Prof. Giuseppe Nibbi La sapienza poetica ellenistica 14-15-16 aprile 2010
SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA GRECO-ELLENISTICA E INDO-ELLENISTICA
C’È L’ESPERIENZA CINESE DELLE “CENTO SCUOLE”…
Siamo in Cina nella valle del Fiume Giallo nel corso del IV secolo a.C. nel cosiddetto periodo delle “Cento scuole” e, per la precisione, ci troviamo – dove siamo ospiti – nel “Palazzo della Cultura” della bella città di Loyang dove alloggiano anche due significativi personaggi che dobbiamo incontrare: il confuciano Meng-tzu [detto Mencius, in latino] e il taoista Chuang-tzu chiamato anche, in forma più moderna, Zhuang-zi con il quale, in parte, abbiamo già fatto conoscenza la scorsa settimana.
Per conoscere da vicino l’opera di questi due personaggi – che sono contemporanei al periodo greco-ellenistico e a quello indo-ellenistico – è necessario capire che cosa significa essere “taoisti” (come Chuang-tzu) ed essere “confuciani” (come Meng-tzu). Nell’itinerario della scorsa settimana abbiamo studiato che cosa significa essere “taoisti” e questa sera dobbiamo studiare che cosa significa essere “confuciani”.
Al termine dello scorso itinerario abbiamo detto che, nei confronti della profonda crisi politica, sociale e morale che investe la Cina del VI secolo a.C., la risposta taoista, la risposta del testo del Tao-tê-ching – di cui abbiamo letto una serie di capitoletti e che esalta il concetto della “non-azione” – non si dimostra la più adatta: l’esercizio della “contemplazione” poteva assicurare la “serenità dell’animo” ma era necessaria anche l’attiva partecipazione alla vita politica per porre rimedio al degrado del paese. Quando la dinastia Chou perde l’autorità comincia – come abbiamo già detto la scorsa settimana – a formarsi, sul territorio cinese, una moltitudine di piccoli Stati rissosi e governati da apparati feudali spesso molto corrotti e sappiamo che quando in una comunità viene meno l’etica pubblica e privata, le classi sociali smarriscono la coscienza del proprio ruolo e perdono il senso del dovere.
La ricostruzione della razionalità politica è stata attuata da Confucio che ha saputo riportare in primo piano il filo delle antiche tradizioni per ricostruire il tessuto del vivere comune nel quale fossero ben determinati i ruoli del singolo individuo all’interno degli organismi sociali: dalla famiglia alla corte. Infatti Confucio è stato, di volta in volta, considerato sia un innovatore che un restauratore, tanto un rivoluzionario quanto un reazionario conservatore e questa caratteristica – questa ambiguità – è rimasta profondamente incisa nello spirito della Cina. E allora, chi è Confucio e in che cosa consiste il suo pensiero e che cosa ha lasciato in eredità al periodo detto delle “Cento scuole”, il periodo contemporaneo all’ellenismo-greco e all’indo-ellenismo?
Kong-fou-tseu, detto Confucio dalla forma latinizzata Confucius introdotta dai gesuiti nel XVI secolo, nasce nel 551 a.C. in un villaggio di Lu, uno dei regni in cui si era (come sappiamo), da più di un secolo, disgregato l’impero cinese. La madre lo educa rigorosamente alle tradizioni e Confucio detiene, fin da giovane, tutta una serie di cariche pubbliche fino a diventare nel 505 a.C. governatore della capitale di Lu e successivamente ministro dei lavori pubblici, poi della giustizia e, infine, cancelliere del regno. Per sottrarsi alle calunnie e agli intrighi della corte – altri dicono perché era diventato insopportabile per la sua pedanteria – lascia la sua città e, per tredici anni, insieme ad alcuni discepoli, viaggia come pellegrino negli altri regni dell’impero, esponendo la sua riforma morale e politica. Tornato in patria a Lu, dedica gli ultimi tre anni della sua vita (muore nel 479 a.C.) all’insegnamento, con grande successo: i suoi discepoli furono anche tremila.
La tradizione vuole che Confucio abbia scritto una serie di Libri storici e abbia compilato l’ultimo dei cinque Libri canonici [I Ching] intitolato Le primavere e gli autunni. L’insegnamento di Confucio ha dato vita ad una lunga tradizione culturale che si concretizza nella cosiddetta “Scuola dei Letterati”. I Letterati confuciani hanno fatto del confucianesimo l’ideologia dominante della Cina che non ha mai cessato di emergere (e tuttora, nella Cina contemporanea, la mentalità confuciana riemerge irresistibilmente).
Nel VII secolo d.C. un collegio di Letterati ha compiuto una revisione e un riordinamento delle Opere confuciane compilando un catalogo ufficiale dei testi su cui si basa la cultura cinese. Da allora, ai cinque Libri canonici della Cina [I Ching, che abbiamo introdotto la scorsa settimana], si sono aggiunti i quattro classici Libri confuciani: I Discorsi o I Dialoghi di Confucio, La Pietà Filiale, Il Grande Studio, L’Invariabile Mezzo, e I Colloqui di Meng-tzu (Mencio). Dobbiamo dire che Meng-tzu (372-289 a.C.), durante il periodo delle “Cento scuole”, elabora, duecento anni dopo, I Discorsi o I Dialoghi di Confucio sotto una nuova forma.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
In biblioteca potete richiedere e leggere qualche pagina del testo delle Opere di Confucio e potete trascriverne qualche frammento che ritenete interessante…
Confucio con il suo pensiero rinnova la società cinese recuperando le tradizioni e riempiendole di un nuovo spirito: dandogli un’anima. Confucio diceva di sé e del suo pensiero: «Io commento, io chiarisco le opere antiche, ma non invento nulla di nuovo». Confucio con il suo insegnamento trasfigura le origini preistoriche dell’Impero facendo degli imperatori non degli dèi capricciosi e crudeli (come in altre culture mitiche) ma degli esseri umani saggi e virtuosi.
Secondo Confucio tocca alla nobiltà, ormai spogliata di molti suoi privilegi, ridar vita alla virtù che, nei tempi mitici, splendeva alla corte degli imperatori. Però Confucio mette bene in chiaro che la nobiltà di sangue, ereditata, conta poco. Ed ecco in che cosa consiste l’innovazione confuciana: ciò che conta è la “nobiltà d’animo”, nobili non si nasce, nobili si diventa, per cui un contadino saggio e virtuoso è nobile, un feudatario capriccioso e crudele è ignobile.
Confucio non vuole entrare negli arditi ragionamenti dei taoisti che esaltano il concetto della “non-azione” perché il suo pensiero coltiva idee pratiche e politiche. Per i taoisti il Tao è una Via che non si può nominare, che non può esser tradotta da nessuna logica, da nessuna regola, mentre per Confucio invece il Tao è l’insieme ordinato dei “nomi” e cioè dei “ruoli” che ogni nome esprime e che si trovano codificati, secondo la tradizione, nei Libri canonici. Per cui la società funziona bene se ognuno “onora il proprio nome” cioè se “svolge bene il proprio ruolo”, e la società funziona bene se ogni ruolo, anche il più umile, viene valorizzato, perché è dal bene comune che deriva il bene dei singoli. «Quando un principe si comporta da principe, un ministro da ministro, un padre da padre, un figlio da figlio, il paese è governato», così si legge ne I Dialoghi di Confucio.
Confucio intende affrontare il problema del buon governo e del ben-essere della società impegnandosi a “rettificare ogni nome”, vale a dire assumendosi la responsabilità di “delineare bene le regole di ogni ruolo”. Per questo Confucio si dedica a commentare con scrupolo i Libri canonici [I Ching], per cercare, nella tradizione, le norme che regolano ogni ruolo, in modo che ciascun cittadino possa assolvere alle proprie mansioni con “rettitudine”.
Confucio diventa, secondo la tradizione, scrittore di Libri storici e anche l’ultimo dei cinque Libri canonici [de I Ching], intitolato Le primavere e gli autunni, che viene attribuito a Confucio, è un libro storico, è un libro di annali in cui, cronologicamente, si racconta – rasentando molto il mito e la leggenda – la storia più remota della Cina e dei primi imperatori. La storia è, per Confucio, lo specchio in cui l’umanità può conoscere se stessa (è maestra di vita) ed è, più precisamente, lo strumento necessario per comprendere il vero senso dei nomi, la vera utilità dei ruoli.
