Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza poetica ellenistica 24-25-26 marzo 2010
SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA INDO-ELLENISTICA
C’È L’IDEA DI RINUNCIARE ALLA VOLONTÀ DI VIVERE NELLA DIMENSIONE DELL’EGOLATRÌA …
E così, strada facendo, siamo arrivati anche quasi alla fine della Quaresima, a quel periodo che, secondo l’anno liturgico, si chiama “il tempo di passione” e che precede la Pasqua di risurrezione. È bene tenere a mente che la parola “passione” caratterizza il vasto territorio della “sapienza poetica ellenistica” – sul quale stiamo viaggiando da sei mesi – e qualifica anche quel settore del territorio ellenistico nel quale spiccano i paesaggi intellettuali della cosiddetta Letteratura dei Vangeli, e non è casuale il fatto che, di questa significativa Letteratura, le prime ad essere scritte siano proprio le “sentenze” che riguardano una “passione”, quella di Gesù di Nazareth.
Il tempo di “passione” – e tutto il periodo della Quaresima – dovrebbe essere tempo di riflessione e di richiamo verso l’ascetismo, il misticismo, l’attitudine contemplativa. Come sapete ci troviamo in India dove fiorisce un movimento letterario, filosofico e religioso nell’ambito di quella che abbiamo chiamato la “sapienza poetica indo-ellenistica”, un movimento di pensiero dove il richiamo verso l’ascetismo, il misticismo, l’attitudine contemplativa è molto marcato ed evidente.
La scorsa settimana abbiamo incontrato il re Asòka, della dinastia dei Maurya, che regna sull’India per circa quarant’anni, fino al 231 a.C.. Sappiamo che questo personaggio non si rassegna ad un’idea che si sviluppa in età ellenistica secondo cui “l’essere umano è malvagio per natura”: il re Asòka comincia a pensare che ci possa essere una via che conduce verso forme di “benevolenza”. A fare questa considerazione non ci arriva da solo; inizialmente il re Asòka si comporta come un terribile guerriero che conduce, per spirito di conquista, molte guerre efferate in cui è responsabile di orribili stragi: anche lui è un monarca assoluto di stampo ellenistico che agisce spesso con malvagità. Ad un certo punto della sua vita si ravvede e si pente del cattivo comportamento che ha tenuto: riceve una “illuminazione” venendo in contatto, attraverso alcuni monaci, con il “pensiero di Sakiamuni”. Il re Asòka, dopo aver ascoltato la predicazione e visto il comportamento coerente di questi monaci, si rende conto che esiste una fioritura di carattere ascetico, mistico e contemplativo nel suo Regno di cui non si era mai accorto e, quindi, decide di cominciare a studiare questa cultura (prende coscienza del fatto di “sapere di non sapere”), sente la necessità di dover conoscere questa tradizione dalle origini, dai Libri dei Veda (dai Libri della Sapienza indiana) di cui il monachesimo, appartato ma assai diffuso, si sta nutrendo da più di tre secoli.
Le parole-chiave e le idee-cardine che il re Asòka impara le abbiamo studiate anche noi nel corso dell’itinerario della scorsa settimana. Il re Asòka acquisisce molte nozioni di carattere sapienziale ma soprattutto si sottomette ad una rigida disciplina che lo porta ad assumere un nuovo stile di vita, e diventa anche il principale artefice della diffusione e dell’organizzazione della comunità monastica di Sakiamuni che prende il nome di “sangha”, che potremmo anche tradurre con il termine “chiesa”. Asòka – abbiamo già detto la scorsa settimana – è il re buddista per eccellenza: è stato (in un certo senso) per il Buddismo quello che sarà l’imperatore Costantino per il Cristianesimo. Il re Asòka diventa anche, indirettamente, un missionario: fornisce tutti i mezzi perché i monaci possano viaggiare nel territorio dell’Ecumene, e possano arrivare fino in Macedonia e in Epiro a predicare la “dottrina di Sakiamuni” contribuendo a creare lo stile della “predicazione itinerante”.
Ma in che cosa consiste la “dottrina di Sakiamuni” e quali forme assume il Buddismo in India nell’età dei Maurya? È importante rispondere a questa domanda ed è importante riflettere sul fatto che tutti coloro i quali – da questo momento, dal III secolo a.C., in avanti – viaggiano verso Oriente per compiere il loro “pellegrinaggio intellettuale” vengono a contatto con questa cultura e la studiano, ci si confrontano e la rielaborano. Non è che questi intellettuali tornano verso Occidente dopo essere diventati “buddisti”, ma tornano consapevoli delle affinità culturali che ci sono tra la sapienza orfico-ellenistica secondo il pensiero di Socrate, di Platone e di Aristotele e la sapienza indo-ellenistica secondo il pensiero dei Libri dei Veda: se fosse per la “cultura” una unità d’intenti tra popoli sul vasto territorio dell’Ecumene ci sarebbe potuta essere, così come ci potrebbe essere oggi nel mondo globalizzato se all’alfabetizzazione fosse data la stessa importanza che si dà al mercato.
E allora, in che cosa consiste la “dottrina di Sakiamuni” e quali forme assume il Buddismo in India nell’età dei Maurya? Secondo il pensiero indiano delle origini contenuto nei Libri dei Veda (nei Libri della Sapienza) la causa dell’allontanamento dell’anima (dell’atman) dall’Essere (dal Brahaman o dal Brahama) è la “passione” umana e questa idea – che fa da filo conduttore di tutta la cultura vedica – rimanda direttamente alla “sapienza poetica ellenistica”. La “passione” (e, in questo caso, per “passione” s’intende la volontà di affermare il proprio “io”, “l’egolatria”, l’adorazione del proprio “io”) genera il “desiderio di affermazione” e il “desiderio di affermazione” fa vivere l’essere umano in bilico, in continuo equilibrio instabile tra la gioia ed il dolore.
Una persona – studiando i Libri dei Veda – ha riflettuto su questo concetto, una persona che abita in una città che si chiama Benares e che si trova nella valle del Gange. La città di Benares (in lingua hindi, Varanasi) si trova nella regione dell’Uttar Pradesh, sulla riva sinistra del Gange, ed è una città sacra per eccellenza, ci sono circa 1500 templi.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Fate un’escursione a Benares utilizzando l’enciclopedia, una guida dell’India (che potete trovare in biblioteca) e la rete, buon viaggio e, se volete, potete prendere qualche appunto di viaggio, bastano quattro righe…
A Benares dobbiamo – come sapete – incontrare una persona che si chiama Gotamo Siddharta, il quale, un giorno, a Benares, in un parco, ha tenuto un discorso, un famoso discorso, che ha lasciato il segno nell’Età assiale della storia. Il re Asòka, innanzi tutto, domanda ai monaci che ne predicano il pensiero chi sia Gotamo Siddharta e noi non sappiamo quale risposta abbiano dato al re. Noi sappiamo che la vita di questo personaggio ci è stata tramandata in racconti leggendari, ispirati a un’ammirazione per le sue qualità di Maestro che spesso raggiunge le forme del culto religioso. È difficile, quindi, discernere in queste agiografie (le “agiografie” sono le storie che raccontano la “vita dei Santi”) i dati sicuramente storici da quelli leggendari. Di storico si può dire che Gotamo Siddharta nasce nel clan dei Sakya, a Kapilavatsu, una località del Nepal, verso l’anno 563 a.C. e conduce un vita agiata fino all’età di 29 anni quando, sposato e padre di un figlio, decide di lasciare la famiglia e di intraprendere la vita dello Yogin (del monaco), che consiste in dure pratiche ascetiche e nella applicazione delle tecniche Yoga secondo la dottrina dei Libri dei Veda (dei Libri della Sapienza indiana).
Che cosa ha spinto Gotamo Siddharta a farsi monaco secondo la rigida disciplina della dottrina vedica (sapienziale) che abbiamo studiato nell’itinerario della scorsa settimana? La sua vocazione prende forma dopo un’improvvisa intuizione sul carattere universale del “dolore”, lo stesso concetto che ha elaborato Esiodo, sebbene in forme diverse, nell’ambito della “sapienza poetica orfica” (questo concetto richiama anche alla nostra mente la figura di Epicuro).
Gotamo Siddharta inizia un severo eremitaggio durante il quale viene chiamato Sakiamuni, l’asceta, il monaco della famiglia dei Sakya. Dopo sei anni di rigorosa vita monacale si persuade però che non è questa la via per uscire dal cerchio delle reincarnazioni, non è questa la strada per tornare ad essere tutt’uno col Brahman o col Brahama e per liberarsi dalla condizione del dolore che, nella vita, supera di gran lunga la condizione della gioia.
