mitologiche, epigrammi, poesie satiriche]. L’opera più importante di Psello [citata da Brodskij] s’intitola Cronografia [e dal 1874 viene pubblicata con il titolo “Un secolo di storia bizantina”] e narra gli avvenimenti che vanno dall’ascesa al trono di Basilio II Bulgaroctono della dinastia Macedone [dal 976], alla fine del regno di Michele VII Parapinace della dinastia dei Ducas [al 1077], periodo in cui, dopo le glorie di Basilio [976-1025] che hanno portato l’Impero di Bisanzio al suo massimo splendore e al punto culminante della sua potenza, sono seguiti i tempi più tristi della storia bizantina, in cui l’Impero cade in balia di squallidi personaggi ed è travagliato da sanguinosi intrighi di Palazzo.
La Cronografia di Psello è la continuazione della Storia bizantina di Leone Diacono la quale si arrestava alla morte dell’imperatore Giovanni Tzimisce, predecessore di Basilio II. Psello nel racconto degli avvenimenti è abbastanza obiettivo però, quando la narrazione riguarda l’imperatore Michele VII, di cui è stato Segretario e consigliere, diventa esageratamente di parte perché è come se Psello parlasse della sua azione politica e diplomatica e, difatti, completamente trascurata è la relazione dei rapporti, piuttosto difficili, dell’Impero bizantino con l’estero. Naturalmente questo fatto non sminuisce la notevole importanza che ha la Cronografia di Psello dal punto di vista storico perché, anche quando assume toni apologetici per opportunismo cortigiano, la sua scrittura è tuttavia ricca d’ingegno e di acutezza di osservazione, ed è dotata di grande vivacità ed efficacia nell’esporre gli argomenti con uno stile che vuole imitare quello dei Dialoghi di Platone di cui Psello è uno studioso.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Con lo stile letterario di Psello, che è sempre elegante, attento, sorvegliato e volto all’imitazione dei grandi classici, il termine “bizantinismo” - che di solito ha un significato negativo - assume un aspetto positivo e si declina con i termini: “acume, acutezza, finezza, penetrazione, perspicacia, raffinatezza, sagacia”...
Quale di queste parole scegliereste per prima: scrivetela...
Sulla scia della “fuga da Bisanzio” rimangono in sospeso due interrogativi ai quali risponderemo nel prossimo itinerario: come cambiano i rapporti tra i Normanni e il papato e come mai gli intellettuali in fuga da Bisanzio invece di stabilirsi a Roma se ne vanno a stare a Salerno?
E ora, prima di concludere, non possiamo cominciare l’anno senza riprendere i contatti con i nostri compagni di viaggio Millemosche, Pannocchia e Carestia che abbiamo lasciato tutti bianchi-infarinati – avendo sfondato il tetto di un mulino ed essendo caduti, bagnati, nella farina – alle prese con una mucca benedettina di Fonte Avellana. Ricordate? Ebbene, con questa mucca si perdono in “bizantinerie, in osservazioni eccessivamente minuziose”, senza sapere che il pericolo incombe su di loro perché sembra che quando la mucca va in vacca spuntino le corna del diavolo!
LEGERE MULTUM….
Tonino Guerra Luigi Malerba, Storie dell’anno Mille
LE CORNA DEL DIAVOLO
Nella piazzetta del paese sono radunati i paesani. In mezzo a questi c’è il padrone della mucca e c’è anche il padrone del mulino con sua moglie. Poi c’è il prete con tre donnette. Il maniscalco con due garzoni. Meno il prete e le tre donnette sono tutti armati di forconi e bastoni. Il maniscalco invece ha una spada con la lama storta che gli hanno portato a raddrizzare. Il prete ha in mano un Crocefisso di ferro battuto che impugna come un martello tenendo Gesù con la testa all’ingiù. Le tre donnette borbottano qualcosa, forse pregano. Gli altri parlano tutti insieme e ogni tanto qualcuno si fa il segno della Croce.
«Li ho visti bene. Sono tre fantasmi tre anime dannate».
... continua la lettura ...
Loro fanno la conta senza sapere che stanno scherzando col fuoco: la prossima settimana vedremo in quale “bruciante” situazione vengono a trovarsi.
Dopo il fatidico anno 1054 sapete come cambiano i rapporti tra i Normanni e il papato e sapete come mai gli intellettuali in fuga da Bisanzio invece di stabilirsi a Roma se ne vanno a stare a Salerno?
Per rispondere a queste domande dobbiamo metterci sulla via dell’Alfabetizzazione culturale e funzionale con lo spirito utopico che lo “studio” porta con sé consapevoli del fatto che non si deve mai perdere la volontà d’imparare. Il viaggio continua e noi con il 2015 entriamo nel trentaduesimo anno di questa esperienza didattica che, a quanto pare, ha fatto della “precarietà” il suo punto di forza: un buon anno di “studio e di cura” a tutte e a tutti voi!
La Scuola è qui…