La “rettificazione dei nomi”, vale a dire “che ognuno svolga il proprio ruolo (i propri ruoli) con rettitudine” (se ognuno facesse il suo dovere) è la chiave di volta della dottrina confuciano. Questa idea – questi concetti: della “storia”, della “fedeltà al ruolo (ai ruoli)” e della “rettitudine” – investe nei secoli successivi la cultura dell’Ellenismo greco e soprattutto di quello latino.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Che cosa ha significato e che cosa significa per voi svolgere il vostro ruolo, o più di un ruolo, con rettitudine?… Ne è valsa la pena oppure non ne è valsa la pena?…
Scrivete quattro righe in proposito…
E ora leggiamo un frammento da I Dialoghi di Confucio:
LEGERE MULTUM….
Confucio, I Dialoghi
Se i nomi non vengono rettificati [se non si conoscono le regole per assolvere al proprio ruolo], le parole non sono in accordo con la realtà delle cose; se le parole non sono in accordo con la realtà delle cose, gli affari non possono essere portati onestamente a compimento, i riti e la musica non vengono coltivati; se i riti e la musica non vengono coltivati, le punizioni non vengono assegnate al modo giusto; se le punizioni non vengono assegnate al modo giusto, le persone non sanno come muovere le mani e i piedi. Perciò la persona saggia nomina solo ciò di cui può parlare, parla solo di ciò che sa fare: nelle parole della persona saggia deve rispecchiarsi la rettitudine. …
Perché la persona possa acquisire la “rettitudine” e possa praticarla, il confucianesimo costruisce un vastissimo catalogo di regole e di prescrizioni che spesso finiscono per rasentare la pedanteria. Sta di fatto però che se ciascuno osserva tutte le prescrizioni date assicura il “retto andamento” e della società e della natura. In cinese il complesso delle prescrizioni, l’insieme delle regole da rispettare viene chiamato semplicemente “Li”.
Se per i taoisti l’individuo supera i propri squilibri dimenticando se stesso per identificarsi col Tao, per identificarsi con la Legge della natura, per Confucio il superamento del disordine si raggiunge identificandosi con le regole della società. Anche la religione per Confucio vale se ne vengono rispettati minuziosamente i riti, specie quelli che esprimono il culto degli antenati.
Quindi per Confucio, molto più che per qualsiasi altro filosofo, l’essere umano è un “animale sociale”.
La società esaltata da Confucio si deve rispecchiare in un ideale esclusivamente morale, che egli chiama “jen”, termine difficile da tradurre in concetti occidentali. La persona, se vuole contribuire al bene della società, deve tendere a realizzare lo “jen”. Possiamo paragonare lo “jen” all’ideale latino della “humanitas” o quello greco del “kalos ka gathos”, la fusione di bellezza e di bontà, o possiamo utilizzare, per definire lo “jen”, i concetti di benevolenza, decoro, simpatia umana. La persona che possiede lo “jen”, si legge ne I Dialoghi di Confucio: «Dal desiderio di affermare se stessa è portata ad affermare gli altri e solo sviluppando gli altri sviluppa se stessa». Quindi la regola centrale dello “jen” è letteralmente identica alla norma evangelica che dice: «Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te; fa agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te».
Ma questa simmetria tra l’io e gli altri, nel confucianesimo, si riduce a uno scambio di gentilezza tra persone sagge e benevole, dentro i limiti dell’equilibrio, e non comporta affatto lo “squilibrio” che prevede la “chàritas evangelica”, che suggerisce di rendere bene per male e di amare coloro che ci perseguitano: questa idea è considerata dall’etica confuciana un eccesso, e l’eccesso, anche per quanto riguarda la virtù, è in contrasto con il pensiero del confucianesimo.
La norma suprema della morale confuciana è rappresentata dal “tsong-yong”, il “giusto mezzo”, un concetto che possiamo trovare anche nell’Etica di Aristotele. Per assicurare la serenità d’animo e per dissipare il disordine sociale è utile agire secondo il “giusto mezzo”, il “tsong-yong”.
L’equilibrio confuciano ha sempre alimentato, in tutta la sua storia, il “carattere sociale” della Cina. Per assicurare la serenità d’animo e per dissipare il disordine sociale, è conveniente cercare la “giusta misura”, cercare “l’equilibrio”, usare la “moderazione”, comportarsi con “rettitudine”.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
La parola-chiave “rettitudine” - nel vocabolario del pensiero cinese delle origini - ha un posto centrale… Dalla parola “rettitudine” derivano molte altre parole significative: onestà, probità, lealtà, integrità, correttezza, moralità, serietà, incorruttibilità, irreprensibilità, chiarezza, semplicità, trasparenza, schiettezza, sincerità… Quali – almeno tre – di queste parole mettereste per prime accanto alla parola “rettitudine”?…
Scrivetele…
Nel pensiero confuciano c’è anche un’altra parola fondamentale che dobbiamo mettere in evidenza, ed è la parola “memoria”, una parola che abbiamo incontrato molte volte nei nostri Percorsi di alfabetizzazione culturale e funzionale. La “memoria” è, per Confucio, lo strumento con cui l’umanità può conoscere se stessa e, più precisamente, il mezzo con cui l’umanità può rievocare il vero senso dei “nomi” e può ricostruire la vera utilità dei “ruoli”. La parola-chiave “memoria” – per Confucio – è direttamente collegata alla parola “storia”.
Le studiose e gli studiosi c’informano che con il pensiero confuciano ha inizio una riflessione su un interrogativo fondamentale: la Storia è “memoria”? Questo interrogativo sarà sempre al centro del dibattito culturale, e lo è stato, anche, in particolare, nel periodo dell’Ellenismo e, soprattutto, nell’età del secondo Ellenismo, quello d’impronta latina. In questo quarto di secolo – in cui si è svolta, con continuità, la campagna di alfabetizzazione promossa da questi nostri Percorsi di studio – abbiamo incontrato molte altre definizioni che riguardano la Storia (e sempre accompagnate da un punto interrogativo) tutte definizioni su cui abbiamo avviato una riflessione per far crescere il catalogo dei nostri pensieri.
“La Storia è memoria”? Questo interrogativo rimanda allo strato culturale più profondo dell’Umanità e di questo fatto Confucio sembra esserne consapevole. Nello strato più profondo della cultura umana (e le persone che sono in viaggio da qualche tempo in questi Percorsi lo sanno) ci sono le parole-chiave e le idee-cardine più antiche: le cosiddette parole e le idee degli “albori” che troviamo sul ramo più basso dell’albero genealogico lessicale.
Il primo ragionamento che le studiose e gli studiosi di antropologia, di antichistica, di filologia, hanno fatto è che se queste parole e queste idee più antiche (paura e bisogno, ritmo e ciclo, rito e rete, cerimonia e racconto) ce le “ricordiamo”, questo significa che il primo fondamentale meccanismo propulsore della Storia della Cultura e del Pensiero è “la memoria”.
Su che cosa siamo invitati a riflettere quando affermiamo che: la Storia è “memoria”? Noi abbiamo già affrontato questo tema (nell’anno 2005, e molte e molti di voi se lo ricorderanno) in compagnia di Erodoto e lo affronteremo ancora, prossimamente, attraversando il territorio del tardo Ellenismo e quello, vastissimo, dell’età medievale e moderna. Ora noi dobbiamo rimanere nell’ambito del nostro itinerario e quindi leggiamo alcuni frammenti significativi da I Dialoghi di Confucio per prendere atto che il tema della “memoria” è ben presente nel pensiero di Scuola confuciano.
LEGERE MULTUM….
Confucio, I Dialoghi
Confucio disse: – Se la persona saggia manca di memoria non è rispettata, la sua cultura non è solida. Ella considera essenziali la lealtà e la sincerità, non ha amici che non siano simili a lei, se sbaglia non teme di correggersi.
Confucio disse: – La persona saggia non cerca la sazietà nel mangiare né la comodità nella dimora. Ella è accorta nel fare e prudente nel dire, segue chi è sulla Via per correggersi, segue chi è sulla Via della memoria. [Così] può dirsi amante del sapere.
Confucio disse: – Ricordo che a quindici anni la mia volontà fu rivolta allo studio, ricordo che a trenta fui fermo [nei propositi], ricordo che a quaranta non ebbi più incertezze, ricordo che a cinquanta compresi i decreti del Cielo, ricordo che a sessanta il mio orecchio divenne un organo obbediente [perché fu capace di ascoltare], ricordo che a settanta seguii i desideri del mio cuore senza uscire di squadra, senza perdere la memoria.