I racconti sulla vita di Gotamo Siddharta narrano che, un pomeriggio, al tramonto, mentre stava seduto a riflettere sotto il fico sacro (anche gli alberi possono essere un tempio) nei pressi di Bodh Gaya, ebbe un’illuminazione, fu illuminato da un’idea. In sanscrito il termine “illuminato” si traduce bodhy, da cui Buddha, che è il nome più comune con cui noi conosciamo questo personaggio. Questa illuminazione, questa idea, chiarisce a Gotamo Saddharta le cause del dolore universale e la via per uscirne.
Dopo un po’ di tempo passato a predicare e a mettere a punto il suo progetto di salvezza, annuncia pubblicamente la sua scoperta in un discorso, tenuto nel Parco dei Cervi, a Benares. Per tutta la vita Gotamo Siddharta, l’Illuminato di Benares, si dedica a predicare le sue “quattro verità” e ad organizzare la vita monastica dei suoi seguaci.
Muore intorno all’anno 480 a.C. senza aver lasciato nulla di scritto, raccomandando ai suoi discepoli di rimanere rigidamente fedeli alla dottrina delle “quattro verità”, senza lasciarsi attrarre dalle speculazioni filosofiche, dalle interpretazioni semplificatorie.
Era nella memoria di tutti i suoi discepoli che l’Illuminato di Benares aveva messo in guardia da ogni ricerca sui tre temi fondamentali del discorso filosofico: Dio, l’anima e il mondo. Perché Gotamo Siddharta consiglia di disinteressarsi di questi tre temi, e se non ci occupiamo né di Dio, né dell’anima e né del mondo: che cosa ci rimane? L’Illuminato di Benares risponde che questi temi sono legati all’inesistente e, in particolare, l’interrogativo metafisico – il chiedersi se esiste Dio, l’anima e il mondo – di sua natura scaturisce da un desiderio che, come ogni desiderio, è effetto e causa di illusione e quindi non può che accrescere il senso del dolore.
Gotamo Siddharta vuole unicamente proporre uno “stile di vita” e per questo motivo – come anche farà Socrate – non ha lasciato nulla di scritto per non dare corpo ad una “dottrina”, ma questa situazione ha determinato il fatto che il suo insegnamento ha dovuto affrontare i rischi di una memoria molto diversificata. E se ne sono subito resi conto i discepoli della prima generazione, tra i quali si distingue Ananda, che ha servito il Maestro per venticinque anni e ne ha raccolto le ultime parole pensando bene, per essere fedele, di non scriverle.
I suoi discepoli ricordavano ciascuno qualche cosa e si sviluppa una prima tradizione molto frammentata, per cui, a pochi anni dalla morte del Maestro, i suoi seguaci si riunirono in un Concilio – il primo di una lunga serie – per stabilire, secondo la tradizione orale, la dottrina e le parole del Maestro. Ma il “buddismo” non riuscì a rimanere dentro i limiti dei primi testi canonici in forma orale perché cominciò a diffondersi dalla regione del Gange in ogni parte dell’India e, scavalcando i confini della regione d’origine, anche le interpretazioni della dottrina cominciarono a diversificarsi.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Molte e molti di noi hanno vissuto durante gli anni del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965): c’è una parola, un’idea, un’immagine che è rimasta nella vostra memoria di questo significativo avvenimento dello Storia del Pensiero Umano?…
Scrivete quattro righe in proposito…
E poi, come sappiamo, nel III secolo a.C., il re Asòka, della dinastia dei Maurya, è stato il grande artefice tanto della diffusione quanto della organizzazione della comunità buddista. L’importanza del regno di Asòka è stata, negli ultimi tempi, messa in luce nella sua verità storica dalla decifrazione dei cosiddetti “editti rupestri”, testi, piuttosto estesi, scolpiti sulla roccia, come se fossero dei grandi manifesti, e collocati in punti strategici del territorio, con i quali lui faceva conoscere il suo pensiero ispirato alla dottrina buddista. Di questi “editti rupestri” ce ne sono anche in lingua aramaica e in lingua greca: segno di quali fossero le persone – in pellegrinaggio intellettuale – che transitavano nei suoi territori.
Abbiamo paragonato il re Asòka all’imperatore Costantino e, a questo proposito, una cosa è certa: il progetto di conciliare il “buddismo” (la predicazione di Gotamo Siddharta) con l’esercizio del potere ha sicuramente modificato l’impianto originario di questo pensiero e la stessa cosa è successa per il Cristianesimo (per il pensiero evangelico) con Costantino [oggi siamo in grado di discernere].
Nell’anno 215 a.C., quindi in età indo-ellenistica, i discepoli di re Asòka (lui era già morto da una quindicina d’anni) si riuniscono in quello che viene considerato il più importante Concilio buddista: il Concilio di Pataliputra. In questa adunanza – che diventa un vero laboratorio culturale – vengono messi per iscritto gli insegnamenti dell’Illuminato di Benares ormai filtrati attraverso una tradizione lunga circa duecentocinquant’anni. Nasce così un insieme di testi sacri che sono stati ordinati in un canone (in un catalogo) e secondo questa distribuzione, gli Scritti sacri del buddismo si distinguono in tre “canestri - pitaka”.
Il “Canestro dei sermoni [Suttapitaka]” che riporta la parola attribuita a Gotamo Siddharta, attribuita al Maestro.
Il “Canestro della disciplina [Vinayapitaka]”, che contiene le regole della vita monastica.
E il “Canestro della dottrina [Abbidhammapitaka], che raccoglie scritti di commento, di esegesi, sulla parola del maestro e sulle regole della vita monastica.
Il buddismo, come l’induismo, è rimasto una tradizione viva che ha prodotto, lungo i secoli, un patrimonio immenso di scrittura, di dottrine, di letteratura. Il pensiero di Gotamo Siddharta nasce e si sviluppa sulla scia delle Upanishad vediche, ma le idee dell’Illuminato di Benares fanno transitare il pensiero indiano dal primato dei dogmi, rivelati da Brahman e custoditi dal clero, al primato della ragione laica, decisa a restituire all’essere umano in quanto tale il peso del suo destino e del suo itinerario di salvezza.
Il “canone buddista” nato con il Concilio di Pataliputra rispetta fondamentalmente il pensiero originario di Gotamo Siddharta che, sulla linea della ragione, è molto più radicale che non la filosofia delle Upanishad. Gotamo Siddharta è uno di quei personaggi singolari della Storia del Pensiero Umano delle origini che è riuscito a rendere universale, valido cioè per ogni persona, lo sbocco di un suo tormentoso itinerario personale.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
C’è un episodio nella vostra vita che, per un tratto, ne ha reso tormentoso l’itinerario?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Gotamo Siddharta ad un certo punto della sua vita non condivide più la via di liberazione che propone la dottrina delle Upanishad e respinge come illusoria l’idea dell’esistenza di un Essere al di fuori del tempo e dello spazio, e proclama che la persona deve potersi riconoscere in una situazione molto concreta e razionale.
A questo proposito leggiamo direttamente un frammento tratto dal “Canestro dei sermoni”:
LEGERE MULTUM….
Canestro dei sermoni [Suttapitaka]
Non pensate, o discepoli, i pensieri che pensa il profano: “il mondo è eterno o il mondo non è eterno; il mondo è finito o il mondo è infinito”. Se davvero volete pensare ecco che cosa dovete pensare: questo è il dolore, questa è l’origine del dolore; questa è la sensazione del dolore. …
Il pensiero di Gotamo Siddharta conduce paradossalmente ad una religione non religiosa, dato che, in modo esplicito, non ha altra attenzione che per l’essere umano e non attribuisce nessuna importanza ai problemi che non riguardano la persona nella sua esigenza di liberarsi dalla catena del dolore – il páthos, secondo il vocabolario della “sapienza poetica ellenistica” – che tutti imprigiona.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
La parola “dolore” è legata ad un catalogo di significative parole-chiave: sofferenza, afflizione, pena, disperazione, cordoglio, patimento, spasimo, tormento, doglia, dispiacere… Quale di queste parole metteresti per prima e quale per ultima in quest’elenco?…
Tutto il pensiero indiano è concorde su un punto: “la vita è un male da cui conviene liberarsi”, ma in nessun’altra tradizione di pensiero su questa affermazione, che suona in modo molto severo, è stata svolta una riflessione con tanto rigore razionale e con tanta acutezza di scandagli psicologici come nelle opere che sono scaturite dal pensiero di Gotamo Siddharta.