Confucio disse: – La persona saggia è universale e non smemorata, l’uomo volgare è smemorato e non universale.
Confucio disse: – Dedicarsi a coltivare la memoria è incamminarsi sulla Via della rettitudine. …
Parafrasando il pensiero di Confucio, possiamo dire che: “Incamminarsi sulla Via della Scuola è (o dovrebbe essere) uno dei modi possibili per dedicarsi a coltivare la propria memoria”.
Abbiamo definito le linee fondamentali del pensiero confuciano e il pensiero confuciano trova la sua sede centrale nella città di Loyang, dove siamo ospiti. Nella città di Loyang hanno avuto la residenza, fin dal 771 a.C., gli imperatori della dinastia Chou. La città di Loyang ha lo splendore di Atene e difatti Loyang viene chiamata “l’Atene del Fiume Giallo” e, per onestà intellettuale, dobbiamo dire che anche Atene potrebbe essere chiamata “la Loyang dell’Ellade”. Loyang, come Atene, è diventata, dal VI secolo a.C., il luogo di confronto tra diverse correnti filosofiche e la corrente filosofica che s’impone a Loyang prende il nome di “ju-chia” (in cinese “chia” significa “scuola”), e lo “ju-chia” è la Scuola di impronta confuciana di cui abbiamo studiato le linee fondamentali.
Lo “ju-chia”, la Scuola confuciana, viene seguita dalla maggior parte dei cosiddetti “Letterati” che ben presto, però, ne favoriscono la sclerotizzazione e difatti a Loyang il dibattito filosofico finisce per diventare una specie di virtuosismo logico che non assomiglia più al pensiero originale di Confucio e non assomiglia neppure alla maestria dei filosofi greci, i quali s’impegnano, con razionalità e con passione dialettica, nella scoperta delle Leggi che reggono sia il mondo che la città. I “Letterati” confuciani diventano dei burocrati che dettano solo delle regole formali le quali finiscono per non aver niente a che fare con l’organizzazione e il buon funzionamento delle Istituzioni della città: le regole formali dei “Letterati” addestrano ad una eccessiva “pedanteria”.
A Loyang, nel VI secolo a.C., in contrasto con i Letterati confuciani, si sviluppa la “Scuola dei logici” la quale tocca i vertici di pensiero che abbiamo conosciuto studiando i celebri paradossi di Zenone di Elea e, con curiosa coincidenza, la “Scuola dei logici” di Loyang fa uso degli stessi argomenti della Scuola di Elea, come quello della infinita divisibilità del segmento. Scrive uno dei maestri della “Scuola dei logici”: «Prendi una bacchetta lunga un piede e dividila in due parti ogni giorno e troverai che questo dimezzare non finirà mai, neppure per diecimila generazioni». La Scuola di questi (che potremmo definire) sofisti, in cinese, si chiamava “Tsung-heng-chia - la Scuola dei filosofi capaci di sostenere qualsiasi tesi”.
Quindi a Loyang, nel VI secolo a.C., troviamo la “Scuola logica dei filosofi capaci di sostenere qualsiasi tesi” permeata di eccessivo scetticismo, e la “Scuola confuciana” sclerotizzata nella pedanteria formale.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
La parola “pedanteria” richiama i termini: scrupolosità, minuziosità, precisione, pignoleria, meticolosità, puntigliosità, cavillosità, formalismo, sofisticheria, dogmatismo… Quale di queste parole accostereste per prima ad una persona “pedante”?
Scrivetela…
A queste due correnti – dei “Logici” e di “Letterati” –, che risultano piuttosto improduttive, si oppone con grande zelo un personaggio che viene annoverato – insieme a Lao-tse e a Confucio – tra i fondatori del pensiero cinese delle origini: questo personaggio si chiama Mo-tse.
Mo-tse nasce nel periodo della morte di Confucio, attorno al 480 a.C., e muore attorno al 380 a.C. (ma si tratta di date piuttosto incerte). Mo-tse ha scritto un’opera che, secondo la tradizione cinese, porta il suo nome ed era formata da 81 trattati di cui ce ne restano 53 che, però, solo in minima parte possono considerarsi autentici. I trattati di Mo-tse sono “orazioni”, sono “dissertazioni” il cui tema ricorrente è la “salvezza della nazione” e il cui bersaglio principale è la Scuola dei Letterati confuciano.
Sono due, a giudizio di Mo-tse, i vizi dei confuciani: il primo è l’aver ridotto il servizio dello Stato a un complicato cerimoniale privo di senso (ad esempio, un figlio rimasto orfano deve restare in lutto per tre anni astenendosi dalla vita pubblica), il secondo vizio è quello di aver creato l’indifferenza religiosa riducendola a pura formalità. Con questi vizi, secondo Mo-tse, lo Stato va in rovina. Alle raffinatezze cortigiane dei Letterati confuciani Mo-tse contrappone una visione autoritaria dello Stato e all’indifferenza religiosa contrappone il ripristino della religiosità tradizionale con l’applicazione del monoteismo.
Mo-tse proviene da una famiglia di guerrieri, cioè da una classe sociale che era stata il nerbo dello Stato ma che, con la crisi dell’impero, si era disgregata in gruppi di cavalieri erranti pronti a tutte le avventure. Mo-tse crea attorno a sé una Scuola che assomiglia a una pattuglia militare rigidamente organizzata (fa venire in mente Ignazio di Lojola con i suoi Gesuiti). La pattuglia dei filosofi-soldati è destinata a ristabilire la pace tra i prìncipi che insidiano il potere dell’imperatore e rompono l’unità del paese e a far valere nella società lo spirito di disciplina, proponendo, anche con l’esempio, regole di severità spartana: il vestito deve essere appena un riparo dal freddo e dal caldo, la casa deve essere solo un rifugio, il cibo solo il nutrimento indispensabile, la famiglia deve essere un mezzo per procreare e ripopolare la Cina, perché allora c’era un bassissimo livello demografico. Solo con una disciplina del genere – secondo Mo-tse – si può costruire lo Stato, e questa disciplina riguarda tutti, dai più bassi livelli sociali (che hanno comunque una dignità) fino ai supremi gradi della gerarchia dello Stato, al cui vertice c’è l’imperatore, il quale deve essere il più disciplinato di tutti perché ha anche lui un superiore, il superiore più esigente: il Cielo. E il Cielo (con la C maiuscola) punisce le disobbedienze dell’imperatore con calamità di ogni genere …
La necessità di un principio superiore che garantisca la corrispondenza tra l’autorità e la rettitudine spinge Mo-tse a fare appello non solo alle sanzioni del Cielo ma anche a quelle degli “spiriti”, che sono l’edizione popolare del potere celeste. Difatti solo col timore degli “spiriti” – afferma Mo-tse – è possibile mantenere il popolo nell’ordine.
Contro i confuciani, che sollevano dubbi sull’esistenza degli “spiriti”, Mo-tse usa argomenti molto pratici: o gli spiriti esistono, e allora è giusto celebrare riti in loro onore, o non esistono, e allora le celebrazioni valgono comunque perché il banchetto rituale è una buona occasione per far affratellare la gente (la stessa idea che ha Epicuro quando immagina l’esistenza degli dèi).
È chiaro che anche in Mo-tse si afferma l’indole cinese, che è di porre tutti i valori, anche quelli religiosi, al servizio dell’utilità comune: anche il Dio di Mo-tse (il Cielo, in linguaggio cinese) non è che il supremo principio di legittimità del potere imperiale (e non è necessario che esista), dal quale discendono, per delega, tutti gli altri poteri (anche nella tradizione ebraica delle storie parallele ai Libri dell’Antico Testamento Mosè dice ad Aronne: “Ricordati che Dio è l’unico personaggio che non ha bisogno di esistere per comandare”).
A questa logica – che vede tutti i valori al servizio dell’utilità comune – non si sottrae nemmeno la dottrina che ha meritato a Mo-tse una fama universale: la “dottrina dell’amore”. La “dottrina dell’amore” di Mo-tse – in cinese “Kieng-ngai” – fa pensare all’insegnamento di Gesù di Nazareth (Gesù sarebbe il Mo-tse dell’Occidente).
Già Confucio – e l’abbiamo studiato prima – ha affermato la massima beritica e poi evangelica: «Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te, e fa’ agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te», ma l’aveva limitata alla benevolenza reciproca, escludendo il perdono delle offese e, di più, l’aveva confinata dentro una nozione di “prossimo” ricalcata sul primato dei rapporti familiari: il tuo prossimo sono i tuoi parenti. Questo amore particolare di stampo familista (pien-ngai) è, secondo Mo-tse, fonte di discriminazioni. L’amore, per essere universale, deve offrirsi nella stessa misura tanto alla madre quanto alla persona più lontana e sconosciuta, senza alcuna distinzione. Solo per questa via – afferma Mo-tse toccando di nuovo la corda dell’utilitarismo –solo cioè per la via del bene universale, si ottiene, di riflesso, il bene particolare. Ma le persone – afferma Mo-tse – devono liberarsi anche dall’utilitarismo sottoponendosi alle più dure rinunce per amore della giustizia universale. Scrive Mo-tse: «Uccidere una persona per salvare il mondo non è agire nell’interesse del mondo. Sacrificare se stessi per salvare il mondo, questo sì che è agire per il bene del mondo!».
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Questo frammento fa venire in mente ciò che scrive Paolo di Tarso nella Lettera ai Romani quando esorta le sue lettrici e i suoi lettori a “offrire se stesse e se stessi a Dio in sacrificio vivente” … Andate a leggere il capitolo 12 della Lettera ai Romani e potrete così notare – sui temi del “sacrificio” e de “l’amore” – la corrispondenza tra il pensiero di Mo-tse e quello di Paolo di Tarso …
Sul territorio cinese – come abbiamo già detto la scorsa settimana – accade qualcosa di simile a ciò che succede sul territorio conquistato da Alessandro Magno dopo la sua morte improvvisa e prematura: si assiste alla disgregazione dell’unità statale dovuta ad una interminabile guerra di successione. Nel V secolo a.C. il governo imperiale cinese entra in crisi e nel 481 a.C. la coesione politica intorno alla figura dell’imperatore viene meno e, quindi, ne approfittano subito molti feudatari che si ribellano al potere centrale e fondano Stati autonomi. Questi piccoli Stati feudali cominciano subito a combattersi tra loro e sul territorio cinese inizia un periodo di guerra diffusa: il cosiddetto periodo dei “Regni combattenti” che dal 481 a.C. dura fino al 206 a.C., e tutto ciò – come abbiamo detto – assomiglia a quello che avviene sul territorio conquistato da Alessandro Magno dopo la sua morte avvenuta nel 323 a.C..
Naturalmente questa situazione – che in Cina si era già creata nel VI secolo a.C. al tempo di Confucio – porta ad un notevole declino politico, che però si accompagna con un considerevole risveglio culturale perché gli intellettuali, che erano stati sistematicamente emarginati, decidono di reagire. La reazione degli intellettuali dà inizio a quella che diventa l’età classica della Cina: un’epoca che, nella Storia del Pensiero Umano, viene ricordata come il periodo delle “Cento scuole”. Quello che per l’Occidente è l’età dell’ellenismo greco e latino, che per l’India è l’età indo-ellenistica, per la Cina è il periodo delle “Cento scuole”.
Ci sono, in questo periodo sul territorio cinese, intorno all’ampia Valle del Fiume Giallo, Scuole di ogni tendenza: quelle dei “taoisti” di cui abbiamo studiato le linee di pensiero, quelle dei “confuciani” di cui abbiamo visto lo sviluppo, e quelle dei seguaci di Mo-tse che abbiamo appena incontrato. Oltre a queste Scuole ce ne sono altre, più spregiudicate, quelle dei “sofisti” o dei “logici” (alle quali abbiamo fatto cenno), quelle dei “naturalisti” e quelle, più rigidamente conformistiche, dei “legalisti”. Tra le Scuole dei “naturalisti” – abbiamo già detto – merita di essere ricordata quella “degli agricoltori” che mettevano al centro del loro programma la coltivazione dei campi oltre allo studio dei Libri (il loro motto: “lavora e studia”, ricorda la regola benedettina).
Adesso – come sappiamo – dobbiamo puntare l’attenzione sulle due esperienze intellettuali che vengono considerate le più significative nel periodo delle “Cento scuole”: il periodo contemporaneo all’ellenismo greco e latino e all’indo-ellenismo.
Come già abbiamo preannunciato nel periodo delle “Cento scuole” ci sono due figure di grande rilievo che noi dobbiamo incontrare: queste due figure fanno entrambe riferimento ad una Istituzione fondamentale per la storia culturale della Cina (e anche della Storia del Pensiero Umano in generale): l’Istituto o il Palazzo della Cultura fatto costruire – con grande lungimiranza – dal re Siuan nel 318 a.C. nella capitale del suo Stato, la città di Loyang, della quale siamo ospiti. Il Palazzo della Cultura di Loyang è una vera e propria Accademia (siamo nel periodo dell’Accademia platonica, del Liceo aristotelico, del Giardino di Epicuro e della Stoa di Zenone) dove trovano ospitalità e mezzi per vivere molti Letterati di tutte le tendenze e questo fatto ci ricorda il Museo di Alessandria che è un’istituzione contemporanea al Palazzo della Cultura di Loyang.
Nel Palazzo della Cultura di Loyang – come già sappiamo – troviamo due significativi personaggi: il confuciano Meng-tzu (detto Mencio) e il taoista Chuang-tzu (detto anche Zhuang-zi). Li abbiamo già nominati molte volte e abbiamo detto che sono due vivaci polemisti che – secondo lo stile delle finezze cinesi (prima dei “bizantinismi” – nella Storia della Cultura – ci sono le “cineserìe”) – si combattono a vicenda nei loro scritti senza mai nominarsi.
Chi è Meng-tzu, colui che viene considerato il più noto tra i confuciani, il cui nome fu, nel 1500, latinizzato dai Gesuiti in Mencius, e poi in Mencio? Meng-tzu, detto Mencio (371-288 a.C.), inizialmente vive peregrinando da una corte all’altra ma, ad un certo punto si sente deluso dalla pessima accoglienza che riceve da parte dei prìncipi, e così decide di fondare una sua Scuola dove, negli ultimi vent’anni della sua vita, si dedica all’insegnamento. I suoi antagonisti sono i taoisti e i seguaci di Mo-tse: ai primi rimprovera il “disimpegno politico”, ai secondi contesta la “dottrina dell’amore” che lui considera qualcosa di artificioso che appiattisce le relazioni sociali in un innaturale egualitarismo: come è possibile – si domanda Meng-tzu – amare tutti indistintamente? Meng-tzu, però, utilizza comunque le riflessioni che fa sulle dottrine dei suoi avversari e costruisce il suo pensiero proprio assimilando alcuni princìpi formulati dai suoi antagonisti e, facendo tesoro di questi princìpi, corregge in modo originale il suo confucianesimo.
Meng-tzu ravviva e modernizza il “Li”, cioè l’apparato delle regole da rispettare per svolgere bene il proprio ruolo, dando meno valore al formalismo (combattendo la pedanteria) e attribuendo più importanza alla “spontaneità della natura”. Il Tao – secondo Meng-tzu – è il modo in cui la natura si esprime spontaneamente: di conseguenza la “spontaneità della natura” corrisponde alla correttezza e alla rettitudine e, quindi, è osservando, studiando e imitando le spontanee manifestazioni della natura che la persona impara il “retto stile di vita” . Lui critica la “dottrina dell’amore universale” ma sviluppando questo concetto Meng-tzu dà vita ad un umanesimo di dimensioni universali perché le spontanee manifestazioni della natura hanno il carattere dell’universalità.
Meng-tzu crea la memorabile “dottrina sulla bontà della natura”. Secondo Meng-tzu la natura è buona e le sue deviazioni sono tutte imputabili alla violenza che subisce: questa tesi anticipa di alcuni millenni le teorie contemporanee di J. Jacques Rousseau, di Sigmund Freud e di molte altre pensatrici e pensatori. Secondo Meng-tzu il male nasce a causa della violenza esterna che la natura subisce: “la natura è buona – scrive Meng-tzu – perché nella persona si manifestano alcuni sentimenti fondamentali, riconducibili a quattro princìpi (tuan, in cinese)”. Questi quattro sentimenti sono, secondo lui, innati nell’essere umano.
Il primo sentimento è “la simpatia” che deriva dal principio innato della “compassione”: la persona è compassionevole per natura e questo è un bene, afferma Meng-tzu.