L’esperienza e la predicazione dell’Illuminato di Benares si svolgono in un ambiente culturale dominato da violente spinte irrazionali che conducono molti pensatori a seguire la via dell’ascetismo con delle regole monastiche crudeli e disumane. Sappiamo che Gotamo Siddharta ha sperimentato per sei anni questo tipo di ascetismo monastico, ma, dopo l’illuminazione, diventa la voce della ragione umana che riprende fiducia in se stessa al punto da respingere ogni altro strumento per aprire alla persona il varco della liberazione dal male del vivere. Anche per le Upanishad la via della liberazione è la “conoscenza”, così come la fonte del dolore è “l’ignoranza”, ma la ragione per i maestri delle Upanishad trova il suo senso nel negare se stessa fino a dissolversi nel misticismo.
Per Gotamo Siddharta la ragione spiega che tutti gli atti compiuti dall’essere umano derivano dal “desiderio” e il “desiderio” deriva dall’ignoranza. Su questo ragionamento si sviluppa il discorso di Benares, nel quale Gotamo Siddharta proclama le “Quattro auguste verità”.
Leggiamo questo frammento dal “Canestro dei sermoni”:
LEGERE MULTUM….
Canestro dei sermoni [Suttapitaka]
Questa, fratelli e sorelle, è l’augusta (prima) verità circa il dolore: nascita è dolore, vecchiezza è dolore, malattia è dolore; dolore è l’unione con ciò che dispiace, dolore è la separazione da ciò che piace, non ottenere ciò che si desidera è dolore; in breve, i cinque diversi aggregati che determinano l’attaccamento all’esistenza sono dolore.
Questa, fratelli e sorelle, è l’augusta (seconda) verità circa l’origine del dolore: è la sete che conduce di rinascita in rinascita, che si associa con la gioia e il desiderio e trova qua e là il suo appagamento, cioè la sete dei piaceri del lusso, la sete di rinascita, la sete di annichilimento.
Questa, fratelli e sorelle, è l’augusta (terza) verità circa l’estinzione del dolore: l’eliminazione di questa sete mediante il totale annientamento della passione; abbandonarla, privarsi di lei, sciogliersi da lei, non concederle alcun luogo.
Questa, fratelli e sorelle, è l’augusta (quarta) verità circa la via che conduce all’estinzione del dolore; è questa la santa via composta di otto parti, e questi otto sentieri hanno questi nomi: rettitudine nel modo di pensare, rettitudine nella decisione, rettitudine nella parola, rettitudine nell’azione, rettitudine nella vita, rettitudine nello sforzo, rettitudine nel ricordo, rettitudine nella concentrazione. …
La prima verità è una constatazione che coglie il dolore nelle sue manifestazioni più immediate, che rientrano fatalmente nell’esperienza di ogni persona. Per Gotamo Siddharta le manifestazioni del dolore non sono, come per lo più vengono ritenute, aspetti negativi di un valore positivo, che sarebbe la vita, ma i “dolori” sono l’essenza stessa della vita, la quale dunque è di per sé un male. La singolare tesi di Gotamo Siddharta è che alla radice di questo male c’è l’illusione che “l’io” sia reale: il nostro “io” non è reale, è solo un insieme di sensazioni. Gotamo Siddharta, della tradizione delle Upanishad, respinge la dottrina dell’atman (dell’anima) – esiste, prima di tutto, il corpo – e conserva invece la dottrina “dell’illusorietà dell’io”, “l’io” è una rappresentazione generata dalle percezioni che il corpo ha degli oggetti: sono le percezioni che determinano il nostro attaccamento o la nostra repulsione verso le cose e la nostra paura di perderle. L’essere umano s’illude che il flusso delle percezioni sia “l’io”, mentre l’individuo – dice Gotamo Siddharta – è solo un fascio di sensazioni ed è paragonabile a un fascio di canne: se noi togliamo, una dopo l’altra, ogni canna, non resta nulla, così se da quel fascio di sensazioni, che è l’individuo umano, noi togliamo una dopo l’altra le sensazioni, non resta nulla, e “l’inesistenza dell’io” si fa comprensibile.
La seconda verità è che la vita di ciascun individuo è il risultato di una brama (ecco il tema del “desiderio” e della “passione”) che sta prima della sua nascita perché è una caratteristica della specie, anzi, di tutti gli esseri viventi. Da questa “brama originale”, da questo “desiderio primordiale” scaturisce il flusso delle reincarnazioni, il samsara – e qui Gotamo Siddharta si ricollega all’intera tradizione dei Libri dei Veda – per cui questa brama, questo desiderio si fa strada in ogni individuo sotto forma di “passione”. Gotamo Siddharta non distingue le passioni buone dalle passioni cattive: che si tratti del desiderio dei piaceri della carne, del potere, della ricchezza, del successo o del desiderio di una vita eterna o del desiderio di annientamento, o del desiderio di fare delle opere buone, in tutti i casi trionfa l’illusione che “l’io” sia reale. Ogni atto – l’atto conseguente al desiderare – che asseconda questa illusione, come insegnano anche le Upanishad, lascia nell’individuo un’incrostazione impura, la cui accumulazione [barman] determina una nuova rinascita. Il male fatto dall’essere umano non viene punito con sanzioni trascendenti, ma si sconta all’interno della catena delle generazioni. Un “dio giudice” – secondo Gotamo Siddharta – non è dunque necessario.
La terza verità è che, se la vita è un male e se la vita nasce dal desiderio, la liberazione consiste nella “estinzione del desiderio”. E qui noi – in forme diverse – cogliamo lo stesso intento che abbiamo trovato nel pensiero delle nuove Scuole ellenistiche (epicuree, stoiche, scettiche): imparare a raggiungere uno stato di “imperturbabilità”. L’estinzione del desiderio non si ha attraverso pratiche ascetiche, digiuni, macerazioni, ma attraverso la conoscenza del suo fondamento irreale. Chi raggiunge l’oggetto della sua passione si accorge che esso è inconsistente e che ne vuole subito un altro e, se non prende coscienza di questa situazione, il desiderio che lo muove lo sospinge ancora inesorabilmente sul sentiero della ricerca illusoria. Gotamo Siddharta pensa che sia necessario anticipare, mediante le pratiche della contemplazione attiva, la “consapevolezza della vanità” che esiste negli oggetti desiderati. Bisogna imparare, attraverso lo studio e la contemplazione, a collocarsi, in “beata pace”, fuori del cerchio delle passioni da cui nasce il dolore.
La quarta verità riguarda la via [marga] da seguire per realizzare l’uscita definitiva dalla catena delle reincarnazioni. A questo proposito Gotamo Siddharta detta otto norme, “Otto sentieri” che, come abbiamo letto – costituiscono (non c’è molto da spiegare) gli stadi di un Percorso di Apprendimento permanente: la via della salvezza – e questa è un’idea che si riproduce costantemente in tutta la Storia del Pensiero Umano – è un itinerario di carattere intellettuale, è una Scuola attraverso la quale si deve imparare a pensare, a decidere, a parlare, ad agire, a respirare, a fare sforzo di volontà, a ricordare, a concentrarsi con rettitudine. Tutto ciò, a dirsi, sembra perfino banale, e allora perché, in pratica, è così difficile da realizzare? Perché è necessaria una forte presa di coscienza.
Il monachesimo, nato dalla sua predicazione dell’Illuminato di Benares, si dedica ancora, da venticinque secoli, a commentare le “Quattro verità” e gli “Otto sentieri”. Adesso noi – per continuare a riflettere – leggiamo un altro frammento tratto dal “discorso di Benares”. Il taglio di questa parabola è simile a quello che troviamo – circa 500 anni dopo, in età ellenistica – nel cosiddetto “discorso della montagna”, che fa parte del testo del Vangelo secondo Matteo, nei capitoli dal 5 al 9 e la Scuola consiglia di rileggerli questi capitoli.
LEGERE MULTUM….