Il secondo sentimento è “l’equità” che deriva dalla sensibilità al “rimorso” e alla “vergogna”: la persona sente rimorso e vergogna per natura e questo è un bene, afferma Meng-tzu.
Il terzo sentimento è il senso delle regole di comportamento che deriva da “la modestia”: la persona per natura è modesta e questo è un bene, afferma Meng-tzu.
Il quarto sentimento è “la saggezza” che deriva dal riconoscere il bene e il male: la persona lo sa per natura che cos’è bene e che cos’è male, quindi, per natura conosce la “rettitudine” e questo fatto è positivo, afferma Meng-tzu.
Se le persone – scrive Meng-tzu – deviano da questi sentimenti e da questi princìpi è perché hanno subìto violenza dall’esterno. Quindi – secondo Meng-tzu – è necessario che lo Stato promuova l’apprendimento della “benevolenza (jen)” perché ad essere “benevolenti” s’impara, e la benevolenza porta gli individui ad uscire dall’isolamento e a tessere relazioni di simpatia, a fare progetti di equità, a sviluppare programmi di rispetto delle regole e a sperimentare la saggezza. La Scuola di Meng-tzu vuole insegnare alla persona la consapevolezza che in ogni essere umano c’è una parte inferiore – “la parte piccola”, la chiama Meng-tzu – di carattere passionale, e c’è una parte superiore – “la grande parte”, la chiama Meng-tzu – che ha sede nella Mente, in cinese “Hsin” (questa parola significa anche “Spirito” e “Cuore”), e da cui spontaneamente germogliano i quattro “tuan”, i quattro princìpi che derivano dai quattro sentimenti naturali fondamentali: “la simpatia”, “l’equità”, “la modestia”, “la saggezza”.
Nella sua opera intitolata I Colloqui, scritta ad imitazione de I Dialoghi di Confucio, Meng-tzu con uno stile vivo ed estroso, scrive:
LEGERE MULTUM….
Meng-tzu, I Colloqui
La natura dell’essere umano è portata al bene, come l’acqua scorre verso il basso. Non vi è persona che non sia naturalmente retta, come non vi è acqua che non scorra naturalmente verso il basso. Tuttavia, se comprimi l’acqua per farla zampillare, potrai farla salire al di sopra della testa, se arresti il suo corso, potrai fare in modo che si fermi sulla montagna, ma è questa la sua natura? No, questo avviene per effetto della violenza. Ora, che la persona possa arrivare a fare del male, è una cosa analoga. Per sua natura l’essere umano tende al bene, ecco perché chiamo buona la natura. Quanto al commettere il male, la colpa non è della natura. …
Per Meng-tzu l’esaltazione della natura non sfocia nell’individualismo estatico della Scuola taoista. La natura – secondo il pensiero di Meng-tzu – può realizzare se stessa solo nella vita associata e la pensa, quindi, come Aristotele che è suo contemporaneo. Per Meng-tzu, così come per Aristotele, l’essere umano ha una natura sociale. “Se ciascuno di noi – scrive Meng-tzu – dovesse provvedere da solo ai propri bisogni la nostra vita sarebbe una corsa affannosa e inconcludente”.
Il principio della benevolezza (jen) porta l’essere umano ad uscire dall’isolamento e ad amare gli altri, ma “l’amore” – secondo Meng-tzu – non ha la caratteristica di essere generalizzato come ha insegnato Mo-tse. L’amore – secondo Meng-tzu – si manifesta rispettando le relazioni che danno ordine alla società: sarebbe contro natura, scrive Meng-tzu: «Amare i figli del vicino come quelli del proprio fratello». Per questa ragione la persona saggia deve dare la massima importanza alla costruzione dello Stato.
Leggiamo che cosa scrive Meng-tzu in proposito:
LEGERE MULTUM….
Meng-tzu, I Colloqui
Sono tre, per Mencio, gli elementi che costituiscono lo Stato: il popolo, senza il cui consenso non si dà sovranità, gli spiriti della terra e delle messi, senza dei quali non si dà vita e il sovrano, il quale senza consiglieri saggi non ha rettitudine. L’autorità del sovrano viene dal Cielo ma essa presuppone due cose: che il popolo lo accetti e che egli sia saggio al massimo grado. Se degenerasse potrebbe essere deposto o ucciso senza colpa e questo è il principio della revoca del mandato celeste. Il Cielo non parla. Egli vede come il popolo vede e intende come il popolo intende.…
Nel pensiero di Meng-tzu c’è un piglio di stampo illuministico che trova conferma nei consigli che egli dà circa l’organizzazione economica dello Stato. Leggiamo questo frammento in proposito:
LEGERE MULTUM….
Meng-tzu, I Colloqui
Per il bene dello Stato è necessario favorire lo sviluppo di un’agricoltura che sia diversificata secondo criteri di complementarietà, la terra va distribuita ai contadini in ordine ben preciso: ogni lotto di terreno coltivabile [500 metri per lato] deve essere diviso in nove parti, otto delle quali da distribuire ad altrettante famiglie, una invece a ciascuna delle otto famiglie, a rotazione, con l’obbligo di devolvere il ricavato all’erario pubblico. …
Meng-tzu interpreta in termini più moderni il confucianesimo mentre Chuang-tzu (Zhuang-zi) riflette in modo nuovo nell’ambito del pensiero taoista rispetto alla mentalità tradizionale. Il taoismo di Chuang-tzu (Zhuang-zi) potremmo definirlo “estroverso” rispetto a quello “classico” predicato nel testo del Tao-tê-ching, un testo che è stato ritradotto e riordinato proprio nel periodo delle “Cento scuole”.
Perché il taoismo di Chuang-tzu (Zhuang-zi) può essere definito “estroverso”? Il taoismo “classico” dice che il mondo è fatto di “Diecimila cose (il molteplice)” di cui dobbiamo liberarci per tornare all’unità del Tao (la Legge di natura) in modo da aderire completamente a questo principio supremo di cui non si può dire nulla. Il taoismo “estroverso” preferisce invece aggirarsi tra le “Diecimila cose” di cui è fatto il mondo proprio per mostrare quanto sia incoerente la logica di chi le prende sul serio queste “Diecimila cose”.
L’eccezionale oggetto culturale che rappresenta il manifesto del taoismo “estroverso” è – come sappiamo – il libro intitolato Zhuang-zi [Chuang-tzu]. Il titolo di quest’opera – secondo una tradizione consolidata in Oriente – corrisponde al nome dell’autore Chuang-tzu (369-286 a.C.) che, come sappiamo, è contemporaneo e avversario di Meng-tzu. Questo libro, intitolato Zhuang-zi [Chuang-tzu], è considerato il capolavoro assoluto della letteratura cinese.
Mentre il testo del Tao-tê-ching ha lo stile dei grandi libri sacri: è conciso, è enigmatico, è severo, il testo del Zhuang-zi [Chuang-tzu] – che sicuramente contiene anche i contributi dei discepoli della Scuola del taoismo “estroverso” scritti dopo la morte dell’autore – è invece una geniale mescolanza di lirismo, di sapienza poetica, di vivacità narrativa, di ironia ed è anche un catechismo in funzione dell’insegnamento di uno stile di vita ed è, inoltre, un trattato di abilità dialettica e di iniziazione mistica nel senso laico del termine. Il Zhuang-zi [Chuang-tzu] si presenta, quindi, come un’opera complessa e di grande fascino che, nei secoli, ha attirato l’attenzione delle studiose e degli studiosi di tutto il mondo soprattutto per un elemento fondamentale che riguarda la prassi dell’Apprendimento permanente: la definizione (di un’idea, di un concetto, di un oggetto) non può essere fine a se stessa (un dogma) ma deve essere sempre uno strumento di espansione in funzione della riflessione.
Meng-tzu rappresenta, in termini aggiornati, il fervore politico di stampo confuciano mentre Chuang-tzu (Zhuang-zi) rappresenta l’anima libertaria e anarchica della Cina, che usa la logica per distruggere la logica, e che svela le contraddizioni delle intelligenze quando, per comodità sociale o per interesse privato, si integrano nel sistema conformistico dei luoghi comuni.
Il pensiero “estroverso” di Chuang-tzu (Zhuang-zi) invita ad osservare la natura intesa come un principio indeterminato che tesse la tela del mondo empirico e, come Penelope, la disfa incessantemente: in questo meccanismo che sfuma (qui ci vengono in mente gli sfondi nei dipinti di Leonardo da Vinci) sta la saggezza della natura. Il grande Tessitore è il Tao che manifesta la sua efficacia mediante una energia chiamata Tê. Le “Diecimila cose” prendono forma dal Tê che è la manifestazione della potenza indefinibile della natura.
Il mondo, nel suo insieme, si esplicita in un’organica ramificazione di Forme e la persona deve ritrovare il principio originario ripercorrendo a ritroso le ramificazioni delle Forme e, per far questo, bisogna però non affidarsi all’apparenza, bisogna imparare a sorpassare la “logica apparente”, che è schiava della molteplicità, mediante un tirocinio che comporta una permanente “ascetica riflessiva” che conduce alla “pace del cuore”, alla “serenità d’animo”. La “pace del cuore” favorisce la comprensione delle cose mediante l’intuizione e allora la persona – scrive Chuang-tzu (Zhuang-zi) – intuisce che il nascere e il morire, il successo ed l’insuccesso sono la stessa cosa perché i contrari si unificano nel Tao, nella Legge di natura.
Quindi il negare un’affermazione e poi negare questa negazione e così via fino all’infinito è il modo per esercitare la conoscenza che sarebbe sterile se fosse legata alle definizioni: la definizione (di un’idea, di un concetto, di un oggetto) non può essere fine a se stessa (un dogma) – scrive Chuang-tzu (Zhuang-zi) – ma deve essere sempre uno strumento di espansione in funzione della riflessione permanente.
Il testo del Zhuang-zi [Chuang-tzu] è ricco di aneddoti i cui protagonisti – letterati (tra loro c’è anche Confucio), politici, tecnici – diventano maschere di una comune recitazione spesso comica e questo spirito satirico è rivolto contro chi presume di cercare la felicità nel “potere che fa finta di civilizzare” invece che imparare a dialogare con l’indefinibile energia della natura.
Leggiamo questo frammento:
LEGERE MULTUM….
Zhuang-zi [Chuang-tzu]
Quando vivevano ingenui e schietti, puri nel cuore e mondi di conoscenza, gli umani avevano semplici desideri. Si nutrivano finché erano sazi, passeggiavano finché si sentivano stanchi, senza una meta. Questo facevano, finché vissero secondo la loro natura. Ma vennero i potenti civilizzatori a rompere la spontaneità con le cerimonie e i sacri riti, ad offuscare la limpida natura con una morale sofisticata e convenzionale. Allora gli umani impararono a desiderare la ricchezza e gli onori e a superarsi l’un l’altro, presi dalla febbre di una gara invidiosa. La colpa è dei potenti che fanno finta di civilizzare se le persone si allontanarono dalla natura del Tao [Legge di natura] …
Possiamo constatare che sul vasto territorio euro-asiatico – che si estende dall’Oceano Atlantico all’Oceano Pacifico – durante il periodo dell’ellenismo greco e latino, dell’indo-ellenismo e delle “Cento scuole” cinesi vengono elaborate e si dipanano idee simili.
Ma la nostra carrellata all’interno del periodo delle “Cento scuole” non è finita perché Meng-tzu (Mencio) – che rappresenta il pensiero ortodosso confuciano – non ha solo come avversario il taoista “estroverso” Chuang-tzu ma ha anche un’antagonista all’interno del pensiero confuciano stesso e questo personaggio si chiama Hsun-tzu (detto anche Siun-tse).
Hsun-tzu (detto anche Siun-tse) (293 ca. - 238 ca. a.C.), contrasta il modo di pensare di Meng-tzu e, per capirlo, basta leggere questa sua massima: «La natura umana è cattiva, la bontà nasce dall’artificio», e questa affermazione si trova all’estremo opposto rispetto al modo di pensare di Meng-tzu. Hsun-tzu con il suo pessimismo della ragione vuole mettere in evidenza l’ottimismo della volontà, nel senso che quel che la natura non può offrire l’essere umano può produrlo partecipando attivamente “all’artificio” della vita sociale: e con questa considerazione Hsun-tzu rimane comunque un confuciano a pieno titolo. I sentimenti spontanei – secondo Hsun-tzu – sono disordinati ma la persona può imparare discernere tra di essi quelli che vanno estirpati e quelli che vanno coltivati. La civiltà – secondo Hsun-tzu – rende buona la persona che, per natura, è cattiva. Il bersaglio preferito di Hsun-tzu sono i taoisti a causa del loro rigetto delle convenzioni sociali e dell’impegno politico.
Leggiamo un frammento tratto da I Pensieri di Hsun-tzu (detto anche Siun-tse):
LEGERE MULTUM….
Hsun-tzu [Siun-tse], I Pensieri
Voi glorificate la natura e meditate su di essa, perché non domarla e non regolarla? Voi obbedite alla natura e cantate le sue lodi, perché non controllarla e regolarne il corso? Io dico: dimenticare l’essere umano e meditare sulla natura significa non capire i fatti dell’universo. …
Il pensiero di Hsun-tzu assomiglia a quello di Niccolò Machiavelli: è la “virtù”, intesa come disciplina razionale, che deve piegare la natura volgendola verso il bene comune. La “virtù” è per Hsun-tzu il rispetto delle regole sociali, tramandate dai Saggi Imperatori dell’età dell’oro. Secondo Hsun-tzu il rispetto delle regole non consiste nell’applicazione di una rigida etichetta (secondo la più conservatrice ortodossia confuciano) ma la persona impara a rispettare le regole se apprende la “bellezza della disciplina”. Se la persona, per natura, è cattiva – sostiene Hsun-tzu – l’acquisizione della disciplina che si manifesta nel rispetto delle regole è la cosa più bella che ci sia. E al piacere che dà il gustare la “bellezza della disciplina” la persona giunge soprattutto educandosi alla danza e alla musica che – secondo Hsun-tzu – sono due discipline per eccellenza.
Questa affascinante considerazione di carattere estetico ha avuto però un’applicazione pratica molto limitata e il pensiero di Hsun-tzu è stato tradotto, dai suoi discepoli, in termini piuttosto autoritari. Difatti il discepolo più importante di Hsun-tzu è il più celebre tra i filosofi legalisti: Han-fei-tzu, che dà un’importanza decisiva alle Leggi come norme obbliganti e munite di sanzioni. Anche Han-fei-tzu ha una visione pessimistica della natura umana: l’essere umano non si muove che sulla spinta dell’interesse individuale e il compito dello Stato è l’organizzazione rigorosamente razionale degli interessi egoistici attraverso il giusto dosaggio tra punizione e ricompensa. Lo Stato viene concepito come una grande macchina che funziona con un ordine a cui ciascuno è sottoposto a cominciare dal principe perché l’autorità non è in una persona ma è nelle Leggi che hanno come principale caratteristica quella di essere “impassibili”, e che le Leggi siano “impassibili” è la condizione necessaria perché siano efficaci. Se le Leggi sono efficaci garantiscono da sole il benessere dello Stato, l’importante – sostiene Han-fei-tzu – è affidarle a funzionari inflessibili: sono loro i veri educatori della società, più che i Letterati e i maestri delle Scuole, che seminano troppi dubbi e ritardano l’ubbidienza nei confronti delle Leggi.
Il pensiero di Han-fei-tzu viene interpretato e utilizzato dal potere imperiale con un eccessivo autoritarismo anticulturale contro cui lo stesso Han-fei-tzu si ribella, e per questo viene chiuso in carcere dove, secondo la tradizione, muore suicida nel 233 a.C..
Circa vent’anni dopo il suo condiscepolo e avversario Li Ssû – il potente ministro del re Ch’in, che ha ripristinato l’unità della Cina – in conformità a questo autoritarismo anticulturale che nasce dal pensiero di Han-fei-tzu, ordinerà, nel 213 a.C., “l’incendio dei Libri”. Ed è in occasione di questo episodio increscioso – ordinato dagli imperatori della dinastia dei Chin (256-206 a.C.) – che ha termine, con un atto di autodistruzione, la grande età classica della Cina.
Quando l’impero passa nelle mani della dinastia Han (che lo terrà per più di quattro secoli, dal 206 a.C. al 220 d.C.) l’onnipotenza dei legalisti viene meno ma le “Cento scuole” non rinascono più: la loro esperienza intellettuale si è esaurita. Ma le due grandi tradizioni, quella confuciana e quella taoista, non si disperdono, anzi, si sono arricchite e, più che mai, non possono stare l’una senza l’altra.