Canestro dei sermoni [Suttapitaka]
Fratelli e sorelle non seguite le illusioni nel modo di pensare, di decidere e di parlare. Non pensate, né decidete, né parlate, se non a partire dalla certezza che l’io non esiste e che anche gli oggetti sono illusioni. Non riponete fiducia nei riti sacri, nelle pratiche religiose, nelle discussioni sui grandi problemi dell’aldilà. Le vostre parole sono giuste perché non dite mai “io” o “mio”; le vostre azioni sono giuste, perché in voi è morto ogni interesse personale; il vostro comportamento è ineccepibile perché voi vi astenete da ogni traffico di denaro, da ogni uso delle armi, da ogni offesa alla vita, fosse pure quella di un moscerino, da ogni bevanda eccitante. E questa astinenza la vivete nella gioia e non nelle esasperate ascetiche in uso fra i monaci. Il vostro sforzo è retto, lontano dagli eccessi, volto a mantenere costantemente un sereno dominio sulla gioia e sulla paura. La sorgente vera di questo sforzo non è tanto la volontà ma la concentrazione, cioè una contemplazione che esclude da sé tutto ciò che è illusorio, come dire l’intero mondo degli oggetti, per accogliere in sé il vuoto, vera realtà dell’universo, il Nirvana che non è né il puro non-esistere né il puro esistere: chi vi entra contempla, come dal di fuori, la serie dei mondi e delle incarnazioni che si succedono sulla spinta inesausta della sete di vita. …
Secondo la letteratura delle Upanishad la liberazione si ha dissolvendosi come gocce d’acqua nell’oceano del Brahman, mentre, secondo il pensiero di Gotamo Siddharta la liberazione consiste nell’estinzione definitiva della vita intesa come fenomeno egocentrico. Il Nirvana, il vuoto cosmico, la vera realtà dell’universo alla quale l’individuo deve approdare, non è né il puro non-esistere né il puro esistere e Gotamo Siddharta non vuole dire di più e considera la curiosità a tale riguardo come una peccaminosa persistenza della volontà di vivere nella dimensione dell’egolatrìa, e l’esaltazione del proprio “io” – essendo “l’io” un concetto illusorio – non può che procurare danni a se stessi e agli altri.
Il pensiero indiano delle origini, attraverso la riflessione di Gotamo Siddharta, lascia in eredità alla Storia del Pensiero Umano due parole-chiave di grande importanza: “illusione” e “vanità”. Queste due parole significative, “illusione” e “vanità”, fanno parte anche del catalogo della “sapienza poetica ellenistica”.
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La parola “illusione” porta con sé un catalogo di significative parole-chiave: miraggio, inganno, sogno, chimera, lusinga, apparenza…
Abbiamo capito che dobbiamo essere consapevoli della natura irreale delle illusioni, e allora una volta presa coscienza di questo fatto, perché non provare, per iscritto (bastano quattro righe), a farsi una bella illusione, a dare forma a quella illusione che, magari ogni tanto, si configura nella nostra mente?…
La parola “vanità” è legata ad un catalogo di parole-chiave molto interessanti: leggerezza, inutilità, inconsistenza, futilità, ambizione, ostentazione…
Quale di queste parole, oggi, scrivereste vicino alla parola vanità?…
La dinastia dei Maurya, nel 185 a.C., si estingue e la dominazione di questa casa reale sull’India si conclude. Questo avvenimento ne determina un altro di una certa importanza dal punto di vista politico e culturale, e significativo anche per la storia del buddismo.
Si era formato, da tempo, dal 250 a.C., sul territorio della Battriana, un nuovo Regno ellenistico che è stato chiamato “indo-greco”: la Battriana – se volete andare a fare un’escursione sulla carta geografica – è una storica regione dell’Asia centrale corrispondente all’Afganistan centro-settentrionale e alla parte meridionale del Turkmenistan, dell’Usbekistan e del Tagikistan. Dopo l’estinzione della dinastia dei Maurya, nel 185 a.C., mentre, a fasi alterne, la guerra tra i successori di Alessandro sta continuando (sono passati 138 anni dalla morte di Alessandro!), sul territorio del Regno indo-ellenistico della Battriana, prende il potere un generale greco di nome Demetrio il quale si proclama monarca. Demetrio della Battriana – sentendosi tranquillo alle spalle perché i vari monarchi ellenistici erano in lotta tra loro – riesce, proponendosi come continuatore della dinastia dei Maurya, che si era estinta, ad estendere il suo impero sul Regno indiano proprio con l’appoggio della comunità buddista a patto che lui si comporti come il re Asòka. Anche questa situazione ci ricorda il comportamento che terrà (circa 500 anni dopo) l’imperatore Costantino quando a Roma, nel 312 d.C., la sua alleanza con i Cristiani gli garantirà la conquista del potere.
Demetrio della Battriana muore nel 175 a.C. e il suo impero, troppo vasto e troppo fragile, si sfascia e si frantuma in tanti Staterelli. Uno di questi Staterelli, che si forma nella regione del Panjab, attira la nostra attenzione. Il Regno indipendente del Panjab sorge sotto l’abile governo – che dura circa trent’anni tra la fine del II e l’inizio del I secolo a.C. – di un collaboratore di Demetrio: un funzionario greco che si chiama Menandro. Perché ci interessa questo personaggio che si proclama re del Panjab? Questo personaggio lo incontriamo in funzione della didattica della lettura e della scrittura nell’ambito del movimento della “sapienza poetica indo-ellenistica”. Menandro del Panjab è il protagonista di un’opera che viene considerata un capolavoro della Letteratura indiana e che s’intitola Dialoghi di Re Milinda oppure Le domande di Milinda,: in questo testo la figura allegorica del Re Milinda richiama la figura storica del re Menandro.
Noi non sappiamo chi sia l’autore di quest’opera che è stata composta nel II secolo d.C. quindi in età indo-ellenistica, circa 400 anni dopo il Regno di Menandro: il testo di quest’opera – che ricorda i Dialoghi di Platone – riporta le conversazioni tra il Re Milinda, che fa le domande, e il monaco buddista Nagasena il quale risponde esponendo il pensiero dell’Illuminato di Benares nei suoi punti salienti (quelli che abbiamo studiato): le “Quattro verità” e gli “Otto sentieri”. Il dialogo più significativo tra il re e il monaco è quello che ha per tema la “non esistenza dell’anima” e l’importanza del “vuoto”.
Ci sono degli apologhi molto significativi in quest’opera: uno di questi è “l’apologo del bicchiere del re”. Il re chiede al monaco: “Mi sai dire tu che sei un saggio qual è la cosa più preziosa del mio bicchiere d’oro massiccio tempestato di pietre preziose? È forse l’oro?”. “Non è l’oro”, risponde il monaco. “Allora sono le pietre preziose!” Afferma il re. “Non sono le pietre preziose”, risponde il monaco. “E allora che cos’è la cosa più preziosa di questo bicchiere?” Ribatte spazientito il re. “La cosa più preziosa che fa del bicchiere il bicchiere è il vuoto a cui sta intorno la materia: il vuoto è l’essenza del bicchiere”.
Il testo di quest’opera, anche se non fa parte del canone ufficiale del buddismo, è stato sempre considerato fondamentale per impartire gli insegnamenti della dottrina di Sakiamuni. L’aspetto, forse, più significativo di quest’opera è che, sullo sfondo, l’autore fa percepire alla lettrice e al lettore la vita pacifica, serena e di qualità che si svolge (350-400 anni prima) nella capitale del Regno del Panjab, nella città di Sakala.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Oggi Sakala è una città pakistana che si chiama Sialkot e con l’enciclopedia, con una guida del Pakistan e collegandosi alla rete la potete anche visitare…
Sakala viene descritta dall’autore dei Dialoghi di Re Milinda come una città che assomiglia all’Atene di Socrate dove si incontrano, per discutere e per confrontarsi sui grandi temi esistenziali, i maestri di tutte le Scuole di pensiero dell’Ecumene. Letterati, artisti, scienziati affluiscono nella regione di Gandhara, nell’India occidentale, da tutte le parti del mondo e la città di Sakala diventa un laboratorio culturale dove comincia ad attuarsi una fusione tra tre grandi tradizioni spirituali: la greca, l’iranica e l’indiana. Questa stagione è durata poco ma, a maggior ragione, merita di essere ricordata come una delle più importanti possibilità di comunicazione intellettuale e di contaminazione culturale che siano nate nella storia complessa dell’Ellenismo: purtroppo questa esperienza è stata subito travolta da altre vicende che hanno modificato la situazione.
Infatti anche il regno di Menandro viene ben presto invaso, intorno al 130 a.C., dall’irruzione di popolazioni centro-asiatiche, gli Sciti che, con i loro cavalli veloci e i loro archi infallibili, conquistano un vasto territorio: nasce il Regno indo-sciitico dei Kushana e così, nella regione di Gandhara, si sviluppa una nuova e diversa cultura, ma questa è un’altra storia e di qui (sappiatelo) parte un altro Percorso, un altro sentiero sul quale non ci possiamo avventurare. La testimonianza di questo importante e complesso periodo storico rimane nelle belle sculture in pietra che hanno conservato i segni di una armonica fusione culturale e che danno testimonianza della fecondità del movimento che è stato chiamato della “sapienza poetica indo-ellenistica”.