Sebbene ci sia stato “l’incendio dei Libri” tutte le più grandi opere di matrice confuciana e taoista di cui abbiamo parlato in questi itinerari sono rimaste intatte perché le “Cento scuole” erano pronte a parare il colpo e hanno salvato la maggior parte degli oggetti culturali di tutta un tradizione intellettuale.
Durante l’impero degli Han il confucianesimo diventa ideologia di Stato con tutta la sua carica politica e sociale ma l’opera più importante che si afferma è – come sappiamo – quella più rappresentativa del taoismo “estroverso”, il libro che, ancora oggi, viene considerato il capolavoro assoluto della letteratura cinese, intitolato col nome dell’autore: Zhuang-zi [Chuang-tzu].
E, quindi, per concludere il nostro itinerario in territorio cinese leggiamo alcune pagine dal Zhuang-zi [Chuang-tzu]. Ricordiamoci che Zhuang-zi usa la logica per buttare all’aria la logica, che considera la definizione non come un punto di arrivo ma come un punto di partenza e che il paradosso è uno stimolo per non cadere nella pigrizia mentale in agguato e propiziata da chi, al potere, non tollera che si rifletta.
LEGERE MULTUM….
Zhuang-zi [Chuang-tzu]
Pensare che il principio sia la quintessenza, e le cose siano grossolane. Considerare che l’accumulo è insufficienza; essere altrettanto distaccato e altrettanto indipendente degli spiriti e delle intelligenze superiori: c’era anche questo nel metodo del Tao degli Antichi. A Guan Yin e a Lao Dan, che ne erano giunti a conoscenza, piacque. La loro dottrina era costruita sul nulla e sull’essere costanti che si ricongiungevano all’unità suprema. Il loro comportamento esteriore era debolezza e umiltà. La loro realtà interiore era di essere vuoti e inoffensivi verso tutti gli esseri.
Guan Yin diceva: «Non legatevi al vostro io, e le cose appariranno quali esse sono. Il vostro movimento sia simile a quello dell’acqua, la vostra immobilità simile a quella dello specchio, la vostra risposta simile all’eco; siate fuggitivi come il nulla che non c’è, sereni come l’acqua pura. Chi rende se stesso simile alle altre persone vi si adatterà. Chi si impone verrà sconfitto. Non superate mai le altre persone, tenetevi sempre indietro».
Lao Dan diceva: «Conosci il maschile, aderisci al femminile, sii l’abisso del mondo; conosci la gloria, aderisci alla disgrazia, sii la valle del mondo». La gente cerca i primi posti, lui soltanto occupa l’ultimo: «Accetto, dice, l’immondezza del mondo». La gente si arricchisce, lui soltanto si spoglia. Poiché nulla egli possiede, vive nell’abbondanza, simile a una montagna. Possiede la pace interiore, si comporta con parsimonia. Pratica il non-agire e non si cura dell’abilità. Tutti aspirano alla felicità; egli si piega per restare integro: «Potrei forse sfuggire, dice, al rimprovero delle altre persone?». Egli ha per base la profondità, l’economia per regola. «Tutto ciò che si indurisce sarà distrutto; tutto ciò che si affila sarà smussato». Si mostrò sempre tollerante verso gli esseri, e non fece così alcun male alle persone.
Benché non abbiano raggiunto il sommo della perfezione, Guan Yin e Lao Dan furono tuttavia gli spiriti vasti, grandi e veri dell’Antichità.
Fuggevole e incorporea, la realtà cambia incessantemente e non contiene nulla che sia stabile. Si è morti? Si è vivi? Il cielo e la terra sono tutt’uno? E dove vanno gli spiriti e le intelligenze superiori? Dove si va, alla cieca? E dove si arriva, di colpo? Tra tutti gli esseri che si manifestano nell’universo, non se ne scorge uno solo che meriti che si ritorni a lui. C’era anche questo nel metodo del Tao degli Antichi e a Zhuang-zi, che ne era giunto a conoscenza, piacque.
Egli si esprime con discorsi stravaganti, con parole insolite, con espressioni senza testa né coda, troppo libere, a volte, ma senza parzialità, perché la sua dottrina non intende presentare punti di vista particolari.
Giudica il mondo troppo fangoso per essere espresso in discorsi seri. Per questo egli pensa che le parole di circostanza siano prolisse, che le parole che hanno peso abbiano una loro verità, ma che soltanto le parole rivelatrici abbiano un potere evocativo senza limiti. Benché egli comunichi con l’anima dell’universo, non si mostra sdegnoso verso gli esseri. Si guarda dall’approvare e dal biasimare; così, vive in pace con tutti. I suoi scritti, benché colmi di magnificenze, non urtano nessuno, perché non mutilano la complessità del reale. I suoi discorsi, benché ineguali, racchiudono meraviglie e paradossi degni di considerazione. Possiede una tale pienezza interiore che egli stesso non ne viene a capo. È, in alto, il compagno del creatore; in basso, l’amico di coloro che hanno trasceso la morte e la vita, la fine e il principio. La sua dottrina sgorga ampia, aperta, profonda e zampillante; mira a essere in armonia con il principio e a innalzarsi fino a lui. Rispondendo all’evoluzione del mondo e spiegando le cose, offre una somma inesauribile di ragioni che ci giungono senza nulla omettere, misteriose, oscure, tali che nessuno ha potuto sondarne il fondo.
Hui Shi era abile in svariati metodi. I suoi scritti bastavano a riempire cinque carri. La sua dottrina conteneva contraddizioni e idee eterogenee. Le sue parole non giungevano a bersaglio. Ecco elencate le sue idee a proposito degli esseri o delle cose:
L’infinitamente grande non ha esterno, si chiama il grande uno; l’infinitamente piccolo non ha interno, si chiama il piccolo uno.
Non vi è sottigliezza che non possa essere accumulata, la sua grandezza è di mille ettari.
Il cielo è basso quanto la terra; le montagne sono allo stesso livello dei pantani.
Il sole che raggiunge lo zenith declina già; un essere appena nato è già morto.
Una grande somiglianza differisce da una piccola somiglianza; queste sono le piccole somiglianze e le differenze; gli esseri sono del tutto somiglianti e del tutto differenti, queste sono la grande somiglianza e la grande differenza.
Il Sud è infinito e tuttavia finito.
Oggi arrivo a Yue, ma vi sono arrivato ieri.
Gli anelli che si incatenano possono essere sciolti
Conosco il centro del mondo; è a nord di Yan e a sud di Yue.
Amate in modo eguale e universale gli esseri del mondo, l’universo è uno.
Hui Shi pensò che ciò meritasse grande considerazione nel mondo intero, e che potesse illuminare i dialettici. E tutti i dialettici del mondo vi trovarono il loro piacere.
Le uova hanno piume.
Il gallo ha tre piedi.
Ying contiene il mondo intero.
Il cane può diventare pecora.
Il cavallo depone uova.
Il rospo ha una coda.
Il fuoco non riscalda.
La montagna esce da una bocca.
Le ruote non toccano terra.
L’occhio non vede.
L’idea non raggiunge mai [le cose]; raggiungendole, coinciderebbe con esse.
La tartaruga è più lunga del serpente.
La squadra non può disegnare un quadrato, il compasso non può tracciare un circolo. L’ombra dell’uccello che vola non si è mai mossa.
Nonostante la sua velocità, vi sono momenti in cui la freccia che vola non è in cammino, e momenti in cui non è ferma.
Il cucciolo non è un cane.
Un cavallo giallo più un bue nero fanno tre.
Un cane bianco è nero.
Un puledro orfano non ha mai avuto una madre.
Il bastone lungo un piede, se ogni giorno se ne toglie la metà, non sarà mai ridotto a zero in diecimila generazioni.
Su questi argomenti i dialettici rispondono a Hui Shi per tutta la loro vita, all’infinito.
I dialettici del genere di Huan Tuan e Gong-sun Long falsano lo spirito della gente e ne alterano le idee. Riescono a tappare loro la bocca senza poter ottenere l’adesione del loro spirito. Questo è il cerchio limitato nel quale sono rinchiusi i dialettici. Hui Shi passa le sue giornate a discorrere con i suoi interlocutori, e si specializza nella confezione di paradossi che sconcertano i dialettici del mondo intero. Così è, in sostanza. Ma, a sentire le sue chiacchiere, sarebbe il più saggio tra gli esseri umani.
«Com’è magnifico l’universo! dice, ma io sono qui e l’universo che può farci?».
Un personaggio singolare, un meridionale chiamato Huang Liao, gli chiedeva perché il cielo non crollasse, perché la terra non sprofondasse, e la causa del vento e della pioggia, del tuono e del fulmine. A queste domande, Hui Shi rispondeva senza esitazione, senza curarsi di riflettere. Discorreva a proposito di tutti gli esseri, parlava senza fermarsi, ininterrottamente. I suoi discorsi gli sembravano ancora insufficienti, ed ecco che vi aggiungeva bizzarrie. Contraddire la gente era la sua prodezza; si gloriava di saper confondere i suoi interlocutori. Non andava dunque d’accordo con nessuno. Debole nella virtù, e forte in tutto ciò che riguarda le cose, seguiva una via oscura.
Dal punto di vista del Tao, del cielo e della terra, il sapere di Hui Shi è simile al vano lavorìo della zanzara o del tafano. Di che utilità sono al mondo? Il suo sapere avrebbe potuto rappresentare un aspetto della verità, se si fosse detto: «Più si rende omaggio al Tao, più ci si avvicina ad esso». Ma Hui Shi non ha saputo accontentarsi di così poco. Si è disperso insaziabilmente nelle cose, e in conclusione non ha conquistato altro che la fama di abile rotore; che peccato! Hui Shi, con tutti i suoi doni, si è disperso nelle cose senza giungere a nulla, rincorrendole senza mai tornare indietro. È come voler correre più veloce della propria ombra. Che tristezza!
L’ombra dell’ombra interroga l’ombra: «Poco fa, tu camminavi e ora ti fermi. Poco fa, tu eri seduta e ora sei in piedi. Perché non hai una condotta indipendente?». L’ombra rispose: «Non dipendo forse da qualcosa, per essere così? Questo qualcosa non dipende a sua volta da un’altra cosa? Io dipendo da qualcosa proprio come il serpente dipende dalle sue scaglie e la cicala dalle sue ali. Come potrei io conoscere ciò che fa sì che io sia ora così, ora altrimenti?».
Zhuang-zi passò accanto al re di Wei ed era vestito con un abito di tela rozza e rappezzata e le scarpe legate ai piedi con lo spago.
«In che stato miserevole vi trovo, maestro!» disse il re.
«Povertà non è miseria» rispose Zhuang-zi. «Quando un letterato non può mettere in pratica la sua dottrina, questa è miseria. Con il vestito rappezzato e le scarpe bucate egli è povero, ma non miserabile. Ciò significa soltanto che i tempi non gli sono stati propizi. Il mio re non ha mai visto la scimmia arrampicatrice? Quando si trova in cima agli alberi di cedro, di catalpa, di quercia e di canfora e vi regna da padrona, né Yi né Peng Meng possono prenderla di mira. Ma quando si sposta tra gli arbusti, i limoni, gli aranci selvatici e i giuggioli, avanza come se fosse in pericolo, fa capolino per guardarsi attorno e si muove tremando. Questo non dipende dal fatto che abbia i muscoli contratti e le articolazioni poco flessibili, ma perché si trova in un ambiente poco propizio, dove non può utilizzare le sue capacità! Così, il letterato che vive sotto il regno di un principe stupido e di ministri turbolenti e imbecilli non scamperà alla miseria».
Zhuang-zi, perché il re potesse riflettere invece di commiserare, aggiunse: «Pensavo alle possibili cause della mia estrema miseria. Non ne ho trovata nessuna che fosse valida. Forse che mia madre e mio padre potevano desiderare che fossi misero? E come possono il cielo che tutto protegge e la terra che tutto sostiene volere che io in special modo sia misero? Invano cerco la causa della mia miseria, e se sono finito in questa estrema indigenza è forse colpa del Destino? Il re illuminato estende ovunque la sua opera benefica, ma non fa sentire di esserne l’autore. Aiuta e migliora tutti gli esseri senza che questi sentano di essere sotto la sua dipendenza. Il mondo ignora il suo nome e ciascuno è contento di sé. I suoi atti sono imprevedibili ed egli si identifica con il nulla».
Pochi giorni dopo, mentre Zhuang-zi stava morendo, i suoi discepoli gli rivelarono la loro intenzione di fargli un funerale sontuoso.
«È inutile, disse il moribondo, perché il cielo e la terra saranno la mia doppia bara, il sole e la luna i miei due dischi di giada, le stelle e la stella polare le mie perle, tutti gli esseri il mio corteo. Il mio arredo funebre non è completo? Che cosa vorreste aggiungervi?». «Ma temiamo, dissero i discepoli, che i corvi vi divorino». «In alto, rispose Zhuang-zi, rischio di essere divorato dai corvi e dagli avvoltoi, in basso dai grillitalpa e dalle formiche. Che parzialità sarebbe quella di volermi levare ai primi per darmi ai secondi? La pace procurata da ciò che non è in pace non è la pace, la prova fornita da ciò che non è provato non è una prova probante. La semplice visione delle cose è asservita alle cose, solo lo spirito è probante. Che la visione non eguaglia lo spirito lo si sa da molto tempo. Ma lo stolto si fida solo di ciò che vede nei suoi rapporti con gli altri. Che tristezza!». …
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Nel periodo delle “Cento scuole” – in particolare da parte di Meng-tzu e di Hsun-tzu – viene elaborato un pensiero dal quale emergono due significativi interrogativi: La natura umana è portata al bene oppure la natura umana è cattiva e la bontà nasce dall’artificio?…
Voi come la pensate: la natura umana è buona o è cattiva?…
Si può dare una risposta secca oppure si possono scrivere quattro righe in proposito…
Una cosa è certa, ed è che tutte le pensatrici e tutti i pensatori che, dal III secolo a.C. al IV secolo d.C., riflettono su questo vasto territorio che va dalle Colonne d’Ercole al mar Cinese (dall’Oceano Atlantico all’Oceano Pacifico) si pongono quattro domande significative ed inquietanti: come mai nel mondo c’è tutto questo male? È possibile trovare una via di salvezza dal male? Il bene ha una sua forza propulsiva? I monarchi assoluti vengono considerati, per ignoranza, come se fossero delle divinità, ma in che cosa consiste quel concetto che stato denominato “Regno di Dio”?
Chi scrive durante questa età – esprimendosi in greco, in latino, in sanscrito, in ebraico, in cinese – riflette soprattutto su queste importanti domande di carattere esistenziale e da questa riflessione, come abbiamo potuto constatare in questo Percorso – nascono significative opere che mettono in evidenza un grande esercizio di investimento in intelligenza.
Sui temi derivanti dai quattro interrogativi che abbiamo enunciato c’è un’opera greco-ellenistica, scritta in forma epistolare nel I secolo d.C., che dà forma ad un itinerario culturale che inciderà, e incide tuttora profondamente, sulla Storia del Pensiero Umano. Il personaggio che ha composto – nella sua parte fondamentale – quest’opera, formata da Lettere, si chiama (e non c’è persona che non l’abbia sentito nominare) Paolo di Tarso, e lo incontreremo la prossima settimana. Con questo personaggio noi (molte e molti di noi) abbiamo già viaggiato insieme (in giro per il bacino del Mediterraneo) una decina di anni fa in occasione della fine del secondo e dell’inizio del terzo millennio.
Ma le “Lezioni” prodotte allora (nel 1999-2000-2001) – sebbene strutturate dal punto di vista didattico – erano appuntate sotto forma di canovaccio e, ora, si presenta l’opportunità di comporre dei testi in maniera più organica in modo che siano collocati sui nostri siti così ben predisposti dai mastri di rete Franco (www. inantibagno.it) e Luigi (www. scuolantibagno.net).
Chi è Paolo di Tarso, come interpreta la cultura dell’Ellenismo, come usa la lingua greca della koiné e qual è la “buona notizia” che vuole caparbiamente portare in giro sul territorio dell’Ecumene convinto che possa dare una risposta nei confronti del “tanto male” che lui vede intorno a sé? Quante domande!
Per riflettere su questi importanti interrogativi il viaggio continua perché l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona e Paolo di Tarso ne è profondamente convinto ed è proprio per questa sua ferma convinzione che la sua opera, il suo Epistolario, è arrivata fino a noi.
La Scuola è qui…