Ma l’elemento più prezioso che qualifica il movimento della “sapienza poetica indo-ellenistica” è quello della conservazione, della trasmissione e dello studio dell’immenso patrimonio della Letteratura indiana che è andato formandosi nei secoli contemporaneamente alla composizione dei Libri dei Veda.
Quali sono le opere più importanti della Letteratura indiana di cui – sebbene a grandi linee – ci dobbiamo occupare per poter capire e conoscere la portata del movimento della “sapienza poetica indo-ellenistica”?
La prima opera della Letteratura indiana di cui dobbiamo conoscere l’esistenza s’intitola Mahābhārata che significa “La grande lotta dei Bhārata” e “Bhārata” è il nome di una mitica dinastia. La prima cosa da sapere è che il libro che porta questo titolo, il Mahābhārata, è l’opera più voluminosa non solo della Letteratura indiana ma della Letteratura di tutto il mondo. Questo libro contiene un enorme poema che consta di centomila strofe, divise in 18 parti, poi è stata ancora aggiunta una diciannovesima parte che porta questo colossale complesso epico a circa centoventimila strofe. Quest’opera è stata composta in un lungo periodo di tempo che va dall’età vedica (2500 anni fa) fino al VI secolo d.C. e naturalmente è l’opera di molte generazioni di autori. Questa enorme opera ha la forma di un grande compendio composto da una lunga sequela di testi poetici di svariata lunghezza che raccolgono tanto il sapere sacro quanto quello profano, tanto le leggi civili quanto gli usi e i costumi e, quindi, questo poema assume l’aspetto di una vera e propria enciclopedia, di un enorme “corpus” epico.
Di che cosa parla quest’opera, qual è il suo contenuto? Quest’opera ha un filo conduttore: racconta le vicende leggendarie dell’antica stirpe regale dei Bhārata, discendenti dal re Bhārata figlio del re Dusyanta e della ninfa Sakuntala. Il poema narra soprattutto la lotta fra due rami di questa stirpe: tra i discendenti dei fratelli Kuru e Pandu.
La cosa che ci colpisce di più venendo a contatto con quest’opera è la straordinaria somiglianza che troviamo tra i miti orfico-ellenistici e i miti indiani a cominciare dai fratelli indiani rivali Kuru e Pandu che ricalcano le figure degli ellenici Atreo e Tieste nella saga dei Pelopidi della quale ci siamo occupati nell’anno 2004 attraversando il territorio della “tragedia greca”. Se vogliamo continuare con le similitudini all’interno della complessa rete dei racconti troviamo il personaggio del re Dhrtarastra che ha cento figli così come Priamo di Troia. Troviamo cinque eroi che assomigliano per le loro caratteristiche agli eroi omerici: Yudhisthria, il saggio e prudente, Arjuna, il nobile guerriero, Bhima, violento, vorace e di forza erculea, soprannominato Panciadilupo, i due gemelli Nakula e Sahaveda, valorosi e leali come i loro “cugini” ellenici, i gemelli Castore e Polluce.
Durante un torneo solo Arjuna riesce a tendere un grande arco così come fa Ulisse quando uccide i Proci che, in sua assenza, si erano insediati nella sua reggia. Il premio di questo torneo è la principessa Draupadi che va in sposa al vincitore ma siccome la madre dei cinque eroi, alla loro partenza per il torneo, ignara di che cosa fosse il grande premio in palio, aveva ordinato che venisse diviso tra i fratelli se uno di loro avesse vinto, succede che, per obbedire alla inviolabile parola materna Draupadi diventa la moglie comune dei cinque fratelli.
Quale spiegazione dà il poema di questo racconto in cui emerge la poliandria (una moglie con più di un marito)? Ancora una volta la spiegazione rimanda alla Teogonie elleniche; difatti i cinque fratelli eroi – spiega il poema – sono porzioni o emanazioni, e quindi incarnazioni, di cinque divinità: Dharma, il dio della giustizia (come Dike), Indra, il dio dell’atmosfera e signore del fulmine (come Zeus), Vâyu, il dio del vento (come Eolo), e Asvin un dio gemellare in due persone (i Dioscuri dell’India).
I continui scontri tra i discendenti dei fratelli rivali Kuru e Pandu sono tutti pretesti per imbastire straordinarie narrazioni: c’è chi si gioca ai dadi il regno con partite truccare e viziate dalla magia, ci sono coloro che, sconfitti, si devono rifugiare per dodici anni nella foresta dove vivono innumerevoli avventure molto simili a quelle del Libro della giungla. Ci sono racconti – come quelli di Nala e Dimayanti e di Rama e Sita – che danno argomento per la nascita di altri importanti poemi come il Ramayana di cui parleremo tra poco.
In questi racconti – veri e propri capolavori poetici – spicca quello della “Discesa del fiume Gange in terra” perché era un fiume celeste, era la Via Lattea, e poi non manca il racconto del “diluvio universale”, e poi quello della nascita del dio della guerra Skanda, un personaggio che assomiglia ad Atena, e la leggenda commovente di Savitri che assomiglia alla figura di Alcesti che Euripide ha messo in tragedia.
La guerra più lunga tra una delle generazioni dei successori dei fratelli rivali Kuru e Pandu dura diciotto anni di seguito e viene narrata in un racconto – che copre cinque lunghissimi libri del Mahābhārata – nel quale viene messa in scena la morte di tutti i condottieri: rimangono le vedove che s’incontrano per piangere i caduti e per detestare “quell’insensato affare da uomini” che è la guerra. L’ultimo condottiero rimasto in vita è Bhisma il quale – prima di morire sul suo letto di morte formato allegoricamente da innumerevoli frecce nelle quali rimane impigliato per 58 giorni – tiene un lunghissimo discorso sul tema della “morale pubblica e privata”: questo discorso occupa quasi un quarto di tutto il poema, sono 19.494 strofe, e questo discorso è un vero e proprio trattato di filosofia giuridica dell’India antica.
In tutto questo poema domina l’intento pedagogico e didattico e le migliaia e migliaia di “massime” che occupano interi canti e interi libri risplendono tanto per la profondità del contenuto quanto per la felicità dell’espressione e hanno poi dato luogo a molteplici Catechismi proprio come è avvenuto per le opere delle nuove Scuole dell’Ellenismo di cui abbiamo studiato il pensiero.
All’interno del Mahābhārata, nel VI libro, trova posto addirittura un intero poema che ha poi avuto una vita propria e che s’intitola Bhagavadgītā, il “Canto del Beato”: quest’opera, per la sua grandiosità e per il suo contenuto è diventata ed è considerata come se fosse uno dei grandi breviari dell’Umanità.
Ma di quest’opera ne parliamo fra breve, ora dobbiamo puntare la nostra attenzione sul secondo grande poema epico dell’India, che s’intitola Ramayana e che si distingue dal primo, il Mahābhārata (di cui abbiamo parlato or ora): mentre il Mahābhārata ha un carattere enciclopedico e la sua immensa estensione racchiude in sé quasi tutto il “corpus” delle leggende sacre e profane dell’India antica, oltre al sapere teologico e filosofico dei Libri dei Veda, il Ramayana ha invece carattere unitario.
Il Ramayana (Le gesta di Rama) si presenta come un poema unitario di circa 24.000 strofe, diviso in sette parti, di cui la prima e l’ultima sono state aggiunte più tardi, in età indo-ellenistica. L’unità di questo poema emerge dall’uniformità dello stile epico, dal metro costante dei versi e dalla coerenza della lingua: per questi motivi la tradizione indiana vuole che quest’opera sia stata composta da un solo poeta chiamato Valmiki. Di Valmiki, di questo “primo poeta”, non si ha nessuna notizia e appare come un modello, come l’immagine di uno stile letterario ammirato e insuperato: nella poesia di Valmiki la forma è l’elemento essenziale, mentre la sostanza è, per così dire, l’elemento accessorio: più che le cose dette, importa il come sono dette. Lo stile di Valmiki deve soprattutto la sua fama all’abile uso che lo scrittore fa degli ornamenti retorici, come le similitudini, le metafore, i giochi di parole, gli intrecci filologici e le descrizioni. Il Ramayana è, quindi, un poema “artistico” – che fa pensare all’Elegia alessandrina di Callimaco di Cirene – ma tuttavia, come il Mahābhārata, anche il Ramayana è un poema popolare non solo ad uso degli intellettuali.
Nei versi introduttivi al poema – dove lo scrittore fa un riassunto (il catalogo) degli avvenimenti narrati – si racconta che il dio Brahma stesso abbia esortato il poeta Valmiki a cantare le gesta di Rama, promettendogli che “finché staranno i monti e scorreranno i fiumi, vivrà, da te composta, la storia del grande Rama”: la profezia si è avverata perché, oggi, dopo più di due millenni, il Ramayana è celebrato da tutto il popolo indiano, viene pubblicamente letto in occasione delle più solenni feste religiose, e molti degli episodi che narra questo poema sono diventati Letteratura, sono diventati rappresentazioni teatrali, e negli ultimi decenni sono diventati trame per film attraverso quel fenomeno straordinario che è il cinema indiano.
La figura di Rama rappresenta l’ideale del guerriero senza macchia e senza paura, la figura di sua moglie Sita rappresenta l’ideale della donna fedele e virtuosa: dalle vicende di questi due personaggi mitici le poetesse e i poeti di tutto il mondo, specialmente le scrittrici e gli scrittori di drammi, di romanzi e di sceneggiature teatrali o filmiche hanno attinto per comporre le loro opere.
Leggiamo ora l’inizio di questo poema dove, come abbiamo detto, l’autore, in età indo-ellenistica perché la prima e l’ultima parte di quest’opera sono state scritte nel II secolo d.C., fa un riassunto per introdurre gli avvenimenti narrati:
LEGERE MULTUM….
Valmiki, Ramayana [Le gesta di Rama]
È il dio Brahma in persona, o primo poeta [Valmiki], che ti esorta a cantare,
e sappi: finché staranno i monti e scorreranno i fiumi, vivrà, da te composta,
la storia del grande Rama, il figlio di Dasaratha, re della bella città di Ayodhya.
Il grande Rama, fin dagli anni giovanili, è famoso per il valore e per le molte virtù,
è sposato con Sita, figlia del re Janaka di Mithila, ed è destinato a succedere al padre.
Per un intrigo di Corte viene esiliato per quattordici anni nella giungla selvaggia
dove gli sono compagni la consorte Sita e il fratello Laksmana. Durante l’esilio
Sita è rapita da Ravana, il crudele re dei raksana [i demoni], e trasportata nell’isola
di Lanka e lì viene tenuta in ostaggio. Rama fa alleanza con l’esercito dei vanara
[le scimmie]: uno dei vanara, Hanumat, figlio del Vento, riesce a scoprire la prigione
di Sita ed apre un varco nella reggia di Ravana così che Rama possa subito muovere guerra al demone,
lo sconfigga e lo uccida. E Rama vittorioso ritorna e sale sul trono di Ayodhya insieme con la sua diletta Sita che,
sottopostasi alla prova del fuoco, ha dato solenne testimonianza davanti a tutto il popolo della sua conservata purezza. …
Le studiose e gli studiosi di antropologia culturale ritengono che la saga di Rama e di Sita contenga un mito di carattere atmosferico-agricolo: il personaggio di Rama rappresenterebbe il dio Indra-Parjanya, lo Zeus indiano (il “Giove pluvio” dei Latini) e il nome “Sita”, in sanscrito significa: “il solco che dalla pioggia è reso fecondo”.
Per concludere non possiamo non ricordare che un italiano (anche se l’Italia, a quel tempo, non esisteva ancora come nazione ma lo diventerà) ha dato la prima – e, fino alla metà del secolo scorso, l’unica – traduzione completa in una lingua europea del Ramayana. Questa preziosa impresa culturale è stata compiuta dall’abate piemontese Gaspare Gorresio – nato nel 1808 a Bagnasco in provincia di Cuneo nel Regno Sabaudo. Gorresio emigra a Parigi nel 1838 per perfezionarsi alla Sorbona in sanscrito e diventa un grande esperto di lingua e di cultura indiana e nel 1843 intraprende la traduzione e il commento del Ramayana, questo suo lavoro termina nel 1867 quando la sua opera viene pubblicata a Parigi: l’Italia, come nazione, non esiste ancora mentre il genio italiano, quello vero, quello sotto traccia, esiste già. Nel 1852 Gaspare Gorresio torna in Piemonte dove istituisce all’Università di Torino la prima cattedra italiana di sanscrito e di Letteratura indiana. Gaspare Gorresio muore a Torino nel 1891 trent’anni dopo l’Unità d’Italia.
Gaspare Gorresio ci ha insegnato che il sanscrito è la lingua degli dèi per eccellenza, è la lingua perfetta che non muta e non è soggetta alle traversie che si producono per il solo fatto di essere parlata: “sanscrito” significa, appunto, “compiuto, confezionato” (corrisponde al termine greco “téleios”). Il sanscrito è fondamentalmente una lingua letteraria che ci ha offerto capolavori come il Mahābhārata e il Ramayana di cui ci siamo occupate e occupati: perché è successo così, perché il sanscrito ha queste caratteristiche? Per rispondere a questa domanda – con una riflessione per la quale ci vuole un po’ di tempo – incontreremo ancora Gaspare Gorresio dopo le vacanze, ora dobbiamo seguire la trafila che ci propone il paesaggio intellettuale della Letteratura indiana.
Abbiamo detto precedentemente che all’interno del VI libro di quell’enorme poema che è il Mahābhārata trova posto il testo di un’opera che ha poi avuto una vita propria e che s’intitola Bhagavadgītā, “Il canto del beato”. Quest’opera, per la sua grandiosità e per il suo contenuto, è diventata ed è considerata come se fosse uno dei grandi breviari dell’Umanità. Bhagavadgītā (Il canto del beato) è un poema mistico-filosofìco. Questo testo è, ancora oggi, in India, il più diffuso Libro di devozione: un Libro che viene pubblicato ogni anno in sempre nuove edizioni, e viene letto, riletto, studiato, imparato a memoria, perché dona conforto alla persona provata dai dolori della vita ed è considerato il più salutare strumento di preparazione alla morte.
Il protagonista di quest’opera è l’eroe Arjuna – che abbiamo già citato studiando il Mahābhārata – il quale, alla vigilia della grande battaglia contro i suoi cugini nemici e il loro esercito, viene preso dallo sgomento all’idea di questa lotta fratricida, e vorrebbe deporre le armi piuttosto che venirsi a trovare nella tragica necessità di uccidere amici e parenti. Arjuna ha un auriga, che guida il suo carro in battaglia, che si chiama Krsna ed è l’incarnazione terrena del dio Vishnu. Krsna, vedendo Arjuna preso dallo sgomento, si adopera per sradicare dall’animo dell’eroe ogni esitazione, ogni dubbio, e gli ricorda che il suo dovere, come guerriero, è quello di combattere. D’altronde – aggiunge – “soltanto i corpi sono passibili di uccisione, mentre lo spirito è invulnerabile ed eterno”.
È tutta una riflessione di carattere allegorico per affermare che “il proprio dovere deve essere compiuto senza fare calcoli” e la persona saggia deve sentire indifferenza verso le cose esteriori, raccogliersi nella concentrazione mentale, nello “yoga”, e coltivare la “bhakti”, l’amor di Dio.
Poi Krsna si rivela ad Arjuna come l’Essere supremo, come la meta ultima cui deve tendere ogni mortale per conseguire, mediante l’immedesimazione in quell’Unico esistente, la liberazione dal ciclo delle esistenze.
In questo poema, veramente filosofico e mirabile per la profondità dei concetti in esso trattati, emergono una serie di contraddizioni fra la parte più antica del testo, che considera l’Essere come trascendente, e la parte scritta in età indo-ellenistica che sostiene l’idea panteistica, la presenza di Dio in tutte le cose. Nel testo di questo poema si fondano insieme dottrine filosofiche che appartengono a sistemi di pensiero diversi: la Scuola Vedanta (che predica una dottrina di carattere panteistico), la Scuola Samkhya (che coltiva un insegnamento di carattere trascendente), la Scuola Yoga (che insegna un esercizio di carattere pratico) e la Scuola Vishnuista (che professa la dottrina dell’amor di Dio). Ed è proprio da questo eclettismo di dottrine e di credenze che deriva il valore universale che in India ha acquisito la Bhagavadgītā (Il canto del beato), un testo nel quale tutti si riconoscono e che, quindi, diventa un insuperabile Libro di edificazione religiosa, ugualmente caro agli appartenenti di Scuole diverse. Gandhi ha scritto: «Quando la delusione mi fissa negli occhi e tutto solo non scorgo nemmeno un raggio di luce, io rivado alla Bhagavadgītā. Trovo un verso qui e un verso là e immediatamente comincio a sorridere nel mezzo di tragedie soverchianti. Il testo di quest’opera ci parla con una voce sovrana, serena, continua, è la voce di un’intelligenza antica che, in un’altra epoca e sotto un antico cielo, ha saputo discutere e farci riflettere sulle questioni esistenziali che ancora ci travagliano».
Queste tre opere di cui abbiamo fatto conoscenza, appartenenti al grandioso paesaggio intellettuale della Letteratura indiana, hanno un’origine molto antica: la loro prima versione risale al tempo dell’Età assiale (2500 anni fa), poi però, successivamente, in età indo-ellenistica, sono state rivisitate, ampliate, rimesse in ordine e così si sono tramandate e conservate meglio. In età moderna e contemporanea queste grandi opere tradizionali continuano a fare da piattaforma culturale a nuovi oggetti letterari che hanno varcato i confini dell’India.
A questo proposito dobbiamo incontrare ancora una volta – perché altre volte lo abbiamo incontrato – un significativo personaggio contemporaneo, uno degli eredi della grande tradizione letteraria indo-ellenistica. Questo personaggio è uno scrittore, un poeta, un compositore, un pittore, un filosofo che è stato paragonato a Goethe e a Jean-Jacques Rousseau e che si chiama Rabindranath Tagore (1861-1941).
Rabindranath Tagore – e penso che tutte e tutti voi lo abbiate sentito nominare –, insieme a Gandhi, con le sue opere (anche perché le ha tradotte personalmente in inglese) è riuscito a far capire la grande spiritualità del suo Paese in tutto il mondo, quando l’India era ancora una colonia nelle mani della corona britannica (della compagnia delle Indie). A Tagore nel 1913 è stato conferito il Nobel per la Letteratura e tra le sue opere più importanti ricordiamo le due raccolte di poesie intitolate: Gitanjali e Il Giardiniere.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
In biblioteca trovate tutte le opere di questo scrittore, sull’enciclopedia trovate le notizie sulla sua vita e se vi collegate alla rete scoprite che a Tagore sono dedicati molti siti…
Tagore ha scritto anche opere in prosa e se vogliamo entrare – in funzione della didattica della lettura e delle scrittura – nello spirito della “sapienza poetica indo-ellenistica” è utile leggere almeno un frammento, molto evocativo, tratto dalla sua autobiografia intitolata “Shoron” (Ricordi), pubblicata nel 1923.
LEGERE MULTUM….
Rabindranath Tagore, Shoron [Ricordi]
Da bambino venivo chiamato il piccolo Rabi, ed ero discendente da una principesca famiglia di brahmani bengalesi, e mi distinguevo per l’obbedienza ai genitori, i buoni voti a scuola e una devozione esemplare. Ricordo con gioia che la mattina, ancora al buio, mio padre, con delicatezza, mi svegliava per farmi studiare a memoria le declinazioni sanscrite. Poi al sorgere del sole, mio padre ed io, dopo aver recitato gli inni sapienziali, finivamo di bere il latte mattutino, dopodiché ci rivolgevamo nuovamente all’Essere supremo cantando le Upanishad.
Quest’uomo adulto oggi, cinquant’anni dopo, attraverso lo specchio della scrittura, cerca di immaginare come fosse la figura materiale del piccolo Rabi che all’alba, mezzo addormentato, guardava sorgere il sole cantando le Upanishad insieme a suo padre, ma il velo della nostalgia si posa su queste immagini materiali desiderate rendendole vaghe, indistinte, illusorie, mentre il sentimento spirituale del piccolo Rabi è rimasto intatto, come realtà ben distinta, nell’animo di un uomo ormai maturo che è stato, una volta, un bambino.
Le Upanishad sono canti filosofici di tremila anni fa, ma sempre vivi e presenti nella vita spirituale dell’India. Ora, da uomo adulto, me ne rendo conto meglio e, mentre vedo mentalmente, seppur in modo vago e frammentario, il piccolo Rabi che salutava l’aurora con le strofe delle Upanishad, capisco chiaramente come, nel mondo, si faccia fatica a comprendere un paese dove i bambini iniziano la giornata intonando versetti filosofici. …
Abbiamo già letto qualche anno fa questo brano facendo una riflessione che dobbiamo rifare sul fatto che il nostro sistema di vita ci impone – pochi resistono – di far vedere, ai bambini, cartoni animati, farciti di spot pubblicitari, fin dal mattino prima di andare a Scuola e l’ironia di Tagore vale più che mai oggi: “capisco chiaramente come, nel mondo, si faccia fatica a comprendere un paese dove i bambini iniziano la giornata intonando versetti filosofici”.. Questa bella riflessione era, nel 1923, una critica – velata ma molto severa – contro il colonialismo occidentale (l’India fino al 1948 sarà una colonia britannica) che ha esclusivamente una visione materiale del mondo e quindi illusoria: ebbene, questa riflessione non vale forse anche per oggi? Una visione, quella del colonialismo occidentale – sostiene Tagore – che non è in grado di cogliere la vera realtà delle cose che è di natura spirituale.
E ora concludiamo leggendo due frammenti poetici tratti dalla raccolta intitolata Il Giardiniere (1913). In linea con il pensiero sapienziale dei Libri dei Veda Tagore definisce l’Essere, il Principio supremo (il Brahman o il Brama) con una metafora, con la figura del Giardiniere. C’è un Giardiniere supremo la cui benefica attività si manifesta in ciascun essere umano il quale deve prendere coscienza e deve imparare ad essere il “Giardiniere del proprio giardino spirituale”: la vita si carica di senso solo se la persona si dedica alla cura – solo se la persona “desidera” dedicarsi alla cura – del proprio giardino spirituale.
Nei versi di Tagore la Natura – con il suo alone di suggestione e di incanto – è in primo piano come pretesto per descrivere situazioni profonde e appassionate dell’anima (dell’atman), situazioni legate alla gioia e al dolore ma, soprattutto, allacciate alla parola-chiave che – secondo il pensiero indiano – emerge per prima dalla natura umana e che viene rimandata alla natura stessa dell’Essere: la parola “desiderio”, “brama”, “Brahma”. La parola “desiderio” si confonde con la parola “Brahma” che definisce l’Essere supremo, il quale, proprio perché è Uno e Impersonale, possiede come caratteristica principale, quella di “desiderare” di moltiplicarsi. L’Essere desidera moltiplicarsi e si frantuma in tante anime e ogni anima desidera ristabilire l’unità con l’Essere: ecco l’immagine della condizione contraddittoria e inquietante che, come esseri umani, sperimentiamo quotidianamente.
Il termine “desiderio”, con l’idea contraddittoria (apiretica) che contiene, è una delle principali idee-cardine presenti nelle opere di Tagore, il quale, come filosofo e come esegeta delle opere della Letteratura indiana, sviluppa una significativa riflessione sul tema, contraddittorio (apiretico), del “desiderio”. Perché la natura del “desiderio” è contraddittoria (apiretica)? Perché per un verso il desiderio si presenta come “brama”, come voglia di moltiplicarsi, come volontà di rompere l’unità assoluta e per l’altro verso il desiderio si presenta come “aspirazione a tornare ad essere tutt’uno con l’Essere”, a ricomporre l’unità assoluta: in questa contraddizione (aporia) l’essere umano vive in bilico, in continuo equilibrio instabile tra la gioia e il dolore.
E ora leggiamo i due frammenti poetici tratti dalla raccolta, del 1913, intitolata Il Giardiniere:
LEGERE MULTUM….
Rabindranath Tagore, Il Giardiniere [LXXXIV LXXXV]
Sopra le risaie verdi e gialle passano le ombre delle nubi autunnali
inseguite dal sole rapido e incalzante. Le api dimenticano di succhiare il miele;
ebbre di luce, ronzano in una danza vibrante.
Le anatre, sulle isolette del fiume, starnazzano allegre senza motivo e senza sosta.
Nessuna, sorelle, torni a casa stamattina, nessuno, fratelli, vada a lavorare.
Prendiamo d’assalto il blu terso del cielo, deprediamo lo spazio nella corsa.
Le risate vagano nell’aria come spuma scintillante sulle onde del mare.
Fratelli, sorelle, con canzoni leggere sperperiamo il nostro mattino, a cantare.
Chi sei tu, lettrice, lettore, che leggi le mie poesie tra un centinaio d’anni?
Non posso inviarti un solo fiore dalla ricchezza di questa primavera,
non posso inviarti una sola striatura d’oro dalle nubi lontane cent’anni.
Ma tu, adesso, apri le porte e guardati intorno.
Dal tuo giardino in fiore puoi cogliere tutti i ricordi fragranti perché
il Giardiniere non ha mai smesso di curare nessuno dei fiori
apparentemente svaniti un centinaio d’anni avanti.
Nella gioia del tuo cuore possa tu sentire ora l’esultanza che cantò il mio cuore
in un mattino di primavera: una voce lieta attraversa un centinaio d’anni
una voce allegra attraversa sempre, del tempo e dello spazio, ogni frontiera. …
La cura del proprio “giardino spirituale”, il desiderio di prendersi cura del proprio “giardino spirituale” – quindi di “studiare” perché anche un sanscrito il termine “studio” è sinonimo di “cura” – produce un alleggerimento, favorisce un allontanamento della passione, del dolore, della sofferenza, dell’inquietudine, indica la via del quotidiano risorgere come dirà papa Gregorio Magno (l’inventore dell’abbazia e della regola benedettina): “Studiare è cominciare a risorgere”. È un po’ di anni che noi, a Pasqua, presentiamo questa citazione.
Ma, da dove deriva, in quale occasione Gregorio fa questa affermazione? Gregorio fa questa affermazione commentando un brano del Vangelo secondo Giovanni (kata Ioannin) e ora – attraverso lo studio della “sapienza poetica ellenistica e indo-ellenistica” – possiamo capire meglio questa affermazione: “Studiare è cominciare a risorgere”.
Il “giardino spirituale” di Tagore – e Tagore è una persona che invita a guardare il mondo in modo “ecumenico” studiando le grandi culture dell’Umanità – richiama volutamente alla memoria i “giardini” dell’Accademia di Platone, del Liceo di Aristotele, delle nuove Scuole ellenistiche, in particolare quella di Epicuro che, come ricordate, prende proprio il nome di “giardino”. Il termine “giardino” s’identifica con la parola “scuola”.
Ma questa sera il “giardino spirituale” di Tagore ci indirizza verso un significativo “intreccio filologico” nella tradizione della “sapienza poetica ellenistica” e ci ricorda soprattutto che è proprio in un “giardino” che si trova la “tomba vuota della risurrezione”, e con questa considerazione – con questo investimento in intelligenza – possiamo, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, celebrare la Pasqua di quest’anno.
A questo proposito facciamo una rapida incursione in una zona del territorio dell’Ellenismo ricca di paesaggi intellettuali che mostrano tutta una serie di preziosi oggetti culturali che costituiscono il patrimonio della cosiddetta “Letteratura dei Vangeli”: torneremo, prossimamente, in questo luogo per osservare da vicino uno di questi paesaggi intellettuali (poi ci torneremo in autunno).
Adesso, per celebrare la Pasqua di quest’anno in funzione della didattica della lettura e della scrittura, facciamo riferimento ad uno dei testi più importanti della Storia del Pensiero Umano, composto in età ellenistica: il Vangelo secondo Giovanni (kata Ioannin). Il testo, complesso ed affascinante, del Vangelo secondo Giovanni (e lo abbiamo già incontrato molte volte in questo quarto di secolo) lo ristudieremo a suo tempo: ora ci limitiamo a leggerne un frammento. Questo frammento (e il commento più significativo lo ha fatto Gregorio Magno in una delle sue Omelie) ci permette, comunque – e, a questo punto, senza bisogno di tante spiegazioni – di capire e di conoscere come le parole-chiave “giardino” in quanto sinonimo di “scuola” e la parola “giardiniere” in quanto sinonimo di “maestro” servano all’autore ellenista del Vangelo secondo Giovanni per dare spessore culturale, per donare consistenza intellettuale alla “buona notizia” (in greco, “eu-agghelìa”) della risurrezione.
E adesso leggiamo:
LEGERE MULTUM….
Vangelo secondo Giovanni 19, 38-42 20, 1-18
Giuseppe d’Arimatèa era stato discepolo di Gesù, ma di nascosto, per paura delle autorità. Egli chiese a Pilato il permesso di prendere il corpo di Gesù. Pilato diede il permesso. Allora Giuseppe andò a prendere il corpo di Gesù.
Arrivò anche Nicodèmo, quello che prima era andato a trovare Gesù di notte; portava con sé un’anfora pesantissima, piena di profumo: mirra con aloe. Presero dunque il corpo di Gesù e lo avvolsero nelle bende con i profumi, come fanno gli Ebrei quando seppelliscono i morti.
Nel luogo dove avevano crocifisso Gesù c’era un giardino, e nel giardino c’era una tomba nuova dove nessuno era mai stato sepolto. Siccome era la vigilia della festa ebraica, misero lì il corpo di Gesù, perché la tomba era vicina.
Il primo giorno della settimana, la mattina presto, Maria di Màgdala va verso la tomba, mentre è ancora buio, e vede che la pietra è stata tolta dall’ingresso, allora corre da Simon Pietro e dall’altro discepolo, il prediletto di Gesù, e dice: «Hanno portato via il Signore dalla tomba e non sappiamo dove l’hanno messo!».
Allora Pietro e l’altro discepolo uscirono e andarono verso la tomba. Andavano tutti e due di corsa, ma l’altro discepolo corse più in fretta di Pietro e arrivò alla tomba per primo. Si chinò a guardare le bende che erano in terra, ma non entrò. Pietro lo seguiva. Arrivò anche lui e entrò nella tomba: guardò le bende in terra e il lenzuolo che prima copriva la testa. Questo non era in terra con le bende, ma stava da una parte, piegato. Poi entrò anche l’altro discepolo che era arrivato per primo alla tomba, vide e credette. Non avevano ancora capito quello che dice la Bibbia, cioè che Gesù doveva risorgere dai morti. Allora Pietro e l’altro discepolo tornarono a casa.
Maria era rimasta a piangere vicino alla tomba. A un tratto, chinandosi verso il sepolcro, vide due angeli vestiti di bianco. Stavano seduti dove prima c’era il corpo di Gesù, uno dalla parte della testa e uno dalla parte dei piedi. Gli angeli le dissero:
- Donna, perché piangi?
Maria rispose: - Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno messo.
Mentre parlava si voltò e vide Gesù in piedi, ma non sapeva che era lui. Gesù le disse: - Perché piangi? Chi cerchi?
Maria pensò che fosse il giardiniere e gli disse: - Signore, se tu l’hai portato via dimmi dove l’hai messo, e io andrò a prenderlo.
Gesù le disse: - Maria!
Lei subito si voltò e gli disse: - Rabbunì! [dolce Maestro!].
Gesù le disse: Lasciami, perché io non sono ancora tornato al Padre, va’ e di’ ai miei fratelli che io torno al Padre mio e vostro, al Dio mio e vostro.
Allora Maria di Màgdala andò dai discepoli e disse: «Ho visto il Signore!».
Poi riferì tutto quel che Gesù le aveva detto. …
Il luogo della risurrezione – secondo la Letteratura “ellenistica” dei Vangeli – non può che essere un “giardino” perché il termine “giardino (kepos, lo stesso termine che usa Epicuro e che significa “orto” ancor prima di giardino)” – tanto nell’ambito della “sapienza poetica ellenistica”, quanto in quella “indo-ellenistica” – è sinonimo di “scuola”, di “luogo dove ci si prende cura del proprio intelletto”. Ed ecco perché Gregorio afferma che: “Studiare è cominciare a risorgere”. E la cura del proprio “giardino spirituale”, il desiderio di prendersi cura del proprio “giardino spirituale” – quindi di “studiare” perché il termine “studio” è sinonimo di “cura” – produce un alleggerimento, favorisce un allontanamento della passione, del dolore, della sofferenza, dell’inquietudine, e indica la via del quotidiano risorgere. E allora ciascuna e ciascuno di noi si faccia “giardiniera e giardiniere” del proprio intelletto (del proprio “giardino spirituale”) e si dedichi all’Apprendimento permanente perché “Studiare è cominciare a risorgere”.
Il nostro Percorso, dopo la vacanza, riprende il suo cammino: mercoledì 7 aprile alla “Scuola Redi”, giovedì 8 aprile alla “Scuola Levi” e venerdì 9 aprile alla “Scuola Don Milani”.
“Studiare è cominciare a risorgere!”: questa è la sorpresa pasquale che troviamo nell’uovo della Scuola e la Scuola è qui e il viaggio continua ed è – come sapete – un viaggio di “studio” e quindi: sia buona Pasqua di “studio” per tutte voi e per tutti voi perché “Studiare è cominciare a risorgere”…